a cura di Federico Bilò Riccardo Palma
il cielo in trentatrĂŠ stanze Cronache di architetti #restatiacasa
Indice Introduzione 06 Il cielo in 33 stanze Federico Bilò e Riccardo Palma STUDIOLI 16 Gesamtexistenzminimum Giovanni Corbellini 20 La Scrivania e la Città Gabriele Mastrigli 24 Interfacce. Riflessioni tra vita pubblica e privata durante il Covid Paola Misino 28 Stanza della memoria Luca Molinari 32 Di-stanze. Testimonianza dal civico 7 | Int. 4B Alberto Ulisse STANZE 38 Le Covidor Antonio Alberto Clemente 42 Tempo. Camere oscure, orizzonti luminosi Filippo Lambertucci 46 Dimorare Paolo Mellano 50 Spazio centripeto Manuel Orazi 54 Stanze. Ovvero l’elogio della pantofola Giorgio Peghin 58 Dilatazioni. Il mondo in una stanza Domenico Potenza CORRIDOI 64 Il corridoio, disimpegno della borghesia Luca Montuori 68 Abitare pre-moderno. Pratiche abitative versus pratiche progettuali Claudia Del Colle e Francesco Orofino 72 Interno privato Carlo Ravagnati
FINESTRE 78 Osservatorio Stoppani Giulio Barazzetta 82 Finestra latina Federico Bilò 86 Slow is Quick Enzo Calabrese 90 Piattaforma Isabella Cipolla e Luigi Coccia 94 Case affettuose Francesco Collotti 98 Finestre al sole. Di luce vera e dipinta Valerio Palmieri 102 Finestra. Lo sguardo come evasione Pisana Posocco 106 Camera oscura Sara Protasoni 110 La finestra e la città Fabrizio Toppetti GIARDINI 116 Un giardino, un’altana. I molti tempi di una casa Mauro Marzo 120 Loft, Milano, Bovisa-Quarto Oggiaro Maurizio Meriggi 124 Quel giardino Ettore Vadini CORTILI 130 Patio-Ipostilo. Memento Virus Federica Visconti e Renato Capozzi 134 Contatto. L’empatia nell’era umana post-pandemia Susanna Ferrini 138 L’ingresso. Uno spazio di riserva e un solo libro Sara Marini 142 Il cratere, il teatro, l’isolato Riccardo Palma 146 Isolato Costantino Patestos 150 Il vuoto e l’orizzonte Carlo Prati 154 La stanza e la città Andrea Sciascia 158 BelVedere. Lat N 45°4’37.456’’ Long E 7°41’35.598’’ Marco Trisciuoglio
Il cielo in 33 stanze Federico Bilò e Riccardo Palma
Q
uando abbiamo proposto ad alcuni amici (e coetanei) di partecipare a questa inziativa, la pensavamo come un divertissement che avrebbe potuto, nel migliore dei casi, offrire un insieme di considerazioni intelligenti, scaturite dalla condizione di confinamento domestico causata dalla pandemia da Covid-19. Tuttavia, con il procedere dei ragionamenti e con la lettura dei testi che cominciavano ad arrivare, abbiamo capito che quest’insieme poteva legittimamente ambire ad una qualificazione superiore. Poteva ambire a definire non solo una piattaforma di riflessioni e istanze da sviluppare nel futuro, ma anche un diverso orizzonte progettuale. Specie per quanto riguarda l’alloggio o appartamento o casa, che dir si voglia. Tutti i contributi pervenuti ci sembrano infatti rimandare non solo al patrimonio di riflessioni sulla casa accumulate nel tempo, ma anche a quel patrimonio di opere letterarie e cinematografiche fondate su una doppia condizione: reclusione nella propria dimora e eccezionalità dell’osservazione che questa reclusione scatena sull’architettura della casa. Tra queste, tre ci sono sembrate particolarmente utili per introdurre questo libro. Nei primi mesi del 1790, Xavier de Maistre, giovane ufficiale dell’esercito sabaudo, a causa di un duello viene punito con 42 giorni di arresto domiciliare nella Cittadella di Torino. In quelle settimane di reclusione scrive Voyage autour de ma chambre (“Viaggio intorno alla mia camera”). Nel 1954 esce Rear Window (“La finestra sul cortile”) di Alfred Hitchcock. Il protagonista del film, il reporter d’assalto L. B. “Jeff ” Jeffries, costretto dalla frattura di una gamba a rimanere a casa, avvia un’indagine ossessiva su un delitto avvenuto in un appartamento nel lato opposto del cortile sul quale si affaccia la sua finestra. Nel 1974 Georges Perec pubblica Espéces d’espaces (“Specie di spazi”), un breve libro che conduce una riflessione sullo spazio, a partire da La pagina fino ad arrivare a Il mondo. Nei primi due casi, la condizione di forzata permanenza nella propria abitazione scatena una modificazione dello sguardo sulle “cose”. L’ufficiale sabaudo, applicando alla sua camera i criteri di orientamento
6>7
1. X. de Maistre, Viaggio intorno alla mia camera, Rizzoli, Milano 1991, p. 47 (ed. orig. Voyage autour de ma chambre, Losanna 1794) 2. Ivi, p. 49.
