Patrimoni inattesi

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25 Collana Alleli / Research Comitato scientifico Edoardo Dotto (ICAR 17, Siracusa) Nicola Flora (ICAR 16, Napoli) Antonella Greco (ICAR 18, Roma) Bruno Messina (ICAR 14, Siracusa) Stefano Munarin (ICAR 21, Venezia) Giorgio Peghin (ICAR 14, Cagliari) I volumi pubblicati in questa collana vengono sottoposti a procedura di peer-review

Questo volume è il risultato della ricerca svolta in occasione del convegno “Patrimoni Inattesi.Il riuso delle ex-carceri: possibilità e potenzialità” tenutosi il 13 Ottobre 2017 presso l’ex-carcere di Sant’Agata a Bergamo (Italia) promosso dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano in collaborazione con il progetto Europeo TRACES e il supporto dell’Associazione MAITE, con il patrocinio del Comune di Bergamo – Assessorato alla Riqualificazione Urbana, Edilizia Pubblica e Privata, Patrimonio Immobiliare. TRACES – Transmitting Contentious Cultural Heritages with the Arts. From intervention to co-production, è un progetto di ricerca triennale finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 con Grant Agreement No 693857.

ISBN 978-88-6242-310-6 Prima edizione Settembre 2018 © LetteraVentidue Edizioni © Francesca Lanz © I rispettivi autori È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. Progetto grafico: Francesco Trovato Impaginazione: Stefano Perrotta LetteraVentidue Edizioni Srl Via Luigi Spagna 50 P 96100 Siracusa, Italy www.letteraventidue.com


a cura di

Francesca Lanz

patrimoni inattesi riusare per valorizzare

ex-carceri: pratiche e progetti per un patrimonio difficile


Indice UN PATRIMONIO DIFFICILE

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Ambiente costruito, heritage e adaptive reuse Trasformare per conservare, riusare per valorizzare Francesca Lanz

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Il fascino perturbante dell’architettura carceraria Luca Basso Peressut

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L'edificio pubblico abitato: il carcere Marella Santangelo

79

L'architettura del carcere Da spazio di detenzione a luogo di relazione Andrea di Franco

99

Attraverso il muro Strategie di elaborazione ed esibizione della memoria Elena Montanari

117

Le ex-prigioni come siti di dark turism Diane Urquhart

OLTRE IL CARCERE

137

La quadratura del cerchio Riflessioni sulle tracce dei resti del carcere di Long Kesh/Maze nell’Irlanda del Nord Martin Krenn e Aisling O’Beirn

167

Le Murate: esperienze di riapproapriazione Valentina Gensini

187

Memorie dissonanti nell’area ex-sovietica Il caso della musealizzazione degli ex-Gulag Maria Mikaelyan

203

Carcere specchio della società e identità civile del territorio Dalle carceri giudiziarie “Le Nuove” di Torino ai percorsi storico-museali Felice Tagliente


215

Biblioteca vivente Oltre le mura Cristian Zanelli

229

Opere d’arte contemporanea in un ex carcere Il caso del castello di Rajhenburg Alenka Pirman

RIUSO E PROGETTO 245

L’intervento sull’esistente come “ri-scrittura” dello spazio Gennaro Postiglione

253

Adaptive reuse: tra restauro e progetto Fernando Vegas e Camilla Mileto

277

Il carcere liberato Forme e storie di (ri)appropriazione Francesco Lenzini

291

Sant’ Agata Perdersi per immagini Giovanni Emilio Galanello

309

Storia della riappropriazione di un rimosso urbano Francesca Gotti

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Le persone dietro al riuso e ai beni comuni Approccio rigenerativo dell’ex carcere di Sant’Agata a Bergamo (ExSA) Pietro Bailo e Gloria Gusmaroli

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Ripensare S. Agata dall’interno Esperienze di didattica Lucia Frescaroli, Michela M. Grisoni e Angela Squassina


«L’heritage è tale perché è soggetto a dinamiche di gestione e preservazione/conservazione, non perché semplicemente “esiste”. Questo processo non si limita a “trovare” siti e luoghi da gestire e proteggere. È esso stesso un processo culturale costitutivo che identifica quelle cose e luoghi a cui poter attribuire un significato e un valore come “patrimoni” rispecchiando valori sociali culturali e contemporanei, dibattiti e aspirazioni»1.


