"L'odore della plastica bruciata", di Giovanni B. Menzani

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GIOVANNI BATTISTA MENZANI

L’ODORE DELLA PLASTICA BRUCIATA Racconti


L’odore della plastica bruciata © La casa editrice, avendo esperito tutte le pratiche relative all’acquisizione dei diritti e relativi permessi per i testi raccolti in questo volume, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare diritti in proposito. LiberAria Editrice Prima edizione in MEDUSE, Novembre 2013 Tutti i diritti riservati Liberaria Editrice s.r.l. Via Abate Gimma 171 – 70122 Bari www.liberaria.it Editore – Giorgia Antonelli Editor Narrativa Italiana MEDUSE – Alessandra Minervini Responsabile Narrativa Straniera PHILEAS FOGG e Rights Manager – Mattia Garofalo Comunicazione – Caterina Morgantini Amministrazione – Elisabetta Stragapede Progetto grafico – Mariarosa Comparato

ISBN 978-88-97089-76-6


Con passo sicuro e costante andatura

È il mio turno di pulire la stalla. Recupero il badile dalla rastrelliera. Dispongo il letame in mucchietti. Che poi è letame per finta. Anche se puzza lo stesso, di un fetore acido ed erbaceo. Li raccolgo e li deposito su un carretto di legno, talmente malridotto che un giorno o l’altro si frantumerà, sotto tutto questo peso. Butto un paio di secchiate d’acqua sul pavimento, e osservo i rivoli scivolare lungo il canale di scolo al centro del capanno. Quando ho finito di spalare, ripongo il badile nella rastrelliera e, mentre spingo il carretto verso la fossa imhoff, con uno zoccolo urto la mangiatoia rovesciando il fieno sul massicciato. Devo ricominciare da capo. Mi alzo in piedi per maneggiare il rastrello con maggior destrezza, ma il sensore automatico mi avverte che qualcuno è entrato nella zona riservata ai visitatori. Allora mi rimetto carponi, infilo la maschera e mi trascino sino al limite del recinto. C’è un’afa terribile, e sotto questo goffo costume è arduo muoversi con disinvoltura. 3


Appoggiata alla staccionata c’è una bambina con gli occhiali e una fascia elastica che le gira tutt’attorno alle orecchie, i capelli lunghi e lisci che le coprono le spalle minuscole. Avrà sei o sette anni, almeno così a me sembra. La bambina ha in mano un mazzetto di fieno, e lo porge verso di me. Non posso avvicinarmi. Lei allora si arrampica sulla staccionata e si sporge pericolosamente in avanti, con un braccio proteso verso il mio ridicolo muso da somaro. Non appena inizio a masticare l’erba secca, ritrae la mano nel timore che la possa mordere. Muovo la coda per mostrarle gratitudine: così mi hanno insegnato al corso d’addestramento. Non mi resta che aspettare che la bambina se ne vada per dirigermi verso la latrina in fondo all’aia, e sputare il bolo che conservo in fondo al palato. Se non avete mai assaggiato dell’erba secca, ve lo posso dire io: non vi siete persi niente. Ha un odore dolciastro, come la spazzatura in un pomeriggio di caldo torrido. Per fortuna lei presto si annoia e sposta la sua attenzione verso una bizzarra insegna al neon, così io posso allontanarmi senza destare sospetti sul mio travestimento.

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Oggi all’outlet c’è il pienone. È così tutti i fine settimana. Coppie azzimate vestite come ragazzini impertinenti. Impiegate con abbronzatura da lampada. Intere famiglie in gita. Passeggiano docili, come bovini al pascolo. Alle tre in punto mi affaccio sulla Main Street, ovvero la strada che attraversa da cima a fondo questo villaggio costruito con la cartapesta. Qui si trovano tutte le botteghe più importanti, o almeno quelle che hanno le merci più costose in vetrina. Mi accosto alla balaustra che delimita la zona carico-scarico. Timbro il cartellino nell’apposito sistema di rilevazione presenze e aspetto che qualcuno abbia bisogno del mio aiuto per caricare i suoi acquisti e portarli sino al baule del suv fresco di autolavaggio. Entro sera, impilati sulla mia pelliccia ruvida in poliestere, avrò trasportato un gran numero di pacchi di cartone sino al parcheggio dell’outlet. Pacchi di cartone: i sacchetti di plastica sono stati aboliti, in ossequio alle politiche di sostenibilità ecologica della nuova gestione. È un lavoro anche questo. E poi, non so fare 5