il cielo in trentatré stanze
Introduzione
della cartografia militare, realizza un viaggio in un territorio formato da oggetti domestici trasfigurati in elementi del paesaggio. Il reporter di Hitchcock, impaziente di tornare al suo frenetico e dinamico lavoro, scopre che l’immobile occhio-finestra del suo appartamento può trasformare il cortile in un inaspettato e stupefacente teatro di eventi misteriosi. Diverso il caso di Perec, la riflessione del quale è piuttosto l’esito di un progetto cognitivo, l’esito di una descrizione antropologica dello spazio. Lo spazio che Xavier attraversa è cartografico: «La mia camera è situata al quarantacinquesimo grado di latitudine […]; è orientata verso occidente; forma un rettangolo di trentasei passi all’ingiro, rasentando bene le pareti»1. Il suo programma è attraversare la camera per avvicinarsi alla scrivania: «Dopo la mia poltrona, camminando verso nord, s’incontra il mio letto, che è posto in fondo alla mia camera, e forma una prospettiva la più gradevole»2. Qualcosa però non torna: un tragitto di pochi metri dura 42 giorni. Nella camera di Xavier il tempo e lo spazio si sdoppiano, come su una carta dove è possibile ripetere all’infinito e con tempi diversi lo stesso tragitto. Xavier abita un primo spazio/tempo convenzionale al quale aggancia i pensieri che popolano le pagine del libro e che segnano il passare dei giorni, e un secondo spazio/tempo dilatato e sospeso che ospita il tragitto del viaggio e nel quale la stanza si trasforma in un territorio il cui attraversamento richiede settimane. Lo spazio che Jeff attraversa è invece proiettivo. Jeff non viaggia e non si sposta nello spazio della camera, ma pratica un altro tipo di movimento che coinvolge il rapporto tra l’occhio e la “finestra sul cortile”. Attraverso la finestra lo sguardo prima si orienta, poi si volge in plurime direzioni per esplorare il cortile, ma soprattutto, ad un certo punto, si comporta come uno strumento ottico capace di ingrandire e rimpicciolire l’immagine. Il suo movimento si realizza avanzando o arretrando nella profondità della visione. Come il protagonista di Blade Runner nella scena in cui opera molteplici ingrandimenti di una fotografia che la macchina ottica realizza riquadrando l’immagine, il riquadro della finestra di Jeff assume il ruolo inaugurale di tutte le successive inquadrature che riproducono in soggettiva lo sguardo del protagonista. Lo spazio che indaga Perec, infine, è quello dell’esperienza e l’indagine
segue una progressione dimensionale: dalla pagina al letto, dal letto alla camera, dalla camera all’appartamento, al palazzo, alla strada; e, successivamente: il quartiere, la città, la campagna, il paese, l’Europa, il mondo (anche se, con la crescita dimensionale, il libro perde decisamente d’incisività). Ma La pagina della quale Perec scrive, è quella sulla quale sta tracciando delle parole; sul letto, «spazio individuale per eccellenza», sta lo scrittore stesso, «steso a pancia sotto». E la soggettività dell’esperienza è anche quella della memoria. Parlando de La camera, scrive Perec: «La sola certezza cenestesica del mio corpo nel letto, la sola certezza topografica del letto nella camera, riattiva la mia memoria, le dà un’acutezza, una precisione che altrimenti non ha quasi mai»3. Così procede l’intero scritto: nel campo tensionale prodotto da esperienza e memoria, Perec affila le proprie osservazioni concettuali. Ma fonte di tutto è, nuovamente, l’osservazione: il guardare e, di conseguenza, l’immaginare. Sia i protagonisti-prigionieri, sia Perec – seppur diversamente –, seguono linee di fuga dagli spazi domestici che abitano. Linee che non potrebbero dispiegarsi senza la scelta di uno spazio in cui operare la rappresentazione e senza l’architettura della casa. Mentre il viaggio di Xavier proietta l’interno della camera in una dimensione territoriale grazie all’applicazione di un dispositivo cartografico, lo sguardo di Jeff esplora l’esterno in virtù della proiezione della cornice della sua finestra. Analogamente, l’osservazione conduce Perec ad una sorta di iper-realismo: ma, com’è inevitabile, nella dimensione più grande l’immaginazione deve giocoforza integrare l’esperienza. In questo modo, tutti abitano contemporaneamente lo spazio della casa e altri spazi a cui la casa rimanda. Il “qui” della casa è sempre anche un “altrove”. Cosa c’entra tutto ciò con questo libro? Rinchiudere nelle proprie abitazioni una moltitudine di architetti progettisti e studiosi di architettura, come è successo a causa della pandemia da Covid-19, significa attivare contemporaneamente centinaia di Xavier, Jeff e Georges, il cui sguardo fisso nello spazio e protratto nel tempo sulla casa e dalla casa ci è apparso come una risorsa eccezionale che non doveva essere sprecata. Abbiamo pensato allora che fosse questa l’occasione – irripetibile (speriamo), date le circostanze che l’hanno prodotta – per proporre ad una parte (purtroppo necessariamente limitata) di questi prigionieri3. G. Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 1989 (ed. orig. Espèces d’espaces, Galilée, Paris 1974).
