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BRUNO ZEVI.100 a cura di / editor ALESSANDRA MUNTONI

BRUNO ZEVI / BRUNO ZEVI 14

“SCRIVERE LA STORIA COL PUGNALE” “WRITING HISTORY WITH THE DAGGER”

Giorgio Ciucci 30

BRUNO ZEVI E LA RIFORMA DEL BIENNIO DELLA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DI ROMA. 1964-1965 BRUNO ZEVI AND THE REFORM OF THE TWO-YEAR COURSE OF THE FACULTY OF ARCHITECTURE OF ROME, 1964-1965

Piero Ostilio Rossi 44 Editoriale / Editorial

ELEMENTI PER LA COSTRUZIONE DELLA CRITICA ARCHITETTONICA ELEMENTS FOR THE CONSTRUCTION OF ARCHITECTURE CRITICISM

LA CRITICA OPERATIVA COME MEDIAZIONE TRA STORIA E PROGETTO, 1971-1979 OPERATIVE CRITICISM BETWEEN HISTORY AND DESIGN, 1971-1979

Alessandra Muntoni 56

Marcello Pazzaglini

PROPOSTA DI UNA PUBBLICAZIONE PERMANENTE PROPOSAL FOR A PERMANENT PUBLICATION

Bruno Zevi - I.C.O.D.A. 68

UNA EREDITÀ VIVA DI BRUNO ZEVI: LA RIVOLUZIONE INFORMATICA IN ARCHITETTURA A LIVING LEGACY OF BRUNO ZEVI: THE IT REVOLUTION IN ARCHITECTURE

Antonino Saggio 76

IL PENSIERO EBRAICO E L’ARCHITETTURA JEWISH THOUGHT AND ARCHITECTURE

Rosalba Belibani


INCONTRI CON / ENCOUNTERS WITH 86

RICORDI DAL LAGO DI COMO, IL CONVEGNO SU TERRAGNI, 1968 MEMORIES FROM LAKE COMO

Franco Purini 96

ZEVI E BOTTONI: L’ULTIMO ATTO DI UNA LUNGA AMICIZIA ZEVI AND BOTTONI: THE EPILOGUE OF A LONG FRIENDSHIP

Giancarlo Consonni, Graziella Tonon 106

ANDRÉ WOGENSCKY VISTO DA BRUNO ZEVI ANDRÉ WOGENSCKY SEEN BY BRUNO ZEVI

Nicoletta Trasi 114

LUIGI MORETTI, UNO DEGLI “ARCHITETTI DI ZEVI” LUIGI MORETTI, ONE OF “ZEVI’S ARCHITECTS”

Roberta Lucente 124

ZEVI E PELLEGRIN: UNA STORIA COMUNE ZEVI AND PELLEGRIN: A SHARED HISTORY

Maurizio Petrangeli 134

BRUNO ZEVI E NOI DEL GRUPPO METAMORPH. (GABRIELE DE GIORGI, ALESSANDRA MUNTONI, MARCELLO PAZZAGLINI) BRUNO ZEVI AND THE METAMORPH GROUP. (GABRIELE DE GIORGI, ALESSANDRA MUNTONI, MARCELLO PAZZAGLINI)

Gabriele De Giorgi


ELEMENTI PER LA COSTRUZIONE DELLA CRITICA ARCHITETTONICA ELEMENTS FOR THE CONSTRUCTION OF ARCHITECTURE CRITICISM di MARCELLO PAZZAGLINI

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runo Zevi intende la critica come valutazione, come giudizio. Per fare questo costruisce una griglia selettiva basata su scelte di campo che verifica in ogni sua applicazione, che ha radici negli eventi della contemporaneità e ne ritrova corrispondenze antiche attraverso un procedimento comparativo. In questa griglia il rapporto tra storia, critica e progetto è strettissimo. È una griglia che nella sua originalità e complessità si confronta con quella dei grandi critici a lui contemporanei: G.C. Argan, C. L. Ragghianti, M. Marangoni, C. Brandi, S. Bettini, L. Mumford, G. K. König, R. Bonelli, F. Menna, L. Benevolo e prima con L. Venturi, le estetiche di B. Croce e F. Wickhoff. Qui ne cogliamo solo alcuni aspetti selezionati con una griglia critica parallela. È necessario per Zevi che il critico individui i momenti di rottura e ricostruzione di esperienze e linguaggi nella produzione architettonica “dal presente alle stagioni remote della protostoria”, ma che individui anche quando quei linguaggi si sono irrigiditi in regole che Zevi definisce classicismi. Contrappone così, nell’epoca a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, gli storicismi dei revivals e dell’eclettismo agli “splendori creativi” dell’Art Nouveau. Ma li contrappone anche ai tre percorsi della modernità: i cubismi (Le Corbusier e l’età dell’informale), gli espressionismi (Mendelsohn e Scharoun), l’architettura organica, che propone come principale scelta di campo sin dalla metà degli anni Quaranta nel suo ritorno in Italia. 4

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or Bruno Zevi, criticism is assessment, judgement – a practice that requires a selective grid he derives from precise positions verified in every application and rooted in contemporary events that resonate with past occurrences through a process of comparison. History, criticism and design closely connect in such grid. In its originality and complexity, Zevi’s grid is comparable with those of his contemporaries – other great critics such as G.C. Argan, C. L. Ragghianti, M. Marangoni, C. Brandi, S. Bettini, L. Mumford, G. K. König, R. Bonelli, F. Menna, L. Benevolo and earlier L. Venturi, B. Croce’s Aesthetics and F. Wickhoff. We are going to explore just some of its aspects selected with a parallel critical grid. For Zevi, critics should identify the moments of disruption and reconstruction of experiences and languages in architectural production “from the present time to the remote ages of protohistory” and, at the same time, recognize when those languages solidify into rules and become what he defines as classicisms. For this reason, he views the historicisms of revivals and the eclecticism of Art Nouveau’s “creative splendors” as opposing sides between the nineteenth and twentieth centuries. In his view, though, both currents conflict with the three trajectories of modernity – cubisms (Le Corbusier and the age of the informal), expressionisms (Mendelsohn and Scharoun), and organic architecture, this latter being the position Zevi mainly supported ever since his return to Italy in the mid-Forties. The construction of his critical grid additionEDITORIAL


La costruzione della sua griglia critica si fonda poi sulla conoscenza del contesto, della produzione architettonica nell’attualità e nel passato, analizzata attraverso una attività editoriale e pubblicistica vastissima caratterizzata dalla collaborazione iniziale ad “A” e a “Metron”. Adotta poi una selezione a maglie larghe con la sua rivista “L’architettura, cronache e storia” (1950-1999) e con le cronache su “L’Espresso” (1954 -1981) per articolarsi parallelamente con testi più selettivi come gli editoriali, i libri di critica, quelli di storia anzi di “controstoria”. Questa capacità di critica è alla base anche della sua attività di promotore culturale in istituzioni come l’APAO, l’INU, l’IN/ARCH, riversata nella didattica a Venezia e a Roma − dove fonda l’Istituto di critica operativa dell’architettura − e nell’uso di mezzi di comunicazione innovativi come la TV. Tra gli strumenti che Zevi utilizza nella costruzione della sua griglia critica, particolarmente importante è l’elenco che adotta non solo come parte di una “metodologia progettuale” ma anche per operare una selezione di eventi, opere, autori, immagini contrapposta ad una classificazione astratta. Per analizzare come lo usa si può prendere in considerazione il suo libro Linguaggi dell’architettura contemporanea (Etaslibri 1993) dove per la selezione di opere e autori specifica i criteri adottati e i “no”. I “no” riguardano le architetture del post-moderno degli anni ‘70 e ‘80 del Novecento ma i “no” riguardano anche l’uso di una selezione per nazionalità, per tipologie o per tendenze linguistiche e globalizzanti, per correnti, per “stili” applicabili in ogni stagione. Nello scegliere 100 architetti e 100 opere costruite tra 1950 e il 1980 in Italia e all’estero, Zevi propone un primo insieme di criteri selettivi tra cui: il grado zero dell’architettura, il “razionalismo antistandardizzato”, l’area in bilico tra razionalismo ed espressionismo, le scomposizioni, “il favoloso mondo degli organici”, l’urbatettura e la paesaggistica, la comunicazione tecnologica e infine «i decostruttivisti» che «hanno avuto l’inestimabile merito di seppellire il post-moderno». I decostruttivisti a partire dal 1988 sono 7: Coop Himmelblau, Zaha Hadid, Rem Koolhaas, Daniel Libeskind, Bernard Tschumi, Peter Eisenman e Frank O. Gehry, cui si aggiungono EDITORIALE

ally relies on the knowledge of the context, of present and past architectural production analyzed through a wide-ranging editorial and journalistic activity, starting with his collaboration with A and “Metron”. Subsequently, he would adopt a looser selection with his journal L’architettura c. e s. (1950) and his “Chronicles” column for “L’Espresso” (1954-1981), complemented by a more selective production – his editorials, and critical and historical, or “counter-historical” books. Such critical skill also served him in his efforts as a cultural promoter within institutions like APAO, INU, IN/ARCH, as well as in his teaching activity in Venice and Rome where he established the Institute of Architecture’s Operating Criticism (Istituto di Critica Operativa dell’Architettura), and in his use of TV, at the time an innovative medium. Zevi relied on a number of tools to build his critical grid, most importantly the lists he adopted not just as part of a “design methodology” but even to select events, works, authors, and images as opposed to abstract classification. A good example of how he used such lists may be found in Linguaggi dell’architettura contemporanea (ETASLIBRI, 1993), a book that detailed the criteria he either adopted or avoided to select works and authors. He avoided 1970s and 1980s post-modern architecture well as a selection based on nationality, typologies or linguistic and globalizing trends, on currents, or “styles” applicable to any season. Zevi proposed a first group of criteria to select 100 architects and 100 works built between 1950 and 1980 in Italy and abroad. These included the zero degree of architecture, “anti-standardized rationalism”, the area straddling rationalism and expressionism, decompositions, “the fabulous world of organic architects”, urbarchitecture and landscape design, technological communication and, finally, «the deconstructivists» who had «the invaluable merit of burying post-modern ....». Since 1988, deconstructivism has had seven main exponents – Coop Himmelblau, Zaha O. Hadid, Rem Koolhaas, Daniel Libeskind, and Bernard Tschumi, as well as Peter Eisenman and Frank O. Gehry. At the same time, being aware of the relativity of lists, Zevi proposes an additional and equally useful group of MARCELLO PAZZAGLINI

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Bruno Zevi in veste accademica per una prolusione allo IUAV. Alle sue spalle è seduto il Rettore Giuseppe Samonà , anni Cinquanta. FBZ Bruno Zevi in academic dress for a speech at the IUAV. The Rector is seated behind him, Fifties FBZ

Bruno Zevi in un suo gesto tipico mentre espone le proprie idee. FBZ in his typical gesture while setting out his own ideas. FBZ Bruno Zevi parla agli studenti. FBZ speaks to students. FBZ 10

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EDITORIAL


Frank Lloyd Wright e Bruno Zevi a Venezia, 1951. FBZ Frank Lloyd Wright and Bruno Zevi in Venice, 1951. FBZ Bruno Zevi allo studio di Louis Kahn, 1972. FBZ Bruno Zevi at the Louis Kahn studio, 1972. FBZ

EDITORIALE

MARCELLO PAZZAGLINI

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BRUNO ZEVI STORIA, CRITICA, LINGUAGGIO, DIDATTICA, RIVOLUZIONE, INFORMATICA, PENSIERO EBRAICO HISTORY, CRITICISM, LANGUAGE THEACHING, REVOLUTION, HEBRAISM AND ARCHITECTURE


