Re- Pratiche di riparazione e personalizzazione

Page 1

inchiesta

pratiche di riparazione e personalizzazione

1


UniversitĂ degli Studi di Catania

2


pratiche di riparazione e personalizzazione Facoltà di Architettura di Siracusa Dottorato in “Progetto Architettonico ed Analisi Urbana” XXI ciclo 2005-2008 Coordinatore Prof.ssa Zaira Dato Toscano Tutor Prof. Marco Navarra Dottorando Francesco Trovato

ai miei genitori


Ripristinare, riagganciare, riassemblare, rimettere a nuovo, rinnovare, rivedere, ricuperare, riprogettare, riconsegnare, ripetere, riaffittare, rispettare: i verbi che cominciano con ri- producono Junkspace. Il junkspace è oggetto di una manutenzione frenetica, il turno di notte ripara i danni del turno di giorno in un’incessante replica del mito di Sisifo Rem Koolhaas, Junkspace, Quodlibet 2007, Pag. 83 4


IN QUESTO NUMERO

BOOKZINE 7. Premessa

REPAIRING

9. Introduzione

I.POSTPRODUCTION 15. Cairo Vs New York 23. La riparazione tra riuso e postproduzione 34. Informal city

INFORMAL CITIES Boulaq el Dakrour

II.UPGRADE 52. Ataba 55. Sulla cultura dell’innovazione e della riparazione di Jan Chipcase 58. Upgrade 62. Riparazione,

Amplificazioni sulla città informale

III.CUSTOM 66. Stile un pò vintage 68. Pimp my ride 71. Raw 72. Elemental 78. Palais de Tokyo

PROGETTI SMARRITI Looking for non-branded projects

83. El Sawy Culture Wheel 93. Bibliografia 95. Conclusioni

Desidero ringraziare Paolo Tringali senza il contributo del quale questo lavoro sarebbe rimasto incompiuto. Mia sorella e Peppe Maisto per le fotografie. Marcello per avermi sfamato per innumerevoli serate e Arianna che mi sta sempre vicino. Un ringraziamento particolare alla Prof.ssa Zaira Dato Toscano per il suo supporto.

in copertina: Bulaq, Il Cairo, Egitto


6


PREMESSA

Bookzine

R

epairingcities è una ricerca nata da un’idea di Marco Navarra in occasione del workshop “Learning from cities”, organizzato dalla Biennale di Venezia nel 2006, in cui alcune scuole di architettura italiane e straniere sono state invitate a lavorare sulle più grandi megalopoli del mondo. Negli anni successivi al workshop la ricerca è stata ampliata e pubblicata nel 2008 nel volume “Repairingcities, la riparazione come strategia di sopravvivenza”1, che raccoglie in maniera sintetica una serie di spunti e di osservazioni sulla cultura della riparazione nella capitale egiziana. Questa tesi di dottorato è un tentativo di rimettere insieme tutto il materiale prodotto nell’ambito di questa ricerca, accostando al lavoro di chi scrive i contributi di coloro che, in modalità diverse, vi hanno collaborato. Nella fase iniziale di costruzione di questo stampato si era pensato a un prodotto simile a un libro illustrato di architettura con una struttura piuttosto classica, ma procedendo con il lavoro di impaginazione, ci si è resi conto che il materiale e le idee sul tema trattato erano di natura diversa e in continua mutazione. Per farli stare insieme in una pubblicazione c’era bisogno di utilizzare una struttura elastica, capace di pratiche di riparazione e personalizzazione

adattarsi ai possibili cambiamenti e di accogliere contributi esterni, intuizioni, ripensamenti ed errori. Nel 2004 Rem Koolhaas, con il suo studio OMA/AMO, organizza la mostra Content alla Nationalgalerie di Mies a Berlino per documentare l’attività professionale del suo studio Oma e le ricerche dell’ufficio gemello AMO. Il catalogo della mostra raccoglie e mescola immagini, progetti, interviste, saggi, disegni, fumetti, diagrammi, «fotografie del mondo in evoluzione»2 in una pubblicazione ambigua che lo stesso Koolhaas definisce una «produzione del momento»3 che riesce ad essere immediata, informale, schietta proprio perchè non ha la pretesa di essere eterna. Questa tesi, chiamata Re-, è un bookzine (book+magazine) che, come il catalogo Content, si muove nel territorio di mezzo tra un libro e uno stampato più effimero come un periodico; come il primo cerca di approfondire delle questioni e come il secondo le affronta solo in superficie e ne lascia aperte delle altre per un eventuale numero

Content è una produzione del momento.

Questo libro è frutto di instabilità. Non è eterno; è già quasi scaduto. Si serve della volatilità per permettersi di essere immediato, informale, schietto; abbraccia l’instabilità come nuova sorgente di libertà. (Rem Koolhaas)

successivo. Il layout scelto imita quello di un comune settimanale di attualità, che viene letto, gettato via o conservato se contiene degli articoli che ci interessano. I periodici contengono spesso articoli su argomenti disparati che non necessariamente hanno una connessione tra loro, i testi sono molto vari e generalmente la tipologia di articolo che si sta leggendo è sempre indicata nella parte alta della pagina : cronaca, reportage, rubriche, politica.

7


PREMESSA Il titolo della tesi “Re-” è il corrispondente in latino e inglese del prefisso italiano “ri-”, utilizzato in termini come ri-ciclo, ri-uso, riparazione (dal latino reparare). Ri- esprime concetti come ripetizione (ritentare, rivedere, ripensare), ritorno ad una fase (ritrovare, riacquistare), intensità (ricercare, risvegliare). Può conferire un valore nuvo al verbo di derivazione (riprodurre, ricavare)

Dovendo in questa sede trattare un argomento unico si è preferito dividere il testo in tre sezioni principali, che hanno come tema alcune delle conseguenze più interessanti delle pratiche di riparazione: il riuso, l’innovazione e la personalizzazione. Queste sezioni “aprono” sempre un argomento diverso dall’architettura, cercando di osservare alcuni fenomeni estranei a questa disciplina, che in qualche modo si è ritenuto possano avere a che fare con essa. In queste pagine, è stata aggiunta un’ etichetta nella parte alta della pagina, che identifica “gli articoli” in base alla loto natura e al ruolo diverso che hanno all’interno della tesi. Nelle pagine etichettate con il termine scanning, in cui sono stati raccolti gli indizi sulla cultura della riparazione attraverso “scansioni” di realtà contemporanee, trovano spazio i sopralluoghi, le interviste, i reportage, il lavoro di ricerca “sul campo” realizzato con lo sguardo di chi osserva con l’ obiettivo di 8

rielaborare. Questi materiali sono intercalati da testi e immagini4 che riportano le posizioni (positions) di altri ricercatori all’interno di questo ragionamento, che fungono da supporto, scientifico e non, al ragionamento. Le pagine editing e diagrams, inteso come postproduzione dei fenomeni osservati, provano a rielaborare i materiali raccolti attraverso testi e disegni per estrarre alcune strategie di progetto amplificando processi già in atto o in fase latente. Infine come verifica delle tesi sotenute (testing) sono stati selezionati alcuni progetti contemporanei in cui è possibile individuare operazioni progettuali riconducibili al concetto di riparazione, nel tentativo di comprenderne le potenzialità e i limiti. La tesi si chiude con un esempio di architettura informale che riassume in maniera esemplare il concetto della riparazione come riuso di un’infrastruttura e di uno spazio urbano scartato. , Questa parte finale è pensata come una rubrica dal titolo “progetti smarriti”, che ha come tema quello delle architetture “non firmate” (looking for non-branded project), costruite in un tempo diluito e in maniera spontanea ed autonoma che, nonostante non abbiamo alle spalle un progetto di architettura nel senso più canonico del termine, forniscono degli spunti interessanti sul progetto contemporaneo. Per meglio sostenere dal punto di vista grafico l’idea di un periodico troverete alcune pagine dedicate a finti spazi pubblicitari, che mostrano in maniera ironica e

provocatoria oggetti o spazi costruiti dal “popolo dei riparatori”. 1. M. Navarra (a cura di), Repairingcities, la riparazione come strategia di sopravvivenza, LetteraVentidue Edizioni, Siracusa 2008 2. Cfr. R. Koolhaas, Content, Tashen 2004, pag. 16 (trad. del dottorando) 3. ibidem 4. Alcuni contributi delle pagine position sono tratti da testi in inglese tradotti dal dottorando.

LEARNING FROM... «Paradossalmente, percepivo nel vostro libro una coppia di architetti, che a dispetto del loro amore per l’architettura erano orribilmente affascinati dal suo opposto»1. Con queste parole Rem Koolhaas inizia un intervista a Venturi e Scott Brown, trent’anni dopo la pubblicazione del loro libro. Learning from Las Vegas si basava sulla convinzione che imparare dall’esistente è, per un architetto, un modo di essere rivoluzionario, dichiarando espressamente la volontà di guardare le città in «un modo diverso, più tollerante»2. Bisognava avere una maggiore rispetto verso l’opposto dell’architettura, la bad architecture, «l’ordinario», rinunciando alle modifiche radicali dell’esistente per «valorizzare quello che vi è già». Nei paesi in cui persiste la cultura della riparazione la valorizzazione e il riuso dell’esistente non è solo una scelta culturale, ma diventa tale perchè condizione necessaria alla sopravvivenza urbana. L’obiettivo di questa ricerca è di osservare e imparare dal fenomeno della riparazione come processo spontaneo e informale che trasforma la città, riutilizzando gli scarti e producendo innovazione. Parafrasando Venturi e Scott Brown, si è cercato di «guardare in giù, per andare in su», di utilizzare giudizi generali «come strumento per successivi giudizi più approfonditi. Questo è un modo di imparare da qualsiasi cosa». 1. Rem Koolhaas, Content, Taschen 2004, p.73 2. Per le citazioni che seguono cfr. Venturi Robert, Izenou Steven, Scott Brown Denise, Learning from Las Vegas, MIT press 1977, pg. 3


INTRODUZIONE

Repairing

U

no degli ultimi spot televisivi dell’Enel1 presenta una serie di immagini di oggetti in disuso degli anni settanta, sottolineando i progressi nel campo dell’elettronica attraverso alcuni gesti dimenticati con l’obiettivo di promuovere un nuovo tipo di contratto che il cliente può gestire totalmente su internet. Nello spot, immagini di vecchie radio analogiche, macchine da scrivere e registratori audio che si inceppano trasmettono al consumatore la sensazione di vivere in un epoca in cui tutto ciò è superato grazie ai progressi della tecnologia. Chi di voi non ricorda i vecchi centri assistenza per TVcolor pieni di tubi catodici smontati in cui un tecnico specializzato riparava questi elettrodomestici in maniera più o meno artigianale? Queste attività, che prolungavano la vita dei prodotti e ne limitavano il consumo, sfavorendo le aziende produttrici, ma offrendo lavoro a parecchi riparatori artigiani, sono oramai quasi scomparse. Nei paesi occidentali la cultura della riparazione, piuttosto diffusa dal secondo dopoguerra, è stata soppiantata da fenomeni di consumo che, supportati dall’industria pubblicitaria, stimolano gli utenti rimpiazzare i prodotti obsoleti o danneggiati con quelli di nuova produzione. Ponendo la questione in questi termini si potrebbe obiettare che non tutti i consumatori sono vittime della pubblicità inclini a un consupratiche di riparazione e personalizzazione

mo sfrenato. Tuttavia, è il celebre lettore mp3 da una riflessione più della multinazionale attenta, ci si accorge Apple. L’iPOD, in cui che la causa di questo è impossibile sostituire perfino ciò che per deatteggiamento, va rinfinizione è un consutracciato non solo nelmabile, la batteria, rapla pressione esercitata sugli utenti dai mezzi presenta anche un caso di comunicazione, ma REM KOOLHAAS singolare di come una politica aziendale che anche alla base della metà dell’umanità limita le possibilità di produzione dei beni e, inquina per produrre, riparazione abbia inpiù precisamente, nel- l’altra metà inquina nescato una forma di le modalità di proget- per consumare reazione da parte dei tazione e realizzazione Rem Koolhaas, Junkspace, consumatori, che si cidella maggior parte dei Quodlibet 2007, p.83 mentano in riparazioni prodotti attualmente in commercio. Osservando gli og- selfmade come la sostituzione delgetti elettronici o meccanici pro- la batteria piuttosto che del display dotti in passato è facile notare che danneggiato. erano progettati prevedendo even- Queste pratiche spontanee, ormai tuali riparazioni future: era possibi- poco diffuse nei paesi industrializle smontarli, sostituire dei pezzi e zati, persistono invece nei paesi del “terzo mondo” dove far riparare un riassemblarli. Oggi, in particolar modo nel mer- oggetto non funzionante è un fecato hi-tech, la tendenza è quella di nomeno del tutto usuale. produrre oggetti spesso impossibi- Al Cairo, ad esempio, alcuni quarli da smontare o riparare, costrin- tieri della città sono interamente gendo il consumatore a disfarsene occupati da mercati di pezzi usati nel momento in cui si danneggia- e da riparatori che aggiustano dalno. Nella maggior parte dei casi, le auto ai telefonini, dagli elettroinfatti, è più dispendioso ripara- domestici ai tappeti, creando una re un oggetto che acquistarne uno nuovo, ma bisogna anche prendere coscienza del fatto che in futuro potrebbe costare di più lo smaltimento che la riparazione. Un esempio di un bene con un grado di riparabilità pari quasi a zero 9


sistema microeconomico che trasforma lo spazio urbano divenendo una solida forma inerziale di resistenza alle trasformazioni della globalizzazione. Rem Koolhaas, nel suo Junkspace, sostiene che «metà dell’umanità inquina per produrre, l’altra metà inquina per consumare»2; a questa equazione di dovrebbe aggiungere un’altra grande fetta di popolazione mondiale che, spinta da diverse basi culturali e da un istinto di sopravvivenza, ha sviluppato una capacità di ri-parare, ri-produrre e ri-consumare tutto ciò che la società globalizzate considerano un rifiuto. Nelle megalopoli del terzo mondo la povertà e le condizioni di vita estreme spingono la popola10

zione ad utilizzare al meglio le risorse offerte dal contesto trasferendo le pratiche di riparazione anche alla città, attraverso microinterventi che rispondo alla mancanza di spazio, dovuta alla densità, e alla carenza di risorse. Questi fenomeni di trasformazione della città fino ad oggi trascurati “crescono spontaneamente” in quello che Mirko Zardini definisce il “terzo paesaggio” dell’architettura3, mutuando questa definizione da quella introdotto da Gilles Clement per descrivere il paesaggio residuo nel mondo vegetale. Dal 2005, anno in cui questo lavoro ha avuto inizio, ad oggi l’attenzione delle ricerche in campo architettonico è sempre più orientata

verso realtà contemporanee estreme in cui riemergono i bisogni primari dell’architettura4 e si manifesta lo stato di crisi come «momento decisivo in cui le tensioni e l’instabilità raggiungono il picco e il cambiamento diviene inevitabile»5. Le riviste e le mostre di architettura negli ultimi anni stanno riducendo lo spazio dedicato alle “sfilate” di progetti firmati per tornare a parlare delle città, della società e del tema dell’abitare, rivelando un’ esigenza di riportare disciplina agli scopi primari per cui è nata. L’edizione 2006 della Biennale di Architettura di Venezia, ad esempio, ha proposto «più che una esposizione di (modelli ed esempi di) architetture, (...)un discorso


INTRODUZIONE

sull’architettura che offre interpretazioni di temi strettamente interrelati alle questioni della convivenza civile, all’obbligo di progettare il futuro e le sue proposizioni di cambiamento per vivere nel presente»6, focalizzando l’attenzione su alcune delle più emblematiche megalopoli del pianeta nell’anno in cui il 50 per cento della popolazione mondiale è diventata urbana7. Quest’anno (2008) il Padiglione Italiano, dopo un eclisse durata molti anni, solleva nuovamente la questione della casa popolare, attraverso una mostra “laboratorio” che restituisce le provocazioni e le ricerche sul tema di dodici studi di architettura italiani8. Quanto esposto è sintomatico di un cambiamento di rotta di una parte dibattito architettonico contemporaneo, in cui sembra scemare l’interesse verso «musei, centri culturali o commerciali, o nuovi simboli del potere, della comunicazione, del consumo»9, a favore di un territorio su cui operare molto più vasto e spesso trascurato. Ovviamente un cambiamento comporta anche la definizione di strategie e strumenti diversi con cui operare. pratiche di riparazione e personalizzazione

Teddy Cruz, architetto americano che lavora sul confine tra California e Messico, nota come in questi territori a limite, dove si mescolano politiche di sviluppo urbano imposto dall’alto e pratiche di auto-organizzazione, generate dal basso, «si concentrano paradigmaticamente le questioni oggi più drammatiche: quelle che mettono seriamente in discussione le nostre nozioni normative in termini di architettura di architettura e urbanistica»10. Qual’è il ruolo dell’architettura in una realtà in cui più di un miliardo di persone sopravvive nelle baraccopoli del terzo mondo? Se in Africa o nelle Megalopoli asiatiche questo fenomeno è motlo evidente11, nei paesi del “primo mondo” non ci si rende conto, o forse non si vuole prendere atto, che il numero delle baraccopoli e dei senza tetto è in costante aumento. E’ possibile definire strumenti e strategie progettuali direttamente nei “luoghi della crisi”, osservando da un nuovo punto di vista le pratiche che oggi definiamo informali? Questa tesi è un’indagine sulla cultura della riparazione e sui fenomeni di costruzione autonoma delle città. L’ obiettivo è di verificare la possibilità di estendere queste pratiche all’architettura, cercando gli strumenti in fenomeni già in atto nelle megalopoli in via di sviluppo, interpretando il progetto come un potenziamento e una messa a punto delle strategie esistenti. Nelle pagine che seguono si cercarà di andare oltre il concetto base di riparazione, come risoluzione di un guasto, provando ad astrarre tre delle conseguenze più interessanti

di questa pratica: il riuso come rigenerazione degli scarti e postproduzione dell’esistente, l’upgrade del tessuto urbano come innovazione e risposta alla densità, la customizzazione come pratica di personalizzazione e proiezione delle proprie necessità sugli oggetti architettonici e sulla città da parte degli utenti. 1. Spot “Offerta eLight” Enel Ottobre 2008, http://it.youtube.com/watch?v=gLn8_ c3LK20 2. Cfr. Rem Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, 2006, p. 83 3. Cfr. Zardini Mirko, Un terzo paesaggio per l’architettura, in Lotus 130, Cooming Architecture, Editoriale Lotus, Settembre 2007 4. «Ecco perchè mi è sembrato a un certo punto doveroso ricominciare a darmi da fare nel campo in cui razzolano gli architetti. Non solo perchè è di fatto estremamente dannosa, una follia spacciata per entertainement, un formalismo con cui schiacciare l’evidenza della necessià di tornare ai basic needs, a una conoscenza del contesto e del territorio, delle tecniche e delle maniere tradizionali di preservare le risorse» Cfr. Franco La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, 2008 5. Cfr. AA.VV, Verb Crisis, Actar 2008, seconda di copertina. 6. Cfr. Richard Burdett, Introduzione 10. Mostra Internazionale di Architettura in AA. VV., Città Architettura e società - X Mostra Internazionale di Architettura, Vol.I, Marsilio 2006, p. VII 7. «Stando alle previsioni delle Nazioni Unite questa proporzione raggiungerà il 75 per cento entro il 2050», ivi p.XIV 8. Cfr. Garofalo Francesco (a cura di), L’italia cerca casa, Electa 2008 9. Cfr. Zardini Mirko, op.cit, ibidem 10. Cfr. Cruz Teddy, Radicalizzare il locale: 60 miglia di conflitto urbano transfrontaliero in Domus 918, Editoriale Domus, Ottobre 2008 11. Il Cairo nel 1950 aveva una popolazione di 2,4 milioni di abitanti oggi ne conta circa 18. Mumbay (Bombay) secondo le previsioni raggiungerà presto una popolazioni di 33 milioni di abitanti, «anche se nessuno sa se concentrazioni di povertà così gigantesche siano biologicamente ed ecologicamente sostenibili. Cfr. Mike Davis, Il pianeta degli slum, Feltrinelli 2004

