Il Futuro nella Storia

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INDICE


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MEDITERRANEO Nella luce dell'Attica Tessuto nella pietra maltese

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CRONACHE ITALIANE Un centro nella periferia milanese Visita in fabbrica Un'aula per la sinassi Una biblioteca benedetta Memorie di un futurista (con Marco Biagi) La Montagna disincantata

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ARQUITECTURA IBERICA Un'architettura fatta con “duende” La temperanza dell'architetto Lisboa antiga Nel cuore della Fiesta

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TOUR DE FRANCE Un muro divino Il museo della Maison Rouge “Gioia, silenzio e preghiera” (con Nicola Braghieri) Tous a Lens Au revoir là-haut: un'architettura per la pace Per ricordare l'Enfer du Nord Là, dove incominciò “la novella Storia” Una memoria indelebile


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VERSO NORD “Die Natur in andrem Licht” Wiener skyscraper La scheggia di Londra Greetings from Dublin Un Drakkar nel fiordo

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USA COAST TO COAST La casa di Donna Isabella, Regina di Boston Bohemia Una lanterna trasparente sul “Rinascimento americano” Cowtown, Texas Il richiamo della foresta In the Age of Piano

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COROLLARIO BRASILIANO Scuola paulista: la “terza generazione” (con A. Lorenzi)

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CHINA TALES Le rocce del fiume delle perle Gli inglesi a Waitanyuan Micro-urbanism versus Bigness

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NOTA EDITORIALE

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MEDITERRANEO

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Nella luce dell'Attica Aber hier erkennen wir: es gibt ein Mysterium im vollen Licht. (Ma qui dobbiamo riconoscerlo: vi è un mistero in piena luce.) Hugo von Hofmannsthal, Augenblicke in Griechenland, 1908

Atene, 2016. Secondo un autorevole editore, non si può partire per la Grecia senza mettere in valigia il libro di James G. Frazer (1854-1941) dedicato ai diari di viaggio di Pausania, il mitico geografo d'origine asiatica vissuto nel II secolo d.C. sotto l'Impero Romano. In effetti, se la monumentale traduzione commentata dell'antica Periegesi della Grecia, che l'antropologo scozzese pubblica alla fine dell'Ottocento, ha lasciato un innegabile segno nella storia delle ricerche archeologiche, il suo più agile testo intitolato Pausanias and Other Greek Sketches, datato 1900, ripercorre le cronache dell'autore classico in un emozionante confronto dedicato all'immagine dell'architettura e delle rovine. Il volo per Atene scorre tra queste pagine, dense di scenari seducenti, che tuttavia impallidiscono a contatto con la città, quando il taxi a cui mi sono affidato, dopo aver costeggiato piazza Syntagma e il tempio di Zeus, imbocca l'autostrada diretta alla baia di Falero, tagliando “l'immensa periferia bassa e terrosa” della capitale degli Elleni (come si legge in una “guidina” redatta da Alberto Arbasino Mediterraneo

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ARQUITECTURA IBERICA

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Un'architettura fatta con “duende” Para buscar al duende no hay mapa ni ejercicio. Federico García Lorca, 1933

Madrid, 2009. IL SUV divora la strada verso l'Escorial, mentre una leggera pioggia spolvera il tramonto. Oltre i bordi di Madrid la Sierra norte cancella progressivamente ogni traccia della città: il paesaggio è verdissimo, plastico, scolpito dalle variazioni d'intensità della luce. Ricordo le parole di Maria Zambrano (1904-1991): «la Spagna è paese plastico per eccellenza. Tutto in esso, pietre e acqua, terra distesa in piano o increspata in montagne, scoppia di platicità [...]. Terra che chiede di riprodursi, carica di forza generatrice. E anche la luce. È il nostro supremo mistero, che sentiamo inesauribile» (Algunos lugares de la pintura, Madrid 1991). Al telefono l'autista avvisa qualcuno del nostro arrivo e annuncia l'ingresso nell'elegante tenuta dell'“amatore d'arte” che ha accolto con entusiasmo la mia richiesta di visitare la sua casa, mandando un'auto a prendermi all'uscita del Museo del Prado. L'incontro è molto cordiale, in un soggiorno enorme. Ma soprattutto, sono giganteschi gli oggetti che lo abitano: tre piccoli disegni di Goya sono disposti ordinatamente su un tavolo, “illuminato” da una scultura di Calder, mentre sulla parete l'Inmaculada Concepción niña (1656) di Francisco de Zurbaran attende silenziosa la mia tardiva commozione. Arquitectura Iberica

