Antonio Castagna
TUTTO Ăˆ MONNEZZA La mia dipendenza dai rifiuti
Antonio Castagna Tutto è monnezza La mia dipendenza dai rifiuti
© La casa editrice, avendo esperito tutte le pratiche relative all’acquisizione dei diritti e relativi permessi per i testi raccolti in questo volume, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare diritti in proposito. LiberAria Editrice Prima edizione in “METRONOMI”, settembre 2013 Seconda edizione in “METRONOMI”, gennaio 2014 Tutti i diritti riservati LiberAria Editrice s.r.l. Via Abate Gimma 171 – 70122 Bari www.liberaria.it Editore: Giorgia Antonelli Editor narrativa italiana “MEDUSE”: Alessandra Minervini Responsabile narrativa straniera “PHILEAS FOGG” e rights manager: Mattia Garofalo Comunicazione: Caterina Morgantini Amministrazione: Elisabetta Stragapede Progetto grafico: Maria Rosa Comparato Editing: Rottermaier – Servizi Letterari Impaginazione: Tangerine Lab ISBN 978-88-97089-74-2
1. L’ossessione della monnezza
Sul lungo periodo, diceva Keynes, saremo tutti morti. Parafrasandolo potrei dire che alla lunga tutto ciò che ci circonda è monnezza. Il cibo scaduto, le bucce, gli scarti di cucina, i resti del caffè che ho appena preparato, i vestiti che indosso, il pc su cui scrivo, i mobili che arredano la mia casa, l’automobile che passa strombazzando sotto la finestra, la finestra stessa, la mia lavatrice, che poverina resiste da anni a centinaia di lavaggi e diversi traslochi, per non dire del frigo, la terra delle piante sul balcone quando diventa dura e piena di radici, il trapano degli operai che stanno ristrutturando l’appartamento qui sotto, i muri e le mattonelle dell’appartamento qui sotto, i muri e le mattonelle, i tubi, i termosifoni che componevano l’appartamento in cui abito prima di ristrutturarlo, i muri, le mattonelle, i tubi che compongono questo appartamento quando io stesso o qualcun altro lo ristrutturerà. Vado avanti? Mi guardo intorno e non vedo che degenerazione e morte. Mi sembra normale 3
vederla così, fino a quando non chiedo a mia moglie, che ha appena acquistato un iPad, che fine faranno l’oro, l’argento, il berillio che probabilmente vi sono contenuti. Lei sta tirando fuori il nuovo acquisto dal suo elegante imballaggio e lo guarda con l’acquolina in bocca, sulla parola berillio reagisce con una smorfia che dice una cosa del tipo: “oddio, adesso ricomincia con le sue fissazioni”. A questo punto sono in sincera difficoltà, borbotto qualcosa sul gran numero di sostanze preziose che stanno nei dispositivi elettronici e abbozzo un sorriso, mentre mia moglie spazientita torna a guardare l’ipnotica mela. In fondo, pensare tutto sotto forma di rifiuti significa proiettarsi nel futuro. Tutto quello che utilizziamo, mangiamo, vediamo, tra pochi minuti o diversi anni sarà rifiuto, e ora potremmo considerarlo come rifiuto in potenza. Mi rendo conto però che è un punto di vista non molto diffuso, e forse non del tutto corretto. Devo riconoscere che l’iPad è un oggetto magnifico, con quella mela stampata sopra che qualcuno ha già morso non resistendo alla tentazione. Ci sono però una storia e dei motivi che mi hanno portato a ragionare in termini di rifiuti. E poi c’è anche una certa soddisfazione, quando i miei amici mi chiedono in quale contenitore devono mettere il 4
pacco del caffè: “è carta stagnola, no?”. No, non lo è. Fa parte di quella famiglia di materiali chiamati “poliaccoppiati”, perché sono fatti di strati di materiali diversi. Il pacco di caffè normalmente si compone di banda stagnata e plastica. Da maggio 2012 può essere messo nel contenitore della plastica, che in realtà non è il contenitore della plastica, ma dei cosiddetti imballaggi leggeri. Invece, l’involucro che contiene la mozzarella, fatto di carta e plastica, va ancora nel residuo. Tutto si complica per i cartoni in tetrapak, che è un poliaccoppiato fatto al 75 per cento di carta, al 20 per cento di plastica polietilene e al 5 per cento di alluminio. In certe zone d’Italia i cartoni in tetrapak vanno nella carta, in altre zone vanno nella plastica (imballaggi leggeri), in altre ancora ti chiedono di portarlo all’ecocentro. Si può riciclare? Sì, e no. Conviene dal punto di vista ambientale? Certamente, forse. Insomma, mi diverto così, i miei amici chiedono, io chiarisco e per concludere li confondo di nuovo. “E la bottiglia d’acqua minerale? Nella plastica, giusto?”, chiedono speranzosi. “Fai vedere. Se è in PET (polietilentereftalato) sì, se è in Mater-Bi, la plastica ottenuta dall’amido di mais, allora è materiale organico”. “Allora va nell’umido giusto?”. “Nì”, sorrido. Perché nessun produttore di compost ama le bottiglie in Mater-Bi, 5