“SCRIVERE LA STORIA COL PUGNALE”

“WRITING HISTORY WITH THE DAGGER” di / by GIORGIO CIUCCI

La scoperta di Wickhoff

The discovery of Wickhoff

l 15 novembre 1949, all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia diretto da Giuseppe Samonà, Bruno Zevi inaugura l’anno accademico con una prolusione dal titolo Franz Wickhoff e la poetica romana del continuum.1 Un intervento che si conclude con la citazione di un passo di Francesco De Sanctis tratto dalla Storia della letteratura italiana nel quale lo storico irpino riassume in poche frasi il carattere di due storici fiorentini del Trecento, Dino Compagni e Giovanni Villani: «La Cronaca di Dino e le tre cronache de’ Villani comprendono il secolo. La prima narra la caduta de’ Bianchi, le altre raccontano il regno de’ Neri. Tra’ vinti erano Dino e Dante, tra’ vincitori i Villani. Questi raccontano con quieta indifferenza, come facessero un inventario; quelli scrivono la storia col pugnale. Chi si appaga della superficie, legga il Villani; ma chi vuol conoscere le passioni, i costumi, i caratteri, la vita interiore da cui escono i fatti, legga Dino»2. Fin troppo scontato è rimarcare l’identificazione di Bruno Zevi col Dino Compagni che scrive della Firenze fra il 1280 e il 1312: anche Zevi “scrive la storia col pugnale”, prende partito, si schiera, si appassiona, entra nelle pieghe della storia e delle cronache. Quello che De Sanctis aggiunge per Dino – «i fatti che racconta sono fatti suoi, parte della sua vita, e la sua Cronaca è lo specchio del tempo […] nella realtà della vita pubblica» – è valido anche per Bruno. La Storia di De Sanctis rimarrà per Zevi un riferimento costante, mentre in Wickhoff vede

n November 15, 1949, Bruno Zevi inaugurated the academic year at the Venice Institute of Architecture directed by Giuseppe Samonà with an introductory speech entitled Franz Wickhoff and the Roman poetics of the continuum.1 His speech ended with a passage from the Italian historian Francesco De Sanctis’ History of Italian Literature that resumed in just a few sentences the characters of Dino Compagni and Giovanni Villani, two fourteenth century historians born in Florence: «Dino’s Chronicle and Villani’s three chronicles embrace the entire century. The former describes the fall of the White Guelfs, the latter narrate the reign of the Black Guelfs. Dino and Dante sided with the losers, Villani with the winners. The latter’s narrative is quietly indifferent, as though doing inventory; the former write history with the dagger. If you are happy with the surface, read Villani; if, instead, you want to know about the passions, habits, characters, the interior life that determine the facts, read Dino»2. The similarity between Bruno Zevi and Dino Compagni who wrote about Florence between 1280 and 1312 would seem all too obvious. Like Compagni, Zevi took sides, was passionate, and plunged in the folds of history and chronicles – he “wrote history with the dagger”. The words De Sanctis adds about Dino – «the facts he reports are his own facts, part of his own life, and his Chronicle mirrors his time […] in the reality of public life» – would apply to Bruno too. De Sanctis’ History would remain a constant

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“WRITING HISTORY WITH THE DAGGER”


un modello non solo perché questi intuisce che «la narrativa architettonica rimanda a quella generale urbanistica» ma anche perché, scrive Zevi, «dietro la delucidazione filologica, l’analisi calligrafica, la calma esposizione degli sviluppi storici, senti un temperamento ribollente, un’indole che sfida non solo l’incomprensione ma anche le aspre censure delle autorità costituite, come accadde all’indomani della pubblicazione della “Genesis”. Dietro le velleità oggettivizzanti, traspare e palpita un’anima partigiana»3. Zevi è anche Wickhoff. La “scoperta” dello storico viennese è relativamente recente. Lo studioso ancora non compare nella prima edizione del 7 febbraio 1948 di Saper vedere l’architettura, non è ricordato nella prolusione – dal titolo Invito alla storia dell’architettura moderna – al corso di Storia dell’Architettura Moderna del 20 gennaio 1949 tenuto da Zevi alla Scuola di Perfezionamento di Storia dell’Arte (la cattedra di Lionello Venturi) della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma, sarà citato solo en passant nella Storia dell’architettura moderna del dicembre 1950 mentre diverrà l’anima del libro Architettura e storiografia del marzo 1951, dedicato agli studenti dell’IUAV, quelli ai quali aveva rivolto la sua prolusione4. Ciò che caratterizza questi primi interventi compresi fra il 1948 e il 1951 – dai saggi, ai libri, alle prolusioni – è la modalità di presentazione della materia storica: una incredibile quantità di disegni e soprattutto di fotografie inseriti nel testo o fuori testo, ma anche una totale novità rispetto al libro del 1945 Verso un’architettura organica, l’esplosivo lungo saggio sullo Sviluppo del pensiero architettonico negli ultimi cinquanta anni (come recita il sottotitolo) edito da Einaudi nel 1945 dove – per ragioni economiche – le uniche quattro immagini sono sul fronte (foto della Casa sulla cascata di Wright e planimetria del Piano per la ricostruzione Londra di Abercrombie e Forshaw del 1943-44) e sul retro della copertina (foto di due sedie con braccioli – una di Saarinen e l’altra di Mies – e planimetria del teorico Piano per Londra del gruppo MARS): una sintesi che racchiude i campi d’azione dell’architetto moderno, dall’arredamento all’architettura, dalla teoria “SCRIVERE LA STORIA COL PUGNALE”

reference for Zevi. In Wickhoff, on the other hand, he would rather see a model because he understood that «architectural narrative refers to a more general urban planning narrative» but also because, as Zevi writes, «his philological explanations, calligraphic analysis, calm description of historical developments hide a bubbling temperament, a nature that challenges not just incomprehension but even the severe censorship of the powers, as it happened immediately after the publication of “Genesis”. A partisan soul emerges from behind his objectifying ambitions»3. Zevi is also Wickhoff. Zevi had “discovered” the Viennese historian in relatively recent times. There is no mention of him either in the first edition of Zevi’s Saper vedere l’architettura [February 7, 1948; Eng. trans. Architecture as Space. How to look at Architecture, Horizon Press, New York 1957], or in Invitation to the History of Modern Architecture – the introductory speech Zevi delivered on January 20, 1949 at the course of History of Modern Architecture established at the Art History Post-Graduate School (Lionello Venturi’s chair) of the University of Rome’s Faculty of Literature and Philosophy. Later on, Zevi would only mention Wickhoff in passing in his Storia dell’architettura moderna [December 1950], while he would put him center stage in Architettura e storiografia [March 1951], the book he devoted to IUAV students, the audience of his introductory speech4. His first essays, books and speeches from the period between 1948 and 1951 reflect his way of illustrating history – a staggering quantity of drawings and most of all photographs either within the text or as tipped-in plates – as well as a radical innovation from Verso un’architettura organica [1945; Towards an Organic Architecture, London: Faber & Faber, 1950]. This sensational long essay about the Development of Architectural Thought over the last fifty years (the book’s subhead) published by Einaudi in 1945 only featured four images. For economic reasons, it only included a photo of Wright’s Fallingwater and a site plan of Abercrombie and Forshaw’s County of London Plan from 1943-44 on the cover,

Bruno Zevi, Verso l’architettura organica, 1945, frontespizio Frontespice

GIORGIO CIUCCI

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BRUNO ZEVI E LA RIFORMA DEL BIENNIO DELLA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DI ROMA. 1964-1965 BRUNO ZEVI AND THE REFORM OF THE TWO-YEAR COURSE OF THE FACULTY OF ARCHITECTURE OF ROME. 1964-1965 di / by PIERO OSTILIO ROSSI

Nel maggio del 1964 “Casabella” pubblicò un numero monografico dal titolo Dibattito sulle Scuole di Architettura in Italia con un editoriale del direttore Ernesto N. Rogers, articoli e interventi di alcuni tra i più autorevoli docenti italiani e una serie di dossier elaborati nelle diverse sedi universitarie. Il dossier di Roma, (Agitazione, situazione, prospettive) era curato da Renato Nicolini, allora Segretario del Consiglio Studentesco di Facoltà (il parlamentino degli studenti), e sintetizzava la situazione conflittuale della Facoltà così come si era andata sviluppando nei mesi precedenti: illustrava i complessi rapporti tra studenti, professori e assistenti (o, meglio, il comune sentire che legava gli studenti progressisti, alcuni docenti e un gruppo di giovani assistenti, soprattutto di Composizione architettonica), esprimeva le loro esigenze di rinnovamento e lasciava trasparire alcune possibili linee di riforma degli studi. In Facoltà si respirava un’aria di forte contrapposizione nella quale si saldavano istanze culturali e politiche e che l’arrivo, nell’anno precedente, di Luigi Piccinato, Ludovico Quaroni e Bruno Zevi, aveva contribuito a consolidare1. Da una parte Saverio Muratori con il gruppo dei suoi assistenti e alcuni docenti a lui vicini (Renato Venturi e i membri dell’Istituto di Metodologia architettonica, di cui Muratori era il Direttore) al quale facevano riferimento gli studenti schierati con la destra politica rappresentata nel Consiglio Studentesco dai gruppi dell’AGIR e del FUAN Caravella, dall’altra la maggior

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In May 1964, the magazine “Casabella” devoted a monograph to the Debate on the Schools of Architecture in Italy that included an editorial by its editor-in-chief, Ernesto N. Rogers, as well as articles and contributions by some of the most influential Italian professors and reports about several universities. The report about Rome (Agitation, situation, perspectives), written by Renato Nicolini, at the time Secretary of the Faculty Student Council (the Parliament of students), reflected the conflictual situation that had been developing within the Faculty for several months. It illustrated the difficult relationships between students, professors and assistants (or rather the common feeling shared by progressive students, some professors and a group of young assistants, particularly at the Architectural Design courses), expressed their requests for a new course and hinted at suggestions for the reform of the study plan. The arrival of Luigi Piccinato, Ludovico Quaroni and Bruno Zevi the year before had further stoked the flames of a conflict that combined cultural and political issues1. There were two factions in the Faculty. One, led by Saverio Muratori, included his assistants and some sympathetic professors (Renato Venturi and the members of the Architectural Methodology Institute directed by Muratori himself) and had a following among right-wing students, in turn represented by the AGIR and FUAN Caravella groups within the Student Council. Most professors and young assistants (Carlo Aymonino, Paolo Portoghesi, Sergio Lenci, Alfredo

