Demetrio Paolin
NON FATE TROPPI PETTEGOLEZZI La mia dipendenza dalla scrittura
Demetrio Paolin Non fate troppi pettegolezzi La mia dipendenza dalla scrittura
© La casa editrice, avendo esperito tutte le pratiche relative all’acquisizione dei diritti e relativi permessi per i testi raccolti in questo volume, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare diritti in proposito. LiberAria Editrice Prima edizione in METRONOMI, febbraio 2014 Tutti i diritti riservati LiberAria Editrice s.r.l. Via Abate Gimma 171 – 70122 Bari www.liberaria.it Editore: Giorgia Antonelli Editor: Alessandra Minervini Rights manager: Mattia Garofalo Comunicazione: Caterina Morgantini Amministrazione: Elisabetta Stragapede Progetto grafico: Maria Rosa Comparato Redazione: Rottermaier – Servizi Letterari Impaginazione: Tangerine Lab ISBN 978-88-97089-78-0
Nota dell’autore
Questo libro non è un saggio di critica letteraria, anche se parla di quattro scrittori; non è neppure un libro di fiction e di memorie, pur tuttavia alcune volte si narrano episodi di vita privata o immaginazioni fittizie. Queste pagine si potrebbero definire semplici prose in cui si è voluto dire qualcosa sulla dipendenza dalla scrittura e provare a fornire un ritratto di alcuni grandi uomini, raccontando i loro libri. Se proprio gli si dovesse richiedere una definizione, l’autore direbbe che questo è il suo esame di coscienza. Torino, gennaio-novembre 2013
A Franco e Marziano, Maestri
“Non doctor, sed scriptor�. Benvenuto da Imola
EMILIO SALGARI Torino, strada Val San Martino Superiore 27 (25 aprile 1911)
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Sono a Cuorgnè, è una mattina di primavera e minaccia di piovere. Il ragazzo, che mi accoglie all’angolo tra piazza Giuseppe Pinelli e via Maurizio Parigi, è il tipico agente immobiliare. Ha un completo grigio, una bella presenza – un viso spigoloso e un bel sorriso – e una stretta di mano decisa. Il primitivo imbarazzo di questi momenti è gestito benissimo dal giovane agente, che mi ricorda il motivo per cui sono venuto fino a qui. – Andiamo a vedere la casa. – Certo. – Ma perché –, mi dice, – è interessato a questa? – Perché –, gli rispondo, – ci ha abitato Emilio Salgari per un anno, almeno così avete scritto nell’inserzione. – Sì, sì. Il grande scrittore ha vissuto in questa casa. E mentre dice queste parole mi indica le mura dietro le nostre spalle. Sarà il grigio a schiena d’asino del cielo, ma questa abitazione non sembra di fine Ottocento, rassomiglia a una di quelle costruzioni lasciate a metà che vedi spesso nel sud dell’Italia. L’intonaco dato grezzamente e una sorta di trasandatezza che mi ricorda paradossalmente il paese natale di mia madre, un tipico paesino del sud con le case dai muri sbrecciati e l’intonaco grezzo, dove ho passato le vacanze nella mia giovinezza. Mentre saliamo le scale per raggiungere il primo piano, mi torna alla mente l’annuncio della agenzia immobiliare, che precisamente recita così: L’alloggio è stato abitato dal 1897 al 1898 6
da Emilio Salgari. È stato ristrutturato, con grande cura, ma il salone è intatto: sono ancora presenti e ben conservati gli affreschi sul soffitto e il pavimento è quello originale. Appartamento di 62 mq al primo piano, dotato di grande balcone affacciato su piazza Pinelli, soleggiato, finemente ristrutturato. Composto da ampio soggiorno con soffitto affrescato, camera, cucina abitabile, servizi e cantina. Riscaldamento autonomo. Classe energetica F. Eventualmente abbinabile al sottostante negozio di 62 mq. – Lei –, dico, – ha mai letto niente di Salgari? – No –, poi si sente in dovere di aggiungere, – ma leggo molti libri, ma quel genere lì non mi piace. Io leggo gialli. E dette queste parole, entriamo. La casa è piccola e modesta: i soffitti affrescati non sono niente di speciale, dozzinali direi, eppure emanano un fascino discreto. Un fascino torinese, mi verrebbe da dire. Ora, spiegare cosa sia il “fascino torinese” è una operazione che richiede tempo. Provo a dirla in questo modo. C’è una misura, una sobrietà, un’algida lontananza, un disinteresse per i fatti del mondo, una polvere leggera che si accumula sulla vita e che basta un soffio per far volare via. La casa, appena entrati, rimanda al corpo delle persone questo sentire. È la casa di Salgari, mi dico nella testa, ma non c’è nessun effetto nelle parole che 7
