Noemi Cuffia
IL METODO DELLA BOMBA ATOMICA Romanzo
Il metodo della bomba atomica © La casa editrice, avendo esperito tutte le pratiche relative all’acquisizione dei diritti e relativi permessi per i testi raccolti in questo volume, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare diritti in proposito.
LiberAria Editrice Prima edizione in “MEDUSE”, maggio 2013 Tutti i diritti riservati Liberaria Editrice s.r.l. Via Abate Gimma 171 - 70122 Bari www.liberaria.it Editore - Giorgia Antonelli Editor Narrativa Italiana “MEDUSE” - Alessandra Minervini Responsabile Narrativa Straniera “PHILEAS FOGG” e Rights Manager - Mattia Garofalo Comunicazione - Caterina Morgantini Amministrazione - Elisabetta Stragapede Progetto grafico - Maria Rosa Comparato ISBN 978-88-97089-38-4
A Claudio
Considerate l’astuzia del mare: come le sue creature più temute vanno scivolando sott’acqua, quasi del tutto invisibili, e nascoste perfidamente sotto le più amabili tinte d’azzurro. HERMAN MELVILLE, Moby Dick Ho ritrovato il piacere di correre su un terreno conosciuto, inspirando a pieni polmoni l’aria frizzante del mattino, ascoltando il rumore dei miei passi, il mio respiro e il battito del mio cuore, che insieme creavano un ritmo plurimo e particolare. HARUKI MURAKAMI, L’arte di correre I wish I was a neutron bomb, for once I could go off. PEARL JAM, Wishlist
Prologo
Leone, cadendo dall’albero, non aveva pianto. Era un bambino silenzioso. Non gli piaceva parlare, né piangere. Quindi era rimasto immobile per alcuni minuti anche in quel pomeriggio di metà autunno dell’ottobre del 1984 quando, mettendo male un piede sul ramo della Quercia, era scivolato a terra. Le foglie secche avevano attutito il colpo, ma non impedito la frattura del suo braccio destro che, adesso, ciondolava sotto il doppio strato della felpa e del grembiule della scuola materna. Il dolore era così forte che Leone non sapeva come comportarsi: credendo di essere solo, si guardava intorno, senza riuscire a sollevarsi né a cercare aiuto. A pochi passi da lui, appoggiata al palo dell’altalena che dondolava senza passeggero, c’era una bambina che aveva visto tutto, restando ferma in silenzio. - Vattene. Corri! - le aveva detto Leone. - No, - aveva risposto lei, che si chiamava Celeste. Il cielo era colmo di nuvole grigie che, solo di rado, lasciavano spazio a pochi raggi bianchi di sole. Minacciava da ore la pioggia, di cui si sentiva il proV
fumo, ma sembrava non voler arrivare mai. Le foglie rimaste sui rami, ancora folte, assecondavano il vento che, quel giorno, soffiava di continuo, come in certe giornate di inizio primavera. Nel cortile della scuola, in fila ordinata, i pioppi facevano da recinto alle giostre: uno scivolo e un girello, e l’altalena dove Celeste aveva trovato il suo nascondiglio. Nessuno dei due bambini sapeva di essere osservato dalla maestra, che stava ora arrivando in direzione di Leone, per prenderlo in braccio e verificare la gravità dell’incidente. Poco più tardi, dentro la scuola, nell’attesa della mamma, Leone fissava il muro bianco della sua classe, quella degli azzurri, di cui faceva parte anche Celeste solo da qualche giorno: era arrivata da poco ed era la più piccola di tutti. In piedi, di fronte al bambino che sarebbe diventato il suo amico e il suo grande amore, Celeste sentiva male al braccio. Il dolore di Leone era diventato il suo dolore. Non poteva sopportarlo, le pareva che anche il proprio braccio si fosse spezzato in cortile. Il male può essere contagioso. Puntando con un dito il gesso del bambino, avvolto in un panno bianco, l’indomani aveva chiesto con insistenza, prima alle maestre, poi a casa, una fasciatura anche per se stessa. La mamma aveva acconsentito, sperando che il gioco finisse in tempi ragionevoli, ma invece, per tutto il mese successivo, Celeste aveva indossato il suo foulard attorno al braccio, fino alla completa guarigione di quello di Leone. Lui aveva trovato tutto sommato normale quel gesto, e al tempo stesso ne era rimasto colpito. Da allora, aveva compreso, si sarebbe occupato della bambina, VI
come di una sorella. Vivendo nello stesso quartiere, si sarebbero frequentati alle elementari, alle medie, alle superiori, rincorrendosi di due anni, proteggendosi come fratelli, come amici, come fidanzati, in un passaggio che era parso a tutti inevitabile. Il primo bacio non aveva sorpreso nessuno, durante una vendemmia in campagna, nel settembre del 1994, verso il tramonto, dopo essersi tenuti per mano tutto il giorno. Era stato un bacio naturale, simile a mangiare acini di uva.