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BRUNO ZEVI AND THE REFORM OF THE TWO-YEAR COURSE OF THE FACULTY OF ARCHITECTURE OF ROME. 1964-1965


parte dei docenti e dei giovani assistenti (Carlo Aymonino, Paolo Portoghesi, Sergio Lenci, Alfredo Lambertucci, Marcello Vittorini, Manfredo Tafuri, Vieri Quilici, Giorgio Piccinato, Sergio Bracco, Arnaldo Bruschi e Antonio Quistelli) sostenuti dagli studenti della lista di sinistra dei Goliardi Autonomi e dai cattolici dell’Intesa. Tra di essi, pur nella differenza dei ruoli, si distinguevano per capacità di iniziativa e prestigio personale Zevi, Portoghesi e Tafuri: l’obiettivo comune era quello di disarticolare il vecchio e immobile potere accademico. D’altra parte, gli studenti, nelle loro componenti politicamente organizzate e attraverso le azioni collettive dell’Assemblea o del Consiglio Studentesco, avevano progressivamente assunto un peso rilevante nel dibattito interno e una forte capacità di proposta e di contrasto. I documenti di quegli anni non lasciano trasparire mediazioni: i conflitti ideologici, culturali e personali appaiono insanabili, le prese di posizione e le iniziative politiche si contrappongono in maniera feroce ed ostile; ne offre ancor oggi testimonianza la cospicua documentazione raccolta da Mino Mini2, allora leader degli studenti dell’AGIR e convinto sostenitore della linea culturale e didattica di Muratori, che nulla concede, se non la sua personale asprezza (per altro puntualmente ricambiata), alle posizioni espresse dagli avversari. Il principale protagonista di quel dibattito, colui che in quella fase convulsa giocò un ruolo determinante fu senz’altro Bruno Zevi attraverso «uno sforzo incessante – sono parole di Lucio Barbera – fatto di martellanti interventi su ogni problema e di assidua presenza tra docenti e studenti»3. La chiamata dei tre nuovi Professori di ruolo aveva infatti profondamente modificato gli equilibri all’interno del CAF (il Consiglio Accademico di Facoltà, allora composto dai quattordici Professori Ordinari4) e, più in generale, all’interno del corpo Docente della Facoltà e in questi nuovi equilibri gli studenti confidavano per ottenere una risposta alle loro istanze di rinnovamento che, subito dopo la morte di Adalberto Libera (17 marzo 1963), erano sfociate nei 45 giorni di occupazione della Facoltà, tra il 20 marzo

Lambertucci, Marcello Vittorini, Manfredo Tafuri, Vieri Quilici, Giorgio Piccinato, Sergio Bracco, Arnaldo Bruschi and Antonio Quistelli) aligned with the other faction, supported by the left-wing students of Goliardi Autonomi and the Catholic students of Intesa. Zevi, Portoghesi and Tafuri stood out among these professors, although with different roles, for their initiative and personal reputation – their common goal was undermining the old and static academic power. In the meantime, students had become more and more important within the University as demonstrated by the remarkable action in terms of protests and proposals developed by their political institutions and the Assembly or Student Council. The documents of the time reveal there was no room for mediation – irremediable ideological, cultural and personal conflicts between the two sides erupted in fierce clashes and clear hostility. The substantial documentation gathered by Mino Mini2, at the time leader of the AGIR students and a staunch supporter of Muratori’s cultural and educational line, perfectly reflects that conflicts even in the personal (and entirely reciprocated) acrimony he reserves for the positions of his enemies. Bruno Zevi was certainly the key protagonist of that discussion, the man who played a crucial role in that frenzied phase through «a relentless effort – in Lucio Barbera’s words – made of repeated interventions on every issue and a regular presence among professors and students»3. Indeed, the appointment of three new tenured professors had deeply altered the balance within the FAC (the Faculty Academic Board, then including fourteen Full Professors4) and, more in general, within the Faculty’s teaching staff. The new balance made the students think they would find a sympathetic ear to their requests for renewal that had resulted in a 45-days long sit-in at the Faculty between March 20 and early May 1963, soon after the death of Adalberto Libera (March 17, 1963). Between late April and mid-May 1964, right at the time when “Casabella” hit the newsstands, the Faculty Council discussed

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LA CRITICA OPERATIVA COME MEDIAZIONE TRA STORIA E PROGETTO

OPERATIVE CRITICISM AS A MEDIATION BETWEEN HISTORY AND DESIGN di / by ALESSANDRA MUNTONI

Manfredo Tafuri ha messo in evidenza come Bruno Zevi, insieme a Jean-Paul Sartre e a Elio Vittorini, siano stati, intorno al 1945, «tra i più validi assertori in Europa, di un rilancio ideologico rivolto a colmare il salto tra impegno civile e azione culturale»1. Nei tre, certamente, si registra una diversa modulazione di quest’atteggiamento. Per Sartre l’impegno letterario è insieme politico-culturale; per Vittorini si era identificato prima con l’antifascismo, poi con l’inviolabilità della vita umana e quindi con il design inteso come ragione civile; per Zevi ha significato assorbire la critica – desunta dalla temperie del presente – nella storia, indagando i percorsi e le motivazioni dei singoli architetti che erano riusciti a riattivare criticamente nei loro progetti un repertorio amplissimo di opere, di modelli urbanistici e di sistemi territoriali. La “critica operativa” nasce da qui. Di fatto, il concetto di “critica operativa” – seppure in filigrana – è presente in Zevi fin dai suoi primi libri e dalla sua prima esperienza d’insegnamento allo IUAV2. E, fin dall’inizio, con una doppia prospettiva nel tempo, verso il presente e verso il passato, come spiegherà in Architettura e storiografia (1951), assorbendo inoltre nell’architettura quanto può derivare dalle arti figurative. Nella sua lezione inaugurale dell’anno accademico 19491950 della Facoltà di architettura, dedicata a Franz Wickhoff, egli dice: «Per dirla in una forma solo apparentemente assurda, il maggiore contributo che il Wickhoff ha dato alla storia dell’architettura è quello costituito da un capitolo intitolato Stile

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Cappella medicea in San Lorenzo, Firenze. Plastico critico in ferro e legno di Romano Abate, Giampietro Dell’Olivo, Paolo Donadini, Claudio Handjieff, Maurizio Rossi, Mario Zanin, Questa e le foto che seguono sono tratte da “L’architettura, cronache e storia”, n. 99, gennaio 1964 Medici Chapel in San Lorenzo, Florence. Critical model (iron and wood) by Romano Abate, Giampietro Dell’Olivo, Paolo Donadini, Claudio Handjieff, Maurizio Rossi, Mario Zanin. This and the following photos from “L’architettura, cronache e storia”, n. 99, January 1964 44

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Manfredo Tafuri observed that, around 1945, Bruno Zevi was, along with JeanPaul Sartre and Elio Vittorini, «among the champions, in Europe, of an ideological wave trying to fill the gap between civil commitment and cultural action»1. Certainly, each of the three critics expressed that effort in a different way. For Sartre, literary commitment had a political and cultural value. For Vittorini, commitment first coincided with antifascism, and later with the inviolability of human life and eventually with design conceived as civil responsibility. For Zevi, it meant incorporating criticism – as deduced from the present time – into history by exploring the trajectories and reasons of the individual architects who had critically reactivated a very wide range of works, urban planning models and territorial systems within their own designs. It was the birth of “operative criticism”. In fact, a first outline of the concept of “operative criticism” had appeared even in Zevi’s early books and teaching experience at the IUAV2. Since the beginning, as he would explain in Architettura e storiografia (1951), such concept embraced a double time perspective – towards the present and the past – and additionally transferred into architecture any inspiration he could derive from the figurative arts. During his speech about Franz Wickhoff for the inauguration of the Faculty of Architecture’s 19491950 academic year, Zevi said, «To put it in only seemingly absurd terms, the main contribution Wickhoff gave to architectural history is a chapter entitled Illusionistic

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OPERATIVE CRITICISM AS A MEDIATION BETWEEN HISTORY AND DESIGN


illusionistico e metodo continuo di narrare nella architettura romana – un capitolo, cioè, della Genesi Viennese che egli non scrisse ma il cui contenuto può essere determinato seguendo e traducendo in termini architettonici il pensiero espresso nei capitoli omonimi sulla scultura e sulla pittura romana»3. In questo modo, Zevi fa tracimare in un’altra disciplina ciò che il Wickhoff aveva a sua volta estratto dall’arte romana e opera un “traslato architettonico dei suoi schemi”. Del resto, la storicità dell’insegnamento del Wickhoff, vale a dire l’indagine sui precedenti dell’opera e la sua stessa posizione nella storia dell’arte, si dimostrava capace di prolungarsi fino all’oggi, essendo il continuum un concetto pervasivo dell’architettura contemporanea. Peraltro, la lezione di Zevi su Michelangelo architetto indica un’occasione di ricerca e di approfondimento scientifico valido per tutta la cultura internazionale. In particolare, gli studenti dell’Istituto veneziano sono coinvolti in questo progetto didattico fin dal 1960: «Gli studenti dei corsi di storia ne aggrediscono, per il secondo anno, i monumenti, conducono rilievi, li reinterpretano con moderno spirito critico, preparano tesi sulla sua personalità architettonica, anzi: sulla sua intera personalità umana e creatrice in chiave architettonica»4. I cosiddetti “plastici critici”, con i quali gli studenti del suo corso, con la supervisione del pittore Mario de’ Luigi, indagano le fabbriche e i progetti del genio fiorentino – poi esposti alla mostra Michelangiolo architetto al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1964 –, ne sono una esplicita dimostrazione. L’indagine critica è portata sulle opere con gli stessi strumenti dell’architettura moderna. Così, le intenzioni di Michelangiolo, interpretate con le “linee di forza”, le suggestioni espressioniste e persino informali, i materiali metallici, trasparenti o colorati, le molle, le aste sghembe, le lastre vitree incurvate, proiettano nel contemporaneo il suo continuum dinamico5. Ma quella modalità di “critica operativa” muta nel tempo, a cominciare proprio dal suo discordo di prolusione all’Ateneo della Sapienza, quando, nel 1963, viene chiamato LA CRITICA OPERATIVA COME MEDIAZIONE TRA STORIA E PROGETTO

style and the continuing narrative of Roman architecture he did not write. That chapter of the Viennese Genesis can be inferred from the thought expressed in the similarly titled chapters about Roman sculpture and painting, and from its translation into architectural terms »3. In this way, Zevi transposed what Wickhoff had in turn derived from Roman art into in another discipline and proceeded to an “architectural translation of its patterns”. After all, the historical nature of Wickhoff ’s lesson, his ALESSANDRA MUNTONI

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PROPOSTA DI UNA PUBBLICAZIONE PERMANENTE A SCHEDE INTITOLATA: PARLARE ARCHITETTURA O LA LINGUA ARCHITETTONICA O SAPER FARE ARCHITETTURA O COMUNICARE IN ARCHITETTURA O LINGUA ARCHITETTONICA E CRITICA OPERATIVA PROPOSAL FOR A PERMANENT PUBLICATION UNDER THE TITLE: SPEAKING ARCHITECTURE or THE ARCHITECTURAL LANGUAGE or HOW TO MAKE ARCHITECTURE or COMMUNICATING ARCHITECTURE or ARCHITECTURAL LANGUAGE AND OPERATIVE CRITICISM di / by I.C.O.D.A. ISTITUTO DI CRITICA OPERATIVA DELL’ARCHITETTURA. appunti di / notes by BRUNO ZEVI - I.C.O.D.A..

