Riscoprire Terragni

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Prefazione

Antonino Saggio

Introduzione

Marco Addona, Diana Carta, Lorenzo Casavecchia, Carmelo Gagliano

DECOSTRUZIONI

Il luogo del limite

Marco Addona

Astrazione è sacralità

Mattia Baldini

La finestra: materia, struttura, spazio

Diana Carta

Tra Costruttivismo e Ideologia

Lorenzo Casavecchia

Ossimoro, metonimia, sinestesia

Manuela Ciangola

Terragni Urbanista/Urbano

Carmelo Gagliano

Chiuso-Aperto: lo spazio dell’inclusione

Francesco Masiello

Terragni, Le Corbusier: una doppia spirale

Marco Ugolini

Dalla meccanicità all’organicità

Peter Varga

La Cattedrale del 1943

Antonino Saggio, Gaetano De Francesco

RICOSTRUZIONI

Monumento ai caduti Como

Mattia Baldini

Negozio Vitrum

Manuela Ciangola

Asilo della Carità

Francesco Masiello

Biblioteca Cantonale

Lorenzo Casavecchia

Quartiere Cortesella

Carmelo Gagliano

Nuova Fiera di Milano

Peter Varga

Villa a Portofino

Marco Addona

Ampliamento S.A. Tavolazzi e Fumagalli

Marco Ugolini

Casa Vietti

Diana Carta

L’ultima cattedrale

Antonino Saggio, Gaetano De Francesco

APPENDICE

Nobile Terragni

Attilio Terragni

Il Mio Terragni, il Nostro Terragni

Antonino Saggio

Bibliografia

PREFAZIONE

Vorrei sottolineare al lettore, quasi come se non ne fossi coinvolto in prima persona, quanto mi sembri Riscoprire Terragni: nuova vita a progetti inediti, una pubblicazione utile da molti punti di vista.

Il primo è interno alla didattica di un corso di dottorato in Architettura - Teorie e Progetto, inquadrato nella macroarea ministeriale “D” e, in particolare, proprio nel sotto settore Architettura e Progetto. Ho tenuto seminari dal 2003 e ho avuto la responsabilità come coordinatore del dottorato, precedentemente all’attuale coordinatore Orazio Carpenzano, dal 2011 al 2017. In quegli anni, ho sempre cercato di lavorare al centro della disciplina della progettazione e questo è avvenuto anche nel caso di questo libro, nonostante si trattasse di un tema di respiro storiografico. Ritengo, inoltre, che il seminario, dal quale è scaturito questo libro, mostri come la ricerca storica non sia appannaggio esclusivo delle aree disciplinari della storia, ma piuttosto come questa possa, molto utilmente, essere affrontata anche da chi segue un dottorato di Architettura e Progetto.

I partecipanti di questo seminario si sono avvicinati al materiale storico con grande rigore. Hanno studiato con attenzione non solo il materiale bibliografico, ma hanno anche esaminato con cura i materiali conservati presso la Fondazione Terragni di Como, cui va il sentito ringraziamento di noi tutti. Questo studio ha rivelato disegni fondamentali per il libro qui presente. La ricerca ha permesso di portare alla luce dieci progetti di Terragni, in gran parte mai ricostruiti tridimensionalmente. Il lavoro è stato il più accurato possibile e sono state spesso valutate le varie ipotesi presenti nei documenti. Il risultato dello studio per la ricostruzione ha permesso la creazione di disegni ortografici in scala, di un modello 3D, da cui sono state elaborate delle viste prospettiche. Successivamente, si è compiuto un ulteriore passo: si è ritenuto importante far apprezzare compiutamente la forza ideativa dei progetti di Terragni all’interno dei contesti per i quali erano stati ideati. A questo fine si sono studiate nuovamente tutte le fonti

INTRODUZIONE

Marco Addona

Diana Carta

Lorenzo Casavecchia

Carmelo Gagliano

Questo volume raccoglie gli esiti del lavoro svolto nell’ambito del seminario del Dottorato di ricerca in Architettura Teorie e Progetto della Facoltà di Architettura – Sapienza Università di Roma – dal titolo “Linee di ricerca”, tenuto dal prof. Antonino Saggio nel gennaio 2023 a partire dalla figura di Giuseppe Terragni.