11


SCANNING

POSTP

IL CAIRO VS New York, sei come l’Egitto, ma un Egitto a rovescio. Hai eretto piramidi di schiavitù costringendole alla morte, mentre oggi costruisci piramidi di democrazia lungo le canne d’organo dei tuoi grattacieli, che s’incontrano lì dove l’infinito diventa libertà.(Salvador Dali)

MANHATTAN, NEW YORK nella pagina accanto 12


PRODUCTION

S NEW YORK

ZAMALEK, IL CAIRO nella pagina accanto

pratiche di riparazione e personalizzazione

13


SCANNING

BULAQ Nel periodo in cui è stata sviluppata questa ricerca ho avuto l’occasione di visitare due delle più grandi megalopoli del mondo scegliendo, un po’ per intenzione e un po’ per opportunità, due città quasi all’opposto che ben rappresentano il mondo occidentale capitalista e i paesi “meno sviluppati”. Il Cairo è al tredicesimo posto nella classifica delle più popolate megalopoli del pianeta con una quantità di veicoli circolanti che si aggira intorno a 2,5 milioni. Attraversando la capitale egiziana si viene travolti da un fiume di auto e persone, che occupano le strade mescolandosi continuamente tra loro senza mai scontrarsi grazie al continuo 14

uso di clacson, che diviene un sofisticato sistema di comunicazione. Le auto che circolano sono per la maggior parte veicoli usati di circa vent’anni fa, che i paesi europei mandano qui perché la civiltà del consumo li considera solo dei rottami. La compagnia di navigazione Grimaldi, ad esempio, è al primo posto in Europa per il trasporto di auto usate con 2,8 milioni di vetture trasportate in un anno in Sudamerica e in Africa, pronte per essere aggiustate e riutilizzate. In europa chi va in giro con una vettura degli anni settanta lo fa di solito solo per il piacere di guidare un auto d’epoca e trova spesso parecchie difficoltà a reperire pezzi di


SCANNING

Sezioni tipo delle officine di riparazione

Diagramma di invasione dello spazio pubblico

Ricostruzione fotografia dei prospetti sulle strade interne e sul Nilo

pratiche di riparazione e personalizzazione

15


SCANNING

16


SCANNING Una delle strade di accesso al mercato dei pezzi di ricambio di Bulaq durante le ore di lavoro. A destra: alcuni esempi dei pezzi di ricambio che è possibile acquistare.

pratiche di riparazione e personalizzazione

17


SCANNING

ricambio nel caso in cui volesse restaurarla. Come fanno allora tutti questi veicoli a mantenersi in vita? Nei pressi dell’isola di Zamalek, un quartiere del Cairo abitato dai più benestanti che sorge su una piccola isola sul Nilo, esiste un grande mercato di pezzi di ricambio usati per auto delle marche più disparate e, a pochi passi, infiltrandosi nelle piccole stradine si scopre un fitto “tessuto urbano” di riparatori meccanici intenti a rimettere in sesto vecchie auto provenienti dall’estero. Come confermano alcuni riparatori intervistati anche qui le auto arrivano in grandi navi al mercato di PortSaid alla foce del Nilo e vengono smistate in tutto l’Egitto.

18

Durante le ore del giorno i proprietari dei negozi di ricambi invadono gli spazi esterni attraverso strutture appese ai muri e scaffali mobili, formando delle texture di pezzi di ricambio che ricoprono i bordi della strada e somigliano opere d’arte contemporanea ready made. In questo quartiere è possibile acquistare una enorme varietà di pezzi di ricambio e trovare ciò che si sta cercando molto facilmente, dato che è improbabile imbattersi in due negozi che vendano la stessa tipologia di materiali. Le auto usate vengono smontate nelle officine dei quartieri limitrofi da cui arrivano paraurti, cinture di sicurezza, ammortizzatori, fari, clacson, pistoni che vengono suddivisi per categoria nei vari negozi. Questo sistema spontaneo di autorganizzazione, che risponde alla logica della specializzazione, garantisce la sopravvivenza di tutte le attività appiattendo ogni possibile concorrenza. Chi lavora in questo quartiere spesso ha la propria abitazione al piano superiore del negozio. Alla chiusura lo spazio pubblico si svuota trasformandosi ancora una volta; le piccole strade, che di giorno sono affollate da clienti e

Sopra: un muro rivestito di frontali di auto sotto un balcone di un’abitazione privata Sopra al centro: un ragazzo lavora in una delle officine vicino al mercato dei pezzi di ricambio. Queste attività che necessitano di superfici di lavoro più ampi sfruttano gli spazi non costruiti tra gli edifici trasformandoli in cortili pieni di auto da riparare. In basso: ad ora di pranzo qualcuno allestisce una tavola temporanea davanti al posto di lavoro per se e i colleghi vicini.

pezzi di ricambio diventano, spazi semi-privati utilizzati dalle famiglie che abitano questo quartiere. E’ interessante notare come questi processi di occupazione e utilizzo temporaneo dello spazio urbano siano molto simili ad lavoro di smontaggio e riassemblaggio che si fa in un’officina meccanica. Quest’area sul Nilo, che durante il medioevo ospitava i luoghi di lavoro del porto fluviale, è oggi sotto l’occhio delle multinazionali che vogliono sgomberarla per innalzare altre torri sulla riva del fiume.


SCANNING

WILLETS POINT Sfogliando le pagine della nota guida turistica Lonely Planet su New York si trova qualche riga che invita gli appassionati di auto a visitare Willets Point, chiamato anche Iron Triangle e poco conosciuto dai newyorkesi, un quartiere dei Queens situato in un punto nodale dell’area metropolitana territorio di New York City. Questa porzione triangolare di terra, a 10 km a est di Manhattan, è facilmente raggiungibile, attraverso le principali subways e freeways, dagli aeroporti La Guardia e Jfk, da Brooklyn e dal Bronx. Dagli anni settanta l’area è stata occupata da una serie di attività legate prevalentemente alla riparazione di auto, la vendita di pezzi di ricambio e altre attività di smaltimento rifiuti. pratiche di riparazione e personalizzazione

Negli ultimi anni, data la sua posizione strategica, Willets Point è divenuta oggetto di interesse da parte di facoltosi imprenditori che hanno spinto l’amministrazione di New York a predisporre un progetto da tre miliardi di dollari per “la bonifica e la riqualificazione” di quest’area. Il progetto prevede, oltre alla costruzione del nuovo stadio dei Mets già in cantiere, la realizzazione di 5500 unità abitative, hotel, sale congressi e centri commerciali. Secondo quanto sostiene il presidente della Development Corporation “la riqualificazione dovrà non solo fornire migliaia di residenze per le famiglie, ma soprattutto ripulirà la città da questo tipo di aree degradate” trasformando “Willets Point in un nodo eco-

nomico e in un modello di collaborazione tra pubblico e privato”. Una ricerca svolta dal Prof. Tom Angotti, professore all’Hunter College Department of Urban Affairs & Planning, attraverso un’attenta analisi e una mappatura dettagliata delle attività, prova a dimostrare la sostenibilità di aree come Willets Point e pone una serie questioni su possibili progetti alternativi per queste zone. Angotti focalizza l’attenzione su alcuni atteggiamenti politici del governo che, attraverso strategie di mobbing e comunicazione negativa, tendono ad aumentare lo stato di degrado di quest’area e a sminuire la forza economica delle attività li presenti. Nonostante le lotte di chi lavora in quella zona, sostenute anche da or19


SCANNING

Sopra: Il cantiere per il nuovo stadio dei Mets e le immagini del progetto. A est dello stadio la zona ancora occupata dai riparatori. Al centro: la grafica pop delle insegne di Willets Point, Sotto: una delle officine icone di questo quartiere.


SCANNING

ganizzazioni e ricercatori, l’area sta per essere sgomberata per far spazio al progetto dell’amministrazione. La situazione di Willets Point e di Bulaq al Cairo potrebbe sembrare a prima vista molto simile: sono entrambi due quartieri, dove vive gente proveniente dai ceti sociali più bassi, che lavora nel campo della riparazione meccanica e di essere sfrattata per assecondare gli interessi delle potenze economiche. Il confronto tra queste due realtà apparentemente molto simili rivela alcune interessanti differenze di natura culturale e sociale, legate al modo di vivere e lavorare in due paesi che, per certi versi, rappresentano due estremi opposti. Una prima differenza, di carattere microeconomico riguarda il sistema di vendita dei pezzi e offerta dei servizi. A Willets Point tutto ciò appare meno organizzato e di conseguenza più inefficiente: le officine si accostano in un sistema altamente concorrenziale di tipo occidentale in cui le varie attività offrono servizi molto simili o vendono pezzi di ricambio dello stesso tipo. Questo tipo di organizzazione genera un sistema caotico in cui ognuno cerca di accaparrarsi il maggior numero di clienti a discapito della concorrenza.

La comunità dei riparatori di Bulaq, come già accennato, ribalta ogni sistema basato su logiche di concorrenza, strutturando il mercato dei pezzi in modo da garantire la sopravvivenza di tutte le attività. Un’altra differenza sostanziale, che rivela lo spirito di sopravvivenza del popolo cairota, è rintracciabile nei fenomeni di auto-costruzione e organizzazione spontanea degli spazi. A Willets Point tutte le officine sono state costruite dagli stessi proprietari, o nella maggior parte dei casi dagli affituari, sfruttando sistemi di costruzione e materiali usati di derivazione industriale. Mentre le officine più piccole sono realizzate con lamiere grecate curvate simili a quelle utilizzate per i magazzini agricoli, quelle più grandi costruiscono gli spazi di lavoro attraverso il riutilizzo e la giustapposizione di containers usati, che vengono utilizzati per lo stoccaggio dei pezzi di ricambio. Tralasciando il “fascino” che possono avere questi “edifici” auto-costruite il cui aspetto è arricchitto dai simboli della cultura pop americana, bisogna dire che il risultato

è piuttosto scadente sia come qualità dello spazio che come capacità di riuso di scarti. Il processo di autocostruzione a Willets Point riguarda solo agli spazi privati di lavoro, mentre lo spazio pubblico della strada rimane totalmente in abbandono, in attesa di un intervento statale che, seppur dovuto, non è mai arrivato per motivi politici ed interessi economici. Al Cairo invece i concetti di riparazione e riuso di oggetti e parti usate trovano un’applicazione anche alla città, divenendo pratiche di organizzazione dello spazio pubblico e recupero di ogni interstizio disponibile. Come succede per le auto usate, lo spazio urbano è montato e smontato, per essere continuamente riciclato e destinato a funzioni diverse, dalle attività commerciali alla vita delle famiglie residenti.

Alcune officine tipo di Willets Point


TESTING

Scrap House

una casa temporanea dimostrativa, costruita con rifiuti e materiali di scarto. Nelle foto in basso tra i materiali usati sono visibili: segnali stradali, elenchi telefonici, tastiere di computer, tubi in gomma. www.scraphouse.org

22


EDITING

La riparazione

tra riuso e postproduzione

N

elle pagine precedenti abbiamo visto come un sistema efficiente di officine di riparazione e di negozi di pezzi usati al Cairo renda possibile il riutilizzo di veicoli altrimenti destinati alla rottamazione. Il processo di riparazione di questi veicoli ha però qualcosa di differente da ciò che avviene in una moderna officina in cui si riparano veicoli di recente produzione. Dovendo riparare veicoli obsoleti servendosi quasi esclusivamente di parti di ricambio usate riciclate da altri mezzi, il meccanico cairota è costretto a ibridare parti di marche differenti, inventando soluzioni per i guasti con ciò che ha a disposizione. L’auto riparata da una di queste officine non è semplicemente il veicolo originale rimesso a posto, ma un nuovo prototipo ibrido risultante dalla modifica di un prodotto seriale attraverso un mix di parti diverse. Nicolas Bourriaud, uno dei fondatori

e curatori del Palais de Tokyo di Parigi, ha ripreso dal linguaggio audiovisivo il termine Postproduzione per identificare quelle attività che sono legate al settore dei servizi e del riciclo e pertanto si contrappongono ai settori che trasformano materiali grezzi. Postprodurre vuol dire lavorare con oggetti che sono già in circolazione «inserendo nella propria opera quella di altri»1. Come sostiene Bourriaud questo fenomeno annulla la «tradizionale distinzione tra produzione e consumo, creazione e copia, readymade e opera originale»2, divenendo una forma contemporanea di arte come “gioco tra uomini di tutte le epoche” (Marchel Duchamp). Nel campo delle arti contemporanee in generale la produzione del passato, viene riciclata e cambia

Sopra: Splillmann Echsle, Freitag Shop, Zurigo, 2005. Il marchio Freitag è conosciuto in tutto il mondo per le sue borse fatte con teloni di camion, camere d’aria di biciclette e cinture di macchine. Il negozio di Zurigo è costruito con container, anch’essi usati, uno degli elementi della catena di trasporto che ispira la produzione delle borse di materiale riciclato. A sinistra: Marcel Duchamp Fountain, 1916-17 pratiche di riparazione e personalizzazione

23


TESTING

direzione: nella musica il nuovo compositore è il Dj in grado di produrre un’opera musicale senza comporre una sola nota, remixando dischi già esistenti, mentre nella fotografia è possibile mescolare ritagli di immagini diverse sradicandoli dal loro contesto. Le pratiche di riuso e postproduzione in architettura possono essere distinte in almeno due correnti differenti. Nel primo gruppo possono essere raccolti quelle pratiche di costruzione che, come nell’arte e nel design contemporaneo che si serve dei rifiuti per la creazione delle opere, utilizzano gli scarti o modificano oggetti di produzione industriale, “riprogrammando” queste materie in base alle esigenze del progetto. Queste architetture, che lavorano in territorio di mezzo tra design e architettura, si dividono ulteriormente tra pratiche ecosostenibili o a scopo umanitario

e sperimentazioni formali che traggono l’ispirazione creativa dalle potenzialità dell’oggetto recuperato. Fin dagli anni settanta è possibile individuare strategie di riutilizzo dei rifiuti da parte della sottocultura alternativa. A tal proposito, uno degli esempi più celebri è Drop City, una zona residenziale in California costruita con cupole geodetiche realizzate esclusivamente con materiali recuperati in discarica: reti metalliche, tappi di bottiglia metallici, parabrezza di automobili, profili di alluminio. Nello stesso periodo il critico

Edward Burtnysky, Oxford tire pile #8, Westley, California, 1999

24

Sopra:Rural Studio, Lucy House, 2002 In basso: Casa costruita con carta non riciclabile. Immagini tratte da AA. VV., Superuse: Constructing New Buildings from Salvaged Surplus Material, oio Publishers 2007


EDITING

inglese Martin Pawley pubblica un volume sul Garbage Housing (dall’inglese garbage=immondizia) nel quale raccoglie parte delle ricerche condotte con i suoi studenti dell’AA di Londra. Un altro pioniere del riuso è Michael Reynolds che da circa trent’anni predica i vantaggi dell’uso di pneumatici riempiti di terra come materiale da costruzione all’interno del suo programma di edilizia autosufficiente e autocostruita Earthship. Dagli anni novanta, lo studio olandese 2012 Architects, con il programma Recyclicity, è impegnato nella creazione di una rete di organizzazioni che promuovano un riutilizzo più diffuso ed efficiente nell’edilizia. Nella loro community sul web, chiamata Superuse, è possibile trovare (e, per chi fosse interessato, anche caricare sul sito) esempi che vanno dal ri-uso delle moquette come muro altamente isolante, alle balle di carta non riciclabile (perchè patinata o laminata) che diventano un materiale da costruzione, dall’utilizzo di carcasse di aerei abbandonati ad infiniti modi di riutilizzare le lattine di alluminio. La disponibilità e le caratteristiche dello scarto entrano a far parte del progetto, già nella fase iniziale, vincolandone le scelte. A tal proposito Recyclicity sta cercando di valorizzare il concetto

pratiche di riparazione e personalizzazione

di “edilizia regionale tipica”, riferendosi però non al riutilizzo nostalgico delle tradizioni edilizie locali, ma estendendo il concetto di riciclo a tutti gli scarti disponibili sul luogo, dato che il trasporto su grosse distanze rappresenterebbe uno spreco di energia. A conclusione di questa breve panoramica sul rapporto tra architettura e spazzatura va detto che spesso le forme più radicali di riutilizzo hanno una venatura di idealismo romantico, privo di una base concreta sufficiente per essere considerato una strategia attuabile verso la sostenibilità, soprattutto nei paesi in cui domina la cultura del consumo. Questi progetti assumono invece una forte valenza nei paesi più poveri in cui il riuso con il supporto dell’autocostruzione, che è già una forma autonoma e consolidata di sviluppo urbano, diventa una condizione necessaria. Mentre gli esperimenti fin qui descritti hanno come filo conduttore il riuso di materiali di scarto, tornando al concetto di postproduzione, come manipolazione di oggetti ready-made, è possibile rintracciare numerosi progetti di architettura che lavorano su questo concetto.

Il termine ‘ri-uso’, in inglese Re-Use, indica un’operazione finalizzata a rendere un bene già usato “nuovamente utile”, per lo stesso scopo per cui è stato realizzato o per un nuovo scopo. Il riuso si differenzia dal riciclaggio in quanto il prodotto ri-utilizzato non richiede un ciclo di lavorazione e il relativo consumo di energia.

Martin Pawley, Garbage Housing, Architectural Press, Londra 1975

In basso: Shigeru Ban Architects, Nomadic Museum, 2005. Questo edificio è un museo temporaneo , che ha iniziato il suo viaggio sul Molo 54 di New York. L’edificio è composto da 148 container, disposti su quattro livelli, e un corridoio interno di colonne di cartone di 11 metri di altezza. Quando il museo viene spostato, da una parte all’altra del mondo, i container stessi tornano alla loro funzione nativa per trasportare le collezioni.

