Mass Production Makes A Better World! Che fine ha fatto l’utopia fordista nella Torino contemporanea

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MASS PRODUCTION MAKES A BETTER WORLD! Che fine ha fatto l’utopia fordista nella Torino contemporanea? A cura di Eloy Llevat Soy Luis Martin


66 Collana Alleli / Research Comitato scientifico Edoardo Dotto (ICAR 17, Siracusa) Nicola Flora (ICAR 16, Napoli) Antonella Greco (ICAR 18, Roma) Bruno Messina (ICAR 14, Siracusa) Stefano Munarin (ICAR 21, Venezia) Giorgio Peghin (ICAR 14, Cagliari) I volumi pubblicati in questa collana vengono sottoposti a procedura di peer-review

Il volume è stato pubblicato con il contributo del DIST, Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio del Politecnico di Torino. ISBN 978-88-6242-475-2 Prima edizione Novembre 2020 © LetteraVentidue Edizioni © Testi e immagini: rispettivi autori È vietata la riproduzione, anche parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyrights delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa. Book design: Luis Martin con Raffaello Buccheri LetteraVentidue Edizioni Srl Via Luigi Spagna, 50P 96100 Siracusa, Italy www.letteraventidue.com


A cura di Eloy Llevat Soy Luis Martin

MASS PRODUCTION MAKES A BETTER WORLD! Che fine ha fatto l’utopia fordista nella Torino contemporanea?


Indice


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0 — MASS PRODUCTION MAKES A BETTER WORLD!

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Torino, 2020

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I — TRACCE

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1. Horizontal Torino? di Luis Martin 2. Torino vestita da Torino di Eloy Llevat Soy 3. Macchine produttive di Cristiana Bertone 4. Torino è per tutti o per alcuni? di Agim Enver Kërçuku A. Ex Moi di Ianira Vassallo B. Via Germagnano di Matilde Cembalaio 5. Conflitti e solidarietà di Matilde Porcari 6. Immaginari e politiche di Ianira Vassallo A. Azioni immediate di Lorenza Manfredi 7. Un palinsesto di politiche di Diego Vitello

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II — DISACCORDI

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1. Opacità di Cristina Bianchetti 2. Traversée di Ianira Vassallo 3. Sous les pavés, la plage di Luis Martin 4. Making a world di Alina Salahoru 5. Placche oscure di Michele Cerruti But 6. Azioni modeste di Chiara Sottosanti 7. Fondazioni di Eloy Llevat Soy

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III — INSEGUIRE LA LEGACY

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Autori Bibliografia


0 — MASS PRODUCTION MAKES A BETTER WORLD!


AMSTERDAM, 1931 Mass Production Makes a Better World è uno slogan pronunciato durante i lavori del World Social Economic Planning, convegno tenutosi nell’agosto del 1931 ad Amsterdam. Occasione per la messa a punto di un’idea di planismo che rimbalza avanti e indietro tra Stati Uniti ed Europa. Il convegno diventerà il palcoscenico mondiale per la Taylor Society, per le posizioni di Henry Ford e Thorstein Veblen. O meglio per “il punto di vista degli ingegneri sulla Depressione”: una prospettiva veicolata, negli Stati Uniti, da The New Republic, la rivista liberal su cui scriveva anche John Dewey. In una città che in quegli stessi mesi si appresta, con il piano di Cornelis van Eesteren, a fornire una fondamentale “lezione” all’urbanistica europea. Mass Production Makes a Better World è uno slogan straordinario che contiene ed esprime la vena utopica spesso dimenticata, connaturata al fordismo: la prefigurazione di un mondo nel quale vi saranno più merci, prodotte da tutti e accessibili a tutti. Non è difficile intravedere dietro a quelle parole pronunciate nell’estate del 1931 i contorni della Golden Age dei capitalismi industriali dei decenni dopo la guerra, dotati di efficaci strumenti di regolazione. La crescita continua dell’economia, la terziarizzazione, la diffusione di attività dipendenti o indipendenti non puramente esecutive e non manuali, la crescita della curva dei redditi, sono già tutte dimensioni che individuano un diffuso spostamento verso l’alto delle condizioni di vita. Ma cruciali sono anche gli effetti del welfare state, di cui anche i ceti meno abbienti sono stati destinatari e capaci utilizzatori. Un better world che può far sorridere o rabbrividire, a seconda dell’angolazione che si adotta per osservarlo. Ma che è indubbiamente segno di una modernizzazione inseguita con fiducia e ostinazione. Poi tutto questo si è velocemente concluso, negli incerti anni Settanta, e poi, decisamente, nei primi Ottanta. La deregolazione, il movimento di riflusso del welfare state, la nuova individualizzazione che faceva dire alla Thatcher che “la società non esiste”. Aumenta presto in molti paesi la disuguaglianza sociale, crescono disoccupazione e forme di lavoro atipico e precario. La crisi finanziaria di fine millennio aggrava le cose.