8>9
4. X. de Maistre, Viaggio intorno alla mia camera, cit., p. 141.
il cielo in trentatré stanze
Introduzione
architetti di restituire le loro osservazioni scritte e disegnate sulle architetture che abitano e che li circondano. Siamo convinti infatti che sempre più la ricerca sul progetto di architettura debba rivolgersi alle nostre città e territori devastati dal consumo di suolo, alle parti antiche degli insediamenti svuotate dagli abitanti, alle aree interne del Paese abbandonate dalle popolazioni: debba cioè occuparsi di come utilizzare quanto già esiste e non certo di progettare il “nuovo”. La casa, ma anche gli spazi pubblici e semipubblici che si relazionano alla casa, è il tema che l’emergenza sanitaria ha rimesso al centro dell’attenzione di chi si occupa di architettura. Non si tratta quindi, come non si è mai trattato, di progettare la “casa del futuro”, ma di ri-velare nel “qui” delle case che già abitiamo, con tutti i loro problemi e tutto il loro fascino di “cose” soggette a cura, l’”altrove” delle possibilità che esse contengono. In fondo, grazie alle diverse rappresentazioni che possiamo impiegare per descriverle in vista del progetto, in queste case, come in quelle di Xavier, Jeff e Georges, risuonano, a volte anche solo per negazione, tutte le architetture. Può darsi allora che, vista la diffusione mondiale e la pervasività, il coronavirus riesca ad estirpare alcuni precetti sulla progettazione degli alloggi, che finora si sono tramandati senza che le discussioni critiche, qualche volta anche ben fondate e feroci, ne abbiano scalfito la solidità. Nell’opinione corrente di abitanti, progettisti e costruttori, l’alloggio è quello stabilito dalla precettistica funzionalista, dalla manualistica e dagli exempla stabiliti nel Novecento. Le convivenze forzate nelle nostre case hanno revocato in dubbio tali convenzioni e convinzioni: sono molti i contributi, in questo libretto, che convergono su tale punto. Si definiscono quindi ampi spazi per molti ripensamenti o riposizionamenti: quegli spazi che la critica più alta al moderno, quella del Team 10, di Aldo Rossi e di tanti altri, non è mai riuscita a creare nella prassi diffusa. In fondo ci basterebbe che, riguardando la propria casa dopo avere letto questo libro, il lettore non solo architetto possa pensare, come scrive de Maistre alla fine del suo viaggio, «Mi hanno vietato la città, un punto; ma mi hanno lasciato l’universo intero; l’immensità e l’eternità sono ai miei ordini»4.
Tempo. Camere oscure, orizzonti luminosi Filippo Lambertucci
I
l problema della casa sembrava uscito da tempo dall’agenda politica, salvo quando si trattava di negarla a qualcuno, rimanendo confinata nell’ambito della speculazione accademica, e immobiliare. Con il confinamento ci siamo accorti che le nostre case sono troppo piccole, male esposte, insoddisfacenti; ma ci dimentichiamo che, solo in Italia, la popolazione urbana è passata dal 54% del 1950 al 71% del 2020, in una corsa alla densità mai completamente e adeguatamente governata. Una corsa ad occupare il centro, che il centro ha respinto con i semplici strumenti del mercato, ricacciando ciascuno alla distanza proporzionale alla profondità delle proprie tasche. Un terzo degli italiani vive in alloggi di dimensioni inferiori agli 80 metri quadrati: quanti di questi sono stati progettati fuori da logiche di conformismo immobiliare? Quali sono gli ultimi quartieri progettati e pianificati (e possibilmente completati in tutte le attrezzature di servizio) che non siano stati la ratifica di malintese urgenze o benintesi interessi? Abbiamo inseguito o subìto il fattore posizione consapevoli, ma non troppo, che questo avrebbe compensato eventuali deficienze dell’alloggio, accettando (nostro malgrado?) un mercato di case sempre più piccole purché nel posto giusto. Il nostro spazio privato non ci soddisfa o non ci basta più. Cosa è successo alle nostre case? È cambiato qualcosa o, forse, abbiamo finalmente il tempo per guardarci intorno e vivere quegli spazi tanto familiari quanto velati da abitudini che ci hanno sempre spinto fuori, al lavoro, a scuola, a divertirci? Eppure le nostre case sono sempre quelle: grandi e meravigliose quando abbiamo lasciato la famiglia, piccole quando la famiglia l’abbiamo messa su noi, e ancora larghe e vuote quando è stata la famiglia ad andarsene. Oggi che vi siamo rinchiusi, le nostre case ci mettono di fronte alle loro bellezze e miserie, che un arredo o una disposizione migliori potranno riscattare solo in parte: intorno alle case infatti c’è tutto quello che le rende tali: il nostro condominio, la nostra strada, la nostra città, il nostro territorio, la nostra società.