25


DIAGRAMS

26


DIAGRAMS

The cornell project Dopo la scadenza dei diritti per il Cile, nel 1971 la fabbrica cilena della Citroen SA di Santiago, che aveva prodotto per molti anni i modelli 2,3 e 4 cv, utilizzando esclusivamente componenti importati, fu obbligata a cedere la produzione. Jeffrey Skorneck, utilizzando i disegni tecnici della produzione, progettò un sistema per continuare a utilizzare la catena di produzione delle carrozzerie e trasformare la furgonetta della 2cv in un sistema abitativo prefabbricato. Con i pezzi già prodotti ma non venduti sarebbe stato possibile realizzare 5000 unita abitative. (cfr. Martin Pawley, Garbage Housing, Architectural Press, Londra 1975, pagg. 90,91)

pratiche di riparazione e personalizzazione

27


TESTING

Qui sopra: Phoeey Architects, Children’s activity centre, Melbourne Australia, 2007 www.phooey.com.au In basso: Lot-Ek, Mobile Dwelling Unit, 2002 A destra: Lot-Ek, Negozio Mobile PUMA, 2008

28

L’oggetto “pronto all’uso” di derivazione industriale sicuramente più ri-utilizzato in architettura è il contaneir per il trasporto navale, che per le sue caratteristiche tecniche e formali si presta facilmente a riadattamenti per scopi diversi da quello per cui è stato pensato. I container possiedono molte caratteristiche che si prestano per l’uso architettonico: sono prefabbricati, modulari, riutilizzabili, economici e mobili. Un container usato costa circa 1500 dollari, mentre uno nuovo arriva a circa 4000. Al costo relativamente basso va aggiunto anche il risparmio dovuto al fatto che le costruzioni di container sono “architetture senza fondazioni” che non richiedono sbancamenti e possono essere montate e smontate molto velocemente. Questi requisiti hanno favorito un rapida diffusione dell’utilizzo di container per l’architettura d’emergenza e per uffici o abitazioni temporanee.

Nel campo della costruzione di abitazioni ed edifici pubblici, se inizialmente l’uso del container aveva più un carattere concettuale e provocatorio che mirava ad esaltarne alcune potenzialità come la mobilità e l’espandibilità, oggi l’architettura di container è un fenomeno molto diffuso che conta una grande varietà di realizzazioni e sperimentazioni. In questo tipo di architetture, che facendo riferimento al termine utilizzato da Bourriaud potremmo definire “architetture della postproduzione, il processo tradizionale di progettazione viene riadattato a nuove condizioni. Il progetto nasce attraverso la manipolazione e la giustapposizione di oggetti prefabbricati, che


EDITING A cosa è dovuto il surplus che permette il facile reperimento di container usati? In tutto il mondo esiste una grande quantità di container, soprattutto in Europa e America del Nord, dovuto al continuo scambio di merci tra i paesi orientali (che producono merce a basso costo) e l’occidente. L’occidente importa più di quello che esporta e tutta queste merce viaggia su container. Far ritornare un container alla sua destinazione costa circa 900 dollari* e spesso risulta più dispendioso che acquistarne direttamente uno nuovo in Cina. Il risultato è che nei porti si conserva una enorme quantità di container usati vuoti, che su richiesta vengono venduti a basso costo. *Cfr. Kotnik Jure, Container Architecture, Links Books 2008, p.16

raramente subiscono modifiche sostanziali, ma molto spesso vengono ibridati con altre materie o innestati su architetture esistenti. Tornando alla distinzione che ci eravamo preposti riguardo alle architetture che hanno a che fare con il riuso e la postproduzione di scarti bisogna ancora accennare ad alcuni esempi recenti in cui lo ”scarto” è l’edificio stesso. Provando a cercare il termine riuso in un vocabolario della lingua italiana si trova tra i significati quello di recupero di edifici per nuovi utilizzi. Questa accezione è però pratiche di riparazione e personalizzazione

più vicino al concetto classico di restauro architettonico che alla postproduzione, come pratica che manipolando oggetti esistenti produce innovazione. Alcune recenti ricerche italiane sono orientate ad una nuova concezione del concetto di recupero del patrimonio edilizio esistente, con particolare attenzione agli edificiincompiuti o abbandonati. Questi edifici sono essi stessi degli enormi scarti urbani, che possono diventare una nuova materia di base su cui lavorare. Un esempio di questo tipo di approccio è «un’ipotesi, non banale di riuso come “riciclo”, da non confondere con il recupero di qualcsiasi manufatto che affligge l’Italia»3, realizzata dallo Studio Albori di Milano per il Padiglione Italiano della Biennale di Venezia. L’idea è quella di recuperare una di quelle strutture incomplete e abbandonate che la stampa chiama “ecomostri”, uno di quelli scheletri edilizi iniziati e mai completati. Il grande scarto edilizio è utilizzato «come palinsesto per un aggregato di abitazioni di varia natura»4 a cui affiancare un programma misto di

Lacey & Partners, Container City II, Londra 2002, www.containercity.com In basso: Shigeru Ban Architects, Papertainer Museum, Seul Corea del Sud, 2005

29


TESTING

Alcune immagini degli edifici censiti da Incopiuto Siciliano. Il gruppo si occupa da circa tre anni del censimento del patrimonio edilizio siciliano rimasto abbandonato.

La casa di Charles e Ray Eames è un interessante esempio di riuso e riciclo di materiali destinati alla realizzazione di un progetto diverso. Il primo progetto della casa prevedeva la realizzazione di un corpo con intelaiatura in acciaio rialzato dal suolo che aggettava dal pendio. Tuttavia, quando, nel 1948, i componenti prefabbricati ordinati arrivarono sul sito, gli Eames avevano completamente modificato il progetto. Probabilmente si erano accorti che il progetto somigliava troppo ad un casa progetta da Mies ed inoltre volevano salvaguardare alcuni alberi che avrebbero dovuto essere abbattuti. L’edificio fu ruorato di 90 gradi e posizionato sul fianco della collina, dove si trova ancora oggi. Gli Eames fecero i calcoli necessari per ri-utilizzare le undici tonnellate di acciaio acquistate.I prezzi pretagliati furono adattati alla nuova versione del progetto ed assemblati in meno di due giorni. Koenig Gloria, Eames, Tashen, 2005, pg. 35,36

30

piccoli servizi. Questo intervento di riparazione supera il concetto di restauro come ritorno alla sua configurazione iniziale o di completamento di un incompiuto secondo il progetto iniziale. L’ obiettivo è di ri-costruire un nuovo edificio ibrido fatto di innesti di nuove architetture sulla struttura preesistente, procedendo per tentativi ed aggiustamenti che lasciano aperte diverse possibili configurazioni. Il processo di riparazione in questo modo non serve solo a ripristinare, ma produce innovazione, diventando un fenomeno di upgrade del patrimonio edilizio esistente. 1. Bourriaud Nicolas, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia 2004, p.22 2. ibidem 3. Francesco Garofalo (a cura di), L’Italia cerca casa, Electa 2008, p.18 4. ivi p. 69

“L’ecomostro addomesticato” di Studio Albori | www.albori.it


La casa del futuro? Nuovo Ford Transit Informal

Vecchio Ford Transit riadattato ad abitazione da un sensatetto. Fotografia di Sebastiano Pitruzzello phlog.it


EDITING

I

l valico internazionale tra Messico e California è la frontiera più trafficata al mondo, attraversata ogni giorno da circa sessanta milioni di persone che trasportano da una parte all’altra una enorme quantità di beni e servizi. Nonostante fosse stata realizzata per separare, questa linea di demarcazione politica non è affatto un motivo di divisione tra i due stati, ma è al contempo un’area di conflitto e un luogo denso di opportunità. La sua presenza, infatti, ha alimentato processi spontanei e clandestini di interazione e ibridazione, che

non sono stati ancora del tutto compresi e presi in esame. L’area di confine tra Tijuana e San Diego è un sito attraversato da flussi eterogenei, composti da prospettive, politiche e interessi diversi che si mescolano, si alimentano e spesso entrano in competizione tra loro. Malgrado i recenti tentativi di renderlo impermeabile, attraverso l’aumento dei sistemi di controllo e il rafforzamento delle barriere fisiche, questo confine rimane sempre un limite piuttosto poroso, che viene oltrepassato da trasgressioni di ogni tipo, da quelli più sfacciati (es. tunnel per contrabbando e attraversamenti clande-

Il processo ha inizio quando lo speculatore di Tijuana in trasferta a San Diego fa incetta di piccoli bungalow postbellici condannati alla demolizione. Le piccole case sono caricate su rimorchi e predisposte per viaggiare verso sud. Non è raro assistere alla fila di case in attesa per giorni di attraversare la frontiera, proprio come accade alle macchine e ai pedoni. Le case una volta giunte a Tijuana sono montate in cime ad impalcature metalliche alte un piano: lo spazio libero al livello della strada lasciato per usi futuri. Così, sotto di sè, queste case fluttuanti, disegnano uno spazio di opportunità che, nel corso del tempo, verrà riempito da altre case: un chiosco di tacos, un’officina, un giardino... Una città approfitta delle case scartate da un’altra per generare nuovi scenari e infinite nuove possibilità. Così, mentre l’intera città ricicla gli “avanzi” in una specie di urbanistica di “seconda mano”, gli insediamenti informali di Tijuana continuano a subire l’impatto delle dinamiche socioeconomiche transfrontaliere e delle tattiche di invasione che consentono agli occupanti di rivendicare il territorio sottoutilizzato. Si spera che il recupero della nozione di informale - riciclata dall’architettura e dall’urbanistica nel dibattito sulla crescita della città contemporanea - non seduca ancora una volta la nostra immaginazione soltanto attraverso l’immagine allegorica dell’effimero e del nomadico, ma anche attraverso la complessità dei processi - temporali ed evolutivi che si determinano al suo interno, radicati a precise dinamiche sociopolitiche ed economiche. Teddy Cruz, Pratiche di occupazione abusiva:i rifiuti dell’urbanizzazione muovono verso sud, lo zoning illegale filtra lentamente a nord, in Domus 918, Ed. Domus, Ottobre 2008, p.143

32


EDITING

stini) a quelli più nascosti, che Teddy Cruz ha definito “tattiche di invasione”. Questa intensa interazione politica, economica e culturale è il risultato di uno squilibrio e un fenomeno di interdipendenza tra i due paesi. Cruz definisce la zona del confine come il «luogo geografico del conflitto»1, in cui si sviluppa un nuovo e particolare linguaggio dell’architettura sulla base di dinamiche globali su scala locale. Queste dinamiche (la delocalizzazione e la sorveglianza, la tensione tra formale e informale, la battaglia tra densità e sprawl, enclave di grandi ricchezze contro carenze di servizi e povertà), rappresentano, secondo Cruz, i problemi fondamentali dell’urbanistica e dell’architettura. Mentre le gated-community di San Diego, simbolo di un edilizia che non lascia niente al caso, collidono con l’urbanistica non controllata di Tijuana, basata sull’informale e sull’autocostruzione, la linea di confine tra primo e terzo mondo, tra la società della sovrapproduzione e quella sopravvivenza, si “sbiadisce” con la nascita di ibridi imprevisti. La manifestazione fisica di queste dinamiche di contaminazione tra i due territori è rintrac-

pratiche di riparazione e personalizzazione

ciabile nella costruzione delle periferie di Tijuana attraverso il riciclo degli scarti derivanti dell’ammodernamento dei vecchi suburbi di San Diego. Ciò che resta delle vecchie lottizzazioni è disassemblato per essere rimontato dall’altra parte della frontiera. Questi pezzi, non solo rottami sparsi ma spesso interi cottage postbellici trasportati su rimorchi, vengono ricombinati in nuovi scenari urbani, configurando un’architettura del riuso e della riparazione. Attualmente lo studio di Teddy Cruz è impegnato nella comprensione di questi fenomeni di trasformazione sui due lati del confine: nel territorio americano l’attenzione è focalizzata sui quartieri in cui si sono insediati gli immigrati dal messico in cerca di lavoro, portando con se mentalità e sensibilità differenti riguardo all’uso dello spazio pubblico. Nei quartieri informali del Messico, Cruz insieme a Casa Familar, una ONG che funge da “municipio di quatiere, sta sviluppando una serie di progetti basati su elementi prefabbricati, che prendendo spunto dalle tecniche di costruzione informale, possano diventare una sorta di «complessa piattaforma aperta»3, che fa

da supporto all’autocostruzione. Sul tema delle forme autonome di costruzione dello spazio torneremo più avanti, dopo una descrizione delle città informali del Cairo. 1. «geography of conflict» cfr. Teddy Cruz, Tijuana/San Diego Border Neighborhoods in AA. VV.,Verb Crisis, Actar Editorial 2008, p.48 2. «represent fundamental issues for urbanism and architecture», ivi p.49 3. Teddy Cruz, Pratiche di occupazione abusiva:i rifiuti dell’urbanizzazione muovono verso sud, lo zoning illegale filtra lentamente a nord, in Domus 918, Ed. Domus, Ottobre 2008, p.143

33


34


pratiche di riparazione e personalizzazione

35


SCANNING

L

a capitale egiziana conta oggi 18 milioni di abitanti su una superficie di circa 350 km quadrati con una densità abitativa di 36.584 residenti1 per chilometro quadrato, pari a circa dieci volte quella di Londra. In alcuni quartieri abusivi della città questa cifra raggiunge anche il valora spaventoso di tre milioni di persone per km2. Confrontando un grafico della densità abitativa del Cairo rispetto a quello di altre megalopoli del pianeta, ci si accorge subito che qui i valori sono abbastanza uniformi, la densità abitativa rimane alta su quasi tutta la superficie urbana a differenza di altre città in cui si hanno grandi picchi nei quartieri popolari o in centro. Questo fenomeno deriva dal fatto

36

che qui come «in nessun altro luogo della terra i limiti alla crescita sono tanto lampanti»2. Normalmente le città crescono espandendosi orizzontalmente da un nucleo centrale, al Cairo invece questa espansione orizzontale che è partita dalla riva del Nilo ha presto trovato il limite invalicabile delle sabbie desertiche, costringendo la popolazione ad accalcarsi re-iventandosi lo spazio per sopravvivere. Durante il secolo scorso l’abbandono la popolazione cairota è

aumentata dell’890% dovuta all’esodo di chi ha abbandonato le campagne spostandosi in città in cerca di fortuna. Questo fenomeno ha comportato una totale crisi dell’offerta di edilizia a basso costo e la conseguente nascita di quartieri abusivi in cui oggi alloggiano il 57% dei residenti. La ricerca Massive Changes3 condotta da Bruce Mau stima che in tutto l’Egitto il 92% della popolazione possiede proprietà immobiliare al di fuori del sistema legale.


SCANNING

I quartieri informali, che generalmente vengono chiamati slum, al Cairo si chiamano aashwa’i che vuole dire “casuale”, indicando che tali aree sono non pianificate e costruite al di fuori delle regole. Nonostante vengano chiamati allo stesso modo questi insediamenti hanno però caratteristiche differenti e possono essere classificati in almeno tre tipologie, che corrispondono a quartieri in cui le tecniche costruttive e le modalità di insediamento sono differenti.

pratiche di riparazione e personalizzazione

Nel primo caso, come ad esempio il quartiere di Manshiet Nasser sorto nella parte est della città sopra una vecchia discarica di rifiuti, gli abitanti costruiscono in maniera totalmente illegale, poichè non detengono neanche il diritto di proprietà della terra. L’impianto urbano di questo quartiere è molto causale, per non dire inesistente, e le abitazioni sono edifici auto costruiti ,

che raramente superano i tre piani di altezza, o nei casi peggiori ripari di fortuna costruiti con materiali di riciclo. Le strade sono ricoperte dai rifiuti residui della discarica e da quelli prodotti dallo stesso quartiere e i servizi, dal trasporto alle attività commerciali, quasi inesistenti. La seconda tipologia di insediamenti informali è quella meno visibile, ma non per questo meno diffusa, che Ahmed Soliman, nel suo libro sull’edilizia informale in Egitto, definisce «informal pockets in formal core»4, cioè sacche informali in un tessuto urbano formale. Questi fenomeni di occupazione del suolo fruttano gli spazi residuali o gli edifici pericolanti, saturando ogni interstizio, architettonico e urbano, con strutture più o meno precarie. Le attività informali di questo tipo spesso si insediamo anche nei quartieri più antichi modificando come dei virus gli edifici della bella epoque cairota. Un esempio, reso celebre dall’omonimo libro di Ala-Al-Aswani, è il Palazzo Yacoubian costruito negli anni trenta da un miliardario armeno sul modello di edifici europei dell’epoca.

