Tutte le fotografie e i disegni a corredo dei testi provengono dall’archivio privato di Claudio Dall’Olio, gentilmente messo a disposizione dal figlio Lorenzo. Fanno eccezione la fotografia del villaggio San Filippo (a pagina 24) tratta dalla rivista «Domus», n. 254 del gennaio 1951, la fotografia dell’albergo Europa a Latina (a pagina 28) – scattata da Oscar Savio – più le due fotografie dello chalet Ninfea a Sabaudia (a pagina 138) – dello studio Vasari – provenienti dall’archivio di Marcello De Rossi, conservato nei locali dell’ex Istituto Statale d’Arte “Juana Romani” di Velletri, presso la biblioteca Umberto Mastroianni, e cortesemente reso disponibile dal presidente del circolo artistico La Pallade Veliterna, Alessandro Filippi.
ISBN 978-88-6242-458-5 Prima edizione Novembre 2020 © LetteraVentidue Edizioni © per i testi: i rispettivi autori È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. Progetto grafico: Francesco Trovato LetteraVentidue Edizioni Srl via Luigi Spagna, 50P 96100 Siracusa www.letteraventidue.com
Indice 6
Maestri Romani Presentazione della collana di Orazio Carpenzano
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Autoritratto di una generazione (1920-1950) Introduzione alla collana di Lucio Valerio Barbera
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Il professionismo cólto di Claudio Dall’Olio di Fabio Cutroni
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Claudio Dall’Olio: la formazione e il rapporto con la cultura architettonica del suo tempo di Anna Irene Del Monaco
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Tre testi di Claudio Dall’Olio Presentazioni di Anna Irene Del Monaco
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Due progetti di Claudio Dall’Olio Presentazioni di Fabio Cutroni
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Claudio Dall’Olio, il giovane docente Una lettera di Lucio Valerio Barbera a Fabio Cutroni
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Regesto delle opere
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Intervista di Lucio Valerio Barbera e Marta Calzolaretti a Claudio Dall’Olio a cura di Fabio Cutroni e Anna Irene Del Monaco
Il professionismo cólto di Claudio Dall’Olio Fabio Cutroni
Non v’è dubbio che il pensiero e l’opera di Claudio Dall’Olio siano stati entrambi permeati da un realismo in un certo senso “necessario”; un realismo che, per un verso è legato ad aspetti strettamente privati e autobiografici, per l’altro accomuna la generazione di coloro i quali – negli anni giovanili di una maturità ancora acerba – hanno dovuto attraversare l’epoca fascista, subire il dramma della guerra, affrontare in prima persona gli stenti e le incertezze dell’immediato dopoguerra. Rispetto al peso morale e materiale di una realtà tanto incomprensibile quanto inevitabile e schiacciante, esito estremo e aberrante di un’ideologia via via degenerata, Dall’Olio reagisce rifuggendo da ogni atteggiamento intellettualistico, da ogni nuova, ulteriore ideologia – seppure di segno diverso – e sviluppando un approccio culturale e operativo fondamentalmente anti-ideologico. La tragica e improvvisa morte del padre, a seguito di un incidente stradale, lo costringe – all’età di nove anni – ad una crescita precoce; lo induce ben presto ad assumere su di sé la responsabilità nei confronti della madre e delle due sorelle più piccole1, a sentirsi in dovere di contribuire al bilancio familiare, o quantomeno di non gravare su di esso, lavorando la sera – già dai primi anni di università – come disegnatore negli studi professionali di alcuni docenti o di altri architetti romani. In quest’ottica va considerata anche la sua partecipazione al conflitto mondiale, condotta per mero senso del dovere, senza alcun afflato eroico, nei reparti del Genio Pontieri – tra Udine, Piacenza e Pavia – dovendo interrompere il percorso formativo alla fine del quarto anno, tra l’estate del 1942 e l’autunno del 1943. L’ulteriore, prematura perdita della madre nell’ottobre del 1947, per un tumore all’intestino, lo pone nuovamente – due anni e mezzo dopo la laurea in Architettura – davanti ad una realtà cruda e spietata, che lo obbliga, ap-
Il padre Odoardo muore nel 1929, a soli 44 anni, lasciando la moglie quarantenne, Igina Ferrero, e tre figli: Claudio di 9 anni, Renata di 7 anni e Gabriella di 4 anni. 1
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In alto: Villaggio San Filippo, Roma (1949-50) In basso: Edificio INCIS nel quartiere Tuscolano, Roma (1949-50)
