Le strade di Pikionis

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Indice ***


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Una premessa necessaria 12

Incontri 30

Un incontro speciale 34

Dimitris Pikionis 42

Piccole città 58

Aixoni 70

Il “giardino” dell’Acropoli 94

Bibliografia citata nel testo


Una premessa necessaria ***


P

rima di addentrarmi nel tentativo di spiegare l’utilità che ha avuto per me, e penso possa avere per altri, il contributo di una figura anomala nel panorama dell’architettura moderna come quella del greco Dimitris Pikionis (1887-1968) è necessario che chiarisca la natura della mia lettura non essendo io uno storico di professione. La collocazione critica di un architetto dentro una storia come quella del Novecento è di per sé un fatto complicato, troppo breve è la distanza temporale, troppo forte il peso delle ideologie e delle propagande che hanno attraversato il secolo condizionando ogni sua interpretazione. Ciò è vero a tal punto che le storie dell’architettura, prodotto quasi esclusivo del Novecento, proprio nell'analisi del secolo in cui si sono sviluppate, stanno segnando il passo, soppiantate da memorie, monografie, cronache, guide o altro. Accanto ad esse esiste, però, una specie di “racconto informale” prodotto dalle testimonianze di architetti su altri architetti e coltivato, per lo più a distanza, al di fuori di rapporti diretti. Dentro a questa narrazione collettiva si colloca la mia lettura. Il genere cui appartiene è quello delle “tradizioni” personali e delle predilezioni che accompagnano la vita di ogni architetto e i cui percorsi, costituiscono un sapere di tipo particolare, raramente formalizzato in libri, alimentato da notizie frammentarie o immagini parziali, confermato da visite “devozionali” e dalla creazione di opere che saldano il debito accumulato. La formazione di questo sapere deriva direttamente 9


Incontri ***

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I

l mio personale incontro con architetti “dimenticati” del secolo appena trascorso è avvenuto per lo più casualmente e in un breve arco di tempo. La curiosità iniziale nasceva da articoli o notizie captati nelle redazioni delle riviste o delle case editrici che ho frequentato e che, insieme ai viaggi, hanno costituito, nel corso degli anni ’80, il mio surrogato ad una formazione universitaria alquanto precaria. L’immunità dal rischio, reale in certi ambienti, di accumulo asettico di curiosità per pochi, mi derivava, invece, dalla pratica dell’architettura iniziata in quegli stessi anni e che aveva bisogno, per alimentarsi, di percorsi non consueti. Lo rendeva urgente la necessità di autonomia da almeno un paio di generazioni precedenti, fondamentali per la mia formazione ma anche ingombranti intellettualmente e “stilisticamente”. Una necessità tanto più impellente quanto più si esauriva la spinta ideale che aveva alimentato quelle generazioni moltiplicandone le qualità e tornavano a prevalere i percorsi personali. “Scoprire” – ma sarebbe meglio dire appropriarmi – delle esperienze di architetti come Jože Plečnik, Fernand Pouillon, Hassan Fathy, Hans van der Laan, come se fossero le mie, discuterne con i compagni di quegli anni, vederne dal vero le opere, aveva anche lo scopo di trovare risposte a temi progettuali e scenari urbani che iniziavano a cambiare rispetto a quelli dell’immediato post -‘68. Non che si trattasse di scoperte di prima mano o che su quelle vicende non esistessero documentazioni. Per ognuno dei personaggi citati, alcuni dei quali, per altro, ancora viventi al tempo 13


J. PleÄ?nik, Veduta del lungofiume di Lubiana, 1920-1930. Fotografia di Andrea Iorio.

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della mia personale indagine, esistevano libri, articoli, erano state realizzate mostre anche importanti. Il loro cauto “ripescaggio” dall’oblio in cui erano piombati si accompagnava, però, ad un pregiudizio non dichiarato, ad una sorta di benevola condanna. Nel momento stesso in cui venivano fatti conoscere scattava anche il confino ai margini della storia della modernità attraverso la loro etichettatura come eccentrici, eclettici, regionalisti, vernacolari. Quei personaggi, che spesso non facevano parte degli schieramenti attraverso i quali si è voluto ricostruire la vicenda architettonica moderna, erano considerati, insomma, come curiose eccezioni, portatori di un virtuosismo formale tanto evidente quanto difficilmente collocabile. Di loro, si preferiva mettere in risalto connotazioni stilistiche, magari sull’onda del post-modernismo nascente, o sociali, o addirittura aspetti oscuri della loro vita o delle loro teorie. Passavano in secondo piano, invece, i temi generali con cui si erano misurati con le loro opere e le loro idee e non si vedeva come il mutare delle condizioni di fine secolo rendesse il loro contributo molto più che una semplice curiosità per eruditi. A me sembrava evidente, ad esempio, che l’importanza di Jože Plečnik (1872-1957) non consistesse tanto nel linguaggio formale, personale e difficile da accettare. Solo una lettura strumentale lo poteva considerare come una sorta di antesignano di quello che,

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