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progetta edifici tanto familiari negli interni, quanto potenti nell'affermare il ruolo dell'architettura per vivere l'eterno presente della storia, senza l'obbligo di limitarsi a spazzolarne le muffe. La temperanza dell'architetto Cartagena, 2009. Quasi alla fine del Mediterraneo, Cartagena ci accoglie con un vento caldo e secco e un vecchio sottomarino. Lungo il Paseo Alfonso XII, di fronte al porto turistico tra il nuovo Museo di Archeologia Subacquea e l'ingresso all'Arsenale militare, fa bella mostra di sé il pionieristico Submarino progettato da Isaac Peral (1851-1895), ingegnere, navigatore ed eroico figlio della città. La storia di Cartagena è tutta nel suo stretto rapporto col mare. Perciò, il tranquillo volto attuale delle strade e delle piazze, ricche di architetture eclettiche del primo Novecento, nasconde un'anima segreta e un po' burrascosa. Un'insenatura naturale è infatti una posizione strategica per le attività militari. E Cartagena, cresciuta su cinque colli che sorvegliano il suo piccolo golfo, ha avuto un ruolo da protagonista negli eventi che hanno scosso la storia del Mediterraneo, dalla guerra punica alla guerra civile spagnola. Da qui, ovvero da Quart-Hadascht, Annibale parte con i suoi elefanti verso la penisola italica, dieci anni prima della conquista della città da parte di Publio Cornelio Scipione, detto l'Africano, nel 209 a.C. Come racconta Tito Livio, il condottiero romano vince la strenua difesa punica e ispanica solo grazie ai “prodigi degli dei”, che gli suggeriscono il passaggio delle truppe attraverso lo stagno dove rifluisce l'acqua del mare, verso il quale le mura sono meno protette. Scipione battezza la città Nova Carthago e dà un segno di temperanza latina lasciando liberi gli abitanti e i loro beni, compresa una bella principessa aggiunta dai suoi soldati al bottino di guerra. L'episodio ha ispirato numerosi pittori, da Poussin al Tiepolo, e anche i melomani lo conoscono bene per le altrettanto numerose opere 54

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musicali che hanno voluto rappresentare questo esempio di virtù. La storia si ripete, ma senza alcun risvolto etico, il 31 marzo 1939, quando Cartagena, unica base marittima della Repubblica spagnola, è l'ultima città ad arrendersi alla dittatura franchista. È meglio quindi tornare ai Romani, che nella Colonia Urbs Iulia Nova Carthago decidono di costruire un monumentale teatro per 6000 spettatori, con una cavea del diametro di 87.6 m appoggiata a un rilievo e uno scenae frons con un doppio colonnato corinzio. Terminato probabilmente tra il 5 e l'1 a.C. l'edificio subisce gli effetti della distruzione della città da parte dei Vandali nel 425; sulle sue rovine, a partire dal VI sec., si insedia un quartiere commerciale legato al porto a cui va ad aggiungersi, nel XIII sec., la cattedrale di Santa María la Vieja, restaurata nei primi del Novecento e definitivamente distrutta negli anni Trenta durante la guerra civile. Le lezioni sull'archeologia del sacerdote e filosofo Pavel Florenskij (1882-1937), tenute all'Accademia Teologica di Mosca nel 1909-10, ci hanno insegnato a cogliere il valore delle stratificazioni culturali, intese come sovrapposizioni che non sempre si offrono in sequenza cronologica. Il teatro romano di Cartagena rimane sepolto, tra il silenzio delle cronache, fino al 1988, ma molti dei suoi preziosi marmi (gradini, colonne, capitelli e statue), si trovano dispersi nella chiesa e negli edifici dell'antico borgo che nei secoli lo hanno nascosto, custodendone l'antica bellezza. Dopo la scoperta accidentale di alcuni resti, la campagna di scavi inizia nel 1990 e in sette anni porta alla luce il teatro e i suoi elementi costruttivi. Al lavoro degli archeologi si affianca quello di Rafael Moneo, incaricato di progettare un percorso espositivo in grado di valorizzare questo straordinario sito. Finalmente, dal luglio dello scorso anno, a Cartagena possiamo visitare il Museo del Teatro Romano. L'ingresso è sulla centralissima plaza de l'Ayuntamento, a pochi passi dal lungomare, nel Palacio de Riquelme. Da qui, superata la sala che racconta la storia degli scavi, entriamo in una lunga galleria sotterranea piena di reperti che conduce alla base di una torre quadrata alta tre piani. Abbiamo attraversato la calle Muralia Arquitectura Iberica

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VERSO NORD

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“Die Natur in andrem Licht” Se il vetro variopinto è ovunque, negli edifici, nei treni e nei tram che sfrecciano veloci, nei veicoli aerei e acquatici, allora dai colori del vetro si sprigionerà indubbiamente in gran copia una nuova luce, sicché si potrà ben dire che la natura ci appare sotto altra luce. Paul Scheerbart, Glasarchitektur, 1914