37


SCANNING

38

ia rov fer

L’edificio nel primo periodo era abitato dal fior fiore della società cairoti, ma dopo la rivoluzione del 1952 iniziò la decadenza dell’edificio dai fasti degli inquilini della belle époque sino al lento e inarrestabile assedio da parte della gente più povera che si è infiltrata in ogni spazio abitabile, dal sottoscala al terrazzo. Nel film tratto dal romanzo è possibile vedere alcune scene di momenti di vita sul tetto abitato che diventa un nuovo suolo in cui si mescolano attività commerciali e abitazioni di fortuna. Osservando un aerofoto dei quartieri in qui si trovano questi edifici trasformati, è interessante notare come anche l’impianto urbano di queste

città illegale

aree ricalchi perfettamente modelli di città europei. Come in un collage si accostano impianti urbani tipicamente europei come tridenti a garden cities, ma scendendo per le strade e dimenticando le mappe ci si accorge che anche questi modelli estranei sono stati riassorbiti nello stile cairota. L’ultima delle tipologie di insediamento informale è definita semi-informale per le caratteristiche

città legale

ibride tra un quartiere residenziale popolare legale e uno abusivo. Nella parte della città a ovest del Nilo, si trova il quartiere di Bulaq al Dakour, che nell’ultimo decennio ha soppiantato gran parte dei fertili terreni agricoli presenti in questa zona. A differenza di Manshiet Nasser, qui gli spazi su cui sorgono gli edifici sono stati acquistati dagli agricoltori che hanno preferito abbandonare le loro attività


SCANNING

terreni lottizzazione nucleo

nucleo

stato originario

Palazzo Yacoubian, pubblicato in Egitto tra mille difficoltà, è oggi il libro più venduto nel mondo arabo dopo il Corano.

pratiche di riparazione e personalizzazione

terreni

lotti

stato attuale

pensando di ricavare maggiori profitti dalla vendita del terreno. Osservando la struttura urbana, che seppur spontanea, appare piuttosto chiara si inizia a comprendere perché Soliman lo definisca semiinformale, ritrovando qui le caratteristiche più di una città che di una baraccopoli. I possenti blocchi residenziali si sono formati intorno ai piccoli villaggi rurali esistenti già dagli anni cinquanta, occupando i lotti agricoli stretti e lunghi che si poggiavano ai canali di irrigazione. Sulle tracce di questi canali ormai interrati sorgono oggi le strade principali del

39


SCANNING Distretti del Cairo Shubra

Imbaba

Abbasiya

Bulaq

Mohandisseen

Boulaq el Dakrour

Zamalek

Sayida Zaynab

Ma’adi 0

12345

Km

A destra: Una delle strade perpedicolari alla via principale di Bulaq. A sinistra: il tok-tok e un minibus. Sopra e sotto: i cantieri della città informale

quartiere, quasi tutte in terra battuta, alle quali si innestano a pettine le strettissime strade secondarie di servizio, attraverso le quali riesce a passare a stento una macchina. All’interno della città informale ci si muove soprattutto con i tok-tok, piccoli mezzi a tre ruote di produzione indiana e di piccola cilindrata, che trasportano fino a quattro passeggeri. Il collegamento con la “città legale” avviene attraverso i taxi e dei minibus da 12 posti, che funzionano con un sistema molto singolare: un assistente dell’autista urla dal finestrino la direzione

40


SCANNING

Giunzioni improbabili tra travi e pilastri. I solai sono armati in modo da sopportare carichi superiori agli standard.

in cui si sta andando e dalla strada chi è interessato può fare un cenno per richiedere una fermata; in sostanza non c’è mai un tragitto definito, ma questi mezzi vagano per la città secondo i bisogni degli utenti. L’accesso veicolare a questo distretto è possibile soltanto in tre punti, mentre quello pedonale avviene pratiche di riparazione e personalizzazione

grazie ad alcuni sovrappassi su un canale e sulla ferrovia, che demarcano il limite tra la città legale e quella abusiva. Un aspetto fondamentale che ha contribuito a definire l’immagine di questa porzione di città contemporanea è il processo di autocostruzione degli edifici abusivi. Gli abitanti hanno appreso e migliorato, con il passare del tempo, tecniche di costruzione in cemento armato riuscendo a realizzare edifici alti fino a 15-20 piani, con una maglia di pilastri costante di 4 metri per 4. I blocchi edilizi crescono appoggiandosi gli uni sugli altri e raggiungono dimensioni spaventose, con prospetti lunghi anche 200 m su cui sono presenti pochissime aperture. Le strutture in cemento armato vengono sempre spesso sovradimensionate con la prospettiva di una indefinita crescita verticale. In questi insediamenti, come in molti altri quartieri abusivi nelle periferie del mondo, chi acquisisce la proprietà del terreno e costruisce sceglie di recuperare la spesa vendendo la superficie del tetto a qualcuno che a sua volta lo rivenderà a terzi. A Rio de Janeiro nel quartiere di Rocinha questi diritti informali di proprietà sul tetto hanno anche un nome, laje, e corrispondono al diritto per l’acquirente di innalzare due piani in più5. Nel

testo introduttivo di una pubblicazione olandese sulla Rooftop Architecture si dà per scontato che «il tetto non è stato concepito per costruirci sopra e non è nemmeno adatto a farlo»6. «Il primo ostacolo», continua il testo, «è il modo in cui l’edificio originale è stato concepito. Il tetto, in particolare, non è progettato per sopportare il peso di una casa extra». A Boulaq el Dakrour queste affermazioni vengono completamente sovvertite; a volte si incontrano edifici in cui in vano ascensore svetta di parecchi piani in più dell’altezza dell’edificio e osservando uno dei tanti cantieri aperti si nota che i solai sono armati in modo tale da sopportare pesi ben superiori a

41


DIAGRAMS

Birdlands Sopra i tetti della città informale, e non solo, si trovano spesso delle strane strutture che, a prima vista, somigliano a delle torri d’acqua. Queste strutture parassite che spesso raggiungono anche i 4 piani altezza vengono utilizzate dai cairoti

per allevare i piccioni. A questa funzione principale a volte se ne aggiungono altre più o meno banali come: allevamento di altri piccoli animali, supporto per le antenne televisive, serbatoi d’acqua. Il volume chiuso che ospita i piccioni, che ha una superficie variabile dai 4 ai 9 mq, è rivestito

Il sistema costruttivo di rivestimento delle piccionaie viene a volte riutilizzato per ampliare con volumi aggettanti le abitazioni più piccole o in altri casi per ricostruire un intero piano di un edificio crollato.

42


DIAGRAMS

Pianta ultimo livello

con listelli di legno di colori diversi posizionati in modo tale da formare sempre disegni geometrici diversi. Come per i manifesti pubblicitari sui tetti questi disegni servono a richiamare l’attenzione in questo caso dei piccioni che hanno bisgono riconoscere la propria “casa” da lontano. Le tipologie piccole architetture si differenziano per la modalità di appoggio del volume chiuso sul tetto dell’edificio: su tralicci, ad appoggio diretto sul solaio o su pilotis. Nelle strutture a traliccio più alte di solito vengono aggiunti ulteriori pannellature per ottenere altri ambienti chiusi.

Pianta primo livello

Sezione

pratiche di riparazione e personalizzazione

43


44


DIAGRAMS

Unica eccezione alla continuità delle superfici murarie in mattoni rossi è costituita dalle pareti interne dei balconi/loggia, che rappresentando una sorta di spazio-diaframma tra lo il pubblico della strada e quello intimo dell’abitazione. I muri vengono quasi sempre pratiche di riparazione e personalizzazione

trattati con intonaco bianco e poi dipinti con texture geomtriche colorate, che diventano una forma di personalizzazione e di comunicazione con la strada.

Le logge

Forme “geometriche” di personalizzazione degli edifici 45



POSITIONS

Sostenibili Distopie

Abitare è presente alla 11. Mostra Internazionale di Architettura della di Venezia. L’allestimento raccoglie alcune delle visioni più radicali sulla questione della sostenibilità. Scenari estremi che potranno spingere le nostre città verso prospettive di miglioramento generale della qualità della vita o, al contrario, sulla base di poche variabili per altro oggi imprevedibili e incontrollabili, verso scenari degenerativi e in sostanza invivibili. Un primo scenario di evoluzione del rapporto tra natura e città riguarda la possibilità di ampliare la presenza dell’agricoltura e più in generale della sfera vegetale nei paesaggi urbani. Una politica che incentiva la proliferazione di superfici vegetali sulle pareti sia verticali (muri verdi, boschi verticali) sia orizzontali (tetti, coperture, infrastrutture) della città, potrebbe infatti sposarsi con i nuovi indirizzi nei mercati dell’alimentazione (farmer market, agricoltura a chilometro zero), fino a determinare una vera e propria “demineralizzazione” del paesaggio urbano. Ma, d’altro canto, una eccessiva estensione delle superfici coltivate potrebbe ridurre ulteriormente la biodiversità vegetale e animale, portando anche dentro i paesaggi urbani la realtà di un’agricoltura monoculturale e omologata, che toglie spazio alla diffusione spontanea di flora e fauna. su: Abitare n. 485, 09/2008

quelli tradizionali. Salendo sul tetto degli edifici si scopre un altro mondo invisibile dalla strada; le terrazze sono destinate a funzioni di ogni tipo: magazzino, discarica di materiali da costruzione, piccoli allevamenti di capre, piccionaie, pollai. Spesso ci si imbatte in veri e propri “orti urbani” sospesi a decine di metri di altezza, con coltivazioni di molokheya, bietola egiziana, menta aromatica, fragole, basilico, pomodori, piante medicinali, spinaci. pratiche di riparazione e personalizzazione

In questi spazi, sempre accessibili direttamente dalla scala principale dell’unità edilizia e quindi aperte a tutti i residenti dell’edificio, ciascuno può coltivare ciò che necessita per il sostentamento della famiglia e vendere il surplus nei numerosi mercati all’aperto di quartiere. Le coltivazioni sono solitamente realizzate in casse di legno da un metro quadrato, alte circa venti centimetri oppure in vasche e vasi rudimentali, ricavati da pneumatici e bottiglie di plastica tagliati; in

altri casi più estesi si adottano anche sistemi idroponici di coltivazione, che a volte stanno anche in verticale sulle pareti delle terrazze. L’utilizzo dei tetti come nuovo suolo urbano su cui posizionare le attività di sostentamento delle famiglie che abitano l’edificio, rappresenta una delle modalità in cui la città informale si auto-ripara e suoi abitanti riescono a sopravvivere anche in condizioni di vita estreme. Parasfrasando Yona Friedman possiamo dire che l’informal city, alla luce di questi fenomeni, rappresenta «caso di autosufficienza urbana per necessità»7, in quanto chi vi abitata riesce a produrre e riciclare gran parte di ciò che consuma, anche in termini di spazio. Da quando questi insediamenti hanno iniziato ad espandersi il governo cairota ha sempre cercato di arrestare il fenomeno e dipingerere i residenti come persone che vivono nell’illegalità, arrivando anche costruire una grande arteria stradale che si pensava potesse fungere da limite, ma che puntualmente è stata scavalcata. D’altro canto anche i ricercatori egiziani concentrano i loro sforzi nel tentativo di formalizzare l’informale, utilizzando strumenti inefficaci rispetto a questi contesti. Un tipo di lavoro più diretto a risolvere i problemi di questi quartieri è quello che svolgono le associazioni non governative, come il GTZ. Questi enti che si occupano del miglioramento delle condizioni abitative e dei servizi, basano la loro attività sulla progettazione partecipata cercando di coinvolgere gli abitanti dando voce alle loro 47


POSITIONS

LE CORBUSIER I caffè, i luoghi di riposo, eccetera, non sarebbero più questa specie di muffa che invade i marciapiedi: sarebbero portati sulle terrazze, come i negozi di lusso (infatti non è illogico che un’intera superficie della città resti inutilizzata e riservata ai tête-a-tête delle tegole e delle stelle?) Le Corbusier,, Verso un Architettura, Longanesi, 1973, pg. 45

Roof garden in via di sviluppo Il progetto Roof gardens, giardini sui tetti, nasce nel 1999 per iniziativa della Fao, nell’ambito delle strategie di Urban agriculture e del programma per la sicurezza del cibo (Spfs) introdotti nei Paesi in via di sviluppo. L’obiettivo è ambizioso: far fronte al boom demografico delle metropoli, destinate a crescere in modo esponenziale nei prossimi trent’anni, e alla conseguente mancanza di risorse alimentari per tutti. Le tecniche utilizzate sono ecosostenibili e attente alla qualità dei prodotti. Spesso, infatti, nelle città o nei dintorni esistono già coltivazioni, ma sfruttano acque inquinate e pesticidi. In Egitto, i primi giardini sui tetti sono apparsi nel 2000, finanziati dalla Fao fino al 2002. Da allora se ne fa carico l’Alaru, Unità di ricerca per le terre agricole e aride dell’università di Ain Shams del Cairo, con l’aiuto di piccole ong locali (Al Balkini, Al Mokatam, Al Darb Al Ahmar), che conoscono il territorio urbano e gli abitanti dei quartieri più disagiati, spesso immigrati dal sud del Paese. su: D La Repubblica delle Donne, 8 settembre 2007

48


SCANNING

necessità. Nonostante questo tipo di approccio sia sicuramente più orientato al dialogo con i residenti, rispetto ai progetti di bonifico preconfezionati, rimane pur sempre una strategia di intervento assistenzialista, che non si interroga sui processi spontanei già in atto e non sfrutta le capacità di auto-costruzione e organizzazione degli abitanti. Alcuni interventi del GTZ a Boulaq el-Dakrour, consistono in ristrutturazioni di edifici più piccoli che, oltre ad occuparsi della parte impiantistica e strutturale, tentano di migliorarne l’immagini, curando dettagli come gli intonaci esterni e gli elementi decorativi tipici della cultura del luogo. Considerando la dimensione spaventosa di questi insediamenti, in cui risiedono circa un milione di persone, questi interventi, seppur validi nella risoluzione di singole problematiche, rimangono però insufficienti ed isolati, in quanto concentrano eccessivamente le risorse economiche, peraltro limitate rispetto alla portata del “problema”. Non sarebbe allora più efficace re-distribuire le risorse avviando una serie di micro-interventi “incompleti” che lasciano il progetto

pratiche di riparazione e personalizzazione

aperto all’imprevisto e trasferiscono agli abitanti la fase di completamento? In questo modo l’auto-costruzione, invece di essere vista come fenomeno di abusivismo e illegalità che genera caos urbano, potrebbe diventare una risorsa, che controllata con alcuni vincoli di base e migliorata nei sui aspetti più grezzi, ottimizza le risorse economiche disponibili. Nelle pagine successive vedremo alcuni esempi di architettura in cui l’imprevisto e l’autocostruzione entrano a far parte del progetto architettonico e urbano. 1. I dati statistici sotto tratti da AA. VV., Città Architettura e società - X Mostra Internazionale di Architettura, Vol.I, Marsilio 2006, pagg. 166-167 2. Maria Golia, Città trascurata in op.cit, p. 159 3. Cfr. Bruce Mau and The Institute Without Boundaries, Massive Changes, Phaidon 2004, p. 41 4. Soliman Ahmed M., A Possible Way Out: Formalizing Housing Informality in Egyptian Cities, University press of America, 2004, pg. 97 5.Cfr. Robert Neuwirth, Città ombra, viaggio nelle periferie del mondo, Internazionale Libri 2007, pag. 48 6. Cfr. Melet Ed Vreedenburgh, Rooftop Architecture Buildin on an elevated surface, NAI Publishers, Rotterdam, 2005, pag. 28 7. Cfr. Friedman Yona, Utopie Realizzabili, Quodlibet 2003, pg. 209

49


Upgrade: dall’inglese up (sopra) e grade (grado). E’ un termine molto utilizzato in informatica per indicare un aggiornamento di sofware. In generale è un processo, che attraverso modifiche lievi o sostanziali di uno stato precedente, potenzia e migliora le prestazioni di un dispositivo.

In basso: fotomontaggi dell’artista Dionisio Gonzalez, giovane fotografo Spagnolo. Le sue foto, che potrebbero sembrare banali scorci di favelas brasiliane, sono in realtà delle postproduzioni digitali immaginare nuovi scenari dell’abitare.



SCANNING

Ataba

Non molto distante dal quartiere dei riparatori meccanici di Bulaq, nel centro storico del Cairo, si trova il grande mercato di Ataba. In questo affollatissimo quartiere, forse uno di quelli in cui si avverte maggiormente la pressione umana, tipica di una megalopoli iperpopolata come Il Cairo, le attività commerciali sono suddivise in strade diverse in base alla tipologia di prodotti venduti: alimentari, abbigliamento, elettronica, etc. Percorrendo la strada in cui si concentrano i negozi di telefonia mobile, si scopre anche qui una fervida attività di riparazione di oggetti elettronici usati. I “laboratori” di

52

riparazione elettronica consistono in un banco posizionato direttamente sulla strada e uno scaffale a muro utilizzato come deposito della parti di ricambio. I tecnici specializzati esclusivamente nella riparazione di telefonini invece affittano uno spazio, sufficiente appena per un piccolo banchetto in legno, direttamente all’interno dei negozi che sono sempre totalmente aperti sulla strada e privi di porte di ingresso. Le attività di riparazione e di vendita di oggetti nuovi o ricondizionati si mescolano esattamente come lo spazio urbano della strada si mescola con quello condiviso da riparatori all’interno dei negozi. Non esiste soluzione di continuità tra interno ed esterno, tra pubblico e privato. La sezione stradale si modifica allargandosi e restringendosi per invadere lo spazio interno delle attività commerciali. Qualcosa di molto simile succede a Rodeo Drive, la strada simbolo del lusso a Los Angeles, nel progetto di OMA per il Prada Store. Come sostiene lo stesso Koolhaas la facciata


SCANNING

di questo negozio è pensata come un elemento «inesistente, senza il chiusure in vetro»1, il negozio di apre sulla strada in tutta la sua larghezza e mescola lo spazio pubblico con quello commerciale»2 Anche se il paragone potrà sembrare un pò azzardato, è interessante notare con il progetto per il fronte del negozio Prada si basi su un’idea di fluidità dello spazio che ad Ataba è nata in maniera assolutamente spontanea. Provando ad entrare in un negozio di telefonini per indagare sulle teniche di riparazione utilizzate si scopre che le competenze dei riparatori vanno ben oltre la semplice riparazione di

pratiche di riparazione e personalizzazione

un guasto e danno la possibilità ai clienti di apportare migliorie e innovazioni al loro apparecchio telefonico obsoleto. Grazie alla condivisione di conoscenze di questa comunità, la cultura della riparazione diventa capacità di innovazione. 1.Cfr. El Croquis 131/132, AMOMA Rem Koolhaas, p.171 2. ibidem

Un negozio di telefonini ad Ataba e il negozio PRADA progettato da OMA a Rodeo Drive.