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METAMORFOSI 05

PROPOSAL FOR A PERMANENT PUBLICATION


1. Il motivo per cui il semplice annuncio della creazione di un ISTITUTO DI CRITICA OPERATIVA DELL’ARCHITETTURA ha suscitato vivo interesse nel mondo è facilmente spiegabile. La progettazione architettonica è in crisi ovunque, specie nei paesi in via di sviluppo. Un’iniziativa diretta a penetrarne i problemi scientificamente, con metodo storico, costituisce un atto di coraggio culturale, lungamente atteso. Inoltre, Roma è stata per secoli fonte di ispirazione e riferimento per gli architetti d’ogni continente. L’idea che vi si operi una verifica delle acquisizioni del movimento moderno e se ne indichino le possibilità di rilancio è accolta da un vasto consenso. 2. Nella sostanza, il problema da affrontare può essere brevemente chiarito mediante un’analogia tra lingua e architettura. La maggior parte degli architetti non possiede vocabolario, né una grammatica né una sintassi architettonica. Quindi non può comunicare. Anzi, non può pensare, poiché “la lingua ci parla” e, senza una lingua, non si possono produrre pensieri. Ciò spiega il baratro esistente tra un’élite di architetti che in qualche modo possiede una lingua, e l’enorme maggioranza dei professionisti che l’ignora, è muta o emette suoni privi di significato. Situazione drammatica, ma non tale da stupire. Venti anni fa, nel 1951, solo il 18% della popolazione italiana parlava italiano, e ciò malgrado la lotta contro l’analfabetismo condotta dal 1870 e, con particolare intensità, dal 1945 in poi. La percentuale dei produttori di architettura è certamente inferiore al 18%, ma quanto si è fatto per la lingua si può fare per l’architettura. Il tema della critica operativa dell’architettura è dunque questo: predisporre i mezzi per insegnare a parlare e scrivere in termini architettonici, rivolgendosi, più che all’Europa e al nordAmerica, ai paesi privi di una moderna tradizione culturale. Superfluo aggiungere che il discorso riguarda sia i produttori che i consumatori di architettura. Se il pubblico non sa leggere l’architettura, non può fruirne, e perciò riduce il campo di azione della minoranza produttiva. PROPOSTA DI UNA PUBBLICAZIONE PERMANENTE

1. The reason why the simple announcement of the creation of an INSTITUTE OF OPERATIVE CRITICISM OF ARCHITECTURE raised such a remarkable interest across the world is easily explainable. A crisis affects architectural design everywhere, particularly in developing countries. An initiative that intends to explore their problems in a scientific way and with an historical method represents a long-overdue act of cultural courage. In addition, for centuries Rome has been a source of inspiration and a model for architects from every continent. The idea that this city promotes an attempt to assess the achievements of the modern movement and indicate the opportunities for its revival has attracted a broad consensus. 2. In essence, an analogy between language and architecture may help us clarify the problem we are addressing. Most architects

Istituto di Critica operativa dell’architettura, promemoria della riunione, 18 aprile 1978 Institute of Operative Criticism of Architecture, memo about the meeting, 18 April, 1978

BRUNO ZEVI - I.C.O.D.A.

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UNA EREDITÀ VIVA DI BRUNO ZEVI: LA RIVOLUZIONE INFORMATICA IN ARCHITETTURA

BRUNO ZEVI’S LIVING LEGACY: THE IT REVOLUTION IN ARCHITECTURE di / by ANTONINO SAGGIO

La collana “La rivoluzione informatica in Architettura” è il contributo più forte che chi scrive è riuscito a dare al dibattito internazionale sull’architettura. È stata pubblicata in cinque lingue e dal 1998 al 2015 ha prodotto 38 libri su una tematica nuova e necessaria. Ha catalizzato l’interesse dei lettori e accompagnato la crescita di una generazione di architetti che ormai da molti anni ha un ruolo di primo piano nel dibattito dell’architettura: da Patrick Schumacher a Makoto Sei Watanabe da Kas Oosterhuis a Ben van Berkel. Questi architetti insieme a studiosi e docenti come Gerhard Schmitt, Derrick de Kerckhove il compianto Kari Jormakka vi hanno scritto ed hanno, insieme ad un elevato numero di più giovani studiosi, per esempio Luca Galofaro, Alicia Imperiale, Antonello Marotta diffuso ad un vasto pubblico diversi aspetti della rivoluzione informatica. Ma non sono orgoglioso tanto del contributo alla diffusione internazionale di una tematica storicamente rilevante, quanto del fatto che “La rivoluzione informatica in architettura” sia stato un progetto collaborativo, trasparente e coraggioso tra il grandissimo professore Bruno Zevi e il sottoscritto. La rivoluzione informatica è stata come si dice oggi un progetto “win-win”. Ha vinto Zevi, che ha accompagnato la nascita di un settore emergente; hanno vinto i lettori, che hanno seguito una nuova vicenda culturale; hanno vinto gli autori, in alcuni casi alla loro prima pubblicazione; hanno vinto gli editori, in Italia sino al 2004 la Testo&Immagine di Torino e successivamente Edilstampa di Roma e all’estero Birkhäuser di Basilea che ha creato un mercato internazionale

L Furio Barzon, La carta di Zurigo, Eisenman De Kerckhove, Saggio, Testo&Immagine, 2003, copertina / cover

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METAMORFOSI 05

“T

he IT Revolution in Architecture” is the most significant contribution I have been able to offer to the international debate about architecture. Published in five languages between 1998 and 2015, the 38 books of the series explored a new and necessary subject. They catalyzed the interest of readers and supported the evolution of a generation of architects who have since played a key role in the architectural debate – from Patrick Schumacher to Makoto Sei Watanabe, from Kas Oosterhuis to Ben van Berkel. Along with academics and professors such as Gerhard Schmitt, Derrick de Kerckhove, and the late Kari Jormakka, these architects contributed to the series and, with a remarkable number of younger academics such as Luca Galofaro, Alicia Imperiale, Antonello Marotta, made several aspects of the Information Technology of the IT revolution accessible to a wide public of readers. “The IT Revolution in Architecture” was more than a contribution to the international popularization of a historically relevant subject. It was, and I am even prouder of this, a collaborative, transparent and bold project that I developed with the great professor Bruno Zevi. As we would say today, it was a “win-win” proposition. All the parties involved “won” – Zevi, who facilitated the birth of an emerging field; the readers, who followed the progress of a new cultural venture; the writers, some of whom were at their first experience in the editorial field; the Turin-based publishers Testo&Immagine until 2004, and later Edilstampa in Rome for the Italian market, and Birkhauser in Basel BRUNO ZEVI’S LIVING LEGACY: THE IT REVOLUTION IN ARCHITECTURE


florido sulla scia dell’emergente settore Informatica / Architettura, ed ha vinto anche chi scrive perché ha acquisto una visibilità internazionale. Dal punto di vista di questo saggio, l’aspetto decisivo riguarda naturalmente l’approccio culturale alla collana negli aspetti che sviluppano una serie di principi ed idee che erano del tutto propri di Bruno Zevi. Siccome la collana si è protratta per più di quindici anni dopo la morte di Zevi, la sua presenza ha reso, fuori da ogni retorica, viva l’eredità culturale di Bruno Zevi. Cerchiamo ora di ripercorrere la struttura, le idee e la caratteristica della collana per affrontare nella parte finale alcune sue caratteristiche peculiari proprio in rapporto al pensiero zeviano.1

that created a thriving international market around the emerging IT/Architecture sector; and finally, myself, because it put me on the international map. The main aspect from the point of view of this essay obviously concerns the series’ cultural approach as it clearly took its cue from Bruno Zevi’s principles and ideas. As the series kept on appearing for over fifteen years after Zevi’s death, it was instrumental in keeping his legacy alive in a non-rhetorical way. I will try to summarize its structure, ideas and typical features in order to address, in the final part, some of its peculiar aspects precisely in relation with Zevi’s thought.1

Nascita della collana

The idea for the series came up in November 1996. A few months earlier, I had published the monograph Peter Eisenman. Trivellazioni nel futuro and was about to complete Frank O. Gehry. Architetture residuali. The two books came out in the Universale di Architettura series, first published by Dedalo between 1977 and 1985 and later revived by the Turin-based publisher Testo&Immagine. After studying with Professor Zevi between 1976 and 1979, I wrote a book about Giuseppe Pagano for Dedalo besides the other two mentioned above, as well as several articles for the magazine “L’architettura, cronache e storia”, and in the meanwhile kept on corresponding with him. The pocketbooks of the Universale di Architettura series were available as monthly issues in newsstands at an affordable price, they were high-quality products printed on valuable paper with color photos and as such were successfully stimulating the Italian cultural debate. They were the result of a long and passionate battle for the popularization of architecture conducted by Bruno Zevi who unswervingly believed in the potential of pocketbooks ever since the three titles he had published with “Il Balcone” soon after the war. His frequent appearances in TV and radio broadcasts and even the creation of the private TV network Teleroma 56 equally testify to his commitment to the dissemination of architectural culture.

L’idea della collana è del novembre del 1996. A quel tempo era stata pubblicata da alcuni mesi la monografia Peter Eisenman. Trivellazioni nel futuro e si stava completando quella su Frank O. Gehry. Architetture residuali. I libri erano collocati all’interno della collana Universale di Architettura che era rinata dopo una prima edizione a cura di Dedalo dal 1977 al 1985 ed era stampata dall’editore Testo&Immagine di Torino. Ero stato allievo del professor Zevi dal 1976 al 1979, avevo pubblicato i due libri sopra ricordati nella Universale di architettura Testo&Immagine e un libro su Pagano con Dedalo e anche diversi articoli nella rivista “L’architettura, cronache e storia” e intrattenevo con lui una fitta corrispondenza. I tascabili dell’Universale di Architettura, uscivano mensilmente anche in edicola, erano molto ben fatti tecnicamente con buona carta e foto a colori, avevano un prezzo contenuto e stavano animando il dibattito culturale italiano. Erano il frutto di una lunga e appassionata battaglia verso la comunicazione dell’architettura di Bruno Zevi che aveva sempre creduto nel potere dei tascabili, sin nei tre volumi che pubblicò con Il Balcone nel dopoguerra e che poi ripetutamente si adoperò nel tentativo di diffondere la cultura architettonica con numerose partecipazioni televisive e

How the series began

UNA EREDITÀ VIVA DI BRUNO ZEVI: LA RIVOLUZIONE INFORMATICA IN ARCHITETTURA

Mirko Galli, Claudia Mühlhoff, Terragni Virtuale, Testo&Immagine, 1999, copertina Cover Gerhard Schmitt, Information Architecture, Testo&Immagine, 1998, copertina Cover

ANTONINO SAGGIO

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ZEVI, EBRAISMO E ARCHITETTURA

ZEVI, HEBRAISM AND ARCHITECTURE di / by ROSALBA BELIBANI

n occasione del centenario della nascita di Bruno Zevi, viene fortunatamente ristampato da Giuntina, nella collana Le perline, il suo volume Ebraismo e Architettura con una bella introduzione di Manuel Orazi. Zevi scrive di ebraismo in molte prefazioni, presentazioni a convegni e conferenze, ma solo dopo il 1993 raccoglie il suo pensiero sulla questione in questo piccolo libro. Prima di questo pubblica in Pretesti di critica architettonica (Einaudi, Torino 1983) un capitolo dal titolo Ebraismo e concezione spaziotemporale dell’arte che sintetizza e anticipa a grandi linee la sua posizione. Sul perché Zevi abbia rinviato nel definire la sua identità, e non il suo sentimento religioso, Ada Treves in Pagine Ebraiche (06/02/2018 - 21 ‫ טבש‬5778) ipotizza alcune cause: una possibile reticenza perché «su ciò di cui non si può parlare si deve tacere» (Wittgenstein); una difficoltà del «suo essere nella Diaspora»; oppure una scelta eterodossa di posizione crociana «necessaria ai sopravvissuti»1, per la quale confondersi con gli altri serve a cancellare un’eventuale futura separazione, pretesto della persecuzione passata e timore di un antisemitismo futuro2, nei confronti del quale esprime lungimiranza. Personalmente, ritengo che il motivo (il tema) possa essere stato più delicato e impegnativo di quello che appare, oltre che più doloroso.