Francoforte, 2010. È primavera a Francoforte e il Palmengarten scoppia di colori. Il giardino botanico della città, inaugurato nel 1871 grazie all'architetto Heinrich Siesmayer, che redige il progetto e finanzia la realizzazione, distribuisce fiori di tutti i tipi lungo i 29 ettari del suo terreno: rose, tulipani, rododendri, giacinti, azalee, narcisi, disegnano un percorso colorato che emoziona anche i più insensibili agli spettacoli della natura. Mentre, per gli appassionati, le serre del Tropicarium e la Palmenhaus, sono una meta irrinunciabile per ammirare le splendide piante tropicali. Una pausa naturalistica è quel che ci vuole per il turista-architetto che, dall'adiacente Grüneburgpark, ha appena costeggiato la gigantesca sagoma curvilinea del Poelzig-Bau. L'edificio, dopo il restauro, oggi ospita uno dei campus della Goethe Universität, ma nelle storie dell'architettura è più noto come sede della I.G. Farben industrie, realizzata da Hans Poelzig tra il 1928 e il 1931 per la famigerata azienda chimica che forniva il gas letale ai campi di Verso Nord

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con le più aggiornate prescrizioni normative dell'energy and environmental design e in futuro raddoppiato, trasforma il quieto skyline imperiale di Vienna con un movimento sinuoso, puntato verso le colonne “traianee” della Karlskirche, per definire il simbolo di quella “Azione Parallela” che i capitali di tutto il mondo hanno recentemente lanciato nell'arcipelago immobiliare della vecchia e affaticata Europa. Ma una nota finale merita il tema della “piegatura”, sul quale Perrault sta lavorando con ammirevole impegno, anche per tenersi a prudente distanza dalla ricerca del rivestimento “ad effetto” praticata fino alla noia nell'architettura contemporanea. La piega, come ci ha insegnato Deleuze, rappresenta l'illusione infinita dell'universo barocco: «Il Barocco produce di continuo pieghe. Non è una novità assoluta [...]. Ma il Barocco curva e ricurva le pieghe, le porta all'infinito, piega su piega, piega nella piega. Il suo tratto distintivo è dato dalla piega che si prolunga all'infinito». E, come scrive il geniale filosofo, lo spirito barocco torna, “si proietta al di là, in ogni tempo e in ogni luogo”, ogni volta che le pieghe della materia e dell'anima disegnano le scenografie della vita. Così accade, secondo Deleuze, nell'architettura moderna, in “Gropius o Loos” e persino nel “Le Corbusier nell'abbazia di La Tourette”. Detto ciò, produrre pieghe nelle facciate di un grattacielo, bandiera dell'eterna sfida alla stabilità strutturale, potrebbe essere un'operazione legata allo “spirito del nostro tempo”, consumato dalle tensioni della Krisis. Oppure definire, in una lettura critica più disciplinare, un gesto destinato a catturare l'attenzione sulla teoria dell'origine tessile dell'architettura, espressa qui a Vienna dalla magistrale lezione wagneriana. Eppure, le interpretazioni che ho accennato non riescono a convincermi del tutto. Tornando alla fermata della metropolitana, passando per il parco, vedo una coppia di ciclisti fermi a fotografare la DC Tower 1. Mi avvicino e, nel mio tedesco “da spiaggia”, 108

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chiedo un parere sul grattacielo. Nella secca risposta di uno di loro, colgo il termine “Kurios”. Come posso dargli torto? Ma se questo è il senso dell'architettura, nel cuore di una metropoli occidentale, allora non siamo più in grado di respingere la critica di Sedlmayr all'arte moderna: la “perdita del centro” continua ad accompagnare il nostro lento e inesorabile tramonto. La scheggia di Londra I'm leaving because the weather is too good. I hate London when it's not raining. Groucho Marx

Londra, 2012. “In epoca contemporanea Londra si è sviluppata di pari passo con la crescita dell'impero fino a costituire il più grande agglomerato urbano del mondo. Tale sviluppo è stato caratterizzato da sei fasi: a) insediamento originario; b) accampamento romano - Londinium; c) declino durante l'epoca sassone; d) centro urbano medievale; e) crescita graduale fino alla rivoluzione industriale; f ) rapida espansione capitalistica fino ai nostri giorni. [...] Lo sviluppo di Londra è strettamente connesso alla specificità della localizzazione geografica giacché la città occupa un punto strategico rispetto all'Europa: le rotte commerciali verso l'Occidente passano infatti per i suoi porti, Liverpool e Southampton; essa rappresenta, inoltre, il cuore dell'impero britannico”. Inizia così lo scritto introduttivo al Master Plan for London, redatto nel 1938 e pubblicato su The Architectural Review nel gennaio 1942 da due esuli ebrei in fuga dalla Germania nazista: l'architetto Arthur Korn (1891-1978) e l'ingegnere Felix J. Samuely (1902-1959), che in quegli anni a Londra sono tra gli animatori del Town Planning Committee del Modern Architectural Research Group (MARS Group), la costola inglese dei Congrès Internationaux d'Architecture Moderne (CIAM). Verso Nord

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