nient’altro. Chino il muso appuntito verso il selciato e tiro innanzi, se non voglio tornare a pulire i cessi alla stazione delle corriere. In fondo, non si guadagna male. Ogni tanto un cliente mi lascia qualche spicciolo dietro le orecchie. Io mi apparto lontano dall’occhio delle telecamere e sfilo le monete per nasconderle. Tra le pieghe degli zoccoli. Oppure sotto il sacchetto posticcio dello scroto. Le mance sono vietate dal regolamento. Se ci trovano addosso dei soldi, li requisiscono. Non ti lasciano nemmeno le briciole. I clienti peggiori sono i più giovani. Quando sono in comitiva mi caricano di pacchi, anche vuoti, che trovano per terra o nei cassonetti della differenziata. Oppure mi colpiscono con un bastone sul culo, ripetutamente, dandomi ordini come fossero dei mandriani. Si divertono con poco. Una volta un ragazzo con un’assurda cresta in mezzo al cranio rasato mi montò in groppa strillando come un ossesso, e mi cavalcò lungo il viale di ingresso fingendo di essere a un rodeo. Ci misi un po’ per disarcionarlo. E quando fu a terra, mimò il gesto di spararmi a una zampa, come in un western. Ancora peggio va quando i ragazzi sono accompa6


gnati dai loro genitori, professionisti annoiati con i portafogli carichi di carte di credito. Non li invidio per niente. Ho sempre detestato andare per negozi con mia madre. Mi obbligava a provare pantaloni con la piega e il risvolto alla caviglia, camicie con il bottoncino sul collo, maglioni sintetici a dolcevita. Le cose più orrende. Rassegnato eseguivo gli ordini, e lei mi umiliava davanti alle commesse ripetendo i suoi commenti sulla mia timidezza. Raccontava episodi insignificanti della mia adolescenza, magnificandoli come avventure al limite dell’incredibile: fughe solitarie nella notte e mesti rientri all’alba, risse da bar, baci rubati alla fermata di un autobus. A volte se li inventava proprio. Oppure se ne usciva con espliciti riferimenti a una mia presunta sessualità straripante. Da dove venissero questi suoi convincimenti non lo so, non lo voglio nemmeno immaginare. Quella donna era un vero demonio. Il mio ragazzo è uno sciupafemmine incallito, chissà quando metterà la testa a posto, disse una volta a una strafiga che lavorava nei grandi magazzini Per nascondermi alla sua vista mi tuffai dietro la tenda dei camerini, a fingere di indossare un improbabile paio di calzoni di lana cotta che avevo pescato al volo dagli scaffali. Mentre mi sfilavo 7


le scarpe, rimuginavo sul fatto che la commessa l’avrebbe raccontato alle sue colleghe. Le avrebbe chiamate tutte, anche quelle del turno di riposo. Non avete idea di che razza di sfigato mi è capitato oggi. No, davvero, non potete averne un’idea. Non uno come i soliti mocciosi che vengono qui a provarci e a dire porcate per attaccare bottone. Questo si è presentato con quella svitata di sua madre. Questo li batte tutti dieci a zero. Il sole è già basso. Mi nascondo dietro al gazebo del selfservice per far riposare le gambe, quando vengo richiamato da una coppia di quarantenni. L’uomo indossa una felpa sportiva e un inutile berretto da baseball, la donna un vestito tutto colorato, stretto in vita da un cinturone di pelle. Avvicinandomi con il muso chino, osservo le sue unghie dei piedi, smaltate di nero. Hanno acquistato delle trapunte per la mezza stagione, degli attrezzi da sub e altri indumenti. Roba di bassa qualità. Adesso che c’è la crisi, vanno a ruba gli articoli molto economici. Tappeti fallati e vestiti contraffatti. Addirittura c’è un posto dove vendono scarpe spaiate. Intanto ne compri una. La paghi niente, in pratica te la regalano. Poi non si sa mai. Potresti avere la fortuna, la volta dopo, di trovare la sua compagna. In caso contrario devi acconten8