poiché richiedono più di un ciclo di trattamento. La bottiglia in Mater-Bi vive il paradosso di essere un imballaggio leggero che non va gettato con gli altri imballaggi leggeri, e di essere fatto di materia organica che però viene trattata con riluttanza insieme al resto della materia organica. E non è finita, se le discariche diventassero, in un futuro ideale, dei contenitori di materia inorganica e inerte, di tutto ciò che proprio non può essere riciclato né incenerito, questo sarebbe un bene, perché in questo modo sarebbero più facili da gestire e non rischierebbero di inquinare né le falde né l’aria. Invece, gli oggetti in Mater-Bi e PLA (acido polilattico), spesso finiscono sui piazzali come scarto della raccolta di plastica perché i consumatori difficilmente li distinguono da una normale bottiglia o da un normale contenitore. E dal piazzale vanno diritti in discarica, dove possono continuare a produrre gas e percolato, perpetuando i pericoli di inquinamento e le difficoltà di gestione. Cos’è il PLA? È un cosiddetto biopolimero, prodotto dall’amido di mais, ci fanno i bicchieri trasparenti e le vaschette per contenere i cibi. Se non te lo dice il negoziante e non guardi il marchio che lo contraddistingue non è in apparenza diverso dalla plastica. Non sto dicendo che quando amici e 6
conoscenti mi chiedono io indovino sempre le risposte, non è così, e neanche i tecnici, gli ingegneri, i professionisti che si occupano del ciclo dei rifiuti. Loro sanno un sacco di cose, parlano di trattamento a freddo, a caldo, pirolisi, gassificazione, digestione aerobica e anaerobica e così via. Sanno un sacco di cose difficili gli ingegneri ambientali, ma non è detto che sappiano dove buttare il cartone della pizza dopo averne mangiata una. Se non è troppo unto può andare nella carta, ma cosa vuol dire “non troppo unto”? Dal mio punto di vista, ci sono risvolti positivi nell’essere considerati esperti di rifiuti, è un’identità più forte rispetto a quella di formatore manageriale, perché in pochi capiscono cosa vuol dire “formatore manageriale” e che cosa io possa insegnare ai manager, su quali competenze e in quali settori, insomma, è complicato. Invece, di liberarsi dei rifiuti hanno bisogno tutti, pochi hanno voglia di starci troppo a pensare e, soprattutto, è un mondo misterioso, dove cambiano le regole da bacino di raccolta a bacino di raccolta (che certe volte vuol dire da Comune a Comune o quasi; in provincia di Torino, per esempio, ci sono 8 bacini di raccolta in 315 Comuni per 2.300.000 abitanti; in Trentino, invece, ci sono 13 bacini di raccolta per 217 Comuni e un totale di poco più di 500.000 7
abitanti). Ma soprattutto, mistero dei misteri, la domanda è sempre “che fine fanno i rifiuti dopo che li hanno portati via sui camion della nettezza urbana? Quali sono le trasformazioni che subiscono, e cosa diventano?”. Mi sento come quelli che si affacciano a un sapere esoterico, dove hai l’impressione di trovare una risposta alle domande sulla vita: “continua dopo la morte, nell’aldilà?”. Anche i rifiuti hanno un al di là, solo che non è così al di là. È qua vicino, si può sapere, scoprire e vedere, e tutto questo è meraviglioso. C’è chi si commuove per un bel tramonto, chi per le immagini di Terrence Malick in The tree of life, chi piange durante l’inno nazionale e chi fa il pugno chiuso cantando O bella ciao. Io non dico che resto insensibile a tutte queste cose, ma devo ammettere che ho provato gioia autentica quando sono andato in uno stabilimento dove da una parte c’era una gru che sollevando mucchi di rifiuti organici smuoveva una puzza ammorbante, e dall’altra riemergeva terriccio morbido che sapeva davvero di terra. Non so spiegare perché mi sono ridotto così, posso provare però a raccontare come è successo che sono diventato dipendente dai rifiuti. Quando ero un giovane uomo pensavo che la raccolta differenziata fosse un segno di avanzamento della civiltà. La volevo nella mia 8