AMBIENTE COSTRUITO, HERITAGE E ADAPTIVE REUSE TRASFORMARE PER CONSERVARE, RIUSARE PER VALORIZZARE Francesca Lanz

Ad apertura di questo saggio ritengo necessaria una precisazione relativa ad alcune scelte terminologiche e linguistiche che lo caratterizzano fin dal suo titolo e che rispecchiano in un qualche modo i suoi presupposti teorici, la tesi a esso sottesa e la sua relazione con gli altri saggi raccolti in questa pubblicazione. Tra queste, soprattutto, la preferenza per l’utilizzo della parola heritage alla sua traduzione italiana “patrimonio”. Pur conscia dei limiti di questo termine anglofono, spesso ritenuto problematicamente sfuggente e troppo generico per essere analiticamente valido2, credo che in questo caso proprio per la sua capacita di generare molteplici associazioni, il concetto di heritage possa essere una categoria critica per sviluppare una riflessione su alcune questioni emergenti in merito alla valorizzazione dell’ambiente costruito e al ruolo del progetto architettonico. La stessa apertura e indeterminatezza che lo rendono oggetto di critica, infatti, permettono in questo contesto di articolare alcune riflessioni in maniera più libera e svincolata da caratterizzazioni disciplinari rispetto al termine patrimonio che, soprattutto in ambito italiano, è profondamente radicato e codificato. 1

1. «Heritage is heritage because it is subjected to the management and preservation/ conservation process, not because it simply “is”. This process does not just “find” sites and places to manage and protect. It is itself a constitutive cultural process that identifies those things and places that can be given meaning and value as “heritage”, reflecting contemporary and cultural social values, debates and aspirations». Smith Laurajane, Uses of Heritage, Routledge, Abigdon, 2006, p. 3. 2. «[Heritage is] a slippery concept, infamously hard to pin down in a terminal and universal definition (although there have been many attempts), and hard to extricate completely from other scholarly concepts such as memory, not so much in the psychological sense as in its ‘social’ and ‘collective’ iterations, uses of the past, and – even – history». Whitehead Christopher e Bozoğlu Gönül, Heritage and Memory in Europe: a review of key concepts and frameworks for CoHERE, online: http://cohere-ca.ncl. ac.uk/#/grid/319, 23rd June 2017.

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01 – Un patrimonio difficile

L’idea di patrimonio, patrimony o patrimoine rimanda infatti, anche etimologicamente, all’idea di un qualcosa che possiede un valore intrinseco: un “bene”, tramandatoci dai nostri avi, patres, ed ereditato dal passato – uno, singolo e condiviso – con il dovere di preservarlo per le generazioni future. Multiplo e complesso, plurale, aperto a diverse interpretazioni, contingente, spesso controverso e imprescindibilmente interconnesso con il suo contesto sociale, politico e culturale, il concetto di heritage invece, presuppone una dimensione critica e politica predominante. Questa re-interpretazione dell’idea di patrimonio nasce in seno ai cosiddetti critical heritage studies, che si sviluppano prevalentemente in abito anglosassone a partire dagli anni Novanta3 nel solco delle scienze sociali e umanistiche. Ancor oggi oggetto di una continua ridefinizione, questa idea di heritage4 ha le sue radici proprio nella messa in discussione di un’idea di “patrimonio” come qualcosa di statico, costituito da beni – per lo più tangibili, di natura storico-artistica – il cui valore risiede soprattutto nella loro “antichità” e in base a una serie di categorie e canoni ufficialmente prestabiliti in maniera top-down e considerati da preservare essenzialmente attraverso un processo di conservazione “come erano e dove erano”. Quella che si viene a delineare come risposta alternativa a questo modo di intendere e trattare il patrimonio è un’idea di heritage come «processo culturale costitutivo»5, radicato nel presente, contingente, informato da istanze sociali e culturali contemporanee e variamente intrecciato con questioni di memoria e identità, equilibri e relazioni di potere, senso di appartenenza e attaccamento, pratiche di appropriazione e disconoscimento e politiche relative a cosa dimenticare e cosa invece ricordare. Un processo di past-presencing6, una 3. Cfr. Lowenthal David, The past is a foreign country, Cambridge University Press, Cambridge (UK),1985. 4. La bibliografia è molto vasta, si rimanda qui ad alcune selezionati pubblicazioni di riferimento. Lowenthal David, op. cit.; Smith Laurajane, Uses of Heritage, op. cit.; “International Journal of Heritage Studies”, 18: 6, 2012 (numero monografico); Harrison Rodney, Heritage: Critical Approaches, Routledge, Abingdon, 2012; Logan William, Nic Craith Máiréad e Kockel Ullrich (a cura di), A Companion to Heritage Studies,Wiley, Hoboken(New Jersey, USA), 2015. 5. Smith Laurajane, Uses of Heritage, op. cit. p.6. 6. Inteso come portare il passato nel presente attraverso azioni che implicano un più o meno conscio processo di memoria. Macdonald Sharon, Memorylands: Heritage and