pronuncio. Con Daniela, mia moglie, spesso sono andato a vedere le case dove abitavano i poeti e gli scrittori. Mi ricordo l’impressione che mi fece vedere la magione dove abitava Giacomo Leopardi. Era un’estate luminosa, il cielo purissimo e azzurro, e s’indovinava la salita del monte, dove il poeta scrisse L’infinito. Sorrisi anche moltissimo quando camminando nel giardino vidi la piccola fontana del palazzo. E mi tornarono in mente alcuni versi tratti dalle Ricordanze: E già nel primo giovanil tumulto Di contenti, d’angosce e di desio, Morte chiamai più volte, e lungamente Mi sedetti colà su la fontana Pensoso di cessar dentro quell’acque La speme e il dolor mio. Sorrisi nel vedere la fontana, che poteva contenere al massimo due dita d’acqua, dove il giovane Leopardi avrebbe voluto finire la sua vita. La casa di Salgari è la casa di un suicida. Le case di Salgari sono tristi e misere, anche questa che affaccia su una via centrale di Cuorgnè non sfugge a tale impressione: qui Emilio Salgari è morto poco alla volta, al tavolo da lavoro. Mi chiedo dove si sarà messo a scrivere e lo immagino in questo angolo del salone. – Vede? –, dice il ragazzo, – c’è stato un grande lavoro di ristrutturazione, ma il salone è praticamente intatto e uguale all’epoca in cui Salgari visse. Faccio sì con la testa e vedo queste due finestre 8
con un balcone che dà sulla piazza. Salgari avrà posizionato qui, tra le due finestre, il suo tavolo di legno e tutti gli oggetti del mestiere. I suoi figli, numerosi, avranno giocato dietro di lui o nella stanza attigua. Mi sembra la sua, a immaginarla da qui, una vita sempre in bilico. Quando si leggono i libri di Salgari bisogna pensare che sua moglie brontolava quando lui, da mattina a sera, si metteva alla scrivania a scrivere le sue storie e immaginava le giungle tropicali, le spade, i corsari. Pensare che gli odori delle spezie, che tornano in ogni sua parola, odori orientali, esotici, odori lussureggianti come le piante che fitte crescono nei suoi racconti, odori corposi come gli uomini coraggiosi delle sue novelle, coprivano l’odore della cipolla bruciata della moglie, o l’odore dell’aglio se c’era. E l’odore della carne cotta e stufata diventava qualcosa di orrendo, e Salgari si tappava il naso e parlava dei profumi che aveva soltanto letto nei libri altrui e li sentiva, si ossessionava di quegli aromi. Li desiderava, erano i suoi fantasmi e i suoi demoni. Si dovrebbe tenere a mente questo: quando qualche pagina si staccava dalla risma di fogli, forse per un colpo di vento, o una distrazione dell’uomo, uno dei ragazzi lo trovava per terra e invece di metterlo in ordine lo piegava e ci faceva una barchetta, oppure lo appallottolava e ci giocava per un po’ per poi dimenticarsene e buttarlo nella stufa. E Salgari così, che si era alzato per fare due passi, per sgranchire la schiena e prendere un po’ d’aria salubre, tornava al tavolo e 9
doveva ricominciare daccapo. Aveva scritto una scena bellissima. A Salgari era nata la fantasia di far capitolare una nave, di farla arenare sugli scogli. L’aveva scritta e gli era parso che qualcosa di diverso fosse capitato, mentre scriveva. I suoi figli s’erano azzittiti e pure sua moglie non aveva fatto rumore. Aveva messo a punto una pagina che era degna, veramente degna, di un romanzo grandissimo e poi qualcosa era accaduto e il tempo aveva incominciato a correre; Salgari si era reso conto che doveva sbrigare le faccende, andare alla posta, scrivere agli editori, tenere buoni i creditori, e non aveva tempo. Così si era alzato e la pagina era rimasta lì e non riposta in bell’ordine tra quelle scritte. E dopo un’ora, tornato a casa, essa non c’era più. Salgari non poteva disperarsi. Non gli era consentito. Gli editori gli chiedevano libri, e i creditori gli chiedevano soldi, e lui con i libri pagava i creditori. Qui non c’è niente di quelle cose che insegnano a scuola e si prendono per vere, quando leggi i libri o quando decidi per qualche motivo oscuro di scriverne uno. La platonica divina mania, il talento, lo scrittore maledetto che attende la sua ispirazione sono assenti in questa casa di Cuorgnè. Scrivere diventa una fatica, diventa un lavoro a cottimo. Salgari aveva deciso che in quel giorno avrebbe dovuto scrivere tredici pagine, e le pagine erano dodici. Non andava bene, era indietro rispetto alla sua tabella di marcia. Sulla scrivania la lettera di commissione dell’editore con il compenso e l’anticipo pattuito. Così si mette a scrivere e butta giù la descrizione:
