Copertina: Fedrigoni Sirio Black da 300gr Interno: Fedrigoni Arcoprint Edizioni 120 gr
ISBN 978-88-6242-169-0 Prima edizione italiana dicembre 2015 © 2015 LetteraVentidue Edizioni © 2015 Jacopo Leveratto È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. L’autore rimane a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare. Finito di stampare nel mese di dicembre 2015 presso lo Stabilimento tipolitografico Priulla S.r.l. di Palermo LetteraVentidue Edizioni S.r.l. Corso Umberto I, 106 96100 Siracusa, Italia
letteraventidue.com
LetteraVentidue Edizioni
officina22
@letteraventidue
Jacopo Leveratto
CittĂ personali
Interni urbani a misura d’uomo
Indice
9 19 23 27 34 49 53 59 69 79 83 89 99 109 114 119 127 137 143 148 156 165 181
Introduzione 1. La proiezione del corpo 1.1. Lo spazio del gesto 1.2. Gusci e impronte 1.3. Articolazioni urbane 2. L’azione del corpo 2.1. Spazi flessibili 2.2. Terminali mobili 2.3. Spazi urbani autocostruiti 3. L’interpretazione del corpo 3.1. Psicogeografie, situazioni e significazioni 3.2. Spazi urbani polivalenti 3.3. Neosituazionismi 4. La mobilità del corpo 4.1. Un-privacy 4.2. L’architettura parassita 4.3. La città generica 5. L’estensione del corpo 5.1. Protesi cognitive 5.2. Spazi urbani sensibili 5.3. Città interiorizzate Città e personalità Bibliografia
Introduzione
Augustus Welby Pugin, 1836, incisione su legno che illustra le capacitĂ di accoglienza di due edifici.
Introduzione
9
T
ra le pagine di Contrasts (1836), il trattato architettonico di Augustus Welby Pugin, si può trovare un’incisione che, probabilmente, sarebbe piaciuta molto a Michel Foucault1. Nella tavola, infatti, si paragonano graficamente due edifici, due tipi di ospizi, uno caratterizzato da un impianto panottico e da un rigore formale di matrice lodoliana, l’altro da un’ampia struttura a corte e da un linguaggio architettonico da pieno Gothic Revival. L’intento, naturalmente, è critico; ma perché non si limiti ai soli caratteri stilistici, al disegno delle due opere si accompagna una specie di didascalia illustrata, in cui si mostra in sequenza quale sia il reale effetto di spazi così diversi sulla vita delle persone. Così, in una serie di immagini che ritraggono le condizioni di internamento, la dieta, l’abbigliamento, la disciplina corporale e la sepoltura degli ospiti, Pugin contrappone l’isolamento e l’abbrutimento a cui condurrebbe inevitabilmente il primo edificio alla pietas religiosa che, invece, anima il secondo. E per farlo, mette semplicemente in relazione la natura spaziale di un edificio con le capacità che mostra di prendersi cura dei corpi di chi vi abita. Come ad anticipare quella connessione diretta fra queste due dimensioni che sarà centrale, più di un secolo dopo, in tutto il pensiero del filosofo francese; l’idea, cioè, che le strutture di potere istituzionale, a partire dal XIX secolo, inizino a radicarsi in profondità nel rapporto che esiste fra la forma dello spazio e il corpo di chi lo vive. O meglio, nel modo in cui l’architettura regola e disciplina il comportamento individuale dei suoi abitanti attraverso una serie di «costrizioni» corporali2. Negli studi di Foucault, infatti, il corpo, rappresenta la materia prima di un’analisi storica delle forme di potere, che abbandona definitivamente il campo politico istituzionale per rivolgersi alle pratiche «molecolari» di assoggettamento interpersonale. I rapporti di potere «operano su di lui una presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, l’obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni»3. Ed è solo grazie a lui che la legge sociale prende forma in una materialità biologica a cui nessuno può sottrarsi. In questo senso, quindi, all’architettura dello spazio sociale viene attribuito un potere decisivo; perché è l’architettura che costringe il corpo, che lo disciplina e che ne determina i rapporti con gli altri corpi, cristallizzando un ordine interpersonale in una forma permanente. Definendo la qualità dello spazio da assegnare al corpo, cioè, l’architettura della città pubblica attribuisce al soggetto la sua posizione sociale; fissandola 1. PUGIN, Augustus Welby, Contrasts: Or, a Parallel between the Noble Edifices of the Middle Ages, and Corresponding Buildings of the Present Day, London, 1836, tav. II. 2. FOUCAULT, Michel, Surveiller et punir: Naissance de la prison, Alcan, Paris, 1975 (tr. it. Sorvegliare e punire: Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976, pp. 213-247). 3. Ivi, p. 29.