I

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n the centenary of Bruno Zevi’s birth, the publisher Giuntina luckily reprinted his book Ebraismo e Architettura in its Le perline series with a beautiful introduction by Manuel Orazi. Although Zevi had written about Hebraism in several introductions, speeches and lectures, it was only after 1993 that he would finally condense his thought about the subject in this small book. Earlier he had written about Hebraism and spacetime concept of art, a chapter of Pretesti di critica architettonica (Einaudi, Turin 1983) that broadly sums up and anticipates his position. In Pagine Ebraiche (February 2, 2018 - 21 ‫טבש‬ 5778), Ada Treves suggests some reasons why Zevi might have delayed the definition of his own identity, and not his religious belief. Perhaps a reticence because «whereof one cannot speak, thereof one must be silent» (Wittgenstein) or a difficulty he felt in «being in the Diaspora». Or maybe an unorthodox position inspired by Croce «necessary to survivors»1 based on which blending in with others means preventing a possible future separation, the pretext for past persecutions and the fear of a future antisemitism2, something he foresaw with a certain clarity. Personally, I think the reason (the issue) might be more delicate and challenging than it seems, as well as more painful.

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ZEVI, HEBRAISM AND ARCHITECTURE


Ebraismo e concezione spazio-temporale

Hebraism and space-time concept

Zevi esordisce affermando che il pensiero ebraico respinge qualsiasi dogma e nega che l’ebraismo, decodificando la storia, riassuma in sé la concezione del tempo e ne affida la prova assurda a Carlo Michelstaedter3 che sceglie la morte per liberarsi dell’inganno del tempo. In apparente contraddizione conferma, tuttavia, che nell’ebraismo è sempre prevalsa una concezione anti spaziale a favore del tempo. Come il rabbino A. J. Heschel4, maestro del concetto spazio temporale, Zevi assume come fondativa di questo concetto l’autodichiarazione di Dio nel Primo comandamento: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti trasse dalla terra d’Egitto, dalla casa della schiavitù»5. Sottolinea il dinamismo dell’asserzione, raffigurato dalla fuga verso la ricerca della libertà. La concezione predominante è il movimento. La storia ebraica è antistatica: il popolo ebreo è errante sin dalla liberazione, erra nel tempo alla ricerca di uno spazio promesso. Errare, quindi, ricercare sono azioni costanti nella cultura ebraica dove il cammino fisico è un cammino spirituale, dove è essenziale il processo in divenire delle cose. Purtroppo, l’idea che Dio sia presente nell’universo, indica generalmente «la sua presenza nello spazio anziché nel tempo, nella natura anziché nella storia: come se Egli fosse una cosa e non uno Spirito»6. Il luogo di Dio è, quindi, un tempo immanente e il lungo cammino spirituale è scandito dal tempo e dalla storia. Si conclude che l’idea ebraica di Dio, il Dio degli eventi, nega la concezione spaziale a favore di quella temporale. Il tempo, nel IV Comandamento del Decalogo originale secondo l’Antico Testamento (Deuteronomio 5: 7-21), diventa santo: prima venne la santità del tempo, poi la santità dell’uomo e infine la santità dello spazio7. Anche il nostro possesso dello spazio termina inevitabilmente alla fine della nostra esistenza, del nostro tempo. Nel capitolo Spazio e non-spazio ebraico, Zevi sintetizza la sua posizione in un elenco di «cinque punti nodali, anche a rischio di rendere schematica un’ottica critica che mira ad essere duttile e flessibile»8: 1. «L’ebraismo è una concezione del tempo».

Zevi opens his argument by saying that the Jewish thought rejects any dogma whatsoever and denies that Hebraism, in decoding history, condenses in itself the concept of time. He points at Carlo Michelstaedter3, who chose death to break free from the delusion of time, as an absurd proof of this. However, with a seeming contradiction, he confirms that an anti-spatial concept that favors time has always prevailed in Hebraism. Like Rabbi A.J. Heschel4, a master of the space-time concept, Zevi builds this concept over the foundation of God’s self-declaration in the first Commandment: «I am Yahweh your God, who brought you out of the land of Egypt, out of the house of bondage»5. He underlines the dynamism of this statement, represented by the flight in search of freedom. Movement is the prevailing

ZEVI, EBRAISMO E ARCHITETTURA

Corrado Cagli, La notte dei cristalli, Memoriale della ex Sinagoga, Gottinga L’immagine è tratta da: Bruno Zevi, Pretesti di critica architettonica, Einaudi, Torino, 1983 Memorial to the former Gottingen Synagogue, Platz der Synagoge, Gottinga The image is taken from Bruno Zevi, Pretesti di critica architettonica, Einaudi, Torino, 1983

ROSALBA BELIBANI

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BRUNO ZEVI INCONTRI CON CLOSE ENCOUNTERS WITH

SEZIONE – SECTION

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Ricordi dal lago di Como, il convegno su Terragni, 1968 Memories from lake Como

ZEVI E TERRAGNI ZEVI AND TERRAGNI di / by

Franco Purini

Come per gran parte degli studenti della generazione iscritta alla Facoltà di Architettura all’inizio degli Anni Sessanta alcuni libri di Bruno Zevi – Storia dell’architettura moderna, Saper vedere l’architettura, Verso un’architettura organica – furono alla base della mia formazione. Quando nel 1963 egli tornò a Roma dopo i suoi anni allo IUAV (Istituto Universitario di Venezia), le sue lezioni mi introdussero ancora di più nello straordinario mondo che le sue pagine mi avevano rivelato. Un mondo avventuroso, nel quale l’architetto era chiamato a sfide continue, soprattutto con se stesso, consistenti nel superare volta per volta il fissarsi del proprio linguaggio in forme che potevano divenire statiche e convenzionali. Per Bruno Zevi la ricerca architettonica era come un fiume il cui scorrere, in sintonia perfetta con la vita, non perdeva mai di vista la foce, ma attraversando territori sempre nuovi che ne modificavano costantemente il corso. Nel 1968 uscì un numero molto importante di L’architettura, cronache e storia, la sua rivista, dedicato a Giuseppe Terragni, al quale seguì, nello stesso anno, un Convegno a Como. A venticinque anni dalla sua scomparsa una riflessione estesa sull’autore della Casa del Fascio doveva reinserire la sua opera, ancora sospesa in una sorta di limbo nel dibattito di allora, al quale poteva dare, come accadde di lì a qualche anno, ad esempio con le analisi di Peter Eisenman, un contributo che si rivela nel corso del tempo quanto mai attuale. Nel frattempo, dalla mia iscrizione alla Facoltà erano passati sette anni, e alla visione zeviana della storia se ne erano associate altre. In particolare, quelle di Manfredo Tafuri e di Paolo Portoghesi. All’eroismo dell’architetto, impegnato in un incessante lavoro di reinvenzione dei

Being part of the generation that studied at the Faculty of Architecture in the early 1960s, Bruno Zevi’s books – Storia dell’architettura moderna, Saper vedere l’architettura, Verso un’architettura organica – were the pillars of my education. When, in 1963, Zevi returned to Rome after a few years at the IUAV (University Institute of Venice), his lessons guided me further into the extraordinary world I had glimpsed in his books. An adventurous world where architects had to face constant challenges, most of all with themselves, in order to avert the freezing of their own language into static and conventional forms. For Bruno Zevi, architectural research was like a river that, in a perfect identity with life, never lost sight of its estuary even when it flowed through ever-new territories that constantly changed its course. In 1968, his magazine, L’architettura, cronache e storia, published a very important monographic issue about Giuseppe Terragni, followed by a Conference held in Como later that year. It was a meditation about the designer of the Casa del Fascio that, twenty-five years after his death, tried to reframe his work, at the time still suspended in a sort of limbo. As Peter Eisenman’s analysis would prove within a few years, Terragni’s work might provide an inspiration that has remained as topical as ever over time. In the meantime, seven years after I started my studies at the university, other views of history besides that of Zevi – in particular those of Manfredo Tafuri and Paolo Portoghesi – had attracted my interest. The heroic view of the architect, constantly committed to the reinvention of his own tools, was complemented by Manfredo Tafuri’s focus on the connection between ideology and architecture, stimulated by a MEMORIES FROM LAKE COMO


suoi stessi strumenti, si affiancava per un verso l’attenzione di Manfredo Tafuri per la relazione tra ideologia e architettura, alla luce della volontà di comprendere le contraddizioni nelle quali progettare e costruire si trovano ad operare; per l’altra la possibilità, in cui credeva e crede ancora Paolo Portoghesi, di prelevare direttamente dalla storia dell’architettura modelli orientativi capaci di costruire paradigmi tematici e linguistici efficaci per pensare il presente e il futuro. Il mio rapporto con l’architettura divenne in quel periodo l’esito di continue triangolazioni tra questi tre riferimenti in una poetica, a volte sincretica, nella quale parti degli edifici teorici costruiti dai tre storici erano montati in una sequenza dotata di una sufficiente chiarezza e di una certa possibilità di generare proposte compositive. Tanto per restare nell’ambito italiano, nella mia concezione della storia dell’architettura moderna non entrò la linea interpretativa proposta da un altro grande protagonista dell’architettura italiana del secondo dopoguerra, Leonardo Benevolo. Egli non credeva nell’autonomia, seppure relativa, del linguaggio architettonico, per me estremamente importante, considerando il progetto come l’esito quasi meccanico di logiche ritenute prioritarie come quelle politiche, sociali e produttive. Il Convegno su Giuseppe Terragni rappresentò per me, i miei amici dello Studio Atrio Testaccio, e altri studenti e architetti con i quali condividevo idee e programmi, un momento fondamentale dal punto di vista delle nostre convinzioni, peraltro ancora in formazione, sul dibattito architettonico e in generale sul nostro futuro. La scelta di Bruno Zevi di dedicare un incontro di dimensione internazionale a una personalità come quella di Giuseppe Terragni sembrò a noi, che cercavamo allora uno spazio riconoscibile sulla scena architettonica in accordo con il clima anti istituzionale del 1968, e quindi all’interno di una voluta condizione di marginalità, l’esito di una strategia che avrebbe reso il grande architetto comasco un mito più che una fonte di nuove idee progettuali ancora da esplorare che per noi avrebbe dovuto restare in un certo senso segreta o, almeno, appartata. In breve, temevamo una mediatizzazione di Giuseppe Terragni. Questa preoccupazione non era tanto astratta. Il Gruppo 63 aveva introdotto in Italia il concetto di industria culturale, ovRICORDI DAL LAGO DI COMO

will to understand the contradictions that surround design and construction. On the other hand, Paolo Portoghesi believed and still believes that the history of architecture may provide the leading models for the construction of effective thematic and linguistic paradigms to address the present and the future. During that period, I developed my relationship with architecture from constant triangulations of these three models in a sometimes syncretic poetics that assembled parts of the theoretical structures built by the three historians in a sequence that was clear enough and capable of generating compositional solutions. Just to remain in the Italian context, my view of modern architecture did not incorporate the interpretation proposed by Leonardo Benevolo, another major protagonist of post-war Italian architecture. Unlike me, Benevolo did not believe even in the slightest autonomy of the architectural language as he considered design as the almost mechanic result of other, more important factors of political, social and industrial nature. For me and for my friends of Studio Atrio Testaccio, as well as for other students and architects with whom I shared ideas and programs, the Conference about Giuseppe Terragni was a turning point in terms of our beliefs, then still evolving, about the architectural debate and our future in general. At the time, we were trying to find a recognizable space on the architectural scene in accordance with the anti-institutional climate of 1967, and therefore within a deliberately marginal