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In quanto studiosa formata come architetto e ricercatrice nei campi della museografia e dell’allestimento, mi sono trovata sempre più spesso a riflettere su quale potesse essere l’apporto di una tale prospettiva critica relativa al patrimonio rispetto alla teoria e alla pratica architettonica, soprattutto in relazione al tema fondamentale dell’intervento sull’ambiente costruito e del rapporto con la preesistenza storica. Se assumiamo che il patrimonio non è tale a priori, ma è costruito e prodotto in relazione al «lavoro culturale» che esso può fare nel presente e in virtù di processi di «gestione e preservazione/conservazione»8 cui è soggetto, quale è il ruolo delle politiche urbane, della progettazione urbanistica e della conservazione architettonica in questo processo di “formazione” del patrimonio, di heritage making? E come, d’altra parte, questo approccio all’idea stessa di patrimonio può contribuire a ripensare l’intervento sull’ambiente costruito e a sua volta influenzare o informare il progetto architettonico? Questo saggio si propone di sviluppare alcune riflessioni proprio a partire da queste premesse per riflettere in particolare sul possibile contributo e le reciproche influenze tra i più recenti studi sviluppati nell’ambito dei critical heritage studies da un lato e la teoria e la pratica dell’adaptive reuse dall’altro.

Francesca Lanz - Ambiente costruito, heritage e adaptive reuse

selezione e appropriazione dal passato, nel presente per il futuro, pertanto per natura trasformativo e che quindi, di per sé, non offre garanzia di conservazione7 tradizionalmente intesa. Sulla scorta di questi studi sono emerse e si sono sviluppate negli anni nuove linee di ricerca e di pensiero, che stanno variamente contribuendo ad ampliare il campo degli heritage studies aprendoli a svariati apporti teorico-critici, al contributo di diverse discipline e alla possibilità di indagare differenti “tipi” di patrimoni in virtù dei diversi significati che attorno a essi possono essere articolati al di là del cosiddetto AHD (Authorised Heritage Discourse).

Identity in Europe Today, Routledge, London and New York, 2013. 7. Ci si riferisce qui alla lezione tenuta dal professor Rob van der Laarse in occasione del secondo Seminario del progetto CHEurope, tenutosi dal 16 al 19 gennaio 2018, presso la AHM della University of Amsterdam. 8. Smith Laurajane, Uses of Heritage, op. cit. p.6

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01 – Un patrimonio difficile

Il carcere di Santo Stefano in Ventotene, vista della prigione, con il corpo centrale in primo piano. Foto di Gaucho (CC BY-SA 3.0).