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distribuiscono ciascuno due appartamenti a piano – si caratterizza per il fronte principale, animato da un pulsare di pieghe verticali, che, nello scarto tra due ritmi alternati e sovrapposti, quello più serrato e sincopato della parete esterna e quello più disteso e regolare del telaio portante – lasciato a vista e coinvolto anch’esso nel movimento plastico della facciata – creano piccole logge dalle quali si protendono i balconcini a sbalzo. Se nel villaggio San Filippo appare più evidente una certa consonanza con l’esperienza neorealista portata avanti negli stessi anni da Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni al quartiere Tiburtino, nell’edificio INCIS al Tuscolano Dall’Olio e Giurgola esplorano una loro prima sintesi personale tra riferimenti locali e internazionali: c’è, innegabile, l’influenza esercitata in particolare da Ridolfi, ad esempio nella scelta di mostrare il reticolo strutturale – seppure con una grafia più astratta – e di descriverne il funzionamento statico sagomando le travi a mensola all’intersezione con i pilastri più sollecitati, ma c’è anche l’attenzione al panorama dell’architettura svedese, ad alcune opere di Sven Markelius o di Backström e Reinius; non tanto nella generica volontà di alterare la rigida ed elementare stereometria razionalista, nel rifiuto del “rettangolarismo” (termine caro a Zevi), nell’uso formalistico della linea spezzata e delle geometrie poligonali, quanto nell’intento specifico di introdurre elementi ruotati per dilatare gli ambienti interni, per orientarne le visuali e, come conseguenza, per articolarne il prospetto esterno. Del resto, Dall’Olio è tra coloro i quali, per primi e con maggiore convinzione, fanno proprie le idee di Zevi, ne assumono le posizioni, in un certo senso ne subiscono la seduzione; non solo attraverso i suoi libri o gli editoriali pubblicati su «Metron», ma, ancor più, collaborando attivamente all’APAO6, partecipando alle riunioni e alle conferenze che si tengono periodicamente al Palazzo Del Drago, al civico 20 di via delle Quattro Fontane. Non sorprende, quindi, che il piccolo chalet sul lago di Paola a Sabaudia, da lui progettato e realizzato nel 1948-49 con Marcello De Rossi, sia eletto da Zevi tra i pochi – e per la verità alquanto eterogenei – Fin dal luglio 1945, oltre ad essere uno dei membri fondatori dell’APAO, Dall’Olio fa parte sia della commissione di lavoro che si occupa della riorganizzazione della Scuola di Architettura Organica, sia della segreteria dell’associazione, insieme con Marcella Coromaldi (moglie di Ludovico Quaroni nel 1949) e Margherita Roesler Franz (moglie di Cino Calcaprina nel 1952). 6
CLAUDIO DALL'OLIO
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In alto: Nuovi uffici della Camera dei Deputati, Roma; progetto di concorso (1966) In basso: Palazzina in via Luigi Bodio, Roma (1963-65)
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Palazzina in piazza Mazzini, Nettuno (1960-61)
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Claudio Dall’Olio
Appunti per uno studio sull’espressionismo (1954)
Questo saggio, fra i più strutturati e densi prodotti da Dall’Olio – probabilmente un insieme di studi sviluppati in occasione dell’esame per la Libera Docenza (che Dall’Olio consegue a fine gennaio del 1955) – muove ragionando sulla crisi del razionalismo “l’esperienza più scottante” in molti paesi europei, da non intendersi come la crisi dell’architettura moderna. Secondo l'autore, tenendo conto del tentativo di superamento del “puritanesimo razionalista” degli “architetti della terza generazione”, fin dal 1930, “è possibile individuare nei Paesi scandinavi un contributo vivace al di fuori delle meccaniche e fredde ripetizioni degli schemi del primo razionalismo. […] Soprattutto in Svezia, con la seconda fase dell’opera di Asplund e in Finlandia, con la giovanile affermazione di Aalto, una parola nuova è detta con accento vivace che trascende decisamente il manierismo razionalista. […] È chiaro che con Asplund o Aalto non ci troviamo di fronte a rivelazioni sensazionali, a nuovi manifesti programmatici”. La differenza tra le due concezioni, “l’organica e la razionale, è insanabile e rappresenta due aspetti, due modi distinti di creazione artistica” secondo Dall’Olio che ritiene, tra l’altro, contraddittoria anche l’opera di Le Corbusier: l’esito dell’Unité di Marsiglia con i suoi chiaroscuri volumetrici rientrerebbe nel novero dei risultati efficaci, mentre i grattacieli astratti e i grandi gesti urbani organici risulterebbero, secondo il nostro autore, meno convincenti. “Ripensare l’esperienza espressionista”, egli scrive “non ci sembra quindi una mera esercitazione ma un’azione culturale feconda e attuale”. Il testo analizza con ampiezza di argomenti alcuni episodi della letteratura artistica e filosofica fra l’Ottocento e il Novecento; in particolare, la teoria della einfühlung di Robert Vischer e quella della puro visibilità di Konrad Fiedler sembrano interessare Dall’Olio a confronto col pensiero del Winckelmann, di Semper, di Riegl, del Ragghianti, ecc. Nella parte conclusiva, il saggio affronta l’espressionismo in architettura, evidenziandone gli esiti di qualità e le contraddizioni ed il “diverso modo di trattare la materia, corrispondente alla volontà di vibrarla in una visione di carattere emotivo sintetico e di piegare le forme costruttive all’effetto drammatico desiderato, sottraendole al raziocinio”. Dall’Olio conclude attribuendo a questa categoria dell’espressionismo “la disponibilità critica ad operare sintesi di varia eterogenea natura, quindi di carattere possibilistico”. (di Anna Irene Del Monaco)
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in Claudio Dall’Olio, Problematica e didattica architettonica, Tipografia Squarci, Roma, 1966 (1a ed.), pp. 13-50.