42 > 43
Stanze
Oggi la nostra casa è come una camera obscura: attraverso il foro stenopeico delle sue finestre il mondo esterno si proietta nel nostro sguardo; i savant del XVIII secolo si divertivano ad evocare il mito della caverna lasciando che nell’oscurità si materializzasse il mondo di fuori. Allo stesso modo le nostre stanze sono tante camere oscure in cui un parametro è veramente cambiato e si è rivelato fondamentale, come nella fotografia: il tempo di esposizione. Finalmente abbiamo il tempo per lasciare che le immagini proiettate si fissino sulla nostra coscienza e abbiamo il tempo per accorgerci di quello che abbiamo realizzato. L’insofferenza per la reclusione e la nostra casa è lo specchio di una pulsione alla dimensione pubblica e condivisa dello spazio; ma qual è la qualità degli spazi che condividiamo ogni giorno come naturale complemento e completamento della nostra casa? Bramiamo tornare in quegli spazi condivisi che, come le nostre case, abbiamo trascurato e oggi pongono con urgenza questioni che non abbiamo voluto vedere. Scuole e università dagli spazi insufficienti e attrezzature inadeguate, ospedali massacrati dai ridimensionamenti, uffici arretrati e inadeguati, mobilità pubblica carente, assistenza all’infanzia e alle famiglie insufficiente nelle strutture e inadeguata nell’arretratezza delle politiche. Spazi pubblici degradati, incompleti, mai realizzati, per non parlare di un ambiente trascurato e maltrattato, di cui ci ricordiamo inteneriti solo quando i caprioli riconquistano le città. Un condannato a morte della Resistenza evocava impegno e visione per la ricostruzione; quella al virus non è una guerra e non ci sarà un dopoguerra di rinascita. Dopo l’emergenza avremo altre urgenze per dimenticare. Ma nella camera oscura il quadro appare rovesciato: chissà che non ci abbia fatto vedere, per una volta, il nostro Paese nella prospettiva giusta.
il cielo in trentatré stanze
Filippo Lambertucci, Interno interiore intimo, 2020.
Filippo Lambertucci, Esterno esteriore estremo, 2020.
Dilatazioni. Il mondo in una stanza Domenico Potenza
N
el 2004 FABRICA, Centro di Ricerca sulla Comunicazione fondato da Luciano Benetton e Oliviero Toscani, chiede a James Mollison (fotografo di origini keniane cresciuto in Inghilterra) di ideare un progetto che abbia a che fare con l’infanzia ed il diritto dei minori a vivere la dignità di uno spazio domestico. L’autore prova, a partire dai ricordi della sua casa, ad immaginare il ruolo che quello spazio ebbe nella sua infanzia e a quanto le sue trasformazioni non fossero altro che il riflesso della propria vita. Decide allora di fotografare i luoghi di quella domesticità: le camere dei bambini, per raccontare delle diverse situazioni in cui cresce l’infanzia nel mondo. Di quel lavoro mi è rimasta impressa, la forza delle immagini e la capacità di restituire la storia di quelle vite, a partire dallo scatto che ne replicava la stanza dove abitavano. I bambini erano fotografati fuori dalla stanza, su fondali assolutamente neutri, con accanto la riproduzione dell’interno della loro camera, nel tentativo assolutamente riuscito, di testimoniare le diverse condizioni culturali e sociali che si riflettevano nei volti dei piccoli residenti. Fu quella un’esperienza significativa, capace di svelare le differenze nelle quali vivevano i bambini delle diverse regioni e società del mondo e un invito, quasi «[…] a cercare il loro personale modo di sconfiggerle»1. La connotazione dello spazio domestico definisce certamente l’identità della persona che lo abita, a prescindere dalla propria condizione sociale ed economica; lo spazio e gli arredi che lo rendono utile, sono l’espressione più significativa della vita di ciascuno di noi; ognuna di quelle stanze rispecchia la storia ed il mondo che ci portiamo dietro. Le immagini di James Mollison (illustrate nelle pagine che seguono), sono una sorta di autoritratto, al quale non possiamo in alcun modo sfuggire. Io da bambino non ho avuto uno spazio intimo dove alimentare e custodire le mie fantasie; la mia camera si apriva ogni sera da un mobile a muro dal quale magicamente veniva fuori un letto che, puntualmente, 1. J. Mollison, Dove dormono i bambini, edizioni Contrasto, Roma 2010.