Questi ragionamenti verranno poi declinati in relazione al caso specifico del riuso delle ex-carceri, oggetto di questo pubblicazione, con particolare attenzione alla situazione italiana come esempio emblematico di un patrimonio culturale negletto, spesso abbandonato e difficile, per il quale urge l’identificazione di strategie sostenibili di conservazione e valorizzazione. L’idea alla base di questo scritto è che il concetto di heritage e le teorie ad esso sottese, possano fornire interessanti spunti per ripensare il riuso come una modalità di intervento critico sull’esistente e gli interventi di adaptive reuse, come pratiche di heritage making e come una possibile ed efficace strategia di preservazione, valorizzazione e comunicazione dell’ambiente costruito. Adaptive reuse: tra tradizione e istanze contemporanee Oggi uno dei settori più attivi e promettenti a livello professionale e della ricerca architettonica è quello del riuso e riqualificazione di edifici inutilizzati o sottoutilizzati, noto per lo più con il termine molto in voga di adaptive reuse. In realtà, soprattutto in Europa occidentale, la questione della relazione tra progetto

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Francesca Lanz - Ambiente costruito, heritage e adaptive reuse

e preesistenza è sempre stata centrale nella teoria e pratica architettonica e del restauro. In particolare, il dibattito sul tema di quello che oggi definiremmo come “riuso”, ha subito un’intensificazione e una svolta a partire dagli anni Sessanta e Settanta9 nel contesto socio-culturale ed economico del secondo dopoguerra, svincolandosi gradualmente – anche se non completamente – da questioni strettamente inerenti a problematiche di restauro e superando, anche se solo in parte, il dualismo nuovo intervento versus conservazione. Se guardiamo al caso italiano, sono questi gli anni della ricostruzione post-bellica, del “miracolo italiano”, del boom edilizio e della nascita e sviluppo dell’industria e del design made in Italy; condizioni che costituiscono a loro volta il contesto per la realizzazione di alcuni tra gli interventi sul patrimonio architettonico nel nostro Paese più noti, innovativi ed eccezionali. Si tratta di progetti a opera di maestri come Carlo Scarpa, i BBPR, Franco Albini, Ignazio Gardella, Carlo Mollino, Liliana Grassi. Il loro lavoro non solo rappresenta ancora oggi un fondamentale punto di riferimento ed eccellenza nella cultura architettonica italiana, ma ha portato all’affermarsi di un approccio progettuale di intervento sulla preesistenza basato su un’idea di restauro critico, non scevro di problematicità, ma che certamente è ancora oggi un elemento fondamentale della tradizione architettonica e museografica italiana e che può essere condivisibilmente definito come «il contributo più originale che la nostra architettura può fornire alla formulazione di un linguaggio architettonico europeo»10. Inoltre, il loro lavoro ha aperto la strada a quello di altri progettisti come Giorgio Grassi, Gabriella Ioli e Massimo Carmassi, Andrea Bruno, Guido Canali, Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni e molti altri, che ancora oggi animano e arricchiscono il panorama architettonico nazionale. 9. Una trattazione dell’evoluzione del pensiero e del dibattito in merito al tema del rapporto con la preesitenza esula dagli scopi di questo saggio così come ci pare poco utile tentare di selezionare qui una bibliografia essenziale sull’argomento. Si rimanda quindi al sintetico ma efficace testo di Plevoets Bie e Van Cleempoel Koenraad, Adaptive reuse as a strategy towards conservation of cultural heritage: A literature review, in Brebbia Carlos A. e Binda Luigia (a cura di), Structural Studies, Repairs and Maintenance of Heritage Architecture XIII, WIT Press, Southampton (UK), 2011, pp. 155–164 10. Forino Imma, Cultura del Recupero e Cultura dello Sviluppo, in Op. cit. Selezione della critica d’arte contemporanea, no. 114, 2002, pp. 31–38.

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01 – Un patrimonio difficile

Forte di Favignana Vista del forte di Favignana, utilizzato come carcere fino al 1860 e poi abbandonato. Documentazione fotografica per il concorso di idee Art-Prison.

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Francesca Lanz - Ambiente costruito, heritage e adaptive reuse

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E, se la prigione assomiglia agli ospedali, alle fabbriche, alle scuole, alle caserme, come può meravigliare che tutte queste assomiglino alle prigioni?1.


