“Se così dev’essere, signor padrone, noi le possiamo dire che non rinunciamo alle idee e faremo San Martino. Prenderò un fondo in affitto e basta con la mezzadria, che non voglio più stare a mezzo con chi vede solo i soldi pochi, maledetti e subito.” Il padrone fa la tigna e noi diciamo che tra un mese sgomberiamo il fondo. Io insieme a Gelindo mi metto in cerca di un altro terreno e lo trovo alla Casa Nuova, o Campi Rossi di Gattatico. È il fondo dove stiamo adesso. Come quello di Valle Re era a gobbe e buche. Ma non ci impressionava: anzi se lo avessi trovato, dico per dire, uno liscio e piano, forse non lo avrei preso, perché ormai volevamo vedere i frutti del livellamento. Alcide Cervi, I miei sette figli, Einaudi, pag. 48
Antonio Russello nel 1971
Una specie di premessa Questo testo nasce per caso. Non l’avevo messo in conto. Ho fatto mia l’idea di Fausto Carmelo Nigrelli, sindaco di Piazza Armerina, più per piacere della sfida che per curiosità. Raccontare di un incontro avvenuto oltre quarant’anni fa, lontano, lontanissimo dalla terra dove sono nato e vivo, dalla quale non ho mai avuto il coraggio di fuggire nonostante, forse, in certi momenti della vita serva più coraggio per rimanere. Di Alcide Cervi e dei suoi figli sapevo poco, qualcosa letta e sentita ma niente di più. Degli eroi della Resistenza in Sicilia si parla poco, credo perché in Sicilia una Resistenza non ci fu. Il 9 luglio del 1943 i siciliani presero il sonno da fascisti ferventi e il giorno dopo, sotto il fuoco degli Alleati, cominciarono a scoprirsi un tantino antifascisti. Pochi giorni dopo, saputo delle truppe anglo-americane dirette verso l’entroterra, i miei nonni bruciavano nel forno per il pane tessere del Fascio e la divisa da balilla di mio padre. Dopo, all’arrivo degli Sherman, si affacciarono in strada ad applaudire i cugini e i fratelli tornati dall’America per liberarli. Lo stesso fecero i loro vicini di casa. Non vi fu guerra civile. In pochi giorni (il tempo di cacciare i nazi-fascisti oltre lo stretto) alcuni milioni di Siciliani rinnegarono con convinzione gli ultimi vent’anni e si misero senza remore nelle mani dell’AMGOT. 17
cosa che ha stuzzicato subito la mia fantasia: al ritorno da ogni viaggio correva subito a impegnare le macchine fotografiche al Monte di Pietà, giusto per fare i soldi necessari a sviluppare le foto. Quante foto era capace di scattare me l’ha spiegato dopo. Alla partenza per il viaggio in Cile, nel 1971, in visita a Salvador Allende, aveva portato con sé duecento rullini. A metà viaggio li aveva già terminati. Devo fare i conti con la sua timidezza quando s’accorge che tiro fuori dalla borsa la videocamera. Mi rendo conto che non basterà saper ascoltare, ma dovrò essere anche in grado di fare le domande giuste. “Ho rotto le macchine di alcuni fotografi che volevano ritrarmi,” mi dice, più o meno. “Perché?” “Non voglio apparire,” mi spiega. “M’ammuccio”. La nostra prima chiacchierata è durata un paio d’ore, durante le quali s’è parlato soprattutto della sua vita, delle sue foto. “Tu per me sei un altro mondo,” gli ho detto. “Io non sono mai riuscito ad allontanarmi da qui, mentre tu hai girato il mondo.” Non sembra lusingato da questa mia affermazione (io lo sarei, ma non sono lui). “Ma senza quattrini,” mi risponde, e non capisco se si rammarichi per non avere avuto la lungimiranza, negli anni avventurosi della sua gioventù, di dedicarsi più a far quattrini che a vivere, o se intenda che viaggiare con qualche soldo in tasca è meglio. Però mi dà l’idea 20
di aver trovato qui, a Piazza Armerina, un rifugio, un porto sicuro dove trascorrere prima la maturità e, adesso, il suo autunno. Quando gli chiedo l’età mi risponde: “Quarant’anni,” e mi spiega che è arrivato qui quarant’anni fa. Conta gli anni da quel momento. È rinato a Piazza Armerina? E perché? Tutte domande che provo a fare, ma che non trovano risposte, forse perché non sono le domande giuste. I viaggi e l’amore In Cile andò nel 1971, aggregandosi a una comitiva di personaggi che Allende invitò nel suo Paese. Tra questi Roberto Rossellini, al quale concede, nella sua abitazione privata di Santiago del Cile, una lunga 21
dare una lettura per simboli a questa foto, un po’ come fossimo astrologi o cartomanti. Un uomo solo, avanti negli anni, accanto alle macchine con le quali, assieme ai figli, dissodò, modificò pendenze, tracciò canali, spianò dossi e ricolmò avvallamenti, dimostrando che la caparbietà e il lavoro possono molto, purché vi sia la libertà d’essere caparbi e di lavorare per migliorare il proprio fondo e la propria condizione. Una libertà che genera libertà. Lavoro fruttuoso e non più mera sussistenza. Denaro da reinvestire nella terra. Progresso. E soprattutto l’idea che ognuno è artefice del proprio destino. Scomparsi i figli, cresciuti i nipoti, ecco, Alcide è ancora lì, con le sue macchine. Perché c’è ancora lavoro da fare. 42
Ma non siamo astrologi o cartomanti. Chissà cosa pensava Alcide Cervi, sotto la tettoia di canne. Forse nulla. Forse si godeva solo il fresco e l’ombra. “In questa immagine c’è un po’ di gente assieme alla quale eravamo partiti da Roma”. Ne riconosco alcuni, per averli visti in altre foto. La ragazza che Antonio m’ha detto essere l’allora fidanzata di Otello; e Mauro Sarzi. E, forse, Mariano Dolci (ma s’intravede appena la fronte, ammesso sia la sua). Se ne stanno seduti per terra, alcuni sdraiati. Una ragazza suona la chitarra, in quella posa inconfondibile di tante ragazze che suonano la chitarra: l’espressione concentrata sulla tastiera, la cassa armonica enorme, stretta contro il petto, i capelli che cadono davanti al viso, il mondo intorno come se non esistesse. Rimane solo da immaginare una voce esile, discreta. Trovo che sia un’immagine decisamente beat: un gruppo di ragazzi su un prato, intenti a cantare e suonare a chitarra. Basterebbe questa foto a datare tutta la sequenza. “Cervi riceveva di queste visite almeno un paio di volte alla settimana.” “Ma cosa gli chiedevano?” “Ma niente. Andavano lì per amicizia, e poi era un bel posto. Non lo usavano come un’icona. Questo non si faceva, a quei tempi. La gente era più seria. Eravamo tutti esseri umani che si guardavano. Ci si rispettava, si stava insieme, si mangiava, si beveva, si cantava. Si 43
cercava di stare bene insieme, in armonia.” “Quindi non andavano a cercare la testimonianza del simbolo della resistenza”. “Certo, di base c’era quello. Era pur sempre casa Cervi. Poi c’era spazio, erano gentili… Il cascinale era un
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punto di incontro nato spontaneamente. A quei tempi si era così”. “Ecco,” Antonio mi indica sul monitor del portatile un uomo apparentemente tra i venticinque e i trenta anni. Sta a ridosso del bordo sinistra della foto, in secondo
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