58 > 59
Stanze
si richiudeva al mattino seguente per lasciare spazio alle altre funzioni della piccola casa in cui vivevo. Negli anni mi sono conquistato un angolo, quasi a ridosso del bagno, dove avevo riposto tutte le mie cose, e quell’angolo mi ha accompagnato fino alla maggiore età quando, partito per l’università, avevo finalmente acquisito il diritto ad avere una mia camera, seppur condivisa con un amico di studi. Nonostante avessi finalmente uno spazio più ampio a disposizione, continuavo a portarmi dietro quell’angolo della mia adolescenza, seppur dilatato dalla presenza di altre cose che nel tempo si erano aggiunte. In questi giorni, la metamorfosi commovente di quegli spazi mi riaffiora alla memoria, con tutte le sue emozioni, scandite dalle trasformazioni che mi trascinavo dietro nell’abitarle. Le case che abitiamo, sono lo specchio della vita che ci portiamo dietro; ecco perché abbiamo bisogno di personalizzarle, non è solo una questione estetica o funzionale, ma soprattutto una rappresentazione intima e segreta dell’animo, dove si stratificano storie, volti, personaggi e paesaggi che ci appartengono. Uno spaccato della mente che riflette solitudini e sofferenze, sogni e speranze. La condizione inedita ed inconsueta nella quale siamo confinati oggi, produce una sorta di dilatazione del tempo, proprio in ragione della sua diversa scansione e del ritmo al quale siamo costretti. Un intervallo di sospensione che mette in risalto non solo la dimensione dello spazio che viviamo, ma anche di quello che abbiamo vissuto e che ci aspettiamo ancora di vivere. Siamo dentro uno spazio/tempo dilatato, che la condizione di forzatura ci porta a vivere tra le mura domestiche. La dilatazione è direttamente proporzionale alla quantità di tempo che trascorriamo in casa e che deforma la dimensione dello spazio che ci circonda, a prescindere dall’uso specifico che ne facciamo. In questa sezione diacronica del tempo è come se rientrasse in gioco uno spazio più grande della nostra stanza, della nostra casa; lo spazio dilatato della mente, che è contemporaneamente espressione del presente e memoria del passato ma anche un’immagine, seppur sfuocata, del futuro prossimo ancora in attesa.
il cielo in trentatré stanze
In alto: Kathmandu. Prena, la sua camera, nel sottotetto della casa dove lavora, è una cella. Comincia alle cinque del mattino e finisce alle sei di sera. Pulisce e cucina. In basso: New York. Jaime, la sua famiglia vive in un attico sulla Quinta Avenue. A scuola è molto bravo, fa judo, nuoto e suona il violoncello. Da grande farà l’avvocato, come suo padre.
In alto: Rio Delle Amazzoni. Ahkohxet ha otto anni ed appartiene ad una tribù, quella dei Kraho, secondo cui l’universo è stato creato dal Sole e dalla Luna. La tribù è composta di 1.900 persone. In basso: Beitar Illit. Tzvika vive in un insediamento ebraico, in Cisgiordania, dove si seguono i rigidi principi del Talmud. Tzvika non può guardare la tv ma gli è permesso di fare giochi religiosi al computer.
Interno privato Carlo Ravagnati
S
ono nel mio studio, in casa, organizzo la borsa per il solito treno delle 7 e 40, binario 4. No, oggi non prendo il treno, mi piace restare in studio. E oggi resto in studio. Anche oggi starò in studio, poi lungo il corridoio mi recherò sul terrazzo, o forse, in direzione opposta, mi avventurerò verso la cucina, o più oltre, girerò l’angolo, verso le camere. No, oggi non prendo il treno, oggi resto in studio. Sul parquet a spinapesce, a circa 25 centimetri dal mio tavolo, sulla sinistra, c’è una macchia: uno strato del legno è consumato da un’altra vita della stanza. Ha forma di pesce, vedo la pinna dorsale. Se la considero insieme a quelle macchie più piccole e seghettate alla sua sinistra, allora mi pare di vedere una carta nautica, un arcipelago di irte isole. Mi pare, ma forse non ricordo bene come siano le isole viste dall’alto. Intorno a me, fra il tavolo e le librerie alle pareti, si vede un listello posato a cornice, leggermente più scuro del tappeto centrale. Supero questo segno che delimita un interno della stanza ancor più privato. Alla soglia mi fermo. Divide il pavimento dello studio da quello del corridoio una sottile lama di acciaio. Due listelli del parquet a frangia oltre la cornice sono più corti degli altri, uno di 4 millimetri, uno di 3. La lacuna è colmata da una resina che però sta perdendo aderenza. Vi salgo con un piede, scricchiolano come solo i trampolini sanno fare preannunciando un prodigioso lancio nel vuoto. Sono in bilico, mi sporgo appena, come sul ciglio di un precipizio. «È possibile vivere in camere con strapiombo?». Per raggiungere l’interno del corridoio devo allungare il passo di 45 centimetri esatti. Approdo sul pannello centrale del pavimento, disteso come un pontile lungo 9 metri e ricoperto da un prato di fiori bianchi su campo scuro intrecciati con quattro pistilli che segnano le diagonali delle 86 mattonelle. Lo percorro. Dopo due passi incontro una mattonella spaccata in quattro frammenti. Le crepe sono scure. È instabile, meglio non calpestarla. Potrebbe rivelare una profondità imprevista o essere una trappola. Gli angoli di alcune mattonelle sono sostituiti da lacune di resina grigia, come negli affreschi di Piero della Francesca. Nella ventesima mattonella contando da destra, prima fila, c’è un foro di 23 millimetri di diametro prodotto da chissà