53


immagine su: www.janchipchase.com/Street_hacks_Slide55.html

Un telefonino falso “Nokia”, modificato per inserire due SIM diverse. Si notano due tasti rossi per chiudere e due verdi per rispondere. Nel riquadro: l’ultimo nato di casa Samsung, il D880 Dual SIM. 54


POSITIONS

Jan Chipcase

Sulla cultura dell’innovazione e della riparazione traduzione del dottorando

N

ello sforzo di comprendere l’esperienza dei consumatori ho speso del tempo nei mercati nascenti per studiare la cultura della riparazione. Questo viaggio mi ha portato in città come Chengdu, Delhi, Ulan Bataar, Ho Chi Minh and Lhasa e di recente Kampala e Soweto. Qui si trovano gruppi di negozi e bancherelle che vendono sia telefonini nuovi che usati, e sebbene (in questo caso) la scala non importa, loro spesso operano su una scala mai vista in città come Londra o Tokyo. Il mercato delle telefonia mobile attorno a Chengdu’s Tai Shen Lan Lu Market per esempio si estende per numerose strade o portici con centinaia di negozi e bancherelle. Per avere un istantanea dei consumatori di telefoni cellulari nel mercati emergenti questo è il miglior posto da cui iniziare. Perchè questi luoghi vengono spinti sempre ai margini della città, nei mercati più “emersi”? A parte la quantità di prodotti a prezzo scontato, esiste un fiorente mercato di servizi di riparazione che va dallo scambio di pezzi, alla rivendipratiche di riparazione e personalizzazione

ta di circuiti stampati, alla riconfigurazione del telefono con il linguaggio che preferisci. La riparazione è spesso eseguito con poco più di un cacciavite, uno spazzolino da denti (per pulire i contatti), una buona conoscenza del prodotto e un piano su cui lavorare. I manuali d’uso e manutenzione sono disponibili in Indiano, Inglese e Cinese (...). La maggior parte dei riparatori però conta su una rete sociale informale attraverso la quale condividere conoscenze riguardo ai guasti più frequenti, piuttosto che alle tecniche di riparazione. E’ spesso più semplice sbirciare il lavoro del vicino che aprire un manuale da sè. Delhi si distingue perchè offre che una grande varietà di corsi di riparazione in istituti di formazione come Britco and Bridco in cui lavorano parecchi “ingegneri riparatori”. Per chiudere il quadro generale, i grossisti offrono tutti gli attrezzi necessari per sistemare e metter su un’attività di riparazione ai singoli componenti ai circuiti stampati, dai cacciaviti ai software. I servizi di riparazione informale offerti sono generati dalla necessità; i clienti non possono affrontare grosse spese per andare nei centri assi-

Cosa possiamo imparare dalla cultura della riparazione? ---------Al di là dei benefici quali sono i rischi per i consumatori e per le compagnie i cui prodotti vengono riparati? ---------Considerati i benefici per il consumatore ci sono elementi dell’ecosistema della riparazione che possono essere esportate in altri paesi? ---------La stessa tecnica può essere applicata ad altre parti della catena dei valori?

stenza ufficiali e, anche se potessero, i loro telefoni non sono coperti da una garanzia- essendo stati acquistati attraverso un mercato abusivo, o essendo stati spedito da amici o parenti all’estero o essendo un prodotto usato, acquistato di seconda o terza mano.(…) Alcuni mercati vendono anche una vasta gamma di telefoni che riproducono il design industriale dei prodotti ufficiali in commercio(…) Per i consumatori, la cultura della riparazione non ufficiale è molto conveniente, efficiente, veloce ed economica perché riduce il costo totale. Questa riduzione è molto importante, soprattutto per chi anche un piccolo abbas55


POSITIONS samento del prezzo può fare la differenza tra l’avere o no un telefonino. La cultura della riparazione aumenta anche la durata dei prodotti diminuendo il loro impatto ambientale (sebbene possa essere dovuto ad altri fattori come l’inefficienza o l’utilizzo di batterie vecchie). (…) www.janchipchase.com

Jan Chipcase è un ricercatore del Nokia Research Center di Tokyo, specializzato nello studio delle pratiche informali di riparazione. Nel suo tempo libero ha messo su, insieme ad altri, il sito Future Perfect (www.janchipchase.com), che racconta dei suoi viaggi di ricerca delle sue scoperte.

E, tornando al mio iniziale interesse in questo campo e al lavoro che stiamo facendo nel Mobile HCI Group, data la quantità di risorse e tecniche disponibili,

cosa servirebbe ancora per trasformare le culture della riparazione in culture dell’innovazione?

56


Vuoi convertire un rudere in campagna in un elegante showroom? chiama Architecture Upgrade

Il progetto affonta il problema del riuso di una vecchia porcilaiacostruita alla fine del XVIII secolo e la sua trasformazione in showroom. Dell’edificio precedente, ridotto a rudere, sono state conservate solo le murature perimetrali, mentre lo spazio interno è stato recuperato attraverso l’inserimento di una “casa nella casa”. Il vecchio e il nuovo sono accostati per contrapposizione.

fnp architekten | www.fischer-naumann.de pratiche di riparazione e personalizzazione

57


EDITING

Upgrade Gli studi sulla cultura della riparazione condotti dalla Nokia nei paesi in via di sviluppo sono orientati alla ricerca di quei casi in cui la pratica informale di riparazione produce innovazioni tecnologiche interessanti, che attraverso aggiustamenti possono essere introdotte nei prodotti di consumo. In quei paesi, che siamo abituati ad etichettare come, tecnologicamente arretrati, lo spirito di sopravvivenza e lo spiccato senso di comunità ha permesso di andare oltre la riparazione dei vecchi oggetti provenienti dai paesi “avanzati” e sviluppare idee e professionalità che interessano perfino le grandi multinazionali, nella quali lavorano migliaia di ricercatori specializzati. Lo stesso Chipcase, a conclusione delle sue ricerche, si interroga sulla

possibilità di estendere le potenzialità del processo di riparazione a discipline differenti da quella elettronica «per trasformare le cultura della riparazione in cultura dell’innovazione». Se nel campo elettronico si realizzano nuovi apparecchi, sulla base di oggetti usati, attraverso operazioni di ibridazione di pezzi diversi o innesto di parti estranee, in maniera abbastanza simile alcune architetture di basano su operazioni di innesto e aggiunta su altre che già esistono. Questi progetti entrano in collisione con le architetture esistenti, partecipando al «processo che le procede e le prosegue» in una visione di architettura della riparazione che non si limita al ripristino e alla conservazione, ma diventa un processo attivo che produce nuovi

L’architettura è nell’apparecchio telefonico e nel Partenone. Le Corbusier, Verso un Architettura, Longanesi, 1973, pg. 7

ibridi contemporanei. Giacomo Borella, affrontando il tema della manipolazione in architettura, accusa le pratiche di tutela e conservazione «di estrarre dal flusso di sedimentazioni singoli manufatti eccellenti o parti di città, congelandoli», rimandando a un concetto obsoleto di immutabilità. Per identificare queste modalità di intervento negli ultimi anni l’architettura ha fatto propri termini usati in biologia come parassitario o virale (questi aggettivi tuttavia sono utilizzati per indicare tipologie di intervento differenti). Ritengo sia possibile fare una sottile

Fotomontaggio per un progetto di estensione per la Design Research Unit (in basso). Nell’immagine realizzata da Jan Kaplicky un automobile (simbolo della produzione industriale) viene posizionata sul tetto dello storico edificio, sottolineando l’idea di ibridare un oggetto di design con un architettura esistente. 58


EDITING

differenza che è potessero essere utile a distinguespostate sui tetti re il rapporto che invece di «ammufqueste architettufire i marciapiedi», re instaurano con trovando «illogiquelle con cui enco che un’intetrano in simbiora superficie della si, termine che pecittà resti inutiraltro mi sembra lizzata e riservapiù appropriato in ta ai tête-a-tête quando indica una delle tegole e delstretta relazione le stelle»1. tra due “individui” Gli interventi di senza che il primo rooftop architecrechi danno al seture possono escondo, come insere suddivisi convece succede nel cettualmente in caso di un parasdue grandi grupsita. pi: al primo apPer meglio compartengono i prprendere questi Everland è un hotel con una solo stanza oggetti (il termine fenomeni può es- che viene spostata continuamente. pr-oggetti viene Al cliente che prenota una notte in questa sere utile limi- piccola cellula abitativa con tutti i confort dalla fusione di tare il ragiona- viene comunicato dove si trova l’hotel solo progetto e oggetgiorno prima di partire. mento ad uno dei ilSotto: to e vuole sottolila “casa zaino” di Stefan Eberstatd temi più diffusi neare il fatto che nell’ambito delle architetture che questi micro-progetti di architettulavorano con pratiche di aggiunta ra sono al contempo dei macro-oge innesto: la rooftop architecture, getti di desgin) capaci di innestarsi l’architettura che sfrutta i tetti libe- agli “organismi architettonici” senri degli edifici esistenti come nuovo za modificarne la struttura, ma sosuolo urbano su cui collocare cellu- lamente poggiandosi o agrapandole abitative o servizi. si su di essi. Questi pr-oggetti, che Già negli anni trenta, Le Corbusier ereditano i loro strumenti dal dein Verso un’architettura si chiede- sign industriale, adottano sistemi va se le attività commerciali non costruttivi smontabili, spesso prefabbricati, e strutture indipendenti che consentono di rimuoverli e spostarli su altre architetture o di utilizzarli solo temporaneamente. A questo filone appartengo diversi tipi di interventi che vanno dalle installazioni d’arte alle abitazione di lusso prefabbricate, dall’utilizzo di oggetti ready made pratiche di riparazione e personalizzazione

Alcuni fotogrammi del video che si trova sul sito dello studio che realizza Loft Cube, un lussuoso mini-appartamento, personalizzabile su richiesta, che può essere posizionato in terrazza. http://www.loftcube.net 59


TESTING

PARASITE

60

Uno degli esempi più conosciuti, e forse quello per cui si è tanto diffuso il termine parassita in archittura, e l’intervento Parasite Las Palmas di Korteknie Stuhlmacher a Rotterdam. Nel 2001, anno in cui la città fu designata capitale europea, sul tetto di uno degli edifici industriali dismessi dell’area portuale in cui si tiene la mostra parasites viene posizionata una piccola architettura assemblata in loco con panelli di legno colorati in verde acido. Nei giorni della mostra questo piccolo, ma molto evidente, oggetto aggrappato sul tetto del vano ascensore assume un forte potere comunicativo diventando un simbolo visibile e riportando l’interesse su quell’area abbandonata. Guardando le immagini delle fasi di montaggio ci si accorge come queste architettura sia molto simile a un oggetto di design, a un kit di montaggio per una piccola casa.


EDITING Sinistra: NL Architects, Basket Bar, Utrecht Destra: Steven Hool, Makuhari Bay New Town, Giappone, progetto per 190 unità abitative Sotto: Shop Architects PC, The Porter House New York, 2003 conversione di un magazzino in condominio residenziale.

di derivazione industriali alle pratiche informali di aggiunta. E’ curioso osservare come il tema della rooftop architecture sia diffuso in luoghi e culture differenti con modalità e scopi altrettando diversi. Mentre in europa gli studi di architettura e design mettono in vendita (LoftCube in figura) piccole cellule abitative extra-lussuose da posare in cima agli edifici per godere del panorama, in realtà più difficili nelle megalopoli in via di sviluppo l’uso del tetto come piano di appoggio per spazi coperti autocostruiti diventa una forma di sopravvivenza alla densità. Le architetture fin qui descritte vengono accomunate dai processi con cui vengono realizzati, che come nelle pratiche di riparazione descritte in ambito meccanico o elettronico, attraverso azioni di innesto, montaggio, aggiunta di parti diventano esse stesse delle nuove parti che come degli optional aumentano le potenziali dell’oggetto (architettonico) di base producendo innovazione. Tornando alla distinzione iniziale è possibile classificare in un secondo pratiche di riparazione e personalizzazione

gruppo gli interventi architettoni che utilizzando la parte degli edifici si innestano però in maniera più stabile su di essi, modificandone «i caratteri morfologici e tipologici» e la struttura. In questo caso i sistemi costruttivi sono di tipo tradizionali e in alcuni casi il corpo aggiunto ha dimensioni superiori all’edificio esistente. Seppur questa seconda tipologia di interventi risulti interessante in una visione innovativa del progetto che lavora con la preesistenza, lo appare meno rispetto al tema della riparazione, come processo instabile ed aperto ad aggiustamenti successivi, in quanto rappresentano delle configurazioni definitive e concluse. 1. Le Corbusier,, Verso un Architettura, Longanesi, 1973, pg. 45 61


TESTING

Paolo Tringali

Riparazione

Amplificazioni sulla città informale Il testo è tratto dalla tesi di laurea “Informale. Strategie di riparazione per una città informale dell’arch. Paolo Tringali. I fotomontaggi sono del dottorando

62

Il Cairo invita a ripensare alcuni concetti molto usati in questi anni dalla cultura architettonica ed urbanistica: innovazione, stratificazione, permanenza, differenza. Di solito pensiamo che la trasformazione e l’innovazione siano esito di idee e progetti completamente nuovi, che prima non esistevano; nella città del Cairo si delinea un’idea di progettualità concepita come insieme di processi di trasformazione che avvengono attraverso il riuso/riciclo di materiali, spazi, o parti di essi; il Cairo induce dunque a ridefinire l’approccio progettuale tradizionale inteso sia come modello ideale astratto che come lettura delle potenzialità del contesto. La città informale, si configura oggi, con una identità estremamente precisa; pochi caratteri formali si ripetono su tutto l’organismo urbano: i mattoni a vista sulle facciate, la regolarità della maglia strutturale, con cui vengo realizzati gli edifici, le logge decorate, che mettono in relazione lo spazio dell’abitare con la scala urbana, e le strade tracciate con precisione ma sempre in terra battuta. Tutto ciò ha contribuito alla definizione di modi di abitare, spazi della città, e ad una immagine complessiva, che non possono che essere definiti “contemporanei”. Dall’osservazione del contesto, la carenza di alcuni servizi di quartiere, combinata con una totale assenza di suolo per edificarli, e dalle riflessioni legate alla altissima densità abitativa, che caratterizza tutta l’area metropolitana del Cairo ed in particolare gli insediamenti informali derivano le scelte di fondo del progetto che ha tenuto come idea fondamentale, quella di sfruttare la superficie delle terrazze, esistenti sopra i blocchi residenziali. Infine la maglia strutturale, se da un lato ha rappresentato un vincolo, dall’altro ha reso altamente fattibile ed economicamente sostenibile il progetto.


TESTING Da un punto di vista funzionale, il programma, si compone di un insieme di piccoli servizi collocati sui tetti di un blocco residenziale e legati alle attività quotidiane di esso. Il progetto è contenuto dal volume ipotetico dell’edificio residenziale, leggibile attraverso la “gabbia” strutturale, risultandone idealmente protetto, ed al contempo costituendo un nucleo speciale di valore collettivo. Ciò consente di tenere i servizi separati dalle residenze, evitando ogni interferenza. Il progetto cerca di interpretare il vincolo rigido della maglia strutturale, che

pratiche di riparazione e personalizzazione

pur ammette piccole variazioni: la scelta è stata di incastrare nell’estrema rigidezza della “gabbia” in cemento armato, scatole interamente realizzate in legno; tale scelta, provocando interuzioni e distorsioni della “gabbia”, da un lato sottolinea il carattere episodico ed eccezionale dell’intervento, dall’altro ne ne rispetta la trasformabilità ed accrescibilità. Uno schema siffatto risulta essere facilmente riproducibile su altri edifici della città informale. Il complesso di servizi si articola su tre livelli, ciascuno dei quali è caratterizzato da una specifica funzione e da differenti flussi di utenze: il piano più basso ospita un centro sanitario e la “sala incontri” per gli anziani; su tutto il piano centrale trovano sede gli spazi dell’asilo, dedicati ai bambini, ed al piano superiore sono situati gli uffici per il personale; infine, la piastra di copertura in cemento armato, poggiata sulla gabbia, è attrezzata con un sistema di “orti urbani” o può costituire il nuovo suolo per le abitazioni future. In basso, il centro sanitario è costituito da un unico blocco, che fa da basamento all’intero sistema, e si articola in una sequenza di quattro ambienti; il livello

dell’asilo è invece strutturato con tre “scatole” parallele messe in relazione tra loro da due patii, la cui differente dimensione riflette le diverse funzioni e possibilità d’uso; infine il livello degli uffici è nuovamente una scatola unica, che, posta ortogonalmente a quelle del livello inferiore, diviene un punto di osservazione privilegiato sulle attività dei bambini. La composizione del piano dedicato all’asilo con la chiarezza delle funzioni e la semplicità d’uso degli spazi rende il progetto leggibile, interpretabile e fruibile dai bambini; la precisa caratterizzazione spaziale non contrasta con la relazione di interdipendenza esistente tra gli ambienti: la scatola destinata alle aule si apre letteralmente verso l’ampio patio centrale, che la mette in diretta corrispondenza con quella per lo spazio polifunzionale (mensa, attività motorie, ecc.), lasciando così la possibilità di generare un ambiente unico ed una continuità tra interno ed esterno; la scatola che contiene gli ambienti destinati al riposo è invece isolata dal resto dell’edificio dal patio più piccolo ed è completamente chiusa su se stessa al fine di garantire un maggiore isolamento. In conclusione, le soluzioni costruttive individuate nel progetto mirano ad essere economicamente sostenibili, ed allo stesso tempo, utilizzando le tecniche conosciute dagli abitanti della città informale, consentono il mantenimento della loro autosufficienza ed un certo grado di integrazione con la cultura locale. Il progetto proposto, infine, pur rappresentando un evento fuori dalla norma, possiede una forte valenza simbolica, e, possiamo dire con l’architetto Jorge Mario Jàuregui, indica “il cambiamento delle cose: le persone infatti comprendono di avere il diritto a qualcosa che fino a quel momento era disponibile soltanto nella città formale”. 63


What We Want

Il paesaggio sociale si è sempre evoluto in modo più o meno autoctono, mostrando scarso interesse per le politiche e le strategie di governo del territorio. Forse qualcosa sta ulteriormente cambiando di recente: si ha l’impressione di una maggiore consapevolezza, la consapevolezza che tutto ciò che ci circonda, l’ambiente nel quale trascorriamo le nostre giornate, ci appartiene e possiamo disporne sempre più liberamente. Oggi possiamo identificare una nuova comunità di pionieri abituati a pensare la città come un luogo slegato dalla sua stessa storia, modificabile e disposto ad ospitare l’importazione di modelli e suggestioni da culture diverse. Queste condizioni recenti hanno acuito la nostra capacità di perfomare i luoghi, hanno inoltre acuito la nostra sensibilita nel proiettare nell’ambiente la nostra volontà, dando vità ad un paesaggio come proiezionie dei nostri stessi desideri. In questo panorama nuovi attori mettono in scena le loro performance e conformano i luoghi a immagine e somiglianza della loro idea di città. L’accumulo infiinito di tali azioni piccole e grandi, e disperse ovunque, imprime sul territorio una volontà, trasformando forma e significato dei luoghi. Spesso questo catalogo di gesti assume una valenza che potremmo definire politica, perchè inscena una forma di occupazione degli spazi, seppur temporanea e prefabbricata. Jodice Francesco, What we want, Skyra 2004, quarta di copertina

64

Francesco Jodice Fotografo www.francescojodice.com


pratiche di riparazione e personalizzazione

65


POSITIONS

Eva Kopriosek

Stile un pò “vintage”

da: http://www.cafebabel.com/ita/article/21901/il-cairo-la-citta-dei-taxi.html

Dal dodicesimo piano del nostro alloggio, sotto un cielo di smog, lo sguardo si perde sui tetti del Cairo. Antenne paraboliche alle finestre, cartelloni pubblicitari svolazzanti a fianco di viuzze trafficatissime. E soprattutto taxi ovunque. Circolano giorno e notte. Una schiera nero-bianca di lamiere, materiale sintetico e plastica, riparati chissà quante volte nei cortili nascosti dietro i negozi. E una volta riassembla L’interno del taxi in cui salgo è ricoperto di polvere e sporcizia. I sedili sono logori, il rivestimento nero in plastica è abraso in diversi punti della spalliera e rivela il suo interno marroncino, non ben definito. È uno dei tanti taxi in servizio sulle strade del Cairo da ormai diversi decenni. Le dimensioni del parafango di sinistra sono diverse da quelle richieste per questo modello

66

e ci sono così tante macchie di ruggine che non vale nemmeno la pena sistemarlo. Il taxista è un ragazzo giovane, sui venticinque anni al massimo. Al posto dei canti coranici molto gettonati dai colleghi più anziani, preferisce ascoltare musica araba. Rispetto all’annata dell’auto, la radio con la piastra di registrazione è sorprendentemente nuova. Il mio compagno di viaggio seleziona un’emittente in lingua inglese con le Hit Parade britanniche. Forse vuole farmi un favore, e ciò è sicuramente un buon motivo per aumentare di qualche sterlina il prezzo della corsa.


