Gil Scott-Heron L’ultima vacanza A memoir
Traduzione di Daniela Liucci
Gil Scott-Heron L’ultima vacanza. A memoir Editore – Giorgia Antonelli Editor Narrativa Italiana “MEDUSE” – Alessandra Minervini Responsabile Narrativa Straniera “PHILEAS FOGG” e Rights Manager – Mattia Garofalo Comunicazione – Caterina Morgantini Amministrazione – Elisabetta Stragapede Progetto grafico: Maria Rosa Comparato Gil Scott-Heron The Last Holiday. A memoir (c) Gil Scott-Heron 2012 Published by arrangement with Canongate Books Ltd, 14 High Street, Edinburgh EH1 1TE I diritti morali dell’autore sono stati asseriti. I versi di pagina 22 sono tratti dalla canzone Happy Birthday di Stevie Wonder, © Black Bull Music, Inc./Jobet Music Co. Inc. © LiberAria Editrice 2013 ISBN 978-88-97089-41-4 Tutti i diritti sono riservati Liberaria Editrice,s.r.l. Via Abate Gimma 171 - 70122 Bari www.liberaria.it
DOTTOR KING
Troppo, lo ammetto, non ho mai riflettuto su che gran duello doveva esser combattuto per mettere d’accordo gran parte degli americani e fargli dire che una festività nera sul serio si dovrebbe istituire. Ma, diamine, che sfida. Fino a che punto Stevie si spingerà? E a far passare una legge presentata per dieci anni di fila li costringerà? Che il fratello fosse sincero non l’ho messo in dubbio neanche un istante ma negli ultimi dodici anni di teste se ne sono messe d’accordo, quante? Quanta gente si è resa conto che l’America doveva crescere? E chi altro poteva convincerli che il passato si doveva dissolvere? Mi era piaciuta l’idea che nei paraggi ci fosse un ministro quando si corre per la più alta posta in palio, perché tenesse il piede sul freno. Per quel che davvero sarebbe potuto accadere di sinistro Pensavo che l’America in aria sarebbe potuta saltare prima che di una nostra maturazione si potesse mai parlare e che per qualche ragione c’erano americani che non avevano mai saputo che il Dottor King il caos aveva prevenuto e non gli avrebbero mai dato ciò che gli era dovuto. Ammiravo l’entusiasmo di Stevie e il suo franco parlare Ma non sempre il giusto sull’ingiusto può trionfare Alla sua morte Ghandi la non violenza nella tomba si è portato.
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E da queste parti la non violenza era presente, ma solo da un lato. Quando i bianchi pestavano e ammazzavano persone che conoscevi indirizzare la rabbia contro uno o due edifici potevi. Invece di rendere una guida per i diritti civili il Vecchio Testamento E dire che l’“occhio per occhio” sarebbe stato giustificato al momento Ci veniva detto di accettare il fatto che certi bianchi non avevano classe E invece di condannare i bianchi en masse Rimanere pacifici era la cosa migliore, ci dicevano E a capo di quella filosofia uomini come il Dottor King c’erano. Abbiamo visto, attraverso una tempesta d’istigazione a lottare Che per cambiare l’America la legge si doveva cambiare. Ci hanno chiamato “militanti” e “radicali” e per cattivi ci hanno fatto passare perché i diritti di tutti gli americani provavamo a tutelare. Ma spesso la realtà si trova oltre la parola scritta Così l’America senza il Dottor King sarebbe stata sconfitta.