72 > 73
Corridoi
quale evento in quale tempo. È otturato con resina colorata. La cornice del pavimento del corridoio è labirintica: ogni mattonella disegna una linea marrone che seguo con lo sguardo in quella che le succede e in quella che la precede con uno sviluppo di 55 metri e 80 centimetri. Queste mattonelle sembrano tutte uguali, ma non lo sono. Il tratto è incerto, a volte il fondo beige sbava sulla riga scura e viceversa. Sull’angolo la cornice si concede un pezzo speciale, come in un tempio. L’angolo: persino la cornice si preoccupa di risolvere l’angolo per definire compiutamente un’unità, come se non ci fosse niente di più importante che stabilire l’unità, un corpo fatto e finito. Già il corpo, i corpi. Forse è un segno, le Colonne d’Ercole che avvertono del passaggio in un altrove del quale scorgo in controluce una serie ordinata di stelle. Devo stare attento a non cadere giù, nel vuoto oltre i disegni. Con un allungo di 48 centimetri salgo direttamente sulla facciata della Cappella Colleoni con i colori scaldati dalla luce della lampada led. La quarta mattonella contando da destra, terza fila, ha una serie di crepe che si aprono a ragnatela contagiando anche le vicine. Qui lo stucco tra le mattonelle è stato sbagliato. Qua e là si vedono fughe di colore grigio chiaro che corrompono il disegno voluto dalle mattonelle. Sono tre gli spazi che vedo distintamente: la cappella rinascimentale con i suoi cubi assonometrici (la finzione), la trama ortogonale di 20 per 20 centimetri dello spazio euclideo (la misura) e la tela di ragno (il sinthomo, ovvero l’altro che parla). «Vivere – come insegna Perec – significa passare da uno spazio all’altro cercando di non farsi troppo male». Proseguo, imperterrito.
il cielo in trentatré stanze
Carlo Ravagnati, Rilievo del pavimento della mia casa milanese, (originale in scala 1:1).
Finestra latina Federico Bilò
S
criveva Giò Ponti: «nell’antica casa italiana non vi è grande distinzione d’Architettura tra interno ed esterno; altrove vi è addirittura separazione di forme e materiali: da noi l’architettura di fuori penetra dentro»1. Considerazioni ineccepibili, ma riferite a case d’altri tempi. Ora le cose vanno diversamente. Se non si hanno giardini, terrazze o balconi abitabili, stare a casa vuol dire davvero non uscire mai all’esterno: è il mio caso. Sono recluso dentro e il rapporto con fuori diventa principalmente visivo e dunque gestito da quei dispositivi, chiamati finestre, che mettono in relazione interno ed esterno. Esamino questo elemento cruciale del costruire, allontanandomi dalle definizioni del vocabolario e dal senso comune, per considerarlo in maniera diversa. Cito una descrizione della finestra, di sapore prestazionale, che, mezzo secolo fa, fecero Chermayeff e Alexander: «un diaframma di protezione (o membrana di chiusura) che lascia passare l’aria, fa entrare la luce, la modula, la scherma, la diffonde, evita il riverbero, consente o impedisce il passaggio di organismi viventi, permette di controllare le radiazioni e la temperatura, impedisce la trasmissione del suono o le imbarazzanti sorprese dell’illuminazione artificiale»2. Accanto a questa interessante ma algida descrizione, ne dispongo una calda, introspettiva e immaginifica, capace di evidenziare il ruolo psicologico cruciale che le finestre svolgono nella vita domestica, specialmente in questo periodo di reclusione: «la mia casa è piccola ma le sue finestre si aprono su un mondo infinito», ha detto Confucio. Se infatti la finestra è anche un’inquadratura, «l’inquadratura è ciò che istituisce un fuori-campo»3; e il fuori-campo è una straordinaria risorsa dell’immaginazione: per quel che realmente vi è oltre l’inquadratura e per quel che vorrei vi fosse. Disegnare una finestra è un atto importante, che richiede sensibilità e ponderazione; viceversa, è usualmente risolto in maniera banale e routinaria. Amo la finestra complessa disegnata da Kahn, di fronte al 1. G. Ponti, Amate l’architettura (1957), Società Editrice Cooperativa CUSL, Milano 2004, p. 106. 2. S. Chermayeff, C. Alexander, Spazio di relazione e spazio privato. Verso una nuova architettura umanistica, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 177-8. 3. J. Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1991, p. 17.