Un taxi nella strada tra le Piramidi di Giza. Al Cairo le autovetture europee degli anni 70 vengono ancora normalmente utilizzate come taxi o auto private. Chi non è mai stato al Cairo e ha visto le piramidi soltanto in foto pensa che si trovino in mezzo alla sabbia del deserto senza nulla attorno. In realtà lo sviuppo della città ha ormai da tempo raggiunto l’area in cui si trovano le piramidi, urbanizzando anche questo luogo.

disponibile anche in versione Cairo TAXI pratiche di riparazione e personalizzazione

67


EDITING

Pimp my ride

N

el mondo dei motori esistono vari esempi in cui azioni come montare, smontare, sostituire, mettere a punto, non sono legate solo alla risoluzione di un guasto, ma anche a un miglioramento del mezzo in termini funzionali o estetici, atto a soddisfare il gusto e le esigenze del proprietario. Le moto custom, in inglese “personalizzato”, sono un esempio di come parecchi appassionati si cimentino nel re��� styling��������������������������� del loro mezzo, alimentando un’enorme mercato di ricambi e accessori dedicati. Le motociclette di serie vengono totalmente trasformate in prototipi attraverso la costruzione di pezzi speciali realizzati ad hoc o l’ibridazione di componenti di marche diverse. Da qualche anno va in onda su MTV una fortunata trasmissione televisiva chiamata Pimp my Ride, in cui un gruppo di rapper americani, esperti meccanici, si divertono a trasformare rottami, di proprietà di giovani spettatori, in prototipi di lusso super accessoriati. Il divertimento sta nel seguire la trasformazione del veicolo e la reazione dei proprietari di fronte ai loro nuovi veicoli all’interno dei quali vengono installati acquari, gong buddisti, jacuzzi, utensili per la manutenzione delle palle da bowling, tavoli da ping-pong e qualsiasi cosa venga in mente ai meccanici dopo aver valutato gli hobby dei conducenti. Qualcosa di molto simile succede al Cairo, dove milioni di auto degli Alcune pagine di un depliant che mostra la varietà di personalizzazioni applicabili alla nuova Fiat 500 68

anni settanta, provenienti dal mercato europeo, vengono riparate e riutilizzate come principale mezzo di trasporto pubblico. I tassisti del Cairo non sembrano accontentarsi di avere solo un mezzo funzionante, ma oltre a riparare e sostituire le parti danneggiate lo personalizzano con accessori e modifiche di ogni tipo: adesivi, cruscotti pelosi, volanti, sedili di altre marche, fari colorati, copricerchi, specchietti di ogni forma trasformano le auto che in Europa sono state dismesse più di vent’anni fa. Questo atteggiamento è probabilmente una forma di reazione all’impossibilità di acquistare auto nuove e una volontà di distinguersi modificando un prodotto seriale. Tali pratiche informali di personalizzazione del prodotto, che rivelano necessità e gusti dei consumatori, portano a riflettere sulle attuali strategie commerciali di alcune grandi multinazionali che fanno leva sulla possibilità di personalizzare del prodotto. Nel campo del

Sopra: Un vecchio furgone all’inizio e alla fine della trasmissione Pimp my ride Nella pagina accanto: una vista di Rocinha, uno delle più grandi favelas di Rio


EDITING

design, dalle auto ai telefonini, si assiste a una tendenza nel progettare prodotti che prevedono la possibilità di personalizzazioni successive attraverso l’acquisto di accessori intercambiabili. La customizzazione, da pratica artigianale fatta di paziente e attenta ricerca di pezzi da adattare, diventa uno strumento di marketing delle aziende, che offrono immensi cataloghi di optional e possibilità. La differenza di fondo tra le operazioni informali di personalizzione e le strategie industriali sta nel fatto che mentre le prime generano infinite possibilità di modifica operando attraverso processi artigianali di adattamento o costruzione autonoma dei pezzi, le politiche industriali citate offrono solamente un ventaglio di opzioni, che, seppur molto vasto, rimane sempre limitato e preconfezionato. In altre parole si sta parlando della differenza tra un telefonino auto-costruito, di quelli scoperti da Chipcase nelle periferie del mondo, e uno della Nokia con cover intercambiabili, piuttosto che tra un prototipo di una moto custom e la nuova 500 della FIAT. Volendo riportare questa distinzione al progetto di architettura potremmo distinguere “l’imprevisto progettato” dal progetto che fa dell’imprevisto uno strumento. Le pratiche artigianali di personalizzazione autonoma di oggetti, fin qui descritte, possono essere paragonate al fenomeno che in architettura hanno a che fare con i termini informale, spontaneo, autocostruito. Già dagli anni sessanta architetti come John F.C. Turner pratiche di riparazione e personalizzazione

erano affascinati dall’attenzione verso fela capacità della gennomeni spesso ignorati o sottovalutati che te più povera in fatto di autorganizzazione cocoinvolgono decine di munitaria ed edilizia milioni di persone che self made. Come fa noper spirito di sopravvitare Mike Davis1 altri venza diventano soggetti attivi che costruarchitetti «come quelli FRANCO LA CECLA del Groupe Ciam Aliscono gli spazi urbani ger, avevano elogiato Ogni periferia auto e li adattano alle loro costruita, perfino l’ordine spontaneo delnecessità. una orrenda le bidonville per la “re- bidonville ha più Parecchi fotografi, lazione organica tra gli dignità, cioè esprime giornalisti, sociologi edifici e il territorio, la uno sforzo vero, si occupano di descriumano, di abitare e flessibilità con cui gli non un’utopia zoppa vere non solo le conspazi si adattano a fun- che alcuni progettisti dizioni di vita in quezioni diversificate e alle applicano ad altri sti luoghi, ma anche le uomini, il cui destino mutevoli esigenze degli abitativo non pratiche costruttive, gli utenti». interni abitativi e l’orvorrebbero senza Negli stessi anni vie- dubbio condividere» ganizzazione dei spazi ne pubblicato il cata- Franco La Cecla, Contro urbani, mentre rimanBollati gono sempre sporadilogo della mostra cura- l’architettura, Boringhieri, 2008 ta da Bernard Rudosky che e marginali le ri“Architecture without cerche condotte dagli architects”, una raccolta di archi- architetti. Sembrerebbe che l’architetture costruite senza il supporto tettura abbia una sorta di resistendegli architetti, che, come sostie- za e di indifferenza nei confronne lo stesso autore «rompono la no- ti di questi temi, forse dovuta alla stra concezione dell’arte del costru- consapevolezza che gli strumenti ire introducendoci nello sconosciuto di lettura e intervento classici sono mondo dell’architettura nonpedigre- inappropriati, o peggio, al pensiero ed (ndt. senza nobili discendenze)»2. che l’unica soluzione per questi feIn quegli anni Rudosky, oltre a re- nomeni abusivi sia quello si spazalizzare un’antologia di quelle ar- zare via tutto e ricostruire secondo chitetture che definiva «vernaco- un’idea più “nobile” di architettura. lari, spontanee, indigene, rurali», Come sostiene Robert Neuwirth, riportava l’attenzione sulla propor- un giornalista americano che ha viszione di questi fenomeni sostenen- suto per parecchi mesi nei quartieri do che la visione totale che se ne abusivi di quattro continenti, bisoaveva era falsata dalla mancanza gnerebbe riconoscere che l’abusividi documenti e ricerche in merito. smo è sempre stato il modo in cui la Negli ultimi anni termini come in- gente più bisognosa (e non solo) coformale e autocostruito sono sem- struisce le proprie dimore e «in sopre più diffusi - a volte usati in ma- stanza è una forma dello sviluppo niera inappropriata - e riportano urbano»3 di gran parte del pianeta. 69


EDITING

Qualcuno avrà da obiettare che lo starsystem di architetti mondiali preferisce lavorare a Dubaj, dove circolano grossi capitali, piuttosto che cercare di risolvere i problemi di bidonville o favelas in cui vivono milioni di poveri. Tralasciando ogni banale disquisizione etica su questo argomento, bisogna piuttosto chiedersi come mai colossi economici come McDonald’s o società di TV via cavo cerchino continuamente di accaparrarsi fette di mercato all’interno degli slum? Questo dimostra come le grandi multinazionali considerino le baraccopoli un potente risorsa a differenza delle amministrazioni che le vedono come una minaccia che “inquina” le città. Gli insediamenti informali rappresentano per l’architettura un territorio molto più vasto di quello ristretto su cui si opera, sia come dimensione che come opportunità di sperimentazione. Attualmente il progetto di abitazioni e servizi nella periferie del mondo è gestito da svariate ONG che, attraverso finanziamenti di banche e privati, si occupano di realizzare progetti per migliorare le condizioni abitative e fornirle di un certo numero di servizi di base, con risultati a volte notevoli,

70

ma che «rimangono pur sempre intrappolati in dinamiche che procedono dall’alto verso il basso»4 e non sfruttano le dinamiche ci costruzione e trasformazione già in atto. Guardando a questi fenomeni non si vuole qui sostenere la tesi provocatoria di Koolhaas secondo cui l’architettura debba liberarsi dall’obbligo del costruire per diventare solo un modo di pensare5 e nemmeno condividere in pieno posizioni estreme come quella di Franco La Cecla per cui «gli abitanti lasciati a se stessi finiscono per fare meglio»6, annullando praticamente il ruolo dell’architetto. Si crede piuttosto che una riflessione sulle condizioni estreme dei paesi del terzo mondo possa spingere «la pratica architettonica contemporanea a riposizionarsi»7, a riformulare il giudizio su ciò che è abusivo e spontaneo, a sperimentare strategie progettuali trasversali che sfruttino gli effetti positivi dell’autocostruzione e diventino al contempo vincolo rispetto alle possibili degenerazioni. Il progetto di architettura potrebbe diventare una base “grezza”, RAW, una struttura fisica e intellettuale aperta a successive riparazioni da parte degli utenti.

Perchè non mi danno i soldi e non mi mostrano come costruire? Lo posso fare io. Quello che rifiutiamo è che siano estranei a beneficiarne. Bernard Nazu, un cittadino di Kibera il più grande slum dell’africa in Kenya (nelle immagini sotto), parla di cosa dovrebbe fare l’ONU. Da Robert Neuwirth, Città ombra, viaggio nelle periferie del mondo,Internazionale Libri 2007, pag. 211

1. Cfr. Davis Mike, Il Pianeta degli slum, Feltrinelli 2006, pagg. 70-71 2. Rudofsky Bernard, Architecture Without Architects: A Short Introduction to NonPedigreed Architecture, University of New Mexico Press 1964, pag. 2 3. Cfr. Robert Neuwirth, Città ombra, viaggio nelle periferie del mondo, Internazionale Libri 2007, pag. 48 4. ivi p. 54 5. Cfr. Koolhaas Rem, Content, Tashen, 2004, pag. 20 6. «Ogni periferia auto costruita, perfino una orrenda bidonville ha più dignità, cioè esprime uno sforzo vero, umano, di abitare e non un’utopia zoppa che alcuni progettisti applicano ad altri uomini, il cui destino abitativo non vorrebbero senza dubbio condividere» Cfr. Franco La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, 2008 7. Cfr. Domus 918, Editoriale Domus, Ottobre 2008, pag. 142


EDITING

Raw

N

el corso dell’ultimo decennio il mondo della fotografia ha subito notevoli cambiamenti dovuti alla diffusione di apparecchi digitali. Se fino a qualche anno fa le macchine fotografiche reflex professionali avevano prezzi proibitivi, oggi questa tecnologia è alla portata di tutti. Questa diffusione anche in campo amatoriale ha alimentato notevoli progressi nel settore; una delle invenzioni più interessanti nel campo di fotografia digitale è il formato di file RAW. Tutti gli apparecchi digitali prodotti fino a pochi anni fa producevano dei file paragonabili più o meno a quello che si ottiene da una scansione di pellicola tradizionale. Il RAW ha introdotto la possibilità di scattare una fotografia generando un file “grezzo”, che contiene una grande quantità di possibili impostazioni, sul quale è possibile fare degli aggiustamenti in seguito. Questa manipolazione successiva al momento dello scatto è stata definita da molti “sviluppo in camera chiara”, per sottolineare la somiglianza con il processo di aggiustamento e ritocco dei negativi che veniva prima fatto in camera oscura. Il termine RAW, che in italiano può essere infelicemente tradotto “grezzo”, identifica una tecnologia che introduce due concetti principali nella fotografia digitale: la possibilità di commettere piccoli errori nella fase di realizzazione dello scatto e il vantaggio di poter pratiche di riparazione e personalizzazione

generare infinite variazioni partendo da una base grezza. Provando a fare una ricerca sul web del termine “RAW” insieme alla parola “Architettura”, si ottengono risultati che hanno a che fare con progetti di architettura o di design realizzati con materiali low tech e con finiture appositamente grezze. Gran parte di questi progetti sono loft destinati ad artisti e designer, che traducono il concetto di RAW in ambienti dallo stile “grezzo” poco rifinito. Questi interventi, principalmente di architettura di interni, rimangono nell’ambito di scelte estetiche di tendenza, in cui il “non finito” è solamente una soluzione formale e non implica interventi di trasformazione, completamento e personalizzazione successivi alla fase di progettazione e realizzazione, che più ci interessano in questa sede. Il tema dell’adattabilità e della mutabilità dell’architettura non è certamente un argomento nuovo. Gia alla fine degli anni 50, nelle sue “utopie per il terzo millennnio”, Yona Friedman1 pensava ad un’architettura mobile e una città più”soft”, identificando con questo aggettivo il concetto di adattabilità degli spazi e degli edifici ad opera degli abitanti. «La grande

invenzione riguardo al concetto di “architettura mobile” è la capacità dell’architettura, o meglio di ciò che viene costruito, di adattarsi ai comportamenti contingenti e alle preferenze degli abitanti nel corso del tempo»2 Secondo Friedman «gli abitanti dovrebbero prendere le decisioni e il ruolo dell’architettura dovrebbe assisterli ed aiutarli a prenderle»3 Questo concetto fu ripreso nella metà degli anni sessanta dagli Archigram per sviluppare la loro idea di Plug-in City. Questo progetto di Peter Cook, pubblicato nel 1964 in “Archigram 5”, proponeva una visione della città globale contenuta in una griglia megastrutturale in cui sarebbero state innestate delle cellule pensate per durare un tempo limitato e per soddisfare ogni tipo di necessità. Queste utopie, per anni considerate solamente teorie di visionari, oggi, grazie anche al lavoro di alcuni curatori come Hans Ulrich Olbrist, sembrano tornare in auge e invitano a 1. «Nessuno ha mai “costruito” una città. Le città crescono con una particolare e lenta spontaneità» cfr. Friedman Yona, Pro Domo, Actar 2004, pagg. 73,75 2. ibidem p. 32 3. ibidem p. 27 71


TESTING

discutere sul ruolo dell’architettura. Tornado al concetto di RAW si vuole pertanto identificare con questo termine l’architettura ingloba l’imprevisto nella fase progettuale, rinuncia ad una configurazione definitiva e preconfezionata, inserendo il progetto in un processo che lo precede e lo prosegue. Inserire l’imprevisto nel progetto non vuol dire prevedere le successive variazioni immaginando un ventaglio di possibilità, ma pensare ad un’architettura fluida che rimanda agli utenti la trasformazione fornendo loro gli strumenti di base. Uno degli esempi che ha trasformato le idee di Friedman sulla casa adattabile in architettura costruita è il lavoro di Alejandro Aravena con

E

lemental è un’organizzazione internazionale, definita Do Tank, che ha come obiettivo la realizzazione di interventi urbani di edilizia popolare ed “elementare” a bassissimo costo in varie zone del Cile. Nel corso degli ultimi decenni il governo cileno ha portato avanti una politica rivolta a far fronte al problema della carenza di alloggi che trasferisce la proprietà delle nuove abitazioni popolari direttamente al destinatario. Le case vengono costruite da imprese private (non dallo Stato), che, utilizzando in parte i sussidi governativi ed in parte i proventi di un mutuo a tasso agevolato riser72

vato alle famiglie, hanno realizzato più di un milione di case dal costo medio di 12.000 dollari (8.300 euro circa). Sebbene abbia portato a un notevole innalzamento del patrimonio edilizio residenziale disponibile, questo tipo di politica ha tuttavia subito parecchie critiche riguardanti l’incapacità di destinare le abitazioni alle famiglie più povere (che non possono permettersi il mutuo), la scarsa qualità e la dimensione inadeguata degli alloggi. Un altro fattore che ha portato ad una veloce svalutazione de-

Grazie a tutte le caratteristiche elencate, i progetti elaborati intendono offrire un contributo, utilizzando gli strumenti dell’architettura, alla soluzione di problemi non architettonici: nello specifico, alla sconfitta della povertà. (Alessandro Aravena)


TESTING

Coordinate progettuali II mercato dell’abitazione sociale è piu simile a quello delle automobili che non a quello delle case. Se, quando si acquista un’abitazione o si investe nel settore immobiliare, ci si attende che il capitale iniziale si incrementi nel tempo, nel caso dell’edilizia popolare, invece, accade esattamente il contrario: (...) il valore di una percentuale alta di unità realizzate attraverso questa politica diminuisce, proprio come accade per Ie automobili. Autocostruzione In terzo luogo, poiche si prevedeva di realizzare il 50% del volume di ogni unita abitativa in una seconda fase, ricorrendo all’autocostruzione, occorreva predisporre un tessuto edilizio sufficientemente poroso da consentire a ogni alloggio di ampliarsi entro i propri confini. La struttura di base fornisce dunque un supporto non vincolante, capace di evitare gli eventuali effetti negativi che I’autocostruzione può indurre nel tempo sull’ambiente urbano, ma anche di agevolare il processo dl espansione. Taglio degli alloggi Infine, si è deciso di studiare i 30 metri quadri consentiti dal budget, non come una casa minima, ma come il nucleo di partenza di un’abitazione di taglio medio. Questo ha significato progettare (...) pensando allo scenario finale di un alloggio di 72 mq. In definitiva, se i fondi assegnati bastano solo per metà della casa, il problema sostanziale è da quale metà partire. Si è scelto di partire dalla metà che una famiglia non è di solito in grado di costruire da sola. Alejandro Aravena, Progettare e costruire, Electa, Milano 2008, pag. 86-87

pratiche di riparazione e personalizzazione

73


TESTING

gli immobili costruiti è la distanza eccessiva dal centro abitato, dovuta al risparmio, a favore delle imprese, per l’acquisto del terreno in periferia dove il costo è molto contenuto. L’insieme di questi fattori ha causato un rapido deterioramento delle unità abitative costruite, vanificando in poco tempo l’intervento economico dello stato, e la segrega-

zione degli abitanti che per reazione hanno smesso di pagare le rate del mutuo. Nel 2001 il Ministero per la Casa e l’Urbanistica cileno ha modificato la propria politica abitativa cercando di ovviare a questi problemi e focalizzare l’attenzione anche sulle famiglie più povere, che non hanno la possibilità di pagare un

mutuo. Il nuovo programma chiamato VSDsD (Vivienda Social sin Deuda) consiste in un sussidio di 9.700 euro da sommare a una quota una tantum di 300 da parte della famiglia per un totale di diecimila dollari a famiglia che, secondo il mercato cileno, permette la costruzione di uno spazio abitativo di massimo 30mq. Il limiti economici imposti da questa soluzione hanno però generato delle questioni estremamente interessanti ed attuali per l’architettura. Normalmente siamo abituati a progettare assumendo il budget disponibile come uno dei vincoli che influenzano alcune scelte progettuali. In contesti economici e sociali come quello cileno, i cui il tenore di vita medio della popolazione è ben al di sotto di quella che oggi in Italia chiamiamo “crisi”, questi vincoli diventano però talmente restrittivi che risul-