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PROLOGO
Ho sempre dubitato dei ricordi dettagliati dell’infanzia che gli scrittori mettono nero su bianco. Forse sono geloso del fatto che mantengono una tale lucidità in merito ai loro “bei tempi andati” mentre il mio passato sembra semplicemente passato da un pezzo. Ciò che mi ha aiutato a mantenere un certo ordine è stato il mio interesse per la scrittura da quando avevo dieci anni. Scrivevo racconti. Il problema era che non ne sapevo molto di nulla. E non facevo delle foto né collezionavo souvenir. C’erano alcune cose a cui davo importanza, ma pensavo che ci sarebbero state per sempre. E pensavo che io sarei vissuto per sempre. C’era Jackson, nel Tennessee. Non importa dove andassi – a Chicago, a New York, in Alabama, a Memphis o persino a Porto Rico nell’estate del 1960 – sapevo sempre che sarei tornato a casa a Jackson. Era il posto in cui si erano stabiliti mia nonna e suo marito. Era il posto in cui erano nati e cresciuti tutti, mia madre, suo fratello e le sue sorelle. Era il posto in cui ero cresciuto, in una dimora a South Cumberland Street che tutti loro chiamavano casa, indipendentemente da cosa facevano e dove lo facevano. Erano le persone più importanti della mia vita e quella era casa loro. Era il posto in cui ho cominciato a scrivere, in cui ho imparato a suonare il pianoforte e in 6
cui ho cominciato ad avere voglia di scrivere canzoni. Jackson è il luogo in cui ho ascoltato musica per la prima volta. Quello che la gente chiamava “il blues”. Era alla radio. Era nei juke-box. Era la musica del “Fight’s Bottom” di Shannon Street il sabato sera, quando il volume era al massimo e il whisky di contrabbando arrivato da Memphis scorreva a fiumi. Anche il blues veniva da Memphis. A casa mia Shannon Street era tabù, qualcosa a cui mia nonna neanche pensava. A casa non ascoltavamo mai il blues. Casa nostra era proprio accanto all’agenzia di pompe funebri Stevenson & Shaw. L’uomo che la gestiva era Earl Shaw, una delle persone più gentili che abbia mai avuto il piacere di conoscere. Sua moglie era una buona amica di mia madre e le nostre famiglie erano tanto legate che per anni mi sono riferito ai suoi figli chiamandoli cugini. Evidentemente gli affari alle pompe funebri andavano bene perché ricordo chiaramente quando il signor Shaw acquistò un altro edificio nella zona est di Jackson e arrivarono gli addetti ai traslochi a portare fuori tutto dall’edificio accanto a casa mia. E poi arrivarono gli uomini del deposito di robivecchi a caricare tutto il resto sul retro di un vecchio camioncino. Mia nonna conosceva il robivecchi e, dopo una breve conversazione con lei, quell’uomo diede ordine ai suoi due figli di portare nel nostro soggiorno un pianoforte verticale vecchissimo e usurato e di spingerlo contro la parete. Avevo sette anni. Ero abbastanza grande da cominciare a imparare a suonare. La nonna aveva intenzione di farmi imparare qualche inno da poter suonare durante 7
le riunioni del suo circolo di cucito. Ecco come ho cominciato a suonare. Non c’era modo di ascoltare blues dalla radio in soggiorno. Mia nonna la teneva bloccata sulla stazione che al mattino mandava in onda le sue soap opera e alla sera i suoi programmi radiofonici preferiti. Quando comprammo una seconda radio, fu rapidamente soprannominata “la radio delle partite” e, senza ombra di dubbio, quando veniva trasmessa una partita io ero all’ascolto. Ma altre volte provavo a sintonizzarmi sulla WDIA di Memphis, la prima radio nera del paese, con in onda personaggi come Rufus e Carla Thomas e B.B. King. A tarda notte provavo a cercare il Randy’s Record Show da Nashville. Sentivo la gente parlare di un’esplosione musicale a Memphis. Sapevo che anche la mia musica preferita, il blues, veniva da lì. Ma vivevo a Jackson, a circa centoquarantacinque chilometri a est di Memphis, e non avevo desiderio di andare da nessun’altra parte. Finché non ci fui costretto, quando la mia famiglia – io e mia madre – ci trasferimmo a New York City. Anche se io e la mamma lasciammo Jackson nell’estate del 1962, sapevo che il trasloco era vicino dal momento in cui fu annunciata la costruzione della nuova autostrada. Ovvero un paio di anni e un centinaio di voci prima. Il percorso che avrebbe seguito l’autostrada aveva scatenato ore e ore di conversazione. Alla fine, passò per il nostro quartiere. Al momento della nostra partenza buona parte del quartiere era già stata sgomberata. La chiesa di Liberty Street, proprio dietro casa nostra, e la Rock Temple, la 8