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Tuttavia il mare continuava a mantenersi assai agitato. Gigantesche ondate correvano in tutte le direzioni investendo con furia estrema le scogliere e sfasciandovisi sopra con spaventevole fracasso. Il vascello scosso, sbattuto a prua e a poppa, gemeva come un moribondo, lasciandosi portar via pezzi di murate e frammenti della chiglia infranta. Talvolta, anzi, oscillava da prua a poppa così fortemente, da temere che venisse strappato dal banco madreporico e travolto in mezzo ai marosi. Per fortuna stette saldo, ed i marinai, malgrado l’imminente pericolo e le ondate che si rovesciavano in coperta, poterono gustare anche qualche ora di sonno. Alle quattro del mattino, verso oriente, il cielo cominciò a schiarirsi. Il sole sorgeva con la rapidità che è propria delle regioni tropicali, annunciato da una tinta rossa magnifica. Emilio Salgari, I pirati della Malesia Rilegge le sue parole. Per un attimo riguarda la frase, l’aggettivo che aveva usato nella versione precedente non era “agitato”, ma un altro più pregnante e letterario, ma per quanto si sforzi non gli viene in mente. Sa che “agitato” suona male perché è seguito dalla parola “gigantesche”. E tutte queste “g” che si rincorrono non danno l’idea delle onde, ma più del suono di uno starnazzo di oche. Anche la frase “le scogliere e sfasciandovisi sopra con spaventevole fracasso” suonava troppo ridondante. 11
Ecco. Nella versione precedente, Salgari ne è certo, aveva trovato un altro equilibrio del suono sibilante della “s”, ma ora nella fretta – deve chiudere la pagina – non può fare altro che accontentarsi. Anche la chiusa della descrizione, con quella annotazione che aveva ripreso da qualche libro sul rapido sorgere del sole, gli suonava falsa, ma era l’ora che doveva metter via tutto. I figli reclamavano il pasto, la moglie aveva finito di cucinare e lui doveva rimettere i fogli e l’inchiostro al sicuro. E pure non convinto, dopo la parola “magnifica” Salgari mette un punto fermo e finisce la sua tredicesima pagina. Poi si alza dal tavolo, ripensando per un attimo a quella pagina miracolosa che aveva scritto e che per un motivo o per un altro è andata perduta. Eppure oggi, qui, nell’oggi in cui vedo queste mura e immagino Salgari sedersi, penso ai bimbi e ragazzi che su quella descrizione, piena di difetti, ma avvincente, hanno fantasticato le loro avventure. E sento una nostalgia profonda, la nostalgia di chi ha un immaginario diverso, di chi non è venuto su con pirati e principesse e giungle, e mi sento privato di qualcosa. – E lei –, mi dice infine l’agente immobiliare, – ha mai letto Salgari? La prima volta che ho preso in mano un libro di Salgari avevo finito l’università. Vicino a dove lavoravo era stata organizzata una mostra convegno per celebrare i novant’anni dalla morte dello scrittore. Tra i tanti mi ricordo l’intervento dello scrittore Luis Sepúlveda, che a un certo punto ha detto: “Se non hai letto Salgari non sei un uomo”. 12
– Sì –, gli faccio, – ma ero troppo grande per farmi stupire. Quando usciamo, piove. C’è una luce bizzarra, sembra uno specchio, di quelli vecchi, che incontri nelle case di un tempo, l’argento è stato smangiato e tutto sembra più opaco. La scrittura di Salgari è simile a uno specchio consumato. Provare a pulirla e vedere l’effetto che fa, così mi dico, dopo che ho salutato il giovane dell’agenzia immobiliare e me ne torno a Torino. Ragiono su cosa sia l’immaginario: la prima volta che ho sentito parlare di Salgari è stato alla televisione con Sandokan, ovviamente non quando andò in onda, nel 1976 e 1977, ma in una qualche replica successiva. Quindi ho una idea di Salgari deforme, perché quando avrei dovuto leggere i suoi libri guardavo la televisione. Questa premessa mi sembra importante e sostanziale, per cercare di definire meglio il concetto di immaginario condiviso; un immaginario di cui Salgari, almeno per le persone della mia generazione, nate nei settanta, fa parte ma in modo secondario. Provo a fare uno sforzo e tornare indietro agli anni in cui si leggono le storie di mare e di pirati. Torno alla mia fanciullezza tra il Monferrato e le Langhe. Quando ero bambino, in casa mia non c’erano molti libri. I miei genitori non credo che avessero avuto tempo di accumulare libri e studio. Venivano da due famiglie modeste. Mio padre è rimasto orfano giovanissimo (a dieci anni); c’è una foto che lo ritrae sorridente prima della morte di suo padre, nonché mio nonno. Guardo quella 13