82 > 83
Finestre
camino, nell’americana casa Fisher; ma, nel clima mediterraneo, la finestra deve avere caratteri differenti. Occorre soprattutto proteggersi dal sole e, secondo un’opinione troppo diffusa, anche dagli sguardi. La cultura del pan-de-verre, qui attecchisce a fatica, anche perché richiede evitabili correttivi: questa, infatti, è l’eredità meno convincente del moderno che, invece, in fatto di finestre, ha condotto sperimentazioni rivoluzionarie. Dalla finestra a nastro di Le Corbusier alle grandi vetrate (fisse, scorrevoli, ruotanti) di Mies van der Rohe; dalla bottoniana “dritta al cielo” alla “finestra arredata” di Ponti; dalla distinzione kahniana tra finestre per la luce e finestre per guardare ai buchi ameboidi di Lina Bo. E la sperimentazione continua: basta pensare agli acquerelli nei quali Steven Holl studia decostruzioni murarie, facendo entrare la luce e delimitando viste in modi inattesi. Personalmente, prediligo la finestra latina tradizionale e le sue rivisitazioni: che non sono quelle di casa mia (e quanto sono fesse le serrande!!). Trovo infatti decisiva la seguente riflessione di Alvaro Siza, scritta nell’ormai lontano 1993: «una volta, le finestre antiche offrivano una soluzione semplice e completa, che integrava il vetro con le gelosie, gli scuri, le tende; una presenza densa e profonda [...] È un mondo qualitativo che è stato quasi del tutto abbandonato. Non c’è più una cultura che sa controllare la luce, che sa scegliere cosa mostrare aprendo solo una piccola parte della parete: è una bellezza che è stata radicalmente semplificata»4. E mi vengono in mente le tante finestre della storia della pittura, quelle di Matisse e i bassorilievi di Tano Festa...
4. A. Siza, Il progetto come esperienza, in «Domus» n. 746, febbraio 1993.
il cielo in trentatré stanze
Finestra a Dubrovnik, agosto 2008.
In alto: Dubrovnik dalla finestra di casa, 2008/2020. In basso: Henri Matisse, Femme au divan, 1920.
Il cratere, il teatro, l’isolato Riccardo Palma
I
l cratere. La luce dell’alba è ancora fioca. Dal vostro punto di osservazione posto a 15 metri dal suolo, vi accorgete di essere affacciati su un grande cratere la cui massima larghezza ha una dimensione di circa 150 metri. Le pareti che delimitano l’invaso hanno un’altezza che varia da 15 a 40 metri e sono formate da strati che, a causa di qualche remoto fenomeno geologico, sono disposti verticalmente. Le pareti sono scavate da centinaia di cavità, segno forse di qualche fenomeno erosivo. Il ciglio sommitale del cratere presenta tratti a quote diverse: ciò vi fa pensare che il sito nel quale la voragine si è aperta non sia del tutto pianeggiante. Sul fondo del cratere il suolo è ripartito in zolle dalla forma geometrica ma di diverso spessore. In prossimità delle pareti le zolle lasciano spesso spazio a depressioni separate da sottili formazioni verticali, come fossero ciò che rimane delle placche dopo un evento che ne ha provocato il crollo o il prosciugamento. Il tutto vi ricorda un reticolo simile a quello che si forma quando il terreno si ritira per la siccità, anche se le dimensioni delle zolle sono enormemente più estese. Alcuni alberi sono cresciuti all’interno delle depressioni. Il teatro. La luce del mezzogiorno è abbagliante. Dalla loggia in cui vi trovate potete scorgere quasi tutti i numerosi ordini di palchi di quello che vi appare come un grande teatro elisabettiano dai lati rettilinei. In basso, la superficie dell’invaso è costituita da una serie di palcoscenici vuoti, posizionati a diverse quote, come nelle stazioni del teatro medioevale. Osservando le grandi pareti su cui si aprono i palchi, vi accorgete che nelle logge di tanto in tanto compaiono personaggi impegnati a recitare scene diverse: alcuni parlano tra loro, altri siedono davanti ad un tavolo e sembrano intenti a mangiare, altri sono occupati in operazioni che la distanza rende misteriose, altri ancora si affacciano furtivamente e spariscono velocemente all’interno dei palchi. Vi chiedete allora se lo spettacolo messo in scena sia proprio quello che si offre a chi, stando al centro dell’invaso, guarda verso sue pareti, come succede nei teatri della memoria, oppure se tutti i personaggi che affollano i palchi,
142 > 143