IL FASCINO PERTURBANTE DELL’ARCHITETTURA CARCERARIA Luca Basso Peressut

La Old Gaol di Melbourne fu costruita nel 1864 seguendo l’allora consueto impianto con gallerie a raggiera attorno a un corpo centrale. La prigione era usata per ospitare prigionieri a breve termine, ergastolani, “lunatici” e alcuni dei criminali più noti e incalliti della colonia britannica, ed è famosa per essere stata, l’11 Novembre 1880, teatro dell’esecuzione di Ned Kelly. Rapinatore, ladro di bestiame e assassino Ned Kelly è un personaggio diventato quasi mitico nella storia dell’Australia, per l’aura di vendicatore delle ingiustizie sofferte, per mano della polizia, dagli abitanti più poveri della colonia britannica di Victoria e reso famoso a livello internazionale da un film del 1970, diretto da Tony Richardson e con protagonista il cantante Mick Jagger. Dismessa nel 1929 e parzialmente demolita, la Old Melbourne Gaol è oggi museo di sé stessa. La visita inizia dalla testata di una delle due ali rimaste, attraverso un portale che introduce a una stretta e alta galleria, marcata da due ordini di ballatoi che disimpegnano le celle: uno spazio in penombra, quasi la navata di una chiesa romanica dove lo sguardo corre verso la luminosa parte opposta, sotto la lanterna su cui si intesta -a formare un mezzo transetto- l’altra galleria superstite. Qui è in mostra l’”iconostasi” della forca su cui fu impiccato Ned Kelly con le “reliquie” dell’armatura e dell’elmetto di metallo realizzati artigianalmente e che Kelly indossava quando ebbe lo scontro a fuoco con i poliziotti che 1

1. Foucault, Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1993, p. 247 (ed. or. Surveiller et Punir. Naissance de la Prison, 1975).

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01 – Un patrimonio difficile

Old Melbourne Gaol. Henry Ginn, 1851-1864. Vedute della galleria con le celle e i ballatoi. Old Melbourne Gaol. Henry Ginn, 1851-1864. Veduta dal basso della lanterna.

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Luca Basso Peressut - Il fascino perturbante dell’architettura carceraria

L’impiccagione di Ned Kelly in una stampa del 1880.

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The Circle, 2000


Everybody saw the monitors. They were mounted high on the wall. They were static monitors and only recorded one image. They monitored the front door, the sides of ‘The Circle’, right around the whole area. That particular monitor was no. 2, but there could be anything up to 6 monitors. There was also a secure room where a prison officer sat all the time monitoring the whole Circle because that was the hub of the administration block for the whole H Block. He was locked in there, so if anything happened, if the prison officers were overpowered or there was any sort of incident, he’s within, he cannot be touched. He would hit the alarm. Within a few seconds, it would sound across the whole camp. The monitor recorded one image continually which eventually became burnt into it. There is also a black, blurred shape visible on it because prison officers did the same route over and over again for years. It must be them moving across, simply because they did it so often over the years. They look like ghosts, you can actually see it on screen. Testimony courtesy republican contributor, artefact courtesy Eileen Hickey Irish Republican History Museum, Belfast. Description: Box-shaped Panasonic Video B&W security monitor, glass vacuum tube, metal and plastic control nobs, moulded plastic housing, yellow sticker.

Tutti vedevano i monitor. Erano installati sulla parte alta del muro. Erano monitor fissi e registravano solo un’immagine. Sorvegliavano l’ingresso principale, i lati del “Circle”, e attorno all’intera area. Questo monitor in particolare era il numero 2, ma potevano esserci fino a 6 schermi. C’era anche una sala di controllo dove un ufficiale carcerario stava seduto tutto il tempo a sorvegliare l’intero Circle perché quello era il centro amministrativo di tutto l’H Block. Era chiuso a chiave li dentro, in modo che, se fosse successo qualcosa, se gli agenti di custodia fossero stati sopraffatti o se fosse successo un qualche tipo di incidente, lui non potesse essere toccato. Avrebbe dato l’allarme. Nel giro di pochi secondi, avrebbe risuonato in tutto il campo. Il monitor registrava un’immagine in continuazione che alla fine si è impressa di di esso. C’è anche una sagoma nera, sfuocata che è visibile perché le guardie carcerarie hanno sempre fatto lo stesso percorso ripetutamente per anni. Quella figura devono essere loro che attraversano lo spazio, semplicemente per il fatto che lo hanno fatto in continuazione nel corso degli anni. Sembrano dei fantasmi, lo puoi vedere proprio sullo schermo. Testimonianza per gentile concessione di un partecipante repubblicano, manufatto per concessione del Eileen Hickey Irish Republican History Museum, Belfast. Descrizione: Monitor di sorveglianza scatolare Panasonic Video B&W, tubo a vuoto in vetro, manopole di controllo in metallo e plastica, alloggiamento in plastica stampata, adesivo giallo.