tarti di qualcosa che le assomiglia. La prima volta, tuttavia, la puoi restituire, ma solo entro un mese dalla data riportata sullo scontrino. Non lo direste, ma funziona. I due quarantenni sistemano gli scatoloni sulla mia soma. Ne conto almeno quindici, ma non potrei giurarci dal momento che non riesco a voltarmi: se provo a girare il muso, le briglie si bloccano e, nonostante il pelo e le imbragature, vanno a incidermi la pelle del collo. Certe volte torno a casa con dei lividi assurdi. Terminate le operazioni di carico, avanzo sul vialetto, come mi hanno insegnato: con passo sicuro e costante andatura. Tuttavia le scatole sono pesanti e sotto questa pelliccia di nylon si muore di caldo. Durante il tragitto sono costretto a fermarmi. Il percorso inoltre è accidentato, alcune piastrelle si sono sollevate andando a formare buche e dislivelli – devo ricordarmi di fare una segnalazione al controllo qualità – e su un simile tracciato i miei zoccoli faticano a far presa. Slittano di continuo. A pochi metri dall’arrivo, il pavimento in marmo è ancor più pericoloso a causa dell’acqua sparata dall’impianto di irriga9


zione che qui è acceso a qualsiasi ora del giorno e della notte (abbiamo delle aiuole molto belle, però, molto più belle di quelle della concorrenza, così dicono). Sforzandomi di restare in equilibrio, mi esibisco in una piroetta maldestra. Infine divarico le zampe anteriori, come per fare una spaccata, e con un tonfo crollo a terra. Non riesco più ad alzarmi. Avete un’idea di quanto può pesare la complicata impalcatura che sta sotto la mia pelliccia? Aiutalo, dice la donna a suo marito. È visibilmente seccata per il contrattempo. Io?, risponde lui con lo sguardo diretto altrove. Tu. Chi, se no? Non vedi che non riesce a rialzarsi? Non è un mio problema. Non dire stupidaggini. Io quella bestia non la tocco neanche morto. Cosa? Quella bestia non la tocco neanche morto. Cazzo, non è una bestia. Lo sai che non è una bestia. Fossi matto. Chi lo sa che malattie può portare. 10


L’uomo si appoggia contro la ringhiera. Adesso chiamo la direzione, aggiunge estraendo un telefono dal marsupio. Quegli stronzi manderanno qualcuno a rimetterlo in piedi. La donna sbuffa, e intanto cerca di recuperare i cartoni dal selciato. Ci sono vestiti sparpagliati dappertutto. Il marito non ha nessuna intenzione di aiutarla, e non si muove dalla ringhiera. È una cosa che la fa infuriare. Allora lei mi si avvicina e prova a sollevarmi, facendo leva con il suo corpo. Oh-issa!, ansima mentre cerca di raddrizzarmi almeno una delle due zampe anteriori. Sei una brava creatura, mi verrebbe da dirle, ma non ce la puoi fare. Con la coda dell’occhio la vedo detergersi la fronte con una salviettina umida. Mi verrebbero in mente altre cose da dirle però me ne resto zitto: parlare è vietato dal regolamento. Chi parla è fuori, su questo punto i capi non sentono ragioni. Imperterrita, la donna insiste con i suoi inutili tentativi. Oh-issa! Fingo di collaborare, sollevando alternatamente il culo e il garrese. Non voglio deluderla. Alla fine rinuncia e va a sedersi sul prato, con il respiro affannato e le gambe che tremano. Il marito la osserva 11


da lontano e scuote la testa. Lei guarda nella direzione opposta. Strappa ciuffi d’erba e li lancia in aria come fossero coriandoli. L’unica cosa è aspettare il carro-gru: a quest’ora sarà già in viaggio, se il bastardo ha davvero avvertito la direzione. Nel frattempo intorno a noi si è radunato un codazzo di curiosi. Un cane si avvicina e mi annusa le palle. Tra la folla c’è una bambina. È la stessa che stamattina mi ha dato l’erba secca. La bambina estrae uno zuccherino da un contenitore di plastica rigida. Lo scarta e lo appoggia sull’asfalto, proprio sotto il mio mento. Tiro fuori la lingua felpata e la muovo come fosse un tergicristallo, lasciando strisce di bava sull’asfalto. La bambina si avvicina ancora un po’, quasi posso toccarla, raccoglie lo zuccherino e me lo appoggia sulla lingua. Accarezza la mia criniera spelacchiata. Finalmente mi rilasso, e faccio roteare le pupille nel tentativo di incrociare il suo sguardo. Fai il bravo, sussurra lei con dolcezza. Vedrai, adesso passa tutto.