città e quando ne ho avuto l’opportunità sono diventato un cittadino che diligentemente separa i rifiuti e rispetta anche gli orari di conferimento, perché la monnezza fa puzza, e in una città calda come Palermo questo è un problema. Suppongo che lo stesso sentimento, lo stesso buon senso, la stessa convinzione, abbiano animato e continuino ad animare tanti miei coetanei, quelli che abbiamo assistito negli anni all’introduzione della raccolta differenziata nelle nostre città. Per me era scontato che la raccolta differenziata fosse un bene, ora la mia opinione è più articolata di così. Certo, continuo a pensare che è sempre meglio differenziare anziché no, ma mi faccio anche un sacco di domande sui limiti di queste pratiche e soprattutto sul linguaggio che le caratterizza. Quando ero un giovane uomo non mi facevo tutte queste domande e suppongo che la maggior parte dei miei concittadini continui a non farsele. Del resto non pretendo che ognuno di noi quando va in giro getti un occhio in ogni cassonetto che vede, di solito le persone per bene non lo fanno, e non pretendo che poi faccia conversazione in merito a quello che ha osservato. Io l’ho sempre fatto, non con le intenzioni e le riflessioni di oggi, ma sono convinto di essere in buona compagnia. È scrutando tra i rifiuti che 9
ho arredato un paio di case quando ero studente. I cittadini di Palermo i rifiuti cosiddetti ingombranti tendono ad appoggiarli vicino ai cassonetti; a volte, quando non sono troppo ingombranti, li sistemano con uno stile dentro/fuori, che vuole dire tante cose. Per esempio, significa che dell’oggetto voglio disfarmi e in fondo non è così ingombrante da meritare una chiamata all’Amiat. Ma vuol dire anche che voglio nasconderlo, ma non al punto da impedire a un altro cittadino che ne avesse bisogno di prelevarlo dal cassonetto e portarselo a casa. I palermitani hanno un linguaggio molto raffinato, sia verbale sia non verbale e trovo che siano dei veri specialisti nel dire e non dire, fare e non fare. Il mio vicino di casa di quando abitavo all’Olivella, nel centro storico di Palermo, ad esempio, tra le tante cose che combinava non pagava la bolletta della luce. Quando il postino portava la bolletta, lui la faceva volare giù dal pianerottolo, così da poter dire a se stesso di non averla mai ricevuta. Questo gli consentiva poi di lamentarsi con l’ufficio dell’Enel, quando gli staccavano la corrente, e con il postino, le volte che lo incontrava in giro per il quartiere. Per me era una forma di autoinganno incomprensibile e pure un poco ridicola, però quando ero un giovane uomo tendevo a vedere le cose in modo molto più semplice e chiaro. 10
Lamentarsi con l’impiegato dell’Enel e con il postino incontrato per strada, mi rendo conto ora, ha un’importanza pratica fondamentale, aiuta a salvare la faccia nei confronti del quartiere e dei vicini di casa e persino agli occhi di un’istituzione importante e capillare come le Poste. Non perché qualcuno abbia mai creduto alle parole del mio vicino di casa, era francamente impossibile dargli credito; si trattava di teatro, l’importante era che la finzione fosse ben condotta, e allora il lancio delle bollette per le scale era una componente fondamentale della preparazione alla recita. Con gli ingombranti è la stessa cosa: lo metto lì, accanto a un cassonetto o con il sistema dentro/ fuori, così dico di volermene disfare e davanti a tutto il mondo nessuno può negare che sono stato corretto, del resto dove si lasciano i rifiuti? Nel cassonetto, oppure nelle vicinanze se il cassonetto non è abbastanza capiente (e la colpa così è diventata del cassonetto). Nello stesso tempo l’oggetto resta lì, alla vista e a disposizione di tutti. Non si sa mai, qualcuno ne avesse bisogno, perché glielo devo negare? Dire e non dire è un’arte che pratichiamo in tanti. A me capita quando tampasìo casa casa aspettando che il tempo passi, prima di rendermi conto che ormai è troppo tardi per uscire e andare a correre. Mannaggia, oggi avrei proprio voluto. 11
O come capitò a mio padre – io ero ancora un bambino – che costruì una casa al mare senza i necessari permessi (insomma, era abusiva), però era piccola, c’era e non c’era, quasi non si vedeva. Doveva essere una baracca, abusiva, ma baracca, giusto per cambiarci e passare la giornata al mare. Divenne una casa, piccola, quasi quanto una baracca. Poi passo dopo passo, sanatoria dopo sanatoria, divenne una casa. Piccola, piccolissima, certo, ma non riuscimmo a farla senza il teatro autoassolutorio che ho raccontato e che amici e parenti conoscono bene, perché il teatro per essere tale deve avere pure una manifestazione pubblica. Stavo raccontando che per liberarsi dai rifiuti ingombranti i palermitani è difficile che vadano all’ecocentro, né chiamano la municipalizzata, che pure offre un servizio gratuito su appuntamento. Insomma, proprio grazie alle manifestazioni di inciviltà dei palermitani, io ho più volte arredato casa mia a costo zero. Anche questo per me era scontato, che la raccolta differenziata fosse un bene e che i palermitani abbandonassero frigoriferi, lavatrici, materassi, cassettiere, specchiere (un mare di specchiere si trovano a Palermo, se vi piacciono i mobili di recupero c’è da divertirsi), armadi, comodini (pure quelli abbondano). In genere sono mobili di foggia barocca, stile impero 12