foto e capisco che a mio padre non servivano i pirati di Salgari, i sette mari, le navi alla deriva, le splendide donne e gli animali affrontati a mani nude. Mio padre, orfano a sua volta di padre, non sentiva il bisogno di queste cose e si è messo a lavorare. Ha lavorato, e lavora tuttora, come se il lavorare lo preservasse dai pensieri funesti. Tutto il destino di quest’uomo è contenuto nel santino di suo padre/mio nonno, in cui si dice che “l’uomo tende a Dio con il suo lavoro”. Credo che mio padre per un’operazione mimetica abbia lavorato per tendere a suo padre, in una sorta di rincorsa amorosa e di inseguimento che non è molto diverso da quello che Salgari chiede ai suoi lettori. Penso a Sandokan e Yanez, protagonisti forse dei romanzi più riusciti e conosciuti di Salgari. Per quale motivo ci attirano? Per quale motivo conservano, anche se ci accostiamo da adulti, un fascino intatto e sempre vivo? Cosa ci fa dimenticare i difetti strutturali dei libri di Salgari, come per esempio la tendenza a esasperare sempre la descrizione e renderla minuziosa e minuta, oppure una tendenza a spiegare prima ciò che il lettore vedrà subito dopo? Nel caso di Sandokan e Yanez è proprio quel tentativo di mimesi che dicevo a proposito di mio padre e il lavoro. Noi ci riconosciamo in Yanez, amico silente, che ha giurato fedeltà a Sandokan, perché nell’economia dell’invenzione ha la funzione di padre, di un deus ex machina, all’interno della storia. Sandokan è un uomo misterioso e bellissimo (qui non so quanto entrino nella mia impressione il volto e gli occhi dell’attore Kabir Bedi) che salva le fanciulle, 14
uccide i nemici, ma nello stesso tempo è pietoso, misericordioso con i deboli. Ha le caratteristiche tipiche dell’eroe romantico che siamo abituati a studiare in letteratura. Sandokan è fuori tempo. Negli stessi anni in cui Salgari cercava di tenere in vita il personaggio del pirata, la letteratura italiana produceva gli inetti di Italo Svevo e gli eroi decadenti di Gabriele D’Annunzio. Nel leggere i libri di Salgari bisogna tenere a mente il periodo in cui vengono scritti, proprio perché egli ha il volto torto all’indietro. I suoi personaggi sono molto più vicini agli stereotipi del romanticismo tedesco o inglese (il Byron del Caino o del Manfred, lo Chateaubriand di René). Eppure proprio questo ci attira: il rispondere di Salgari perfettamente alle aspettative di quello che vogliamo leggere. Sappiamo sin dal suo apparire che Sandokan sarà in un determinato modo, bastano poche righe per averne la certezza. [Yanez] vide Sandokan avvicinarsi bruscamente al tavolo, puntandovi sopra le mani con tale violenza da farlo piegare. Non era più lo stesso uomo di prima: la sua fronte era burrascosamente aggrottata, i suoi occhi mandavano cupi lampi, le sue labbra, ritiratesi, mostravano i denti convulsamente stretti, le sue membra fremevano. In quel momento egli era il formidabile capo dei feroci pirati di Mompracem, era l’uomo che da dieci anni insanguinava le coste della Malesia, l’uomo che per ogni dove aveva dato terribili 15
battaglie, l’uomo la cui straordinaria audacia, l’indomito coraggio gli avevano valso il nomignolo di Tigre della Malesia. Emilio Salgari, Le tigri di Mompracem Il lettore di fine Ottocento ha tutti gli strumenti per comprendere la descrizione che si trova davanti e che condivide; è qualcosa che può immaginare senza che questo lo turbi; anzi si trova in una situazione “comoda”. Si pensi invece a chi – al tempo – aprendo il libro, avesse letto un paragrafo come questo: Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
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