L’itinerario seminariale trae origine dalla lettura della figura dell’architetto comasco attraverso lo studio della nuova edizione, a cura di questo stesso editore, del volume di Antonino Saggio Giuseppe Terragni, una biografia critica. L’analisi si è articolata in cinque incontri ai quali corrispondono altrettanti capitoli della medesima pubblicazione. In ciascun incontro ogni partecipante ha messo a fuoco un tema della produzione di Giuseppe Terragni, prossimo ai propri interessi di ricerca, e ha successivamente redatto un saggio che ne sottolinea i punti di tangenza. I diversi contributi sono stati tutti presentati, discussi collettivamente e pubblicati nel blog tinyurl.com/3mcxwzpk.

In un momento successivo, sono state individuate circa quindici opere dell’architetto Terragni che risultavano poco indagate e pressoché sconosciute nella loro effettiva consistenza spaziale e plastica. All’interno di questa prima selezione, quindi, ciascun partecipante al seminario ha scelto di concentrarsi su un’opera che fosse il più vicino possibile ai temi e alle riflessioni che erano venuti fuori durante la stesura dei saggi. Ne sono conseguite delle complete ricostruzioni tridimensionali basate su un attento scrutinio, non solo di tutto il materiale pubblicato, ma anche di quello inedito reso possibile attraverso la consultazione diretta delle fonti disponibili presso l’Archivio Terragni di Como, durante una speciale missione di tre giorni di lavoro compiuto da alcuni dei partecipanti. Ciò ha permesso di toccare con mano i numerosi frammenti cartacei dell’architetto, osservarne il tratto, il percorso di ideazione – concetti e ripensamenti – e riscoprire i legami tra questa figura e i contemporanei con i quali si confrontava. Si è così deciso di

In questo caso, quindi, lo spazio del limite non è relegato in un solo punto, ma si estende a tutto l’edificio. Troviamo quindi i tre livelli (interno/“spazio-tra”/esterno) esplicitati su tutto il perimetro della villa. Muro pieno, spazio vuoto, telaio. Questa tensione consente un passaggio graduale tra interno ed esterno che permette anche l’affiorare di altri temi quali quello della protezione, come un’epidermide che avvolge la vita all’interno del prisma e anche quello dell’esplorazione; tramite lo “spazio-tra”, infatti, gli abitanti sono in grado di esperire lo spazio esterno lentamente, passando attraverso i vari luoghi del limite. Questo livello di protezione rimanda a un altro concetto sempre caro alla psicoanalisi: quello del setting durante la seduta con il terapeuta. Il setting è uno spazio (fisico, ma anche mentale) che assicura al paziente protezione. Si pone tra egli stesso e il terapeuta e consente gli scambi reciproci, favorendo appunto la relazione tra i due e avvicinandolo nell’esplorazione, ma sempre facendolo sentire al sicuro.

Con la Villa Bianca, infine, si fa un passo successivo. A un primo sguardo si potrebbe pensare che quel luogo del limite, quello “spazio-tra” tanto importante sia venuto meno. Ma non è così. Il perimetro murario, solido, inspessito e non più staccato dal suolo mette al centro il soggetto principale (l’abitazione) che ha fatto propri gli elementi di protezione dello spazio del limite inspessendo le sue pareti, ma al contempo è anche perfettamente in grado di esplorare lo spazio esterno tramite dei dispositivi non più omnicomprensivi e che vanno in tutte le direzioni, ma che sono ben posizionati, indirizzati verso punti precisi. Le stesse finestre rivelano questo intento all’esplorazione grazie alle cornici aggettanti che invitano proprio il fuori nel dentro e viceversa.