Copertina de “L’architettura, cronache e storia”, n. 153, luglio 1968, dedicato a Giuseppe Terragni Cover of “L’architettura, cronache e storia”, n. 153, July 1968, devoted to Giuseppe Terragni

Franco Purini, Una ipotesi di architettura, 1966-68, da Franco Purini, Luogo e progetto Magma, Roma 1976 Franco Purini, Una ipotesi di architettura, 1966-68, from Franco Purini, Luogo e progetto Magma, Roma 1976

FRANCO PURINI

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Zevi e Bottoni: L’ultimo atto di una lunga amicizia Zevi and Bottoni: the epilogue of a long friendship

Appena dopo la morte, avvenuta il 9 aprile 1973, Zevi rende un duplice omaggio a Piero Bottoni: su “L’Espresso” ne traccia un ritratto incisivo1; su “L’architettura, cronache e storia” gli dà idealmente la parola sulla sua ultima opera, “Diritto al cielo” (1973)2. Nel ritratto la chiave è offerta da un paio di intuizioni felici di Edoardo Persico: da un lato, l’operare in Bottoni di «motivi essenzialmente lirici» che sanno farsi «motivo musicale»; dall’altro, la propensione a fare dello spazio la materia prima dell’architettura, «gradu[ando] i pieni e i vuoti secondo un motivo interiore»3. Avendo Persico come ‘duca’, Zevi può individuare il principale filo rosso che tiene insieme l’intera opera dell’architetto milanese:

ZEVI E BOTTONI ZEVI AND BOTTONI di / by

Giancarlo Consonni Graziella Tonon

«Se Persico avesse potuto analizzarne la successiva operosità, lo scatto dal design alla città, avrebbe dilatato il ritratto critico senza peraltro alterarne i termini, perché lo spazio, nei diaframmi precisi delle architetture, fu per Bottoni l’oggetto stesso dell’urbanistica. Nei numerosi piani regolatori, tra i quali citeremo quelli di Genova, Verona, Como, Bologna, Milano, Siena, nei quartieri di case economiche, soprattutto nel comprensorio QT8 realizzato nel periodo in cui fu commissario straordinario della Triennale (nn. 92, 993), ma anche nei singoli interventi edilizi quali, ad esempio, il monumento ai Partigiani nella certosa di Bologna (n. 297) o il palazzo comunale di Sesto San Giovanni (n. 682), Bottoni dimostra una Kunstwollen spaziale come armatura portante sia della visione urbanistica che del rapporto intensamente dialogato tra fabbricati e ambienti»4.

Shortly after his death, on April 9, 1973, Zevi paid a double tribute to Pietro Bottoni with an incisive portrait for “L’Espresso”1 and an essay for “L’architettura, cronache e storia”2 where he ideally had him explain his last work, “Diritto al cielo” [“Right to the Sky”] (1973)2. In the portrait, the key is provided by a couple of happy insights by Edoardo Persico – on one side, the presence of «essentially lyric motives» in Bottoni’s work that become a «leitmotif»; on the other side, the inclination to use space as the raw material for architecture, «by modulating solids and voids according to an interior motivation»3. By choosing Persico as his ‘guide’, Zevi could retrace the main red thread that runs through the entire work of the Milan-based architect: If Persico had had a chance to analyze his later industriousness, his leap from design to the city, he would have expanded his critical portrait without altering its terms, as the precise diagrams of architecture show how space was the actual key to urban planning for Bottoni. Bottoni’s Zoning Plans (Genoa, Verona, Como, Bologna, Milan, Siena), social housing plans such as the QT8 district he developed during his tenure as the Triennale’s special commissioner (nn. 92, 93) and individual designs such as the Monument to the Partisans in the Carthusian Monastery in Bologna (n. 297) or the Municipal Building in Sesto San Giovanni (n. 682), display a spatial Kunstwollen as the load-bearing framework of both his urban planning vision and the intense dialogue he establishes between buildings and environments4. Besides his «remarkable poetic qualities»5, Zevi insightfully captured the impulse that led Bottoni to design exceptional works ZEVI AND BOTTONI: THE EPILOGUE OF A LONG FRIENDSHIP


Oltre alle «spiccate qualità poetiche»5 di Bottoni, Zevi ha saputo cogliere anche la tensione che ha consentito all’architetto milanese di progettare opere d’eccezione aventi come tema di fondo l’invenzione/ ritrovamento del cielo6. Zevi lascia che sia lo stesso autore a parlarne e a spiegare il legame del “Diritto al cielo” con le altre sue opere in cui la (ri)conquista di un rapporto con il cielo è l’elemento motore. «Sulla direttrice di tale ipotesi – afferma Bottoni – possono collocarsi il mio progetto per una “Casa Giardino” al QT8 di Milano, del 1946 (non realizzato); e la creazione, ancora al QT8, del Monte Stella, episodio eccezionale nella misura in cui si costituiva come vero e proprio paesaggio ‘artificiale-naturale’, ‘inventato’, e trasferito nella città. Ma, comunemente, il ‘verde’ della progettazione urbana indirizzata a condizioni di tollerabilità dell’habitat, non può restituire i valori integrali di una natura aperta, della campagna; o recuperare all’occhio umano la prospettiva di un ‘cielo’ libero»7. Idealmente, in questa linea trova posto una quarta opera di Bottoni: il Monumento ossario dei partigiani alla Certosa di Bologna, 1954-59 (con sculture dello stesso Bottoni, di Stella Korczynska e di Jenny Wiegmann Mucchi), in cui è messa in scena la discesa agli inferi e la riconquista del cielo. Un motivo dantesco – il «riveder le stelle» posto a chiusura della Divina Commedia – nel monumento viene fatto coincidere con la rinascita civile resa possibile dal sacrificio di chi ha lottato per la riconquista della libertà. Detto per inciso, Zevi si è molto interessato a quest’opera8. Avendo egli sollecitato, come era solito fare, una testimonianza dell’autore, ricevette da Bottoni una lunga, appassionata lettera9, da cui attinse a man bassa per il suo articolo su “L’Espresso”. Che si conclude così: «Bottoni ha donato a Bologna, a ricordo dei suoi partigiani, un capolavoro»10: Nel caso del “Diritto al cielo” è invece Bottoni a prendere l’iniziativa in una lettera a Zevi del 16 marzo 197311. Da più di un mese è costretto in un letto d’ospedale a seguito di complicazioni post-operatorie (un caso di malasanità che gli costerà la vita), ma non vuole rinunciare a concludere il lavoro che intende presentare al concorso indetto dall’IN/ARCH sul tema ZEVI E BOTTONI: L’ULTIMO ATTO DI UNA LUNGA AMICIZIA

that fundamentally pursued the invention/rediscovery of the sky6. Zevi has the author himself illustrate and explain the connection between the “Right to the Sky” and his other works that fundamentally rely on the (re)conquest of a relationship with the sky. Both my design for a “Garden House” at the QT8 district in Milan, (1946, unbuilt) and the creation, in the same district, of the Monte Stella hill, an exceptional example of ‘manmade-natural’, ‘invented’ landscape transferred into the city – Bottoni argues – share the guiding line of this principle. However, the ‘green space’ created by urban design to provide tolerable conditions for the habitat cannot match the integral values of actual nature, of countryside, nor can it restore the perspective of a free ‘sky’ for the human eye7.

Piero Bottoni, Palazzo comunale di Sesto San Giovanni (Mi), 1961-71 (collaboratore Antonio Didoni). Veduta del corpo presidenza con il Monumento alla Resistenza (Piero Bottoni, collaboratrice Anna Praxmayer), 1962-63, APB Piero Bottoni, Municipal Building in Sesto San Giovanni (Milan), 1961-71 (with Antonio Didoni). View of the Presidential seat with the Monument to the Resistance (Piero Bottoni, with Anna Praxmayer), 1962-63, APB

Ideally, this same guiding line emerged in a fourth work – the Ossuary of the Fallen Partisans in the “Certosa of Bologna”, 1954-59 (with sculptures by Stella Korczynska and Jenny Wiegmann Mucchi, as well as by Bottoni himself) that stages a descent to hell and the reconquest of the sky. In the monument, a Dantesque motif – «to rebehold the stars» that closes the Divine Comedy – actually coincides with the civil rebirth made possible by the sacrifice of those who fought to restore CONSONNI, TONON

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André Wogenscky visto da Bruno Zevi André Wogenscky seen by Bruno Zevi

ZEVI E WOGENSCKY ZEVI AND WOGENSCKY di / by

Nicoletta Trasi

A distanza di pochi anni, Bruno Zevi pubblica due progetti di André Wogenscky nella storica rubrica su “L’Espresso”: il primo articolo risale al 19681 ed il secondo al 19732. Zevi decide di portare a conoscenza del pubblico italiano queste due opere molto note in Francia ma molto meno nel nostro Paese, e c’è da chiedersi come mai, nella vastissima produzione di Wogenscky di quegli anni, Zevi sceglie proprio queste due architetture. Leggendo i due articoli, da un lato si coglie con chiarezza una grande stima nei confronti di Wogenscky, «forse il migliore collaboratore di Le Corbusier» dice Zevi; e dall’altro fa emergere in più punti quel grande limite dovuto al perenne confronto col suo maestro Corbu. I due progetti vengono trattati proprio secondo queste chiavi di lettura. Iniziamo con il primo: la Maison de la Culture di Grenoble, progetto nato dalla volontà dell’allora ministro della Cultura André Malraux, viene inaugurata a dicembre 1967, in tempo per i Giochi Olimpici del 1968. Zevi presenta questo progetto come profondamente innovativo per il suo teatro girevole: «la Comédie des Alpes possiede un teatro […] concretato qui per la prima volta»; infatti il teatro rotante di Grenoble si ispira al Teatro Totale di Gropius del 1927 mai realizzato3. Il teatro mobile per 500 posti realizzato a Grenoble da Wogenscky quaranta anni più tardi rispecchia la chiara volontà di mettere l’accento sul ruolo sociale del teatro, coinvolgendo lo spettatore sul piano emotivo, costringendolo, durante la rappresentazione, in un certo senso a dimenticare i fatti esterni e ad immergersi completamente nella cultura. A differenza del progetto di Gropius, il parterre è