VII
1 Il lago artificiale
È emersa per prima la giacca. Una giacca rossa di tela che agli occhi distanti di Celeste e Leone appariva senza contorni, distesa come una tenda da campeggio priva di struttura portante, volume e picchetti. Una grande macchia accesa nel centro della lastra d’acqua scura del lago artificiale, immobile, sotto il cielo bianco, una domenica mattina di ottobre del 2010. Avevano superato la mezz’ora di corsa. Come ogni settimana, anche quel giorno, nel silenzio delle prime ore di luce, il sensore del cardiofrequenzimetro, allacciato al petto di Leone, rilevava i consueti centoquarantasette battiti al minuto e trasmetteva il dato al dispositivo del cronometro da polso. Leone era bradicardico: il suo cuore andava più piano della media, che si aggira sui sessanta, ottanta battiti a riposo. Viveva come se il suo cuore disponesse di tempo extra tra un battito e l’altro, una specie di omaggio della natura, più che un’imperfezione. Il dottore gli aveva sorriso, quando l’aveva scoperto: È il difetto dei maratoneti, il suo, - gli aveva detto. Al contrario, il cuore di Celeste tendeva alla tachicardia: 8
la sua media si aggirava sugli ottantacinque, novanta al minuto. Il suo dottore non aveva sorriso, quando l’aveva scoperto. La tachicardia bisognava tenerla sotto controllo, poteva essere pericolosa, in futuro, aveva affermato. - Quell’affanno che sente, è dovuto al cuore, - le aveva spiegato. Era un rischio. Ma non adesso, poteva stare tranquilla, non adesso. Lo strumento di misurazione durante la corsa, per queste ragioni, era utile a entrambi. Serviva a farli andare insieme, i due cuori lievemente difettosi. E c’era una bellezza nell’avere uno standard comune di battiti, che doveva restare, almeno, sopra i centoventi al minuto a testa, minimo. Duecentoquaranta battiti in totale. Il cuore troppo lento di lui e quello troppo veloce di lei trovavano allora quel bilanciamento necessario dopo circa venti minuti di percorso, una frequenza che si aggirava sui centoquarantasette al minuto. La corsa aveva questo potere, e beneficio: farli arrivare alla stessa velocità. E quando il cardiofrequenzimetro segnalava finalmente la media raggiunta, Celeste sorrideva. Si guardavano. Era divertente. La natura, con l’aiuto di un piccolo segreto tecnologico, favoriva la loro unione. Costruiva con un incantesimo l’amore che, tra loro, non era mai nato, ed era però sempre stato presente: una questione misteriosa, su cui tuttavia non si erano mai fatti troppe domande. Anche perché la loro coppia si era rafforzata nel tempo, anziché indebolirsi, con il cemento delle esperienze, con l’accumulo quotidiano dei ricordi: nessuna altra ragione, se non la vita, li teneva uniti. Né gusti in comune, né denaro, né attrazione 9
fisica. E nonostante questo, entrambi non potevano fare a meno di ricordarsi bambini, in lacrime, con le braccia fasciate, impegnati in giochi senza fine ai giardini, sulla bici, sui pattini, divertendosi a nascondino intorno agli aceri, agli ippocastani e ai tigli di città. Fare i compiti, la merenda, le gite scolastiche. Negli anni, queste abitudini si erano trasformate poi lentamente, molto lentamente, in cene fuori, aperitivi, concerti, lutti, matrimoni degli amici e corse la domenica mattina al parco. Un amore semplice, di quelli che niente e nessuno aveva mai messo in discussione, perché non c’era molto di cui parlare. Un po’ di rugiada scintillava sui prati del parco della Pellerina. Le curve scomparivano nella nebbia, i ponti di legno e gli sterrati si susseguivano alla velocità di circa sette minuti al chilometro. Il fiume innervava tutto come un’arteria e il ritmo dei muscoli delle gambe si sintonizzava con quello dell’acqua, uniformandosi al respiro addominale, alle articolazioni delle caviglie e alla musica nelle cuffiette