L’isolato. La luce del tardo pomeriggio rende le forme nette. Siete sul balcone del vostro appartamento posto al 4 piano di un edificio degli anni ‘20 del ‘900 durante la pandemia da Covid-19 della primavera 2020. Il grande spazio che vi si mostra è quello dell’interno di un isolato trapezoidale della città. Gli edifici in cortina, tutti residenziali e in linea, hanno altezze che variano dai 6 ai 12 piani. A molti di essi, la cui data di costruzione è compresa tra gli anni ‘20 e gli anni ‘60 del novecento, è stato aggiunto un vano ascensore in corrispondenza dei corpi scala, che aggettando dalla facciata formano una sorta di ordine gigante lungo il perimetro interno dell’isolato. Tutti gli edifici sono dotati di balconi che, in varia misura, sono occupati da arredi o comunque da dispositivi che ne denunciano una frequentazione non episodica. Ma ciò che attira la vostra attenzione è soprattutto l’interno dell’isolato, occupato in parte da corpi bassi dal tetto piano, probabilmente garage o officine, in parte da un edificio isolato che sembra un asilo, e in parte da minuscoli cortili separati tra loro da bassi muretti di divisione. I cortili sono quasi sempre pavimentati e in qualche caso vi è stato fatto crescere un albero. Il cratere, il teatro, l’isolato. La notte, come tutte le notti, è senza luce. Senza più vedere nulla, le immagini dell’isolato si sovrappongono una sull’altra, come in trasparenza. Vi trovate allora a pensare a come sarebbe bello, e molto facile, aprire varchi tra i muretti che separano i piccoli e ormai inutili cortili. A come sarebbe bello dedicare ogni stanza di questo interno/esterno ad un uso aperto a tutti gli abitanti dell’isolato: stanze per giocare, stanze per leggere, stanze per discutere, ecc. A come sarebbe bello realizzare un percorso che colleghi tutte le stanze, per fare jogging o passeggiare. A come sarebbe bello costruire scale che dal suolo raggiungano i tetti piani dei corpi bassi, trasformati in piattaforme sulle quali coltivare ortaggi o prendere il sole. A come sarebbe bello, infine, se scopriste che lo spazio interno dell’isolato è, allo stesso tempo, un grande cratere coperto da vegetazione, un teatro il cui spettacolo si svolge dappertutto, un’architettura dello spazio pubblico o semipubblico molto più solidale, protetta e immaginifica delle strade che la delimitano.
il cielo in trentatré stanze
Cortili
e che a volte sembrano parlare tra loro da una loggia all’altra, non siano al tempo stesso spettatori e attori di una unica polifonica pièce. In basso, nei palcoscenici vuoti, gli unici arredi di scena sono alcuni alberi.
In alto: Riccardo Palma, Sezione [Il cratere], aprile 2020. In basso: Riccardo Palma, Prospettiva [Il teatro], aprile 2020.
In alto: Riccardo Palma, Planimetria [L’isolato], aprile 2020. In basso: Riccardo Palma, Progetto [Il cratere, il teatro, l’isolato], aprile 2020.
con scritti di: Giulio Barazzetta Federico Bilò Enzo Calabrese Antonio Clemente Isabella Cipolla e Luigi Coccia Francesco Collotti Giovanni Corbellini Claudia Del Colle e Francesco Orofino Susanna Ferrini Filippo Lambertucci Sara Marini Mauro Marzo Gabriele Mastrigli Paolo Mellano Maurizio Meriggi Paola Misino Luca Molinari Luca Montuori Manuel Orazi Riccardo Palma Valerio Palmieri Costantino Patestos Giorgio Peghin Pisana Posocco Domenico Potenza Carlo Prati Sara Protasoni Carlo Ravagnati Andrea Sciascia Fabrizio Toppetti Marco Trisciuoglio Alberto Ulisse Ettore Vadini Federica Visconti e Renato Capozzi
9
788862
€ 18
424516
Questo libro è una casa. Una casa composta da 33 stanze. In ciascuna stanza un architetto racconta la sua casa e in ciascun racconto sono evocate altre case. Perciò questo libro è (almeno) una casa alla trentatreesima potenza. Nel periodo di forzato isolamento domestico, causato dalla pandemia da Coronavirus, trentatré architetti, studiosi e amici, hanno posato lo sguardo disciplinare sulle proprie case e su ciò che a partire dalle proprie case è possibile raccontare, disegnare o evocare. Come per il protagonista della "Finestra sul cortile" di Alfred Hitchcock, la permanenza forzata nel proprio domicilio ha permesso di osservare diversamente o più intensamente i paesaggi domestici. Il tema della casa – di tutte le case: reali, immaginate o desiderate – oggi riguarda gli spazi che già abitiamo, nelle città e nei territori; riguarda la necessità e l'opportunità di progettare non tanto il "nuovo", quanto ciò che c'è già; riguarda la possibilità di evocare l'inesauribile immaginario architettonico che il tema della casa da sempre sollecita.