Within a few years, Bruno Zevi reviewed two designs by André Wogenscky – in 19681 and in 19732 – in his celebrated column for “L’Espresso”. Although very well known in France, they were less so in our country, and one wonders why Zevi selected precisely these two works in Wogenscky’s large production of the time, and brought them to the attention of the Italian public. The two articles clearly convey Zevi’s high esteem for Wogenscky that he considered as «perhaps Le Corbusier’s best collaborator» and how such constant comparison with the master weighs on his assessment. The interpretation of the two designs results precisely from these perspectives. The first design, the Maison de la Culture in Grenoble, was a project initiated by André Malraux, Minister of Culture of the time, and inaugurated in December 1967, in time for the 1968 Olympic Games. Zevi underlines the highly innovative quality of this design due to its rotating theater: «the Comédie des Alpes has a theater […] here implemented for the first time». The inspiration for the rotating theater in Grenoble was, indeed, Gropius’s unrealized project for a Total Theater (1927)3. The 500-seat mobile theater built by Wogenscky in Grenoble forty years later reflects the clear intention to emphasize the social role of theater by engaging the spectators emotionally and in a certain sense by forcing them to forget their lives during the performance and experience a fully immersive cultural moment. Unlike Gropius’ project, here the stage surrounds the parterre and, thanks to a mechanic system, performs a 360-degree rotation so that the director may embrace the audience «in the performance and make the stage disappear so that the spectators are ANDRÉ WOGENSCKY SEEN BY BRUNO ZEVI


completamente circondato dalla scena e grazie ad un sistema meccanico, può girare a 360 gradi, e il regista può circondare il pubblico «con lo spettacolo e fare in modo che non ci sia più il palcoscenico tra loro ma che al contrario, gli spettatori siano realmente integrati, e che possano sentirsi come il centro stesso dello spettacolo a cui essi partecipano»4. Spettatore assiduo e amante del teatro, nonché con ambizioni di attore in gioventù, Wogenscky in un capitolo del suo libro Architecture Active, descrive in maniera convincente il rapporto tra spettatore e teatro5. Zevi apprezza molto questa idea di libertà sia nei presupposti teorici che nella forma stessa che prende il teatro rotante di Grenoble, mentre apprezza molto meno il volume esterno, definendolo massiccio e monumentale, anche se poi diventa più indulgente comprendendo che questo volume dovrà confrontarsi col futuro assetto urbano che prevedeva l’inserimento di una grande piazza pedonale da cui si sarebbero osservati i diversi livelli della Maison de la Culture e da cui si sarebbero apprezzati meglio i prismi neri - contenenti i palcoscenici - emergenti dalla sagoma dell’edificio. Più duro è invece nei confronti delle facciate rivestite in «stucchevoli pannelli di metallo ritmati secondo moduli tipici della pietra» e nei confronti delle finestre «le asole vitree mal si inseriscono nel disegno e tentano di sbilanciarlo e sembrano adagiarsi nell’inerzia di un partito sostanzialmente classicistico». Pur se tale giudizio estetico può essere condivisibile, va sottolineato un aspetto che Zevi ha trascurato nell’articolo, ovvero che la tessitura dei pannelli di rivestimento − come anche la forma e le dimensioni dell’intero impianto planimetrico − deriva dal Modulor e non da «moduli tipici della pietra». Ed anche relativamente alla posizione, forma e dimensione delle finestre, va detto che esse non nascono affatto da una volontà estetica, come immaginato da Zevi quando dice che «le asole vitree mal si inseriscono nel disegno e tentano di sbilanciarlo» bensì dalle funzioni dello spazio interno: «La Maison de la Culture di Grenoble mi sembra uno dei miei migliori progetti perché è stato molto studiato dal punto di vista delle funzioni, dell’organizzazione interna, della circolazione, ed è precisamente questa organizANDRÉ WOGENSCKY VISTO DA BRUNO ZEVI

actually part and feel like the very focus of the performance they are watching»4. As a fan of theater and a frequent theatergoer who had even considered an acting career during his youth, Wogenscky convincingly described the relationship between audience and theater in a chapter of his book Architecture Active5. Zevi appreciated this concept of freedom both for its theoretical foundation and for its formal expression in the rotating theater in Grenoble. He was less enthusiastic about the exterior volume that he found massive and monumental. He became more indulgent when he realized that the building would have to find its place in its future urban context, a large pedestrian square from which one would view the different levels of the Maison de la Culture and better appreciate the black prisms – that contained the stages – emerging from the building’s outline. On the other hand, Zevi harshly criticized the façades clad with «appalling metal panels articulated in modules typical of stone» and the windows, «ill-fitting glazed slots that try to unbalance the design and seem to settle in the inertia of a basically classicist structure». Even though such aesthetic assessment may be acceptable, we should note an aspect that Zevi omitted in his article – the fact that the pattern of the cladding panels, as well as the form and size of the entire planimetric system, result from the Modulor rather than from «modules typical of stone». Even about the posi-

Maison de la Culture, Grenoble, 1965-1967. Sala mobile da 500 posti che pone gli spettatori al centro dello spettacolo. Per gentile concessione © Archivi N. Trasi, P. Misino Maison de la Culture, Grenoble, 1965-1967. The 500seat mobile hall with the audience at the center of the performance. Courtesy of © Archivi N. Trasi, P. Misino

NICOLETTA TRASI

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Luigi Moretti, uno degli “architetti di Zevi” Luigi Moretti, one of “Zevi’s architects”

ZEVI E MORETTI ZEVI AND MORETTI di / by

Roberta Lucente

Il controverso rapporto tra Bruno Zevi e Luigi Moretti trova una rappresentazione plastica già nei titoli di alcuni degli scritti del critico sull’architetto: Ambizione contro ingegno. Luigi Moretti double face1; D’Annunzio gli è rimasto nel compasso. La morte di Luigi Moretti. Quest’ultimo, è il titolo originario del vibrante necrologio firmato da Zevi nel luglio 1973, poi significativamente convertito, nelle Cronache di architettura, in Computer inceppato dal dannunzianesimo2, a ulteriore conferma di una posizione del suo autore mai modificata, nel bene come nel male. La prosa del critico è qui particolarmente dura, spietata nell’enumerare i difetti imputati ad alcune opere di Moretti, il quale è ritratto, nel corso del dialogo riportato dall’articolo, nell’atto di ascoltare «con pazienza» e senza irritazione perché consapevole del fatto che «l’accanimento critico» del suo interlocutore presupponesse «una profonda stima nelle sue possibilità»3. Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni Moretti compare tra “Gli architetti di Zevi”, nella mostra del MAXXI così intitolata. Probabilmente i curatori hanno avvertito la necessità di rimediare a uno strappo che a più di un cultore di questi due protagonisti del Novecento deve essere sembrato un’occasione mancata. Ma il destinatario di tanti appassionati attacchi non poteva che figurare, nell’allestimento, all’interno di un gruppo (e infatti mescolato tra i protagonisti dell’avventura del Villaggio Olimpico), perché uno spazio isolato a lui dedicato avrebbe rischiato di assumere i contorni di un paradosso. Oggi Luigi Moretti sarebbe orgoglioso di essere annoverato, infine, tra “Gli architetti di Zevi”. Ce lo dicono le parole accorate che ritroviamo nelle lettere da lui indiriz-

The controversial nature of the relationship between Bruno Zevi and Luigi Moretti clearly emerges even from the titles of some of the texts the critic wrote about the architect – Ambition versus Ingenuity. Luigi Moretti double face1; D’Annunzio was stuck in his dividers. The death of Luigi Moretti. The latter is the original title of the vibrant obituary Zevi wrote in July 1973, later interestingly transformed into Computer jammed by a “Dannuntian” spirit2, when the text appeared in Cronache di architettura, as a further confirmation of the fact that the author never changed his position, for better or worse. The critic’s prose is particularly harsh, merciless in its enumeration of the flaws he recognized in some of Moretti’s works who appears, during the dialogue described in the article, as listening «patiently» and with no irritation because he was aware that his interlocutor’s «critical ferocity» hid «a deep esteem in his possibilities»3. Now, almost fifty years later, Moretti appears as one of “Zevi’s architects” in the exhibition at the MAXXI with the same title. Probably the curators felt it was time to mend a breach that more than one supporter of these two giants of the twentieth century must have considered as a missed opportunity. However, the recipient of so many passionate attacks could only appear, in the exhibition, within a group (and indeed mixed with the protagonists of the Olympic Village’s adventure) because isolating him in a reserved space would have been too much of a paradox. The emotional words Luigi Moretti wrote to his beloved opponent certify he would have been proud of being, finally, one of “Zevi’s architects”. While Zevi’s opinion about him is unequivocal, a better understanding of Moretti’s feelings towards his LUIGI MORETTI, ONE OF “ZEVI’S ARCHITECTS”


zate a un antagonista comunque amato. E se le opinioni di Zevi nei suoi riguardi sono inequivocabili, la posizione di Moretti nei riguardi del suo «miglior nemico»4 può essere meglio compresa leggendo tra le righe di quelle sue stesse epistole. Esse ce lo restituiscono infatti alla ostinata ricerca dell’approvazione e dell’amicizia dell’altro, tanto da tradire, in alcuni passaggi, una tenerezza quasi struggente, ben al di là di quella «cordialità pregna di reciproca diffidenza»5 descritta dal critico, e in ogni caso confliggente con la tempra di un uomo che non disdegnava di mostrare la propria forza e, se necessario, la propria durezza. In una lettera datata 8 novembre 1954, Zevi, in qualità di segretario del consiglio nazionale dell’INU, con un tono cordiale ma formale invita Moretti a incontrare alcuni studenti americani vincitori di borsa Fullbright, avendolo scelto tra «le più importanti figure contemporanee della cultura architettonica ed urbanistica in Italia»6. La risposta di Moretti, scritta venti giorni più tardi, è improntata a un tono più amichevole, e rivela senza infingimenti il desiderio di questi di poter godere dei consigli dell’amico-nemico, giacché gli dice: «Vorrei anche vederti, e sono ormai circa tre anni che questo vorrei si trascina, perché credo che abbiamo non una ma sacchi stipatissimi di questioni da parlare e discutere»7. Le lettere sono precedenti a un altro animato dialogo riportato in Ambizione contro ingegno e risalente al 1955, e rivelano un grado di familiarità tra i due diverso da quello rappresentato nell’articolo, nel quale un formale «lei» sostituisce il più amichevole «tu» che, nei fatti, essi in questo scambio si rivolgono. Nel maggio del ’57 Moretti risponde a un invito ricevuto da Zevi in occasione di un incontro con Lewis Mumford, e non perde l’occasione per tornare sulle loro «leticate», che auspica di poter «seguitare» a fare8, evidentemente persino lusingato dal contrappunto tra le consuete graffianti critiche e il sostanziale riconoscimento delle sue qualità contenuto nello stesso citato articolo, infatti datato febbraio 1957. E pure nel luglio 1959 approfitta della risposta a un ulteriore invito per tornare a chiedergli: «Quando è che possiamo vederci per scambiare qualche idea? Ti tratterrai a Roma in questa estate? Dammi notizie, io poi prendo l’iniziativa per incontrarci»9. LUIGI MORETTI, UNO DEGLI “ARCHITETTI DI ZEVI”

«best enemy»4 may emerge from between the lines of the very same letters. Indeed, these convey Moretti’s stubborn pursuit of Zevi’s approval and friendship, so much so that, in some passages, they even betray an almost heartsick tenderness. Such tones certainly exceed the «cordiality fraught with mutual distrust»5 described by the critic, and in any case were unusual for a man who would not shy from showing his strength, if not his harshness, when necessary. In a letter dated November 8, 1954, Zevi, then secretary of the INU’s [National Institute of Urban Planning] National Council, cordially but formally invited Moretti to a meeting with a group of American Fulbright scholars, as he thought of him as «one of the main exponents of contemporary architectural and urban planning culture in Italy»6. Twenty days later, Moretti replied with a letter that, in more than friendly tones, sincerely expressed his desire of benefitting from the advice of his friend-enemy. «I would also like to meet with you – he writes – as I have wanted to for three years since I think we have not one but countless issues to talk about and discuss»7. While these letters suggest a certain familiarity between the two, there would be a heated exchange later, in 1955, reported in Ambition versus Ingenuity, in which they address each other with a certain formality. In May 1957, Moretti replied to an invitation Zevi had sent him for a meeting with Lewis Mumford. He did not miss out on the opportunity to comment on their «quarrels», and on his wish to «keep on» quarrelling with Zevi8, clearly even flattered by the contradiction between the latter’s usual biting criticism and the intrinsic acknowledgement of his qualities conveyed by the same article, dated February 1957. Later on, in July 1959, he once more took the opportunity of the reply to another invitation to ask Zevi, «When can we meet to discuss some ideas? Are you staying in Rome this summer? Let me know and I will make the necessary arrangements»9. Moretti used a very different tone when he wrote to other interlocutors with whom he entertained similar exchanges. His correspondence with Paolo Portoghesi, for example, equally conveys a lively, mannered cordiality, even though this did not keep him from sending a piqued note to ROBERTA LUCENTE