Lo scopo (se si vuole) di una terapia psicoanalitica è la sua fine. La terapia non dura in eterno ma è finalizzata a fornire al paziente tutti quegli strumenti che possano aiutarlo a comprendersi meglio e a vivere la sua vita senza più bisogno del terapeuta. Lo spazio della relazione, il luogo del limite, lo “spazio-tra”, non c’è più, ma il paziente ha piena consapevolezza di sé, di quali aspetti di sé stesso e del mondo esterno vuole esplorare, di come proteggersi e di come connettersi al suo io interno. Così come la Villa Bianca che non ha più un perimetro che la circumnaviga, le tensioni date dal telaio sono indirizzate a punti ben precisi, la costruzione è ben ancorata, connessa, al suolo.

Il luogo del limite

Giuseppe Terragni, Villa per floricoltore [plastico di G. Ottolini e allievi], Como 1936. Giuseppe Terragni, Villa Bianca [opera], Seveso 1937.

permettendo all’architetto di pervenire a un senso di trasparenza concettuale. È questo l’aspetto che più anima le analisi critiche esposte nel saggio che ambisce, pur senza pretesa di esaustività e completezza di dettaglio, a offrire una lettura dal punto di vista del sottile rapporto che intercorre tra l’aspetto costruttivo e quello poetico nel lavoro di Terragni. «Gli elementi costruttivi sono la base, l’alfabeto col quale l’architetto può comporre più o meno armonicamente. L’architettura non è costruzione e neppure soddisfazione di bisogni di ordine materiale; è qualche cosa di più; è la forza che disciplina queste doti costruttive ed utilitarie ad un fine di valore estetico ben più alto. Quando si sarà raggiunta quella “armonia” di proporzioni che induca l’animo dell’osservatore a sostare in contemplazione, o in una commozione, solo allora allo schema costruttivo si sarà sovrapposta un’opera di architettura»12.

Giuseppe Terragni, Casa del Fascio [opera], Como, 1936. Sopra facciata principale. Pagina a fianco, l’uso del vetro negli spazi interni.

La fisicità della materia entra nel pensiero architettonico non come un fenomeno sottoposto all’osservazione, bensì come struttura profonda del pensiero stesso. In questo modo, la presenza della finestra può, a volte, dissolversi – nella Casa del Fascio –, altre volte, essere evocata – nella Casa Rustici – e, altre volte ancora, diventare elemento autonomo – nella Villa Bianca.

La condizione comune dell’esistenza fisica è la base della possibilità da parte dell’uomo di tradurre la materia in architettura e Giuseppe Terragni sembra esserne profondamente consapevole.

Piano Regolatore di Como presentato in anteprima a bordo del piroscafo, prima che Giuseppe Terragni vincesse il concorso, Archivio Terragni, Como.

Terragni Urbanista/Urbano

Giuseppe Terragni, Nuovo impianto urbano per la Cortesella [plastico]. Vista dall’alto della città con il lungolago [fotografia], Archivio Terragni, Como.

MONUMENTO AI CADUTI COMO

1925-26, Como

Il progetto di Concorso di primo e secondo grado per il Monumento ai Caduti di Como vede impegnato nel 1926 Terragni, insieme a Lingeri, nella redazione di un’idea legata alla tradizione, che proponeva la costruzione di un monumento dedicato ai caduti della Grande Guerra, partendo dallo studio dei luoghi significativi della città e definendo la ricostruzione di una quinta medievale. Il monumento sarebbe dovuto essere collocato tra il Duomo, il Broletto e il campanile romanico della basilica di San Giacomo, ma non venne realizzato.

La ricostruzione è strutturata a partire dall’intenzione di Terragni di proporre un edificio percorribile attraverso una scala esterna, mediante la quale si entra nel grande arco in cui vengono raccolte decorazioni statuarie e bassorilievi. «Il Monumento si configura così come un percorso museale, come luogo visitabile: monumento all’architettura ancor prima che monumento ai caduti» (Novati Alberto, Pezzola Aurelio e

Pedrocchi Ezio, Como 1920-1940: paesaggi della città razionalista. Giuseppe Terragni e i razionalisti comaschi, G.A.M., Rudiano, 2014, p. 147).