o finto liberty. Non mancano, naturalmente, il truciolato e la formica. Raramente sono di qualità eccelsa, ma se si è attenti, costanti e si frequentano i quartieri in via di ristrutturazione può andarvi di lusso. Io con i comodini e le sedie recuperate mi sono trovato benissimo, anche con un tavolo per la sala da pranzo, in legno con piedi di leone e la parte superiore in vetro verde opaco. C’era pure lo sparecchia tavola abbinato, pure quello con il ripiano verde opaco e con tanto di specchiera, e ho preso pure quello. Una stanza da pranzo da famiglia borghese anni cinquanta. L’armadio invece l’avevo trovato da un rigattiere abusivo. Non è come trovare tra i rifiuti, ma sempre rifiuti sono, cose di cui qualcuno vuole disfarsi, sia perché i rigattieri, in concorrenza con gli studenti, vanno anche loro a raccattare oggetti accanto ai cassonetti, sia perché qualcuno li chiama a sgomberare case, soffitte, cantine, garage. L’armadio, acquistato dal rigattiere, era in legno, con tanto di marchio Barraja, che è un mobilificio palermitano nato nell’epoca del liberty. Fu un’emozione enorme. Ho sempre amato il liberty palermitano e detestato l’incuria dei palermitani per le loro bellezze. Ma grazie a quest’incuria c’accucchiai un gran bell’armadio. E qua comincio a confondermi. Devo parlare della dipendenza dai rifiuti, e in effetti sto 13
parlando dei rifiuti, però mi sto perdendo dietro un filo vago, delle sensazioni, come se l’armadio di Barraja giocasse il ruolo della madeleine di Proust, facendomi ritrovare il mondo di quand’ero studente, vivevo in via del Protonotaro, in pieno centro, e andavo in giro di notte a raccattare beni di consumo. La storia dei mobili raccattati tra i rifiuti è rilevante per raccontare come è evoluta la mia relazione con la monnezza. Insomma, i mobili che trovavo per strada per me non erano rifiuti. Rifiuti erano gli altri, quelli puzzolenti, quegli agglomerati di plastica, poliaccoppiati (le confezioni dei biscotti ad esempio), banda stagnata (la carta stagnola), bucce, semi, assorbenti igienici, fazzoletti e tovaglioli di carta, cartoni in tetrapak, piatti di polistirene (i piatti e bicchieri usa e getta, che nelle estati palermitane sostituiscono spesso e volentieri le normali stoviglie). Sostanzialmente distinguevo tra oggetti puzzolenti e oggetti non puzzolenti. I primi li consideravo rifiuti, i secondi no. Il campo dei puzzolenti però, secondo me, si poteva ulteriormente segmentare, perché la materia non organica non puzza e quindi se si fa la raccolta differenziata, un sacco di altra materia torna nel campo dei non rifiuti. Così pensavo. E invece non è del tutto così, ho scoperto diversi 14
anni dopo. Tanto per cominciare una volta che un essere umano mostra l’intenzione di disfarsi di qualcosa, questa è diventa automaticamente un rifiuto. Così recita la legge: «qualsiasi sostanza od oggetto […] di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi», articolo 6, comma 1, lettera a, decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, confermato dalle direttive europee e dalle leggi successive. E nel momento in cui è un rifiuto, perché magari lo hai appoggiato a un cassonetto, o semplicemente lo hai abbandonato in un campo, è diventato proprietà del Comune, che è responsabile della raccolta, e se lo prendi e lo porti con te stai commettendo un furto. È rifiuto quindi non quando puzza, ma quando chi detiene un bene mostra la chiara volontà di disfarsene, e non è sufficiente che sia pulito e utilizzabile affinché si liberi dello status di rifiuto e torni a far parte della nostra vita. Vuol dire che la mia percezione spontanea e la legge non vanno proprio all’unisono e questa è una delle caratteristiche che rendono così intrigante per me il mondo dei rifiuti. Insomma, io la mia stanza da pranzo di via del Protonotaro l’ho rubata alla Città di Palermo. Ma perché, il Comune se ne faceva qualcosa? Non se ne faceva niente, molto probabilmente gli 15
addetti della municipalizzata l’avrebbero portata alla discarica di Bellolampo. Oppure gli stessi avrebbero a loro volta commesso un furto e se la sarebbero portata a casa, e avrebbero fatto bene, dal mio punto di vista.
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