Introduzione1 Uno degli interrogativi più appassionanti della cultura artistica del dopoguerra, e non solo in senso strettamente estetico, ma come aspetto di un più vasto processo storico, riguarda lo sviluppo dell’architettura moderna. Dove va l’architettura si domandano architetti, critici, uomini di cultura. Con difficoltà infatti una interpretazione ancorata alle concezioni del razionalismo può ravvisare nei nuovi fermenti (continuazione di un discorso già iniziato nel decennio dal ’30 al ’40) una stretta conseguenza dello stile internazionale dell’altro dopoguerra. Non è certo il caso di fare un parallelo tra la silenziosa evoluzione della terza generazione di architetti moderni e l’entusiasmante clima rivoluzionario degli anni dal ’20 al ’30; tale fu l’importanza della rivoluzione determinata dai movimenti nati dal cuQuesto studio risale al 1954 e viene qui pubblicato integralmente nella sua stesura originaria pur riconoscendo, a distanza di tempo, tutti i limiti e le immaturità della trattazione. Tuttavia esso rispecchia, in qualche modo, interessi culturali emersi in Italia fin dall’immediato dopoguerra, specialmente per gli impulsi storiografici di Bruno Zevi, volti all’approfondimento delle origini dell’architettura moderna in un quadro diverso da quello della critica razionalista. Che sotto la tesi di architettura e democrazia e del realismo neoempirico di quegli anni si agitassero motivi ispiratori più drammatici e di maggior respiro, fu presto evidente; come evidente fu, poco dopo, che la tesi organica non significava reale componimento della diade fondamentale dell’architettura moderna, rappresentata dalla scoperta permanenza del dibattito dialettico tra razionalità e impulsi emotivi. Il movimento dell’espressionismo era, ed è in parte, una delle matrici di quei motivi ispiratori. Lo vediamo oggi riaffiorare, insieme alla attenzione, ad esempio, per il costruttivismo russo, nei problemi della nuova dimensione. Come tale l’espressionismo è di nuovo un punto di riferimento da non trascurare, anche se oggi il problema della qualificazione del contenuto e della forma non può più essere di quel tipo; ce lo dimostra una produzione recente che, insieme ai valori espressivi emozionali (in qualche modo espressionistici) ripropone l’esigenza di ordine per una nuova architettura; sia pure con i rischi intellettualistici, talvolta perfino accademici, che vi possiamo leggere tra le righe. 1
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Claudio Dall’Olio
La condizione dell’architetto (1971) Tecnica e Architettura (1982)
Questi saggi, il primo scritto nel 1971, il secondo nel 1982, affrontano una serie di questioni “deontologiche”, intese in senso letterale: l’insieme di regole morali che disciplinano l’esercizio di una determinata professione. Come la maggior parte degli scritti prodotti da Dall’Olio negli anni Settanta, il ragionamento si pone in modo dialettico rispetto ai fenomeni culturali e professionali emergenti (l’autonomia della disciplina, il postmodernismo; più in generale, l’eccesso di elaborazione formale). Oltre alla comprensibile distanza di questi episodi culturali di carattere prevalentemente intellettualistico, soprattutto rispetto ai temi del baricentro culturale degli anni della formazione di Dall’Olio, occorre evidenziare che coloro che hanno studiato nella Facoltà di Architettura di Roma (ma potremmo dire in tutt’Italia) fino alla prima metà degli anni Sessanta, si sono formati acquisendo robusti strumenti concettuali e tecnici, coerenti rispetto al tipo di professione e di mercato edilizio (pubblico e privato) che i giovani architetti incontravano appena usciti dall'università. Non è stato più così nei decenni successivi, anche per via delle forze culturali che “hanno [avuto] la gestione dell’industria culturale con le stesse tecniche del mercato”, parafrasando Dall'Olio. Ci sembra significativo evidenziare il seguente passaggio che sintetizza con profonda coscienza il cimento del mestiere dell'architetto secondo l'autore: “La forma architettonica, infatti, in termini di analogia linguistica, ha una capacità polidescrittiva molto limitata, mentre possiede una forte univocità evidenziale nella quale risultano come imprigionate e seppellite le frasi di un discorso muto ma non per questo inesistente. Di conseguenza, l'esperienza progettuale, come processo conoscitivo ordinatore, è impegnata duramente in quella che potremmo definire la lunga marcia verso la realizzazione di se stessa. L’architetto durante il lungo cammino, rimane sostanzialmente il solo e tenace custode di un filo conduttore invisibile, senza il quale un inceppo qualsiasi sarà sufficiente a travisare i connotati della sua opera”. (di Anna Irene Del Monaco)
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In Claudio Dall’Olio, Attraverso l’architettura: itinerario critico, Bagatto Libri, Roma, 1989, pp. 214-218.