La casa custom: come attraverso l’oggetto si distingue il soggetto. Sullo sfondo di una società globalizzata e della crescente omologazione propria di un’urbanizzazione tendente a fagocitare tutto, è possibile oggi invece ravvisare la necessità di una risposta critica alla “standardizzazione” che tenga conto di uno spostamento di attenzione dall’”oggetto” al “soggetto”, attraverso nuove forme dell’abitare che facciano prevalere i bisogni individuali come necessità di esprimere le differenti identità. È prioritario perciò trovare gli spazi perché possa emergere quel pluralismo delle diverse forme espressive che faccia dei “residenti/abitanti” dei soggetti sociali in grado di esprimere le proprie esigenze ed abitudini; queste ultime rilette in un’ottica di continuo cambiamento ed evoluzione devono diventare una spinta propulsiva al dare libero sfogo a quella “autonomia formale” ed “individualità” del soggetto abitante arrivando anche alla “customizzazione” dei singoli e diversi modi di abitare. Questo discorso può essere portato all’estremo finanche al totale rifiuto di precondizioni che dettino forme, stili, segni ed espressioni date in favore di processi informazione di tipo adattativo. Rifiuto di controllo e previsione a favore di esperienze di “indefinitezza”, “precarietà”, cambiamento. Rifiuto di “ordine” e del permanere delle forme nello spazio conchiuse e risolte in se stesse in favore della frammentazione, della flessibilità, elasticità di quelle aperte che lascino vedere le intrinseche potenzialità adattative. I modelli comportamentali di chi abita l’ambiente domestico non possono essere ridotti ad un mero adattamento di spazi che corrisponda freddamente a degli standard minimi stabiliti da generiche categorie tipologiche, ma devono essere tenuti in conto per il potere della loro componente simbolica. La composizione della “forma” deve permettere la realizzazione di soluzioni e combinazioni spaziali che preveda la trasformazione in funzione di un legame più stretto con chi abita la casa. Forme aperte alle future esigenze e destinazioni, che permettano ad ognuno di modificare e costruire abitare/incidere, come soggetto attivo, nel proprio ambiente domestico. Cecilia Anselmi | mail@ceciliaanselmi.com su: architettura.supereva.com/files/20040430/index.htm 74


TESTING Espansione e riuso II quarto lato del duplex è in lamiera ondulata: una parete non rigida, quindi, che può essere facilmente asportata in caso di ampliamenti e servire anche come rivestimento per coprire il vuoto tra i moduli residenziali.

€ 7.500 circa Il costo di un modulo abitativo corrisponde a quello di un’utilitaria

ta impossibile superarli attraverso soluzioni e materiali low-cost, senza per questo pregiudicare la qualità del progetto. In questo contesto politico-economico il governo cileno ha commissionato ad Elemental il progetto per un insediamento di edilizia sociale a Inique, nel quartiere di Quinta Monroy situato nel deserto cileno. Questo sito era destinato a 100 famiglie, che da decenni occupavano illegalmente un’area nel pieno centro della città, vivendo in baracche prive di illuminazione all’interno di un in-

pratiche di riparazione e personalizzazione

sediamento labirintico che favoriva lo sviluppo della criminalità. Dal 2003 Elemental, con Alessandro Aravena, ha progettato e costruito tre complessi residenziali (Iquique, Renca e La Espejo) che rappresentato uno dei migliori risultati internazionali nel campo dell’edilizia popolare per i paesi in via di sviluppo. Il progetto per Inique ribalta la richiesta del governo di spostare le residenze in un area periferica ponendo come primo fattore non modificabile la posizione del quar-

tiere nel centro della città. La centralità rispetto al decentramento, tipico dei quartieri per i ceti sociali più bassi che vengono spinti verso i marigini, consente di conservare il valore degli immobili, i servizi urbani e le occasioni di lavoro per gli abitanti. Conservare questi vantaggi comporta però un costo di acquisto del terreno triplicato rispetto a quello previsto di norma dai

75


TESTING

programmi per l’edilizia sociale. La risposta di Aravena al problema del limite dimensionale, imposto dal budget disponibile estremamente ristretto, consiste nell’inglobare nel progetto il fenomeno “abusivismo” ovvero le pratiche di autocostruzione che in maniera pulviscolare hanno definito nel tempo alcuni quartieri delle città di tutto il mondo. Nei paesi in via di sviluppo è facile assistere a fenomeni informali di autocostruzione degli spazi urbani e delle abitazioni, che generano soluzioni impreviste ed immediate ai problemi di sopravvivenza. Il rischio è però di rimanere affascinati dalle potenzialità della costruzione self-made senza tener conto degli effetti negativi che queste pratiche possano provocare nel

76

tempo sull’ambiente urbano. E’ altrettanto vero però che i progetti preconfezionati per soddisfare enormi necessità di alloggi, hanno ampiamente fallito perchè non riescono a confrontarsi con il mercato dei paesi in via di sviluppo e con le esigenze della popolazione che vive in quei luoghi. I quartieri realizzati da Aravena rappresentano un esempio di come un progetto di architettura possa diventare una base che pone dei vincoli all’autocostruzione, cercando di sfruttare solamente le potenzialità. Rimpiazzando l’idea di progettare il miglior alloggio ottenibile con un budget di 7500 dollari, Aravena pensa piuttosto a costruire un immobile da 750.000 dollari (ovvero l’importo che si ottiene sommando i finaziamenti di tutte le 100 fa-

miglie) capace di ospitare tutte le famiglie e al contempo di espandersi. Questa architettura, definita “edificio parallelo” per il suo sviluppo orizzontale, è stato progettato in modo da essere “poroso” per diventare al contempo supporto e vincolo alle successive espansioni. L’idea è quella di realizzare solamente la metà di ogni alloggio, sfuttando al meglio la cifra disponibile e lasciando degli spazi da riempire tra una casa e l’altra. Poichè questi “pori” sono separati da porzioni di fabbricato, l’eventuale cattiva qualità degli ampliamenti self-made risulta localizzata e dosata. L’autocostruzione, da azione che produce caos e degrado urbano, diventa uno strumento che permette l’ampliamento degli alloggi, che altrimenti sarebbero rimasti eccessivamente piccoli rispetto alle esigenze delle famiglie. Un altro aspetto interessante riguarda la capacità del progetto di adattarsi alle differenze. Nell’edilizia sociale, la necessità di contenere i costi costringe a scelte obbligate di ripetitività e serializzazione degli alloggi, che restituiscono scenari urbani asettici e incapaci di adattarsi alle differenze. Nei progetti di Aravena l’elemento seriale è inteso solamente come supporto e l’autocostruzione diventa anche un modo di temperare e individualizzare lo spazio urbano. Questi interventi, che vanno oltre il concetto di progettazione partecipata stanno ottenendo notevoli consensi sia dal governo, poichè tutelano l’intervento statale, sia dagli abitanti che vengono convolti ed evitano di essere allontanati dai quartieri in cui hanno vissuto.


TESTING Renca è un altro dei quartieri residenziali costruiti da Elemental a Santiagio del Cile e progettati da Aravena. Anche questi alloggi sono stati progettati in modo da realizzare una cellula abitativa minina di circa 28 mq, che oggi, attraverso le espansioni autocostruite, arriva a circa 68 mq. L’incarico affidato ad Elemental prevedeva la realizzazione di alloggi per 170 famiglie su un’area di due ettari utilizzata come discarica illegale di rifiuti. La situazione qui era ben più difficile di quella di Inique, in quanto con la stessa sovvenzione statale di 10.000 dollari, bisognava bonificare l’area in modo da renderla edificabile e vivibile, togliendo così ulteriori fondi per la realizzazione degli alloggi. Dovendo inoltre densificare l’aerea maggiormente non era possibile costruire dei vuoti da riempire con nell’edificio parallelo realizzato a Inique. La soluzione qui è un “muro ispessito” tra un alloggio e l’altro che divide gli alloggi assolvendo alla funzione di barriera antincendio e racchiude nello spessore gli spazi di servizio, quelli più difficili da autocostruire.

pratiche di riparazione e personalizzazione

Nello spazio di 3 metri tra un alloggio e l’altro è stata realizzata una struttura provvisoria in fibrocemento che copre lo spazio destinato opera di autocostruzione degli abitanti. Dal 2006 anno i cui il quartiere è stato completato ad oggi quasi tutte le famiglie hanno completato il loro alloggio e il quartiere continua a conservare un aspetto più che dignitoso.

77


L’edificio originario del Palais de Tokyo, che era stato costruito nel 1937 per ospitare l’Esposizione Internazionale, dalla sua nascita fino al 1974 è stato la sede del Museo Nazionale d’Arte Moderna francese. Nel periodo successivo seguirono continui cambiamenti di destinazione d’uso, fino al 1990 anno in cui fu indetto un concorso per trasformaelo in Palais du Cinéma. L’architetto Franck Hammoutène vincitore del concorso, cominciò a trasformare gli spazi e a consolidare le strutture, ma i lavori furono presto abbandonati e i lavori non completati lasceranno in vista la struttura originale dell’edificio. Nell’aprile del 1999 il ministro della cultura e della comunicazione decide di attribuire l’ala appartenente allo Stato alla istituzione di 78

un centro d’arte, nell’intento di creare un’istituzione ambiziosa, “capace di rivaleggiare con quanto offerto in altre grandi capitali dell’arte come Londra, Berlino, Amsterdam, New York”. Nel settembre dello stesso anno viene scelto, tra una decina di candidature, il progetto-programma di Nicolas Bourriaud et Jérôme Sans, due critici d’arte indipendenti. Anche per il progetto architettonico la scelta si rivela alquanto inusuale: il progetto non viene infatti assegnato a una star dell’architettura affermata, ma due giovani architetti che lavorano fuori dagli schemi. Ad Anne Lacaton e Philippe Vassal viene concesso un importo dei lavori di 4,753 milioni di euro per la sistemazione di 8.700 mq, una cifra alquanto bassa se si pensa

che essa corrisponde all’incirca alla stessa somma di cui Rem Koolhaas e Jean Nouvel, pressappoco nella stessa epoca, disponevano per la sola esposizione temporanea Mutations a Bordeaux. Questo vincolo del budget molto ristretto si sposa bene con il tema della riduzione dei costi, aspetto costante della ricerca della coppia di architetti, che «interpreta il sito come serbatoio di risorse già esistenti, che il progetto tende solo ad enfatizzare»1. Il progetto di Palais de Tokyo è stato sviluppato da Lacaton e Vassal senza disegni nè modelli, trasferendo il proprio studio nel caniteire stesso per tutta la durata dei lavori . L’ interno è pensato come un luogo aperto, in cui l’architettura rinuncia alla specificità degli spazi che, come affermano gli stessi progettisti, è un «concetto inesistente, o comunque messo in discussione dall’uso che se ne fa, un concetto che cambia»2. Il risultato è uno spazio fluido in cui le funzioni si mescolano senza gerarchie, in una nuova strategia museale diretta alla trasformazione a scapito della stabilità; «l’edificio sceglie in altre parole di essere temporaneo, di esistere come struttura architettonica provvisoria,


TESTING

destinata consapevolmente a non durare, ma a vivere delle relazioni, nate tra le persone che lo abiteranno»3. Nella stessa ottica deve essere letto l’aspetto interno dell’edificio, con la struttura a vista, le pareti non rifinite, bookshop racchiusi in reti metalliche. Tutto ciò va interpretato, non come una scelta estetica di tendenza, ma come un disinteressamento ad elementi superflui per tornare al grado zero dell’architettura. Il “non finito” di Palais de Tokyo, come nei progetti di Elemental, va interpretato come volontà di lasciare le successive trasformazioni nelle mani di chi “utilizzerà” queste architetture, in una visione del progetto che non teme l’imprevisto, ma ne fa uno strumento di lavoro. Mentre nelle unità abitative in Cile sono le persone a completare l’architettura in base alle loro necessità di sopravvivenza, a Palais de Tokyo la trasformazione dello spazio è affidata alle azioni creative ed espositive degli artisti e agli spazi di servizio per i visitatori, che, nel loro natura di aggiunte smontabili low-cost, intervengono a intaccare ulteriormente la monumentalità del luogo.

Lacaton e Vassal trasformano un edificio esistente in uno spazio grezzo attraverso lo scrostamento delle finiture, che riporta l’architettura al suo grado zero. Aravena costruisce un edificio “non-finito” che serve da base per il processo di autocostruzione. Entrambi lavorano con il vincolo di un bugdet non sufficiente sul tema della riduzione dei costi. Entrambi accolgono l’instabilità e l’imprevisto come strumento dell’architettura fatta per gli utenti.

1. Nicolin Paola, Palais de Tokyo, sito di creazione contemporanea, Postmedia 2006, p.33 2. ivi p. 39 3. ibidem L’hotel “Everland” sul tetto di Palais de Tokyo

pratiche di riparazione e personalizzazione

79


Nelle pagine che seguono, a conclusione di questa ricerca, verrà descritto un’architettura, “ri-trovata” in un viaggio al Cairo, che rappresenta in modo esemplare la cultura della riparazione applicata allo spazio urbano, condensando in un edificio, informale e molto complesso, le operazioni di riuso, innovazione e personalizzazione precedentemente descritte. Queste pagine sono state pensate come un finta rubrica di un periodico, che prende il nome di PrOggetti Smarriti, indicando la volontà di riscoprire il valore di alcuni edifici nonfirmati. Il Centro Culturale El-Sawy del Cairo è stato perciò osservato non come un edificio, ma come un progetto di architettura di qualità, eliminando gli elementi superflui, ricostruendo le fasi costruzione, con un processo a ritroso che porta alla luce un progetto nato in maniera spontanea e per fasi successive. Il mondo dell’architettura “colta e firmata” può imparare qualcosa da questi esempi di architettura informale?

80


Burning Man è un festival di otto giorni che si svolge ogni anno a Black Rock City. L’evento, nato in maniera spontanea e senza un progetto definito, è oggi una città temporanea di più di 46.000 persone sulla sabbia del Black Rock Desert nello Stato del Nevada.

LOOKING FOR NON-BRANDED PR0JECTS pratiche di riparazione e personalizzazione

81


...cadere nell’ instabilità e nell’astrazione, nell’informale, cioè nella vertigine della non-referenzialità della cultura “selvaggia” Nicolas Bourriaud

82


Looking for non-branded project

I due livelli di Via 26 Luglio, il viadotto che attraversa l’isola di Zamalek sul Nilo Esempi di pratiche informali di occupazione dello spazio sottostante ai viadotti

pratiche di riparazione e personalizzazione

Infrastrutture All’inizio degli anni settanta il governo cairota nel tentativo di risolvere i problemi di congestione del traffico fece costruire una fitta rete di viadotti, che oggi attraversa praticamente tutta l’area metropolitana del Cairo. Queste enormi infrastrutture hanno totalmente modificato lo spazio urbano e il rapporto degli edifici con la strada, dividendo la città su due livelli. In questa megalopoli, compressa dalla densità, l’istinto di sopravvivenza di milioni di persone ha alimentato pratiche informali di occupazione e riutilizzo dei luoghi della città scartati al di sotto dei viadotti, spesso considerati erroneamente spazi residuali inutilizzabili. Le azioni di appropriazione del suolo urbano sono di forma, dimensione e modalità diversa; passeggiando sotto un viadotto è possibile incontrare venditori ambulanti, ristoranti che sfruttano il viadotto come sala coperta, piccoli orti urbani, spazi temporaneamente allestiti per la preghiera, piccole architetture parassite utilizzate come negozi. Nei casi più interessanti questi interventi di trasformazione urbana non si limitano

ad occupare lo spazio residuo, ma stabiliscono un rapporto con l’infrastruttura viadotto annullando il suo carattere monofunzionale e liberandone l’energia inespressa. El Sawy Culture Wheel Al di sotto delle estremità di un viadotto che attraversa Zamalek, un isola sul Nilo nella parte centrale del Cairo, sorge il Centro Culturale El Sawy, costruito per volere dell’omonimo direttore agli inizi del duemila. Negli anni 90 Mohamed El-Sawy, oggi direttore del centro culturale, visitò per la prima volta il lotto vicino al ponte alla ricerca di spazi per posizionare dei cartelloni pubblicitari della sua agenzia, e da quel momento ebbe l’idea di richiedere le autorizzazione per poter ripulire e utilizzare lo spazio sotto il viadotto. Quella che era una zona frequentata da drogati, ricettacolo di rifiuti e spazzatura, è oggi un luogo pubblico frequentato da cairoti di ogni estrazione sociale dalla mattina alla notte, che organizza circa mille eventi ogni anno: mostre, workshop, cinema, concerti, conferenze, convegni, esibizioni teatrali, corsi di formazione. El Sawy è un esempio di come la cultura della riparazione, che nasce da azioni informali spontanee, possa produrre trasformazioni urbane significative riparando gli spazi dimeticati. Questa architettura si innesta su una preesistenza di grandi dimensioni, riportando l’ordine gigante alla scala architettonica. Lo spazio di proprietà del centro culturale si mescola con lo spazio pubblico, tanto che dal giardino in83


Un edificio in evoluzione continua Abbiamo chiesto a Mr. El Sawy cosa fosse la struttura in acciaio che si vede in acqua dalla riva sul nilo; ci dice: “è il basamento di un vecchio ponte del 1815 che collegava Zamalek alla tera ferma, prima che fosse costruito il viadotto...abbiamo intenzione di chiedere il permesso per riutilizzare la struttura in acciaio per farci un palco sull’acqua. La gente potrebbe arrivare con le barche e assistere agli spettacoli direttamente dall’acqua. C’è ancora molto da fare..C’è ancora molto da fare!”