La proiezione del corpo 01
18
Città personali. Interni urbani a misura d’uomo
Le Corbusier, 1952, la modulazione del tetto terrazza dell’Unité d’Habitation di Marsiglia.
01. La proiezione del corpo
19
D
urante il suo trentesimo anno d’età, Zarathustra ‒ così come appare nel racconto di Friedrich Nietzsche ‒ decide di abbandonare il proprio villaggio e di dirigersi verso la montagna, per godere del suo spirito nella più assoluta solitudine. Una mattina, però, dopo dieci anni di meditazioni, il suo cuore sembra cambiato e la sua saggezza gli appare inutile in quell’isolamento. Deciso a portare il suo insegnamento agli uomini, il profeta persiano si ferma, allora, nel primo mercato che incontra per diffondere la propria dottrina. E a coloro che si raccolgono per ascoltarlo espone i principi di un’etica del superamento di sé, tesa a liberarli dalle loro aspirazioni mediocri e da quell’idea di un «mondo dietro al mondo», costruita dal pensiero metafisico e dalla religione. L’uomo, infatti, come il bruto prima di lui, è destinato a essere superato da un’entità più elevata; un essere che, nelle sue parole, rappresenta il senso stesso della terra, l’unica dimensione a cui egli deve la sua fedeltà. «Restate fedeli alla terra», è l’invito che rivolge ai suoi spettatori, «e non credete a coloro che vi parlano di speranze soprannaturali»1. Così Zarathustra annuncia la morte di Dio e la fine di ogni speranza trascendente, invitando gli uomini a tornare al sensibile; ad aggrapparsi, cioè, alla realtà materiale di cui ognuno può fare esperienza, nel cammino evolutivo verso il proprio superamento. La via per l’Oltreuomo passa, infatti, per un rinnovato radicamento alla terra, non c’è altra strada. Restare fedeli alla terra significa tornare ad affidarsi alla propria dimensione corporea. Non c’è cammino diverso da quello che passa per la corporeità, perché il corpo è l’unica grande ragione. È appartenenza al mondo, al di fuori del quale non esiste nulla. Solamente il corpo pensa, sente e agisce2. «Io sono corpo e null’altro all’infuori di ciò». Con queste parole che aprono simbolicamente il Novecento, il corpo irrompe sulla scena contemporanea, preparandosi a monopolizzare il pensiero di un secolo. Non come oggetto, però, ma come “corpo vissuto”; come affermazione di un’esperienza corporea, cioè, diversa dalla concezione reificata a cui la società occidentale lo aveva progressivamente ridotto nella certezza un principio veritativo trascendente3. Strappato all’anima, a quell’equivalente 1. NIETZSCHE, Friedrich, Also sprach Zarathustra: Ein Buch für Alle und Keinen, Ernst Schmeitzner, Chemnitz, 1883 (tr. it. Così parlò Zarathustra, Monanni, Milano, 2011, p. 35). 2. «Voglio dir la mia parola agli sprezzatori del corpo. […] Io sono corpo e null’altro all’infuori di ciò, e l'anima è solo una parola per qualche cosa inerente al corpo. Il corpo è un grande sistema di ragione, una cosa molteplice con un senso solo […]. Strumento del tuo corpo, fratello mio, è pur la tua piccola ragione, che tu chiami “spirito”, piccolo strumento e trastullo della tua grande ragione. […] Dietro i tuoi pensieri ed i tuoi sentimenti, o fratello, vi è un maestro più potente, un saggio sconosciuto – che si chiama sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza». Ivi, pp. 66-68. 3. «Sommerso dai segni con cui la scienza, l’economia, la religione, la psicoanalisi, la sociologia di volta in volta l’hanno connotato, il corpo è stato vissuto, in conformità alla logica e alla struttura dei vari saperi, come organismo da sanare, come forza-lavoro da impiegare, come carne da redimere, come inconscio da liberare, come supporto di segni da trasmettere». GALIMBERTI, Umberto, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 1983 (2010), p. 11.