È in esso evidente un’intenzione duplice: interpretare il sentimento collettivo di una città nei confronti dei propri caduti e restituire alla città stessa un’architettura che si era persa nel tempo. In questo si dà anche un’interpretazione del senso del monumento: il recupero di una forma architettonica diviene tutt’uno con la celebrazione della memoria e dell’identità spirituale e civile. Il linguaggio utilizzato, del medievalismo basato sulla valorizzazione delle grandi masse, riporta l’architettura ad un livello minimo di espressività, restringendo peraltro gli aspetti materici all’utilizzo della pietra dell’adiacente Broletto. L’apparato ornamentale è portato all’essenziale, per generare una forte contrapposizione tra il nuovo intervento e gli edifici dell’antico impianto monumentale.

L’ULTIMA CATTEDRALE

L’opera ha un impianto planimetrico simmetrico: una pianta cruciforme a navata unica, risultato dalla giustapposizione di un podio, una navata, un transetto, un’abside, e un telaio di ingresso che determina una sorta di nartece.

Il podio è costituito da una ampia scalea e da due muri a telaio laterali, che presumibilmente sarebbero dovuti essere arricchiti da statue e bassorilievi. Rappresenta l’elemento basamentale sul quale si erge lo spazio ecclesiastico della cattedrale propriamente detta.

All’ingresso alla cattedrale si arriva dopo aver superato uno spazio intermedio delimitato da un telaio principale e da muri secondari laterali anche essi trattati a telaio. Il telaio frontale è costituito da due livelli superiori a geometrie regolari quadrate, sicuramente con bassorilievi, e da un livello terra a ritmo doppio e campata rettangolare che funge da portico passante. Lo spazio tra il grande telaio di ingresso e la basilica funge cosi come un vestibolo una sorta di nartece contemporaneo.

La navata è una volta parabolica a sezione variabile. È costituita da travi paraboliche a interasse costante, pensate probabilmente per essere prefabbricate in cemento armato, che si restringono e impennano man mano che si

percorre la navata, nell’avvicinamento all’altare. L’arco parabolico, ampio e ribassato all’ingresso, si comprime trasversalmente e contemporaneamente si eleva per raggiungere l’altezza massima quando la navata incontra il transetto. L’avvicendarsi degli archi parabolici che si deformano sull’asse verticale e orizzontale, genera la spazialità della navata, contraddistinta da una doppia accelerazione, tanto reale quanto prospettica, cadenzata dal ritmo delle travi e dall’illuminazione laterale. Anzi, scrutando il disegno 455 sembrerebbe che Terragni pensi a una terza accelerazione perché il piano di calpestio digrada lievemente verso l’altare a formare una sorta di cavea. La navata termina su un ampio telaio tridimensionale. Questo ultimo funge da transetto, vetrato, all’interno del quale avrebbero probabilmente trovato posto anche statue e sculture. Le ombre del transetto, a seconda dell’inclinazione dei raggi solari, sono proiettate sulla superficie concava dell’abside retrostante e sul manto di copertura della basilica. Questo grande muro affronta il tema, altrimenti difficilmente risolvibile, della giustapposizione di due geometrie concave, quella della navata e quella dell’abside. Agisce come uno schermo – o se si vuole come una facciata arretrata – che ha la funzione

1943, nessun luogo

Disegni Analitici.

NOBILE TERRAGNI

Inoltre è auspicabile che l’architetto si regoli allo stesso modo di chi si dà agli studi letterari. Giacché nessuno, in questo campo, penserà di essersi adoperato a sufficienza finché non avrà letto e approfondito gli autori, e non soltanto i migliori, ma tutti quelli che su tali argomenti costituenti l’oggetto del proprio studio abbiano lasciato scritto qualcosa.

L’architetto, dovunque si trovino opere universalmente stimate e ammirate, tutte le esaminerà con la massima cura, ne farà il disegno, ne misurerà le proporzioni, se ne costruirà dei modelli per tenerseli appresso, e così le studierà, comprenderà l’ordinamento, la collocazione, i generi e le proporzioni delle singole parti.

Leon Battista Alberti

I destini vanno dritti per la loro strada e solo di rado s’incrociano e ancor meno di frequente cambiano rotta: eppure capita, di tanto in tanto che ciò avvenga quando ricostruiamo il passato di «opere universalmente stimate e ammirate».