Big Mid’s Dart Board 1974


This dartboard* was probably sent out from Long Kesh in end of 1974 or 1975. It says at the bottom “From Martin, with respect”. His full name was Martin Meehan and he was a great man with his fists, as he was a boxing champion. Martin Meehan would be among the last few internees to be released because he had such a big name in republican circles. He and certain other people were let out last, for whatever reason. The British obviously thought that up. A guy called ‘Big Mid’ has given the dartboard to us. I said to Aldo, who brought it in, ‘could you give me an address and ‘Big Mid’s name so that I can let him know that we’d received it and put it on show in the museum’. But he did not give me the name and replied ‘just call him Big Mid’. There must have been major security surrounding ‘Big Mid’. Apparently, this guy is very well-known in Ardoyne. * The Andy Tyrie Interpretive Centre also have a dartboard made by a loyalist using the same technique. Testimony courtesy republican contributor, artefact courtesy of The Roddy McCorley Society Museum. Materials: Coloured metallic threads, lollypop sticks, green baize, metal chain, panel pins & plywood.

Questo bersaglio* per freccette probabilmente è stato portato fuori da Long Kesh alla fine del 1974 o nel 1975. In basso si legge “Da Martin, con rispetto”. Il suo nome completo era Martin Meehan, ed era un grande con i pugni, dal momento che era stato campione di box. Martin è stato tra gli ultimi reclusi a essere rilasciato per la sua grande reputazione negli ambienti repubblicani. Lui e certe altre persone vennero rilasciati per ultimi, con una scusa qualunque. Gli inglesi, ovviamente, l’avevano pianificata. Il bersaglio ci è stato dato da un ragazzo chiamato “Big Mid”. Io dissi ad Aldo, che lo portò al museo, «potresti darmi un indirizzo di “Big Mid” così gli posso far sapere che lo abbiamo ricevuto e che lo metteremo in mostra nel museo?». Ma lui non mi diede alcun nome e mi rispose «chiamalo semplicemente “Big Mid”». Ci deve essere qualche sicurezza che circondava “Big Mid”. Sembra che questo ragazzo sia molto noto ad Ardoyne. * Anche l’Andy Tyrie Interpretive Centre possiede un bersaglio per freccette fatto da un lealista utilizzando la stessa tecnica. Testimonianza per gentile concessione di un partecipante repubblicano, oggetto per concessione del Roddy McCorley Society Museum, Belfast. Materiali: Fili metallici colorati, bastoncini di lecca-lecca, panno verde, catena di metallo, chiodini da legno e compensato.



SANT’AGATA PERDERSI PER IMMAGINI

Giovanni Emilio Galanello

Nel cuore della Città Vecchia si nasconde Sant’Agata, un labirinto in cui corridoi, stanze e storie si inseguono e si intrecciano. Il manufatto è stato escluso dalla Storia della Città, le sue tracce assorbite dal tessuto urbano. Gli spazi al suo interno appaiono frantumati, non unitari, e solo la luce che penetra dalle alte finestre ne svela i caratteri, stanza per stanza, frammento per frammento. Questo racconto fotografico non cerca di tracciare un percorso; al contrario, registra l’incertezza nel trovare un orientamento e un ordine degli spazi di Sant’Agata.