di Celeste. Capelli biondi, sottili, lunghi fino alla schiena, raccolti in una coda di cavallo, un metro e sessanta appena, lineamenti minuti, occhi chiari, grigi, trasparenti. Celeste, quel giorno, correndo più forte che mai al fianco di Leone e degli animali del lago, si sentiva ottimista. Le tartarughe d’acqua dolce, numerose, in fila indiana sui sassi o sovrapposte una all’altra, con i gusci secchi, riarsi dal primo sole del mattino, i colli grinzosi e verdi e le orecchie piatte e rosse, stavano ferme come in attesa di una chiamata. Le anatre, nuotando nell’acqua scura, delimitavano una 10
scia a V sulla superficie del lago, come piccole barche di ritorno da un lungo viaggio, stanche ma ordinate. I piccioni invece si erano confinati e raggruppati tutti in massa in un angolo dello sterrato, a tubare, a gonfiarsi la pancia, a cercare briciole, e il cigno, un unico, triste e solitario esemplare, si inerpicava sul bagnasciuga, con il collo tremante ripiegato sulla schiena bianco latte e il becco arancio con la punta nera, pronto a rispondere a tono ai fischi e ai versi dei passanti. Una staccionata di legno segnava un netto confine tra l’esterno e l’interno del lago che, in alcune ore della giornata, assomigliava a uno zoo. I bambini si fermavano a guardare gli uccelli per gettare briciole di pane. Il manto verde bottiglia dell’acqua era come la scaglia di uno specchio antico, dove, sporgendosi bene, ci si poteva vedere riflessi a testa in giù. Celeste e Leone erano a un passo dalla staccionata. Mancava poco allo stretching. Di solito, cercavano un punto all’ombra, vicino al familiare Larice, nella zona umida del parco. Era un’area paludosa di stagni e laghetti, sia naturali che artificiali. Intorno sorgevano canne e giunchi di palude, Phragmites Communis, Typha Angustifolia e Juncus Effusus, specie protette che contornavano gli specchi d’acqua come coroncine, cerchi concentrici su cui i volatili, diretti verso altri continenti, nel tempo delle migrazioni si davano appuntamento per creare nidi provvisori. Era una tappa fondamentale del loro lunghissimo viaggio. Lì Celeste e Leone completavano gli esercizi con le flessioni. Restavano qualche minuto fermi, a guardare a terra e intorno, a osservare le persone, le piante, gli 11
animali, le nuvole, a cento, poi novanta battiti al minuto, appoggiati al tronco del larice, profumato e ruvido, o in ginocchio, in silenzio, sul prato, a sentire il vento sulla faccia ancora rossa per lo sforzo, a osservare le scie chimiche nel cielo, il movimento delle foglie secche, dei merli e dei ciclisti. Si chiama l’estasi del corridore. L’attimo perfetto in cui la mente è sgombra, le endorfine in circolo, le pulsazioni alte e regolari, la visione limpida, i muscoli caldi, la motivazione solida. Celeste e Leone si sentivano un corpo forte, e poi un corpo solo: il risultato di un intenso periodo di programmi e tabelle di marcia. Avevano seguito tutte le regole del podismo, provando diverse tecniche di allenamento: le accelerazioni in scioltezza, gli allenamenti in salita, le prove di velocità, il miglio magico, le ripetute di ottocento metri, il lungo lento di un’ora. L’obiettivo, il progetto più grande, era la maratona. Dovevano faticare molto, però, per arrivarci preparati. Svoltando a destra, costeggiando la Cascina Marchesa, in salita, stavano percorrendo l’ultimo tratto. Il profumo di fango e aghifoglie si faceva pungente, il sole brillante filtrava nell’aria spessa di fiume e sui fili d’erba, sui sassi, sui polsi e sulle mani in movimento. Superata una collinetta di ghiaia, su cui saltavano in velocità, spuntava quel lago artificiale. Spezzando il silenzio, Celeste aveva detto: - La vedi anche tu? - Che cosa? - Nel lago artificiale. Quella cosa rossa. 12