chiesa santificata a un paio di isolati di distanza, avevano già chiuso. Lungo quella traiettoria non c’erano mai state molte attività commerciali e le quattro corsie si srotolarono attraverso quelli che erano stati isolati di residenze ormai fatiscenti. Presto non ci sarebbe stato più nulla. Riuscivo a immaginare le file di pompe di benzina e fast-food rivestire quello che era stato il cortile sul retro di casa mia. Un accesso più agevole per camionisti e viaggiatori che si dirigevano a ovest verso Memphis e a est verso Nashville. Si trattò, in un certo senso, del preludio a un funerale di più grandi dimensioni. La Pavimentazione dell’America rappresentò un simbolico seppellire l’ascia, un segnale che gli amministratori delegati del nord e le sedi ve$covili del sud erano finalmente d’accordo. La Confederazione aveva finalmente trovato dei cofirmatari per il suo prestito centennale e da Appomattox Court House si era fatta strada a suon di negoziati attraverso la sfida dell’apostata, aggirando apatia, scuse, pacificazione, appelli, benestare, apprensione e appropriazione per approvazione. Il quadrante meridionale del territorio contiguo si era fatto un secolo di gelido isolamento e, per Dio, uno sporco ne... un Negro aveva piazzato una fiamma ossidrica vicino al termostato. Thurgood Marshall aveva reso le cose più cordiali, abbattuto l’ultima barricata con il “Brown contro il Board of Education”. I tipi della finanza, adesso, facevano i conti con l’ultima frontiera. Avevo fatto la mia piccola parte anch’io, un’increspatura su una delle onde incessanti che consumavano quella montagna che era stata la segregazione. Insieme 9
a Madeline Walker e Gillard Glover, avevo dato inizio alla desegregazione scolastica a Jackson. E le fabbriche sarebbero state costruite. E le autostrade si sarebbero srotolate come serpenti a sonagli dal Maryland al Golfo del Messico. E Jim Crow, il bastardo che aveva fatto dondolare un migliaio di manganelli e dato fuoco a un migliaio di croci, non era morto. Ma era stato ferito. Quella volta da tre bambini: io, Madeline e Gillard, civili in una guerra civile. Da quegli inizi, non sono stato orgoglioso di tutto ciò che mi è capitato o che ho fatto in tutta la vita. Ma mi considero fortunato. Sono stato cresciuto da due donne – mia madre e mia nonna – che si sono entrambe dedicate anima e corpo al mio benessere e hanno fatto il possibile per assicurarsi che nella vita avessi ogni opportunità di successo. Si sono dedicate anima e corpo alla mia istruzione scolastica e sono state esempi di ciò che avrei dovuto provare a essere da adulto e da uomo. Gli errori sono dovuti unicamente alla mia scarsa capacità di giudizio sia delle persone che delle circostanze. Sono padre di tre ragazzi, a prescindere da pettegolezzi e commenti che sostengono il contrario. Il mio primogenito si chiama Rumal, un anagramma realizzato con le lettere che compongono il nome di battesimo di sua madre. La mia figlia maggiore è Gia, una parola dal suono soffice per una delizia molto femminile. Mia figlia più piccola si chiama Chegianna ma è nota come Che – si pronuncia Shay. Questo libro è l’occasione per condividere alcune cose con loro e con altri lettori, cose che spero saranno utili. Alcune parti sono puramente biografiche. Il fulcro, tuttavia, ruota intorno a espe10
rienze orchestrate dal fratello Stevie Wonder, un vero miracolo di talento e interesse per il prossimo. Sono stato abbastanza fortunato da stargli vicino quando si è messo in testa e nel cuore di fare qualcosa d’importante, qualcosa che molta gente pensava fosse impossibile, e ce l’ha fatta. Tutti abbiamo bisogno di osservare da vicino persone che superano i limiti di quanto sembra in apparenza impossibile, e lo realizzano. Abbiamo bisogno di ulteriori esempi che indichino come realizzarlo. Lungo il cammino affronteremo tutti circostanze difficili che metteranno alla prova la nostra sicurezza e cercheranno di ostacolare le decisioni sulle direzioni che desideriamo scegliere. Spero che questo libro vi ricorderà che si può avere successo, che l’aiuto può arrivare da parti inaspettate in momenti cruciali. Io credo negli “Spiriti”. A volte quando spiego alla gente che sono stato fortunato e che gli Spiriti hanno vigilato su di me e guidato la mia vita, immagino di assomigliare a una qualche specie di quasi-evangelista di una nuova religione. Non lo sono e non ho una chiesa personale da promuovere. Tuttavia credo che, per parafrasare Duke Ellington, in quasi ogni angolo della mia vita ci sia stato qualcuno o qualcosa a mostrarmi la strada. Queste pietre miliari, questi segnali, sono forniti dagli Spiriti. Non è un argomento che offro in sacrificio ai fini della discussione. La questione non è il modo in cui chiamate le influenze intangibili che vi aiutano a dirigervi nella vita. La mia tesi è che le vostre fortune derivano dai vostri contributi positivi. Ma tali contributi devono venire dal cuore. Non dall’a11
spettarvi qualcosa in cambio. Altrimenti ciò a cui avete contribuito sarà stato un prestito, non un dono. Sono grato a dozzine di persone che negli anni mi hanno aiutato a migliorare il mio lavoro e che hanno contribuito, inoltre, al risultato che qui cerco di descrivere. Spero diverrà chiaro nei racconti che seguono. Nel frattempo, spererei che questo libro aiuti tutti noi a ricordare ogni anno il fratello Stevie Wonder nel giorno del suo compleanno e, il 15 gennaio, il compleanno di Martin Luther King, Jr.