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Zevi e Pellegrin: una storia comune Zevi and Pellegrin: a shared history

ZEVI E PELLEGRIN ZEVI AND PELLEGRIN di / by

Maurizio Petrangeli

Una recente mostra al MAXXI di Roma1 ha illustrato la figura di Zevi attraverso le opere degli architetti che, nel tempo, ha promosso; un’incessante attività che si è espressa con l’invito e il sostegno nei concorsi, la pubblicazione delle opere su “L’architettura, cronache e storia”, la diffusione delle ricerche e dei risultati di ciascuno in incontri, conferenze, dibattiti. Architetture e architetti che hanno contribuito a costruire l’esito formale più diretto delle sette invarianti zeviane. Tra essi risalta Luigi Pellegrin, geniale protagonista del secondo Novecento che, a tutt’oggi, è ancora misconosciuto se non dichiaratamente osteggiato dalla cultura architettonica italiana. Tra i due – Zevi e Pellegrin – vi è sempre stato un rapporto di stima e di reciproco rispetto, anche se a volte aspro e polemico per il non facile temperamento di entrambi. Comunanza che si è estesa a tutto l’universo zeviano: da Renato Pedio, storico caporedattore della rivista, a Luca Zevi, il figlio, che hanno partecipato ad alcuni dei progetti di concorso dello studio Pellegrin; ancora Luca, che ha scritto con Luigi Prestinenza Puglisi e Giovanni D’Ambrosio la monografia Luigi Pellegrin - Il mestiere di Architetto (2001). Stima e interessi comuni hanno origini lontane. Dopo un biennio alla Facoltà di Architettura di Roma, Zevi lascia l’Italia nel 1939 a causa della promulgazione delle leggi razziali; si reca prima a Londra e poi negli Stati Uniti, dove si laurea nel 1941 presso la Graduate School of Design della Harvard University, diretta da Walter Gropius. In America scopre Frank Lloyd Wright e l’architettura organica, di cui rimarrà un convinto e acceso sostenitore per tutta la vita. Pellegrin, più giovane di sette anni, ha modo di conoscere personalmente Wri-

A recent exhibition at the MAXXI in Rome1 illustrated Zevi’s figure through the works of the architects he promoted over time – a relentless activity he developed by inviting them to competitions and supporting their work, by featuring their works in “L’architettura, cronache e storia”, and by illustrating their research and achievements in meetings, conferences, debates. Those architectures and architects helped define the most straightforward formal achievement of Zevi’s seven invariants. Luigi Pellegrin, a brilliant protagonist of the second half of the twentieth century who is still unrecognized if not downright shunned by Italian architectural culture, was a remarkable member of that group. Zevi and Pellegrin always shared a relationship of mutual esteem and respect, even with occasional bouts of virulent polemic due to the difficult temperament of both men. Such shared feelings extended to the entire milieu that surrounded Zevi – from Renato Pedio, the longtime editor-in-chief of his magazine, to Zevi’s son, Luca, who contributed to some of the competition designs developed by Pellegrin’s firm. Luca Zevi also cowrote the monograph Luigi Pellegrin - Il mestiere di architetto (2001) with Luigi Prestinenza Puglisi and Giovanni D’Ambrosio. Such mutual esteem and shared interests have a long history. After two years at the Faculty of Architecture in Rome, Zevi left Italy in 1939 following the enactment of the Italian racial laws. He went first to London and later to the United States where he obtained his degree at the Harvard Graduate School of Design directed by Walter Gropius in 1941. In the US, he would discover Frank Lloyd Wright and organic architecture, the cause of which he would keenly support all his life. PelZEVI AND PELLEGRIN: A SHARED HISTORY


ght nel 1951, durante una visita del Maestro in Italia. Su suggerimento di Zevi, alla fine del 1953, dopo la laurea, si reca negli Stati Uniti e lavora presso lo studio di W.R. Burck a New Orleans, introdotto da James Lamantia, un architetto italo-americano conosciuto a Roma durante il giubileo del 1950. Ad agosto del 1954 Pellegrin si reca a visitare il Florida Southern College a Lakeland e rimane affascinato dalla capacità di Wright di riproporre forme arcaiche che “saltando la storia, si ri-insediano nella modernità”. A dicembre fa tappa a Chicago e rimane folgorato dalle realizzazioni della celebre Scuola: Sullivan, Wright, ma anche personaggi in Italia meno noti quali Elmslie e Root, che documenta attraverso centinaia di scatti fotografici. Tornato a Roma alla fine del 1954, Pellegrin si reca a visitare Zevi: il comune inte-

ZEVI E PELLEGRIN: UNA STORIA COMUNE

legrin, who was seven years younger than Zevi, had the opportunity to meet Wright in 1951 when he visited Italy. After graduation at the end of 1953, Pellegrin followed Zevi’s suggestion and left for the United States, where he worked at W.R. Burck’s firm in New Orleans, thanks to an introduction by James Lamantia, an Italian-American architect he had met in Rome during the 1950 Jubilee. In August 1954, Pellegrin visited the Florida Southern College in Lakeland and fell under the spell of Wright’s ability to reproduce archaic forms that “travel across history to re-settle in the modern age”. In December, he made a stop in Chicago where the achievements of the celebrated School – Sullivan, Wright as well as others less well known in Italy such as Elmslie and Root literally dazzled him, as documented by

Luigi Pellegrin, Ufficio Postale. Saronno 1965, esterno Luigi Pellegrin, Post Office. Saronno 1965, external view

MAURIZIO PETRANGELI

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Bruno Zevi e noi del gruppo Metamorph

(Gabriele De Giorgi, Alessandra Muntoni, Marcello Pazzaglini)

Bruno Zevi and the Metamorph group

(Gabriele De Giorgi, Alessandra Muntoni, Marcello Pazzaglini)

ZEVI E METAMORPH ZEVI AND METAMORPH di / by

Gabriele De Giorgi

Il gruppo Metamorph è tra gli “architetti di Bruno Zevi”. Tra Zevi e noi Metamorph (inizialmente, fino al 1974, composto anche da Paolo Angeletti, Cina Conforto, Gaia Remiddi) c’era un’intesa culturale improntata soprattutto al rinnovamento dei linguaggi, della ricerca spaziale e della comunicazione dell’architettura. Perseguivamo questo obiettivo attraverso la spregiudicatezza dei riferimenti alle avanguardie e alla cultura delle metamorfosi. (In nova fert animus mutatas dicere formas (Ovidio) iniziavamo con questa citazione il primo numero della nostra rivista “Metamorfosi, quaderni di architettura” (1985). Metamorfosi, dai miti classici ai giorni nostri, è arte di fusioni, innesti, intersezioni, compenetrazioni, tendenti a scartare soluzioni univoche, a sottolineare la complessità delle vicende umane attraverso narrazioni di dissolvenze, sfumature, pieghe, passaggi, attraverso un mondo nuovo di forme e contenuti della vita. In architettura si pensi al barocco, all’Art Nouveau, al liberty, al Déco, all’espressionismo, all’architettura organica fino alle avanguardie del 900 e degli anni 2000. Sono pagine affascinanti scritte da artisti senza le soffocanti maglie delle accademie, delle riduzioni e di ogni sorta di inibizioni. Progettisti senza timore che elaborano nuove ricerche e sperimentazioni. «Docere et delectare», per Leibniz attraverso la diversitas. «La uniformità limita, la varietà dilata» diceva Gracian nel 1642. Zevi è il relatore delle nostre tesi di laurea (1966-67). Detto tra parentesi, non è un caso che le tesi facciano parte della collezione permanente del Centro Pompidou

The Metamorph group belongs to “Bruno Zevi’s architects”. Our group (that also included Paolo Angeletti, Cina Conforto, and Gaia Remiddi until 1974) shared with Zevi a cultural approach mainly based on the renewal of languages, spatial research and the communication of architecture, a goal we pursued through an unconventional reliance on the avant-gardes and the culture of metamorphosis. A quotation from Ovid’s Metamorphoses, “In nova fert animus mutatas dicere formas” (My mind inclines me to speak of bodies changed into new forms) opened the inaugural issue (1985) of our magazine, “Metamorfosi, quaderni di architettura”. Since the Classic myths to our days, metamorphosis has identified an art that, in relying on fusions, grafts, intersections, and interpenetrations, avoids one-sided solutions to celebrate the complexity of human events through narratives of blurring, nuances, folds, passages towards a new world of forms and contents of life. Baroque, Art Nouveau, Liberty, Deco, Expressionism, organic architecture down to the avant-gardes of the twentieth and twenty-first centuries exemplify such approach in the realm of architecture with inspiring pages written by artists who broke free from the suffocating spires of the academies, over-simplifications and all sorts of inhibitions. Fearless designers who came up with new insights and experiments. «Docere et delectare» [“To teach and delight”] for Leibniz, through diversitas. «Uniformity limits, variety dilates», as Gracián wrote in 1642. Zevi supervised our dissertations (1966BRUNO ZEVI AND THE METAMORPH GROUP


di Parigi e del Frac di Orleans insieme ad altri progetti del gruppo. Nel 2017 (50 anni dopo) saranno oggetto di studio dei laureandi del Corso di laurea in architettura U.E. (digitalizzazione) relatori prof. Laura De Carlo e Piero Albisinni, dell’Università di Roma “La Sapienza”, Prima Facoltà di architettura. Queste nostre tesi di laurea, come sviluppo architettonico del Piano del Basso Salento elaborato nel corso di urbanistica di Luigi Piccinato, sono situate a Gallipoli e Nardò. Hanno alla base di ogni ragionamento la premessa che in un contesto come quello salentino, dalle gloriose tradizioni dell’architettura barocca ma di una cultura ferma nel tempo, l’architettura abbia bisogno di uno scarto profondo per aprirsi alla contemporaneità. Ecco allora i due temi programmatici che presiedono alla loro progettazione: Una ricerca originale del rapporto tra il barocco e la contemporaneità. Non è estranea la “critica operativa” zeviana, «ossia un metodo che avrebbe consentito il recupero della storia dell’architettura nella pratica della progettazione, senza però arrivare a citarne materialmente i sintagmi formali e stilistici» (Roberto Dulio). Più tardi nel 1988 sarà Deleuze a tener conto della lettura del barocco come avanguardia (Leibniz e il barocco) e tentarne un transfer concettuale nella contemporaneità. Una salutare revisione liberatoria. «Non è neppure ipotizzabile – dice Zevi – un atto

67), which, incidentally, are now part of the permanent collections of the Centre Pompidou in Paris and the FRAC in Orleans along with other projects developed by the group. Fifty years later, in 2017, the same dissertations would be studied by the U.E. Architecture Degree program (digitization) supervised by professors Laura De Carlo and Piero Albisinni at the First Faculty of Architecture, University of Rome “La Sapienza”. Our dissertations developed the Plan for the Lower Salento area in Apulia produced by the urban planning course taught by Luigi Piccinato with designs for the cities of Gallipoli and Nardò. The fun-

Marcello Pazzaglini, Campus scolastico a Nardò, Tesi di laurea, relatore Bruno Zevi, correlatore, novembre 1966 Marcello Pazzaglini, School Campus in Nardò, Degree Thesis, Thesis supervisor Bruno Zevi, Correlator of degree thesis Paolo Portoghesi, November 1966 BRUNO ZEVI E NOI DEL GRUPPO METAMORPH

GABRIELE DE GIORGI

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