Non era la sola ad aver notato la macchia. Una coppia di fidanzati, lui con un tatuaggio sbiadito che spuntava sulla mano dalla maglia di cotone, lei con i capelli raccolti in uno chignon, stava indicando lo stesso punto. - Sembra una giacca, - diceva la ragazza, con voce sottile. Il vento si alzava più forte. - Leone, fermiamoci, - aveva continuato Celeste, asciugandosi il sudore dalla fronte. Nel frattempo, la macchia si era allargata, espandendosi, dilatandosi, perdendo i propri confini. Una giacca da uomo. Una giacca grande. Celeste si era fermata del tutto, per inerzia, di fianco alla coppia di fidanzati. In quel momento anche una scarpa nera saliva alla superficie. Leone si avvicinava intanto alla staccionata. Una seconda scarpa, molle e deforme come l’altra, tornava a galla dal fondo del lago, come se avesse seguito un tragitto simile, solo più lento. - Cos’è? - Vestiti. Poi un grido. - Ma è un uomo. Un uomo. C’è una mano, - aveva detto Celeste. - Allontanati! - gridava Leone. Aveva cercato in fretta il cellulare nella tasca della maglia da corsa e aveva chiamato la polizia. Gli avevano risposto che sarebbero arrivati subito, con un’ambulanza attrezzata. Intanto Celeste restava immobile, senza più riuscire ad ascoltare né parlare. La ragazza con lo chignon e gli orecchini d’oro invece piangeva, tremando di paura e di freddo. Ora le scarpe e la mano stavano sulla terra13
ferma. Dopo mezz’ora, erano arrivate le macchine, e con loro le urla: - Via tutti, forza, allontanarsi. Da quando era morta la madre di Celeste, Leone era diventato più protettivo e anche in quel momento sperava di risparmiare alla fidanzata la vista del corpo, abbracciandola. Aveva un modo di stringerla deciso e gentile, un modo pieno d’amore, come se fosse nato per quello, una sua abilità peculiare. La sua mano, bella, elegante, si posava sulla schiena della ragazza, senza stringere, componendo una curva molto più ampia del necessario, come per avvolgerla del tutto, come per dirglielo, senza parlare: ti sto abbracciando, ma è qualcosa di più. Ti sto proteggendo, pensava, senza dirlo. Celeste considerava quel tipo di atteggiamento naturale. Erano i suoi abbracci. Gesti destinati a lei, solo a lei, predisposti per lei dalla vita. Nelle foto insieme, Celeste guardava dritto nell’obiettivo, sicura della presenza di Leone, della sua mano sulla schiena. In genere, gli occhi sorridevano all’obiettivo, scintillando di grigio-verde, e dicevano all’ignoto, a tutti quelli che presto o tardi avrebbero osservato quell’immagine: ciò che state vedendo è mio e di nessun altro, per sempre. Ma quella volta, l’abbraccio pareva più stretto, più doloroso, eseguito come un compito preciso, prudente, impeccabile e al tempo stesso distante. Celeste, tra l’avambraccio e la spalla di Leone, si era ricavata uno spazio vuoto dal quale aveva inquadrato alla perfezione, quasi come da uno schermo, l’uomo morto che usciva dall’acqua. Una massa pesante che affiorava lentamente e scintillava di un azzurro 14
livido; un mostro marino di cui non si vedeva il volto: una balena issata sulla draga e deposta a terra dalle braccia di quattro uomini. Una donna, in divisa, con le scarpe sporche di fango, osservava a poca distanza. Il cadavere, avvolto in piÚ strati da una corda al termine della quale era legato un mobiletto antico che poteva essere un comò Luigi XVI, aveva trascorso alcune ore in fondo al lago, sovrastato, alla sua estremità , da una lastra di marmo bianca con nervature grigie. Era stato un tempo indefinito. Sospeso. Fino a quando a uno a uno gli elementi del suo vestiario e parti del corpo avevano slittato verso la superficie, in disordine, come gli abitanti di un palazzo che escano alla rinfusa durante un incendio. Era lui. Era proprio lui. Centocinquanta battiti al minuto.
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