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A stomaco vuoto

Le tapparelle filtrano la luce al neon dei lampioni, proiettando sul soffitto una sequenza di linee parallele. Fessure marziane di un azzurro sinistro. Accovacciata sul bordo del letto, una donna ormai matura inganna il tempo cercando di stabilirne il numero esatto. Ăˆ un gioco che faceva da bambina, prima di addormentarsi nella grande casa della zia, quando, nel buio della notte, seguiva con lo sguardo il riflesso sulle pareti dei fari che correvano lungo la provinciale. La coperta di lana le copre a malapena i piedi. E i caloriferi sono ancora gelati. Si era addormentata tardi, la sera precedente, dopo aver sonnecchiato davanti alla replica di un film in bianco e nero, e dopo aver ingerito l’ennesima pasticca. Quelle pasticche l’avrebbero rovinata, sua zia lo diceva sempre. Ma smettere non era facile. Lo sapeva, la zia, quali erano le ansie e le preoccupazioni che ogni notte 13


le stringevano la bocca dello stomaco, impedendole di prendere sonno? Facile parlare, per quella vecchia arpia. Aveva smesso di lavorare da secoli, e il suo unico problema era quello di innaffiare le zucchine e quegli stupidi cavolfiori del suo orto, appena dietro la ferrovia. Il timer della stufetta elettrica è difettoso, e così è costretta a usare il comando manuale e a ritardare la doccia di qualche minuto. Rimane immobile tra le lenzuola, con il mal di testa che non la abbandona mai, ad aspettare che la temperatura in bagno si alzi un po’. Mentre ancora si sta asciugando con una salvietta logora, si prepara una tazza di caffè nero, non zuccherato, e due fette di pane integrale con margarina e miele. Sulla tovaglia a fiori ci sono i resti di una crostata. Sono lì da giorni. Osservandoli sente la solita stretta allo stomaco, e allora passa oltre. Persino il fruscio delle foglie trascinate dal vento la infastidisce. Si alza dalla sedia e si affaccia verso il marciapiede deserto. Studia il disegno geometrico della pavimentazione in autobloccanti e, ipnotizzata, cerca di ripeterne il motivo con una serie di piccoli scatti del dito. Un ulteriore sintomo del suo nervosismo. 14


È la solita storia. Insegna alle scuole medie da quindici anni-adesso ne ha quasi quaranta, ma ne dimostra di più per via dei suoi lunghi capelli grigi e delle sue gonnellone a quadri scozzesi – e ancora non è entrata di ruolo. Ogni santo anno che il Signore manda in terra, per tirare avanti è costretta a sperare in un posto vacante. Esce di casa dimenticando di truccarsi, nemmeno un filo di rossetto, e aspetta invano un autobus. Si incammina a passo svelto verso la scuola. Poco prima delle otto, fa il suo ingresso nell’aula magna in punta di piedi. Nonostante il forte anticipo sull’orario di inizio dei colloqui con gli aspiranti supplenti, fissato per le nove, la platea è gremita. Dopo essersi guardata attorno senza curiosità, la donna si accomoda in penultima fila. Meglio così, pensa. Ha sempre scelto di restare in disparte. E poi non vuole correre il rischio di incontrare altri insegnanti frustrati e lamentosi. Non ha la forza per sostenere una conversazione. Nel frattempo le si fa accanto un esponente del sindacato, un ragazzo alto e allampanato con un 15


paio di pantaloni di lino e una camicia senza colletto. Hai la lista dei posti da assegnare?, chiede lei. Sono finite le fotocopie, risponde lui. Comunque quest’anno ci sono pochi posti, aggiunge con una smorfia. Po-pochi?, balbetta lei. Il terrore si manifesta nei suoi occhi di uno spento color nocciola. Meno dell’anno scorso, ribadisce il ragazzo allampanato, alzando le spalle come per dire: mi dispiace, non è colpa mia.

Continua in libreria www.liberaria.it http://www.bookrepublic.it/book/9788897089476-volare-sottacqua-racconti-per-chi-non-ha-tempo-di-leggere/

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