1 — Horizontal Torino? di Luis Martin


I robusti processi di riposizionamento economico che vive l’Occidente negli ultimi decenni del Novecento, con la transizione da un’economia industriale a “un’economia dell’arricchimento” (Boltanski, Esquerre 2019) fanno emergere nuovi temi di progetto all’interno delle discipline che costruiscono le città. La dismissione di ampie aree industriali è vista dalla cultura del progetto come opportunità di rifondare le città attraverso nuovi dispostivi progettuali e nuove politiche attraverso un ritrovato umanesimo. Progetti e politiche guardano al lascito di una produzione che non c’è più – in genere la grande industria, quella sicuramente più visibile – e al capitale fisso che si lascia indietro e smette di osservare quella produzione che era rimasta e che in questi anni si riposizionava, si rivalorizzava, mutava i suoi spazi e modificava ancora i territori in maniera diversa che nel passato. Il caso di Torino, città simbolo del fordismo italiano che a partire dagli anni Ottanta del Novecento viene investita da un processo incrementale di dismissione di ampie aree industriali, a causa della crisi della grande impresa, è esemplare di questo processo in Italia. A partire dagli anni Novanta Torino prova a reinventarsi come tante altre città europee negando il suo passato ed esiliando il suo immaginario industriale. Rivolgendosi ad altre immagini e immaginari egualmente evocativi che segnano fortemente politiche e progetti. Sono le tante Torino pirotecniche, policentriche e politecniche1 degli anni Novanta e dei primi anni Duemila. La crisi iniziata nel 2008 segna uno spartiacque in questo processo. E paradossalmente fa tornare protagonista il sistema manifatturiero torinese, quella parte del sistema economico locale che meglio reagisce in quegli anni decisivi. Un manifatturiero fortemente ridimensionato2 ma ancora centrale e capace di creare

Nel testo “Regimi urbani e modello Torino”, Silvano Belligni e Stefania Ravazzi (2013) definiscono così le tre “intenzioni dominanti”, agende o visioni del Sistema Torino (con questo termine s’intendono le cinque giunte di centrosinistra che hanno guidato la città dal 1993 al 2016 esprimendo in questo arco di tempo tre sindaci: Valentino Castellani, Sergio Chiamparino e Piero Fassino) per la città. Come specificano gli autori sono agende non sempre coincidenti ma tutte riconducibili al paradigma della crescita competitiva e della promozione economica del territorio. 1

Rispetto all’inizio del secolo, comunque, anche a Torino il settore industriale risulta fortemente ridimensionato, con quasi un terzo di addetti in meno (valore in linea con la media nazionale) (Rapporto Rota, 2019). 2

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1 — Opacità di Cristina Bianchetti