E perfino ora, dopo tanti anni, credo ancora a questi cambi di rotta delle ricostruzioni del passato che hanno trasformato delle scarse consapevolezze del tutto teoriche in un’esperienza personale molto coinvolgente. Mica poco. E a pensarci bene posso quasi dire che sono cresciuto con i cambi di rotta delle ricostruzioni e le considero quasi una formula fissa dentro le tortuose strade della vita.

Perché è vero che con le ricostruzioni la prima cosa è senz’altro quell’impressione di entrare in uno spazio instabile, in una zona d’incertezza circoscritta dalla certezza d’incerte strutture del passato, è altrettanto vero che siamo accompagnati dalla certezza di andare a scoprire un «doppio segreto» nascosto dagli sguardi delle persone. Il passato non torna mai e guardandolo per ricostruirlo si sente questo sdoppiarsi e anche con la calma e il buon umore del nostro presente non si può fare a meno di percepire questa inquietudine dell’irreversibile, fatta di piccole incomprensioni tra noi e chi

non c’è più, incomprensioni che naturalmente sono insolvibili, ma hanno una loro particolare forza di attrazione, come quelle maledette «differenze» del dissimile che si trovano in tutti i progetti di Terragni.

Le ricostruzioni sono quindi come un universo nel quale si potrebbe trascorrere decenni o tutta una vita, cercando affannosamente una cosa che non esiste e che forse non è mai esistita. E poi non c’è mai qualcuno che ti possa guidare o indicare una scappatoia, un modo per seguire la corrente giusta. E così si rimane spesso in compagnia di nessuno, nelle mani di uno sfuggente emissario, il disegno, l’unico strumento che consente agli autori del passato di fuggire dalla loro sospensione nel Tempo e di fare ritorno nella vita reale, tornando a essere quella bella scheggia tagliente che sono stati.

Per ricostruire qualcosa si è obbligati a ogni forma di competizione con se stessi ed è poco probabile che ci s’innamorerà di più delle nostre scelte che di quelle dell’autore che si sta ricostruendo. D’altro canto, e questo è l’aspetto importante di cui scrive Leon Battista Alberti, le ricostruzioni in architettura sono un esercizio di formazione molto nobile. Si tratta, infatti, di aprirsi alla memoria volontaria e involontaria, di tagliare i fili che sospendono le architetture nell’indefinito Tempo del passato e fare in modo che caschino a terra e ci permettano di conoscere la loro origine e la loro delicata bellezza.

È normale farlo? C’è qualcosa di leggermente patetico in quest’atteggiamento? O si tratta di un problema essenziale nella formazione di un architetto? Credo si tratti di un problema essenziale nella formazione di qualsiasi architetto e in ogni caso è stato per me l’argomento principale di almeno trent’anni di ricerca e lo è stato senza avere alcuna lista delle cose che si dovevano cercare e risolvere, ma lo è stato grazie alle occasioni che si sono presentate di volta in volta. Ad esempio tutte le svariate richieste per gli arredi. Sgabelli, sedie, tavoli e tavolini, la poltrona della Casa per un artista alla Triennale di Milano, gli arredi per l’Asilo Sant’Elia, il tavolo e la lampada dello studio dei fratelli Terragni, la sedia a sdraio Reginella, la poltrona curvata, tutte novità di cui nessuno aveva sentito parlare o che aveva sperimentato (e che in diversi casi sono oggi entrate in produzione).

All’inizio passavo così tanto tempo a perdermi nel numero enorme di piccoli schizzi, che era impossibile pianificare le migliaia di piccole sbavature e di deviazioni che danzavano nei delicati segni a matita: l’interazione con una creatività così esplosiva mi ha subito fatto imparare a riconoscere che ciò che meno capivo era ciò che di più interessante c’era nel disegno.

Attilio Terragni, Flavio Mangione, Ricostruzione della Sala O [immagine].
Nobile Terragni

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Riscoprire Terragni by LetteraVentidue Edizioni - Issuu