La condizione dell’architetto (1971) Se dovessimo dare una interpretazione ottimistica ed estensiva del compito dell’architetto nella società, potremmo dire che esso consiste, o dovrebbe consistere, nella trasformazione di quel tanto di negatività sempre presente in ogni momento di un periodo storico, in una positività o tentativo di positività. Positività riferita genericamente alle condizioni di sviluppo della vita civile, ma più in particolare, positività nella ricerca delle vere istanze cui dare risposta, spesso deformate dall’esteriorità di comportamenti umani assai contingenti; positività alle proposte morfologiche legate ad una diagnosi tanto corretta e credibile quanto proiettata verso un obiettivo che sarà sempre al di là del proprio naso. Non è stato mai abbastanza chiarito quanto questa definizione possa valere in generale, prescindendo dalla posizione politico-ideologica dell’architetto. Non è chiaro, ma sembrerebbe vano sperare in una azione positiva che non s’inquadrasse in un problema di fini ultimi, e pertanto dobbiamo considerare come valida in sé l’ipotesi del carattere morale e teologico dell’architettura. L’architetto è per natura portato più che a registrare e celebrare un equilibrio raggiunto (e l’epoca attuale lo dimostra al massimo grado) ad operare sul manifestarsi di disagi (palesi o latenti) del comportamento umano, nel complesso momento fruitivo, materiale e spirituale, del bene architettonico. L’architetto spera, così, di far coincidere il proprio sistema di attese, la propria visione, con quello che crede di scoprire di positivo nel corpo vivo della società, nascosto sotto un cumulo di pregiudizi, di equivoci, di pigrizia. Questa condizione di interprete responsabile, che mira a conciliare la sua individuale autonomia creativa col raggiungimento di una oggettività più generalmente riconoscibile, fa dell’architetto l’essere più lacerato di dubbi, anche quando incontra il consenso, proprio perché spesso sente che quel consenso gli deriva da motivi estranei, marginali o CLAUDIO DALL'OLIO
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paradossali di questa libertà, anche per gioco ed esibizionismo. Tali eccessi vanno strenuamente combattuti, ma è un fatto che la temperie culturale attuale – forse per reazione al dominio di un piatto determinismo tecnologico in tanti aspetti della vita moderna – non è tale da far pensare ad un linguaggio dell’architettura condotto sui binari di uno scoperto rigore logico e di una palese aderenza a presunti dati oggettivi. Di qui la difficoltà di discernere ciò che è autentico da ciò che è artificioso o regressivo. La dominanza stessa di una metodologia tecnicoscientifica più raffinata ed elastica, meno schematica che agli albori delle applicazioni tecniche del metodo scientifico, lascia adito a molte deroghe e varianti, che però solo equivocando possono essere incentivo all’anarchia. Quella attuale, non è l’anarchia per così dire, bonaria e servizievole dell’eclettismo ottocentesco, non l’anarchia che è l’andirivieni caotico di una deriva; l’illusione di navigare, mentre si è cullati da una brezza capricciosa che non contrasta certo la forza della corrente.