Lo spazio della Mass Production, residenziale o produttivo è, nell’immaginario comune, uno spazio anonimo, seriale, ridotto a poche dimensioni e a pochi significati. Fatto di capannoni, strade, parcheggi, recinzioni, entrate, impermeabilizzazioni, con qualche edificio residenziale, qualche campo. È uno spazio caratterizzato da riduzione tipologica e modi semplici di aggregazione: una condizione di omogeneità che potrebbe dirsi indifferente. Il suolo è piatto. L’autonomia del singolo oggetto è slegata dalla condizione in cui è inserito. Già dai tardi anni Cinquanta del Novecento si è prodotta una vastissima letteratura critica che si scaglia contro l’omogeneità (di usi e di valori) dello spazio della Mass Production: spazio nel quale si è sempre o dentro, o fuori; o invisibili, o esposti. Non c’è ombra. Non è uno spazio urbano nella consolatoria varietà umanista che la tradizione novecentesca del disegno urbano attribuisce solitamente a quest’ultimo termine. Tradizione propensa a vedere nei luoghi del lavoro (la traslazione tra Mass Production e luoghi del lavoro non è priva di problemi, ma di senso comune) nodi essenziali di articolazione della vita urbana. E che invece si trova di fronte riduzione tipologica, ripetizione, indifferenza. Così che il progetto solitamente tratta questo spazio cercando di riportarlo ad una condizione “più urbana”: introducendo geometrie, misure, articolazioni, intensità, differenze riconoscibili, qualche volta domesticità. Cercando di adeguarlo a nuovi parametri energetici o ambientali. Pensando di arricchirlo o correggerlo. I manuali si moltiplicano. La correzione non è però il solo orientamento possibile. E le possibili azioni non si muovono tutte nella direzione della prevenzione dei difetti, dell’aggiustamento, della compensazione. Si può accettare il carattere specifico di quello spazio, vederlo come laboratorio del nostro paesaggio contemporaneo. Si possono scavare lì, proprio dove lo spazio è più omogeneo e forte, dei luoghi che provino a spezzarne l’omogeneità, a recuperare ambiguità, ironia e complicazione laddove non ci sono. Luoghi opachi. Un’azione sperimentale che accetta l’omogeneità della Mass Production e al contempo la nega introducendo opacità. Édouard Glissant (2007-2019) utilizza la nozione di opacità opponendola a quella di trasparenza, quel «fondo dello specchio in cui l’umanità occidentale rifletteva il mondo a sua immagine» (ivi:127). Gli spazi della produzione hanno avuto la pretesa di riflettere in modo trasparente il mondo: in questo senso Mass Production Makes a Better World è valido ancora oggi. Affermare

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L’UTOPIA FORDISTA HA LASCIATO DIETRO DI SÉ, NELLE NOSTRE CITTÀ, TRACCE CHE LA RENDONO FACILMENTE RICONOSCIBILE. TANTO DI QUESTE CITTÀ DI OGGI È FRUTTO DI QUELLA IMMENSA SPINTA: LE MERCI SONO CAMBIATE MA GRAN PARTE DELLE FABBRICHE È RIMASTA, I GRANDI SPOSTAMENTI QUOTIDIANI TRA CASA E LAVORO SONO DIVENTATI FLUSSI MENO RIGIDI E PIÙ CAPILLARI MA LE STRADE SONO LE STESSE, LE PRATICHE DEL LOISIR SONO ESPLOSE IN UNA INFINITÀ DI ABITUDINI DIVERSE MA I PARCHI E GLI SPAZI APERTI DEGLI “STANDARD” SONO ANCORA LÌ. LE TRACCE DEL FORDISMO PERÒ NON STANNO SOLO NELLO SPAZIO FISICO CHE È SOPRAVVISSUTO ALL’UTOPIA, MA ANCHE IN QUELLO PRODOTTO SOTTO I NOSTRI OCCHI. LE CITTÀ DI OGGI NON SONO ESTRANEE ALLE PROCEDURE STANDARDIZZATE, ALLE FORMULE INDIFFERENTI ALLE SPECIFICITÀ, ALLA FIDUCIA NELLA QUANTITÀ, AL LINGUAGGIO UNIFORMATO. QUALCOSA È SPARITO, QUALCOSA È MUTATO E QUALCOSA HA SEMPLICEMENTE CONTINUATO AD ESSERE COME PRIMA.

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