Vale

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singolari


VALE francesco gavatorta


Il palco era basso tanto che alle mie ginocchia ci arrivavano le teste di quelli che m’avrebbero ascoltato. Però era sempre così, quando facevamo le gare al Puddhu Bar. C’erano due livelli: io, il beat che batteva, la mia voce. E poi, in basso: le mie ginocchia che si piegavano, le teste di chi ascoltava, le loro voci che a differenza della mia erano un ammasso di rumore senza armonia. Un’altra gara di freestyle. Sarà stata l’ottantaduesima, forse l’ottantatreesima, non ricordo. Io che dell’improvvisazione avevo fatto un modo di vivere e, qualche anno prima, quasi una carriera, e avevo imparato a tenermi a mente i numeri di tutte le gare che facevo. A trent’anni passavo il tempo cantando rime di fronte a cento persone o poco meno, in sfide come quella. Ero uno dei 5


pochi rimasti a cercare di divertirmi con l’hip hop, a Torino. Dicevano che il rap era morto, da queste parti: tranne per me e pochi altri che ancora riempivamo i sottoborghi di una Torino sempre più brillante, unico covo che ci era rimasto i Murazzi, il posto frequentato anche da chi ci dava per spacciati.

Un’altra gara: questa volta contro uno di Napoli. Laggiù la scena era ancora viva, mi era capitato di andarci a improvvisare. Ma roba seria, no. E poi, le facce all’altezza delle ginocchia era meglio averle a Torino, quando sai che se qualcuno prova a tirarti giù dal palco, hai almeno quelli della Zona che ti aspettano fuori, per coprirti le spalle. Il mio avversario si faceva chiamare Dr. Cleck. Era uno di quelli che imita i rapper americani. In Zona li chiamavamo i poser perché assumevano le pose senza aver sostanza, anche se, nel suo caso, c’era anche un po’ di talento. Se la cavava bene a fare rime in dialetto, come quelli delle sue parti. 6


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