L'Isola

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singolari


l'isola Livio milanesio


Se hai ascoltato le autorità che ti hanno parlato del nostro ritorno, saprai che al porto arriverà un bastimento di nome Sussex. Facile da riconoscere: è una vecchia nave dal culo grosso e un camino che butta un fumo nero che si vede per chilometri. Su quella nave ci sono gli ultimi rimpatriati del mio reggimento, rilasciati dal campo di prigionia dopo la fine della guerra. La mia guerra è finita per sempre nell’autunno del quarantadue, nel deserto. Una pattuglia di sudafricani mi ha stanato dalla buca dove stavo sepolto da quattro giorni. Ero rimasto sotto un fitto bombardamento e avevo perso la ragione. Sono stati costretti a farmi uscire con le baionette. Mi hanno cavato dal buco come un dente marcio. Sono strisciato morto di paura, con i pantaloni bagnati, incapace di parlare e di stare dritto come un essere umano. Avevo una gamba dura e un braccio che 5


non rispondeva più ai comandi. All’inizio mi hanno trattato male, come si usa tra

soldati, ma poi mi hanno poggiato a terra, mi hanno dato da bere. Mi hanno portato in un campo di prigionia, insieme a un centinaio di commilitoni. Un campo piccolo, sperduto in un’oasi in mezzo al deserto. Me ne stavo seduto al sole, per ore, senza riuscire a mettere un pensiero dietro l’altro. Era come se avessi appena finito una lunga corsa. Mi importava solo di respirare e di non muovermi più. Non parlavo con nessuno. Mangiavo poco. Bevevo poco. A volte, pur di non alzarmi, me la facevo addosso. Gli altri internati mi salutavano,

mi accarezzavano la testa come si fa con un bambino stupido. Mi spostavano all’ombra, preoccupati per la pelle che arrostiva. Ci rimanevo poco, scivolavo subito al sole, cercavo il calore, come un animale a sangue freddo. La notte qualcuno mi spingeva verso la camerata. Nella camerata mi avevano riservato un angolo, lontano dagli altri, un grumo di coperte e stracci dal quale contemplavo la luna. Dormivo poco. Così mi hanno raccontato, dopo la liberazione. 6


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