Il clima nella casa. Sei case di Harquitectes a Barcellona.

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Il clima nella casa Sei case di Harquitectes a Barcellona

a cura di Francesco Cacciatore e Maria Francesca Lui

Indice

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1101 Casa 1219 Casa 1014

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Prefazione Maria Francesca Lui Mappa
Casa
La paziente ricerca del comfort Edoardo Narne La doppia anima della città Francesco Cacciatore Costruire tra due muri Andrea Boito Sei domande a Harquitectes Maria Francesca Lui Apparati 7 10 12 28 46 66 84 106 127 135 145 151 156
Casa
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Casa 1311 39 Prospetto sud-est Pianta piano terra A fianco: vista della cucina dalla sala da pranzo 0 1 2 5 m 0 1 2 5
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A+U Architecture and Urbanism, II, 2023, p. 4.

presenta altezze diverse in sezione, pur mantenendo fissa la propria larghezza, soluzione architettonica che consente un’espansione della profondità percettiva degli spazi e li caratterizza in termini climatici e geometrici. Dalla corte di ingresso il corpo subisce una forte compressione entrando nello spazio della sala da pranzo e del soggiorno, per poi espandersi una volta usciti nel giardino. Anche qui è l’uso dei materiali a chiarire l’ambiguità tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori. Le stanze interne, compresi gli spazi più privati al piano interrato e ai livelli superiori, si distinguono per le pareti bianche, una scelta che rende gli interni più luminosi, accoglienti e intimi, trasformando il giardino e le corti in una sorta di paesaggio interno.

Una volta attraversata la porzione più “domestica” della casa, dove si svolge la vita quotidiana della famiglia, il giardino interno si presenta come una sorta di Hortus Conclusus, isolato e protetto dall’esterno. Il laterizio grezzo e la vegetazione circostante contribuiscono a definirne l’atmosfera intima e raccolta, mentre la presenza di alti muri di confine lo rendono a tutti gli effetti una stanza a cielo aperto.

Un percorso in ghiaia conduce prima a un portico e poi al secondo blocco orientato a ovest e affacciato su Carrer Miquel Ricomà: una zona secondaria, tranquilla e funzionalmente indipendente dalla prima che, per volontà della committenza, è destinata ad accogliere ospiti occasionali o a fungere da spazio riunioni. Ecco che si accede all’ultima corte, dedicata all’accesso dei veicoli e secondo spazio bioclimatico della casa. Percorrendo da un lato all’altro l’intero edificio, come fosse una si ha la sensazione che ogni scelta, dall’impianto generale all’uso dei materiali e alle decisioni di dettaglio, sia esattamente come dovrebbe essere: essenziale e indispensabile. L’aspirazione dello studio Harquitectes infatti, qui chiaramente visibile, «è organizzare in modo imprescindibile qualsiasi elemento di un’opera, sia esso un rudere preesistente, uno spazio intermedio o l’uso del mattone. Come nei racconti di Jorge Luis Borges: non c’è modo di spostare una parola, nemmeno una virgola. L’idea di precisione e di indispensabilità, che nulla può essere tolto, che tutto è già lì. Alla fine, sono una porta verso un immaginario che non corrisponde a ciò che è scritto. Anzi, incoraggiano questo mondo immaginario a trasformarsi nel mondo reale dell’utente.»4

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5. Cristina Diaz Moreno, Efren Garcia Grinda intervistano Harquitectes, Aprender a vivir de otra manera, in: El Croquis, n.203, 2020. p. 16.
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Sezione del comportamento climatico del patio di ingresso A fianco: il patio ovest 9º-32º 20º-26º 9º-32º 20-26º

Sei

domande a

Harquitectes

(David Lorente Ibáñez, Josep Ricart Ulldemolins, Xavier Ros Majó, Roger Tudó Galí)

Maria Francesca Lui. Lewis Mumford scriveva:

«L’architettura è il rifugio dell’uomo nella natura»1 . Pensate sia cambiato il ruolo dell’architettura come rifugio, specialmente in relazione al binomio uomonatura?

Harquitectes. Credo sia interessante intendere il concetto di rifugio non tanto come un involucro che protegge della natura, quanto piuttosto come un’interfaccia: un elemento in grado di gestire gli agenti esterni per produrre un’esperienza confortevole all’interno. Per questo ci interessa questo disegno di Rudofsky per una casa a Procida, o questo tipo di architettura di Zanuso. Personalmente credo che il libro di Rudofky, Architecture without Architects, abbia generato una certa incomprensione. Dà l’impressione che l’architettura vernacolare sia una cosa preterita, antica. Questo ci impedisce di vederne il potenziale e di utilizzare il passato come un riferimento per il presente; “sincronizzandolo” con la domanda e con le tecniche che oggi possediamo. Ritornando alla domanda iniziale, credo che l’idea di rifugio, sia interessante se intendiamo l’architettura come un mezzo che ci permette di gestire le risorse della natura. E con natura non intendo solo la biosfera, ma anche i fenomeni fisici. Quello che è certo è che a partire dall’era dei combustibili fossili l’uomo iniziò a credere che le risorse fossero infinite e, a partire da questa convinzione, a immaginarsi fuori dalla natura comportandosi come un puro osservatore. Questo atteggiamento si può collegare anche ad un’altra questione più recente: a partire dalla metà del Ventesimo secolo, la vista è diventato il sistema percettivo principale. La vista è istantanea, mentre gli altri sensi necessitano di più tempo. Credo che questo abbia generato un vizio sociale che coinvolge anche gli architetti: abbiamo iniziato a considerare solo l’aspetto visibile dell’architettura. Il comfort, che è una questione percettiva, lo ignoriamo.

MFL. Pallasmaa nel suo libro Gli occhi della pelle spiega molto bene di questo primato della vista. Abbiamo iniziato a disinteressarci di tutto ciò che non è visibile. Allo stesso modo, sono d’accordo sul fatto che il libro di Rudofsky sia stato mal interpretato. Lo vedo in Italia, dove il post-modernismo ha avuto un impatto molto forte. Ha portato ad avere nostalgia di un’immagine, di una forma archetipa.

Cinque domande a Harquitectes 151
1. Lewis Mumford, The Culture of Cities, Mariner Books, Orlando, 1970.
€ 18

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