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Due progetti di Claudio Dall’Olio Caffè e ristorante-dancing “Ninfea”, Sabaudia 1948-49 (con M. De Rossi) Istituto di Farmacologia nella Città Universitaria di Roma 1955-63 (con A. Lambertucci)
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In alto: Lo chalet Ninfea visto dalla sponda opposta del braccio dell’Annunziata In basso: Piante alle quote -4,95/-5,55 m (a sinistra) e -2,85 m (a destra)
Caffè e ristorante-dancing “Ninfea”
Sabaudia Progetto e costruzione: 1948-49 (con Marcello De Rossi) di Fabio Cutroni
Fin dal piano urbanistico fondativo di Sabaudia, elaborato nel 1933 da Luigi Piccinato, con Gino Cancellotti, Eugenio Montuori e Alfredo Scalpelli, un caffè-ristorante doveva costituire il fondale di piazza Roma, a conclusione del corso del Popolo – decumano della città, poi rinominato corso Vittorio Emanuele III – in asse con il tratto finale che piega verso nord. Successivamente, l’area riservata a tale funzione viene traslata al margine ovest della piazza, sul declivio che dalla quota della strada scende per una quindicina di metri fino alla sponda del lago di Paola, privilegiando così lo straordinario e incontaminato scenario naturale che si apre in direzione di ponente e che, quasi dal fondo del braccio dell’Annunziata, traguarda la duna costiera in lontananza. Nel 1947 il terreno è acquisito dall’imprenditore locale Luigi Talani, il quale, all’indomani della fine della guerra, intuendo le possibilità di una rinascita economica incentrata sul turismo balneare, manifesta all’amministrazione comunale l’intenzione di realizzare uno chalet, con l’impegno a garantire una «sistemazione a giardino-parco per ambientarsi e salvaguardare la visuale panoramica». L’anno seguente, dopo l’ulteriore acquisto dell’albergo “Circeo” prospiciente la piazza del Comune, il Talani incarica l’amico architetto Marcello De Rossi di Velletri di redigere il progetto per il
bar-ristorante in riva al lago e questi, a sua volta, decide di coinvolgere il collega ventottenne Claudio Dall’Olio, di sei anni più giovane, frequentato da studente nelle aule della Facoltà di Architettura di Roma e già assistente straordinario al corso di Elementi di composizione tenuto da Roberto Marino. Per una fortuita coincidenza, appena qualche settimana prima della presentazione dei disegni preliminari il consiglio comunale nomina la nuova commissione edilizia, presieduta dal sindaco Giuseppe Fichera, della quale sono invitati a far parte Alfredo Scalpelli e Bruno Zevi; quest’ultimo, in particolare, conoscendo e stimando Dall’Olio fin dall’estate del 1945, in occasione degli incontri al Palazzo Del Drago, in via delle Quattro Fontane, tra i membri fondatori dell’Associazione per l’Architettura Organica, «si complimenta con gli architetti progettisti e li invita ad approfondire il progetto sulle linee finora tracciate», come risulta dal verbale del 16 novembre 1948. Del resto, l’edificio è concepito con «sensibilità organica», è espressione del nuovo corso che, proprio in questi anni, Zevi si sforza di imprimere all’architettura italiana contemporanea, raccogliendo la «gloriosa tradizione del movimento razionalista» – dirà in un discorso all’APAO del novembre 1952 – e l’eredità di Giuseppe Pagano, ma aprendo alle esperienze del movimento svedese, finlandese e 135
forza di «riproporre in clima ancora tanto sordo le proprie esigenze: vale a dire, quelle nostre collettive, e più vere; e riproporle malgrado tutto, con finezza, con pazienza, […] rinunciando ad ogni esibizionismo professionale e tenendo pienamente fede alle proprie premesse». In fondo, come già accaduto negli anni Venti e Trenta, il «positivo riallaccio ai temi “internazionali”», osservato da Manfredo Tafuri nella sua rassegna critica La vicenda architettonica romana 1945-1961 – sulla rivista «Superfici» dell’aprile 1962 – e «l’esigenza di
riferimenti culturali autorevoli», ribadita da Paolo Portoghesi nel catalogo della mostra Aspetti dell’arte contemporanea – da lui curata al Castello Cinquecentesco de L’Aquila tra luglio e ottobre del 1963 – dimostrano, da parte di Dall’Olio e Lambertucci, «la volontà di sottrarsi alle angustie di un dibattito, come quello italiano, sempre disposto a richiudersi in un cerchio di interessi ristretto e provinciale», indotti – conclude Portoghesi – ad un «atteggiamento riservato e deluso ma non disimpegnato, caratteristico di tanti esponenti di questa generazione».
Ingresso alle aule didattiche e alla biblioteca, accanto al muro curvo dell’aula magna Pagina a fianco In alto: L’infilata dei laboratori di ricerca, comunicanti e divisi da pareti vetrate In basso: Interno dell’aula magna da 300 posti 146
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