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03 – Riuso e progetto


Giovanni Emilio Galanello - Sant’Agata

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03 – Riuso e progetto


Giovanni Emilio Galanello - Sant’Agata

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STORIA DELLA RIAPPROPRIAZIONE DI UN RIMOSSO URBANO Francesca Gotti

Vicolo Sant’Agata è una piccola traversa del corso principale del centro storico di Bergamo, sulla collina. L’agglomerato di edifici raccolto dalle mura veneziane è un organismo cesellato in cui ogni sfaccettatura è compenetrata con le altre, in cui i confini dei singoli elementi svaniscono. Così il vecchio Carcere Sant’Agata in fondo al Vicolo scompare, nella grandezza della sua struttura inabissata tra le mura delle case circostanti. Scompare anche perché ha smesso di essere qualcosa. Ci sono frammenti del nostro orizzonte quotidiano che si trovano in uno stato di indeterminatezza: rimossi dalla percezione collettiva, poiché privi di una connotazione ufficiale o definiti marginali, essi appaiono immobili, svuotati, abbandonati. Vi sono luoghi nelle città che sono dimenticati, errori e avanzi che sono rimasti esterni alle dinamiche urbane, convertiti in aree che sono semplicemente dis-abitate, in-sicure, im-produttive; quei luoghi che Morales definisce come terrain vagues, «i margini della città, che mancano di ogni effettiva inclusione», quelle «isole interne svuotate di attività»1. Questi siti sono la testimonianza del procedimento di esclusione che la società opera nei riguardi di aree compromesse, legate a memorie dolorose, che rappresentano un fallimento o che non riescono a essere classificate. Svuotati di una funzione, vengono obliati e con essi dimenticate le persone che li hanno vissuti o li vivono ancora; le esperienze a essi legate, radicate ma vulnerabili, vengono cancellate senza che ci sia la possibilità di 1.de Solà Morales Ignasi, Terrain Vague, in “Quaderns”, n.212, 1996, p.38-39.

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03 – Riuso e progetto

svilupparle o di imparare da esse significative relazioni sociali, ambientali, culturali. Osservando i transiti e le modalità di riappropriazione dei luoghi rimossi si può leggere una duplice natura, in taluni casi legata a una necessità e in altri a una intenzionalità. Vi sono collettivi o singoli individui che ri-abitano questi luoghi nel senso primario del termine, che ne fanno le loro dimore e li trasformano in spazi di incontro (senzatetto, comunità nomadi, gruppi di persone emarginate)2. Diversamente, c’è chi sceglie di ri-colonizzare questi terreni per coniugare la restituzione alla città di uno spazio dimenticato con il desiderio di innestarvi esperienze collettive (sociali, artistiche, culturali)3. Il terrain vague diventa sedime di sperimentazione, espressione di un bisogno di contaminazione e ibridazione: ibridazione tra discipline, culture, pratiche, espressione di una dimensione spontanea. Quando le dinamiche di riqualificazione urbana muovono questi luoghi verso una nuova funzione e forma, muovono con essi i contenuti e le relazioni che li attraversano, riconfigurandoli. Le memorie, la storia, gli abitanti, gli occupanti, i tracciati, le strutture, i materiali vengono amalgamati, talvolta recisi, cancellati, ricollocati. Il monumentale complesso di Sant’Agata è stato un monastero, un carcere, sarebbe dovuto diventare un albergo e forse sarà un conservatorio. Oggi è un centro culturale. È possibile che continui a essere tutto questo, proiettando il suo passato nelle espressioni presenti e lasciando spazio alle trasformazioni? Le fondamenta dell’edificio posano su antiche tracce romane, sulle quali furono costruite nella prima metà del 900 alcune domus ecclesiae e successivamente una piccola chiesa. Il primo Ordine ad insediarsi ufficialmente a Sant’Agata fu quello dei Frati Gaudenti, intorno al 1260, sostituito dall’Ordine dei Padri Teatini nel 1600 e fino al 1700 il complesso ecclesiastico fu continuamente rimaneggiato attraverso ampliamenti e ricostruzioni, la più significativa ad opera dell’architetto barocco Cosimo Fanzago nel 1630. 2.Angélil Marc, Hehl Rainer, Informalize!, Ruby Press, Zurigo, 2012. 3.Careri Francesco, Walkscapes, Einaudi, Torino, 2006.

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Francesca Gotti - Storia della riappropriazione di un rimosso urbano

Assonometria ex carcere Sant’Agata.

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