84


pratiche di riparazione e personalizzazione

85


PR-OGGETTI SMARRITI

terno di El Sawy è possibile osservare il traffico su piani diversi che si intreccia con i flussi pedonali che dal ponte scendono sulla strada. L’ edificio è cresciuto attraverso microinterventi successivi ed impresti, che non avevano un progetto definitivo alla base, e si è ingrandito in base alle risorse disponibili e alle necessità, con continui aggiustamenti e modifiche degli spazi. Il risultato è un’architettura estremamente complessa che difficil-

86

mente può essere rappresentata e compresa con gli strumenti tradizionali: non esistono prospetti principali nè forme geometriche definite, nè piani con quote chiaramente definibili. Gli interni e gli esterni derivano dall’incastro, geniale e spontaneo, di forme irregolari e generano uno spazio fluido che permette di attraversare l’intero edificio in una successione di funzioni, suoni e immagini differenti. All’organizzazione

dello spazio corrisponde un programma funzionale altrettanto complesso: due spazi all’aperto con un bar, una sala conferenze, uno spazio espositivo, tre sale da concerto interne, una sala da teatro, un foyer con bar, una biblioteca con sei sale per workshop e prove. Queste funzioni vengono organizzate e spostate all’interno del centro culturale in base alle necessità e ai periodi, svincolando qualsiasi spazio da una destinazione d’uso definitiva. Il team di El Sawy CultureWheel (ruota della cultura), composto principalmente da giovani al di sotto dei trent’anni, continua tutt’oggi a reiventare e conquistare spazi abbandonati della città. Dopo aver superato l’ostacolo di una grande arteria stradale, che incrocia il


Looking for non-branded project

Intervista

viadotto nella parte inferiore, attraverso un sovrappasso, che viene utilizzato come percorso espositivo all’aperto, il direttore del centro sta valutando la possibilità di utilizzare il basamento di un vecchio ponte in ferro sul Nilo come palco per esibizioni sull’acqua. La mutazione e l’adattabilità sono concetti che stanno alla base di questa non-branded architecture che costituisce una sintesi esemplare della cultura della riparazione come strategia di sviluppo urbano. La lettura di queste architetture spontanee necessità di uno sguardo attento e diverso, capace di isolare l’architettura dagli elementi di dettaglio che la contaminano e di farla «cadere nell’ instabilità e nell’astrazione, nell’informale, cioè nella vertigine della non-referenzialità della cultura “selvaggia”»1. Come fa notare Nicolas Bourriaud, anche l’arte contemporanea lavora scontornando (in fotografia, l’isolamento di una figura dallo sfondo) «cioè, la maniera in cui funziona la nostra cultura sradicando, innestando e decontestualizzando le cose»2.

Il centro culturale non si trova “vicino” al ponte che va a Mohandiseen, ma letteralmente sotto di esso. “Questo era proprio un brutto posto” prima che il centro fosse costruito, sorride il direttore delle pubbliche relazioni Mohamed Salah. “Era pieno di tossici e spacciatori di droga, e molta gente vi gettava spazzatura finchè il comune costruì un muro per evitare la discrica abusiva”. La vita accanto al fiume iniziò a cambiare quando Mohamed ElSawy ha visitato per la prima volta il lotto vicino al ponte alla ricerca di spazi per posizionare dei cartelloni pubblicitari con la sua Alamia Advertising Agency. Quando diede un’ occhiata sotto il viadotto per la prima volta, non pensò nulla in particolare. Ma quando è tornato per la seconda volta qualche settimana dopo chiese il permesso di vedere di entrare in quello spazio. L’idea gli balenò subito in testa, racconta “La prima volta entrai dentro” dice Mr. El Sawy ”vidi già un palco, le luci, le tende..”. Subito dopo si recò dal governatore per chiedere il permesso per chiedere di ripulire la zona ed utilizzarla. “Era come se mi stessero aspettando...tutto fu così veloce. Il suo assistente mi chiese alcuni dettagli e mi dissero, vai e comincia!”. Il progetto ebbe i primi ritardi quando El-Sawy iniziò a mettere a fuoco ciò di cui aveva bisogno a livello pratico per costruire l’edificio che aveva già immaginato come El-Sakia (La ruota). “Inizialmente, non ho pensato ai soffitti ed al condizionamento d’aria. Volevo uno spazio all’aperto. I nostri primi calcoli erano molto stupidi. Pensavo di poter far tutto come meno di un milione di pound.” Era tempo di comunicare con il suo vecchio amico dalla scuola tedesca, Naguib Sawiris, il presidente del colosso delle telecomunicazioni Orascom, società madre di MobiNil, tra l’altro. “Disse OK senza vedere alcun programma e aggiunse che stavamo facendo qualcosa molto speciale”. La sua fiducia continua da allora. Sawiris non è venuto a vedere il posto fino a che non fosse aperto da un anno. MobiNil, con la Banca internazionale africana araba (AAIB), continua ad essere tra i principali sponsor del centro. Sawiris condivide la convinzione ELSawy’s che Il Cairo ha bisogno di centri culturali privati. EL-Sawy di Mohamed ha chiamato la sua creazione la ruota della cultura in onore di suo padre, EL-Sawy Abdel Moneim, noto in Egitto come ex Ministro di cultura e per il suo lavoro come romanziere e giornalista. Il suo sforzo più ambizioso, un ciclo di racconti denominato EL-Sakia rimase incompleto a causa della sua scomparsa. Il figlio, dando al suo centro culturale lo stesso titolo, sta completando simbolicamente il lavoro del padre. http://www.egypttoday.com/article.aspx?ArticleID=2514

1. Bourriaud Nicolas, op. cit. p.39 2. ibidem pratiche di riparazione e personalizzazione

87


PR-OGGETTI SMARRITI

88


Looking for non-branded project Odile Decq, Motorway bridge and control center, Nanterre, Francia, 1996

Sopra: Odile Decq A destra: NL architects, Netherlands Koog Aan De Zaan, Zaanstad Paesi Bassi In basso: Diller&Scofidio progetto per il recupero della sopraelevata di New York

pratiche di riparazione e personalizzazione

89


PR-OGGETTI SMARRITI Made in Tokyo è una guida alle architetture di serie B della capitale giapponese. Il volume raccoglie i risultati di una ricerca condotta da Atelier Bow-Wow attraverso un lavoro sistematico di fotografie e assonometrie simili ad un manuale di istruzioni. Come sostengono gli stessi autori gli edifici selezionati sono semplicemente “edifici”, che assolvono in modo efficiente alla funzione per cui sono stati progettati, ma non sono «pezzi disegnati da famosi architetti».

Strada a scorrimento veloce e grande magazzino

Viadotto ferroviario+grandi magazzini

Uffici Sede di una società Parcheggio 90


Looking for non-branded project

Re-use

El Sawy recupera e reinventa uno scarto urbano abbandonato in condizioni degradate. El Sawy Culture Wheel rappresenta la cultura della riparazione applicata all’architettuta e alla città. Osservando questo edificio è possibile rintracciare i fenomeni di riuso, innovazione e personalizzazione di cui si è parlato.

World Hall

pratiche di riparazione e personalizzazione

Upgrade

La struttura monofunzionale del viadotto acquista una nuova funzione grazie a questa architettura parassita, che ne sprigiona le potenzialità.

Wisdom Hall

Custom

L’ edificio si è sviluppato gradualemente e in maniera spontanea come proiezione delle necessità e dei desideri di chi lo gestiste e chi lo utilizza, con una complessità che non è ricercata o progettata, ma deriva da un adattamento alle pieghe della città.

River Hall

91


Al di sotto dello stesso possente viadotto su cui si innesta il centro culturale El-Sawy prendono forma altre pratiche di occupazione del suolo, più o meno temporanee, che sfruttano ogni spazio disponibile. In questa foto una “sala ristorante” sotto l’estremità opposta del viadotto di via 26 Luglio.

Ristorante “Il Viadotto” Via 25 Luglio, Zamalek, Il Cairo

92


BIBLIOGRAFIA

Bookzine

(testi che rappresentano un innovazione nel modo di strutturare il “libro di architettura”)

• AA. VV.,Verb Processing, Actar Editorial 2001 • AA. VV.,Verb Matters, Actar Editorial Gennaio 2004 • AA. VV.,Verb Connection, Actar Editorial Dicembre 2004 • AA. VV.,Verb Conditioning, Actar Editorial 2005 • AA. VV.,Verb Natures, Actar Editorial 2006 • AA. VV.,Verb Crisis, Actar Editorial 2008 • Koolhaas Rem, Content, Taschen 2004 • Koolhaas Rem, Judy Chung, Project On The City 2 - Harvard Design School Guide To Shopping, Taschen 2001 • Koolhaas Rem, Liu Y., Cracium M., Project On The City 1 - Great Leap Forward Harvard Design School, Taschen 2001 • Koolhaas Rem, Mau Bruce, S,M,L,XL, The Monacelli Press, 2005 Learning from...

(testi che restituiscono diversi modi di osservare e imparare dalle città e dai fenomeni estranei all’architettura)

• Garofalo Francesco, Learning from cities international design workshop, Postmedia 2008 • Koolhaas Rem, Delirious New York, Electa 2000 • Koolhaas Rem, Great leap, Taschen 2001 • Koolhaas Rem, Shopping, Taschen 2001 • Le Corbusier, Quando le cattedrali erano bianche. Viaggio nel paese dei timidi, Marinotti 2003 • Le Corbusier, Une Petit Maison, Ed.Ita. a cura di Messina Bruno, Biblioteca del Cenide 2004 • Le Corbusier, Verso un Architettura, Longanesi 2003 • Lynch Kevin, L’immagine della città, Marsilio 2006 • Navarra Marco, Repairingcities, la riparazione come strategia di “sopravvivenza”, LetteraVentidue 2008 • Rattenbury Kester, Robert Venturi and Denise Scott Brown: Learning from Las Vegas: Supercrit 2, Routledge 2008 • Venturi Robert, Complessità e contraddizioni nell’architettura, Dedalo 2002 pratiche di riparazione e personalizzazione

• Venturi Robert, Scott Brown Denise, Architecture as Signs and Systems: For a Mannerist Time, Harward University Press, 2005 • Venturi Robert, Izenou Steven, Scott Brown Denise, Learning from Las Vegas, MIT press, 1977 Ricerche, saggi, teorie • Agamben Giorgio, Che cos’è il conteporaneo, Nottetempo, Roma 2008 • Banham Reyner, Architettura della prima età della macchina, Biraghi M.Marinotti 2005 • Baricco Alessandro, I Barbari, saggio sulla mutazione, Fandango 2006 • Careri Francesco, Walkscapes, Camminare come pratica estetica, Einaudi 2006 • Chaslin François, Architettura© della Tabula rasa©. Due conversazioni con Rem Koolhaas, Mondadori Electa 2003 • Corbellini Giovanni, Grande e veloce. Strumenti compositivi nei contesti contemporanei, Officina 2000 • Corbellini Giovanni, Ex Libris, 16 parole chiave dell’architettura contemporanea, 22Publishing 2007 • Friedman Yona, Utopie realizzabili, Quodlibet 2003 • Koolhaas Rem, Junkspace, per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet 2000 • Koolhaas Rem, Verso un’architettura estrema, Postmedia 2002 • La Cecla Franco, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri 2008 • Latouche Serge, La scommessa della decrescita, Feltrinelli 2007 • Mau Bruce, Life Style, Phaidon, 2005 • Moneo Rafael, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Mond. Electa 2005 • Virilio Paul, Lo spazio critico, Dedalo 1998 • Zolo Danilo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza 2006

93


I LIBRI CONSIGLIATI DA Re-

Megalopoli, Slum, Informal cities • AA. VV., Città Architettura e società - X Mostra Internazionale di Architettura, Vol.I, Marsilio 2006 • AA. VV., Mutations, Actar, Barcelona 2000 • COLORS 57,“Baraccopoli/Slums”, AgostoSettembre 2003 • Dato Giuseppe, Marginalità urbana ad Alessandria d’Egitto, Biblioteca del Cenide 2003 • Davis Mike, Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles, Manifestolibri 2008 • Davis Mike, Città morte. Storie di inferno metropolitano, Feltrinelli 2004 • Davis Mike, Il Pianeta degli slum, Feltrinelli 2006 • De Soto Hernando, The other Path The invisibile revolution in the third world, Harper & Row Publisher, New York 1989 • El Kadi, Galila, L’Urbanisation spontaèe au Caire, in “Urbanisme”, n. 204, Novembre1984, pp.100-103. • El Kadi, Galila, La division social de l’espace au Caire, in “Monde Arabe – Maghreb Machrek”, n.204, Octobre/Dicembre 1985, pp. 35-55. • El Kadi, Galila, La citè des morts au Caire. Un abri pour les sans-abri, in “Monde Arabe – Maghreb Mackreb”, n.127, Janvier/MArs 1988, pp.134-153. Golia Maria, Cairo City of Sand, Reaktions Books Ltd, 2004 • Hammett Kingsley, Hammett Jerilou, Suburbanization of New York , Princeton Architectural Press, 2007 • La Greca Paolo, Planning in a more globalized and competitive world, Gangemi Ed., Roma 2004 • Mehta Suketu, Maximum City. Bombay città degli eccessi, Einaudi 2006 • Neuwirth Robert, Città Ombra, Fusi orari 2007 • Pamuk Orhan, Istambul, Einaudi Torino 2006 • Sims David, Urban Slums Report: The Case of Cairo, GTZ Ed., Il Cairo, 2002 94

• Soliman Ahmed M., A Possible Way Out: Formalizing Housing Informality in Egyptian Cities, University press of America, 2004 • Un-Habitat, The Challenge of Slum-Global Report o Human Settlementd, Earthscan Publication Ltd, London 2003 I testi che seguono sono stati suddivisi in quattro sezioni (corrispondenti a quelle della tesi) in base alla pertinenza con l’argomento trattato. Re-use • AA. VV., Superuse: Constructing New Buildings from Salvaged Surplus Material, oio Publishers 2007 • Bourriaud Nicolas, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia 2004 • Ippolito Fabrizia, Scarti, in G. Montesano, V. Trione (a cura di), Napoli assediata, Tullio Pironti Editore, Napoli, 2007, p. VII. • Kotnik Jure, Container Architecture, Links Books 2008 • Lynch, Kevin, Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, CUEN, Napoli 1992 • LOT/EK, Urban Scan, Princeton Architectural Press, 2002 • Pawley Martin, Garbage Housing, Architectural Press, Londra 1975 • Scanlan John, Le cose (e le idee) che scartiamo, Spazzatura, Donzelli, Roma 2006 • Viale Guido, Un mondo usa e getta, Feltrinelli, Milano 2000 Upgrade • AA. VV., Erwin Wurm. The Artist Who Swallowed The World, Hatje Cantz Verlag Gmbh 2006 • AA. VV., Less, Strategie alternative dell’abitare, 5 continent 2006 • El Croquis 131/132, AMOMA Rem Koolhaas • El Croquis 134/135, AMOMA Rem Koolhaas Ricchi Daria, Incerti Guido, Simpson Deane, Diller + Scofidio (+ Renfro),


BIBLIOGRAFIA

Skyra 2007 • Koolhaas Rem, Projects for PRADA, Fondazione Prada Edizioni 2001 • Melet Ed Vreedenburgh, Rooftop Architecture Buildin on an elevated surface, NAI Publishers, Rotterdam, 2005 • LOTUS 130, Coming Architecture, Skyra • LOTUS 133, Viral Architecture, Skyra Custom • Abitare 475, Settembre 2007, Editoriale Segesta • Abitare 485, Settembre 2008, Editoriale Segesta • Aravena Alejandro, Progettare e costruire, Mondadori Electa 2007 • Al-Aswani ‘Ala, Palazzo Yacoubian, Feltrinelli 2007 • Casabella 742, Mondadori Editore, Marzo 2006 • Domus d’autore, Post-Occupancy, Aprile 2006 • Druot, Lacatone, Vassal, Ruby, Plus. La vivienda colectiva. Territorio de excepcion, Custavo Gili, Barcellona 2008 • Friedman Yona, Pro Domo, Actar 2004 • Jodice Francesco, What we want, Skyra 2004 • Multiplicity.Lab, Milano cronache dell’abitare, Bruno Mondadori 2007 • Nancy Jean-Luc, L’Intruso, Cronopio 2006

• Osservatorio Nomade, Immaginare Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea, Bruno Mondadori 2006 • Sadler Simon, Archigram: Architecture without Architecture, MIT press 2005 • Sinclair C. Stor K., Design Like You Give a Damn-Architectural Responses to Humanitarian Crises, Metropolis Book, New York, 200 • Turner John F.C., Housing By People: Towards Autonomy in Building Environments, Pr-Oggetti Smarriti • Atelier Bow-Wow, Made in Tokyo, Kajima Institute Publishing Co., Tokyo 2001 • Atelier Bow-Wow, Pet Architecture Guide Book, World Photo press, 2001 • AA. VV., Post-it city_Occasional urbanities, CCCB, Barcelona 2008 • Nicolin Paola, Palais de Tokyo, sito di creazione contemporanea, Postmedia 2006 • Rudofsky Bernard, Architecture Without Architects: A Short Introduction to NonPedigreed Architecture, University of New Mexico Press 1964 • Zancan Roberto, Corrispondenze. Teorie e storie dal landscape, Gangemi 2005

Trarre delle conclusioni su un lavoro, che fin dall’inizio ho voluto pensare come “non concluso” e aperto a successive evoluzioni, non è cosa facile. Con questa ricerca mi auspico piuttosto di aver raggiunto un primo livello di comprensione di alcuni fenomeni di trasformazione in atto nelle città contemporanee, da parte di chi progetta, chi costruisce e chi vive l’architettura. Credo che una ricerca di dottorato debba spingersi al confine tra innovazione ed errore, tra formale e informale, per avvicinarsi alla contemporaneità come «soglia inafferrabile tra in “non ancora” e il “non più”»1. Il modo di presentare i materiali prodotti è sicuramente criticabile e poco accademico, ma rappresenta un tentativo di innovazione spinto dall’idea che la comunicazione sia uno strumento indispensabile per la teoria e la pratica architettonica. Alcuni confronti tra architettura e discipline ad essa estranee saranno apparsi quantomeno azzardati, ma, se «più di ogni altra sfera del sapere, l’architettura appare come l’arte di mettere assieme le cose, ovvero l’arte di comporre non solo materiali e forme, ma anche azioni, saperi, concetti e soggetti molteplici»2, probabilmente tutto troverà «una strada per tornare all’architettura»3. 1. Giorgio Agamben, Che cos’è il conteporaneo, Nottetempo, Roma 2008 2. Pier Vittorio Aureli, La strategia dell’unità in Fabrizio Foti, Il laboratorio segreto dell’architettura, LetteraVentidue Edizioni, Siracusa 2008 3. Hans Ulrich Olbrist conversazione con Rem Koolhaas e Peter Fischli, su www.abitare.it pratiche di riparazione e personalizzazione

95


Ripariamo e miglioriamo il tuo telefonino Vodafone Ataba, Il Cairo

96


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.