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Per me le parole sono sempre state importanti, fin da quando mi è possibile ricordare. Il loro suono, la loro costruzione, le loro origini. A causa di tale interesse, ci sono pochi posti in cui potevo crescere che mi avrebbero fornito più meraviglioso materiale grezzo del quadrante sud-orientale dell’America settentrionale. Per chi era nato tre o quattrocento anni prima in quella parte del mondo la parola Tennessee significava “terra degli alberi”. I residenti della regione rispettavano la terra e nelle loro descrizioni risalta l’attenzione che ponevano sui dettagli dell’ambiente circostante. Esaminavano a fondo l’ambiente in cui vivevano, facendo disegni di ciò che osservavano da una montagna che forniva per chilometri una visuale libera in tutte le direzioni. A sud e a est della montagna, una coperta di cime di alberi conduceva ai sentieri segnati dai Seminole. In direzione ovest, il popolo Chickasaw viveva sulle rive del fiume Tennessee, dalla forma a ferro di cavallo, quello che si incontrava due volte perché tagliava lo stato in tre parti. E dappertutto si erigevano foreste dense. Il Tennessee, dicono, una volta era costituito al 90 per cento da alberi, la terra degli alberi. Quando sulle montagne arrivò nuova gente da est, i nativi delle alture degli Appalachi si dispersero. Questi intrusi sgarbati e lerci erano qualcosa di più di una diversa tribù. E 13
di meno. Erano qualcosa di più di una diversa carnagione e di una lingua diversa. Non avevano rispetto per la terra e per i suoi abitanti. Arrivando a ondate, attaccarono le montagne come a volerle spianare. Tagliarono buche frastagliate e maledirono le correnti prima che le fragorose esplosioni facessero collassare le pareti delle colline, lasciando solo orrende cicatrici come prova visiva della loro ricerca di rocce nere che chiamavano carbone. I nativi tracciarono i loro sentieri frastagliati di mutilazione dal picco sopra Chattanooga. E condussero le loro famiglie a ovest. Da bambino, in Tennessee, la prima ora di lezione al mattino era geografia e c’era sempre un po’ di tempo dedicato al Tennessee e ai suoi collegamenti con la storia. Il Tennessee era lo stato dei Volontari. Le squadre sportive dell’Università del Tennessee si chiamavano i Volontari. Ricordo che mi venivano mostrate foto di Davy Crockett e Smoky l’Orso. Mi ricordo la linea diagonale leggermente curva che disegnavo e che univa Knoxville a Nashville e a una città dal nome di una grande metropoli egiziana, Memphis. Memphis, nel Tennessee, era circa a centoquarantacinque chilometri da Jackson, la mia città. Ma nella mia testa era lontanissima, quanto il Polo Nord. A Jackson la gente parlava sempre di un qualche altro posto, soprattutto di Memphis, perché era “un qualche altro posto” vicino e lì potevi bere alcolici, mentre Jackson era una contea arida. Io parlavo di andare a Chicago, dove viveva mia madre. A Memphis vivevano alcuni parenti di mio nonno ed ero andato a trovarli, ma di quel viaggio ricordo solo la sofferenza per il mal d’auto e il vomito. La storia che ci veniva raccontata su Memphis era scritta a matita, con tratto leggero, e con una serie di balzi era 14
approdata a uno stato semi-solido con Elvis Presley all’Ed Sullivan Show. All’inizio la città era un mercato a metà strada, un luogo d’incontro sulle rive del fiume Mississippi, accovacciata nel fango quasi esattamente alla stessa distanza sia da New Orleans che da Chicago. Per questo motivo forniva la posizione perfetta a commercianti di ogni tipo e provenienti da ogni direzione, che trasportavano ogni genere di cosa da scambiare: dalle pellicce ai mobili, dal cotone al bestiame. Mentre le navi a vapore e i battelli a pale andavano in cerca delle acque basse di Memphis e St. Louis e provocavano nuvoloni di limo e sabbia, facendo diventare la superficie fiume di un marrone lucido. Il Mississippi divenne noto come il Big Muddy. I moli ai margini della cittadina erano una calamita per cacciatori, cacciatori con trappole, agricoltori e nativi che arrivavano viaggiando su carri di legno per scambiare carichi di tabacco, prodotti agricoli e pelle di bufalo con fucili, whisky e attrezzature per l’agricoltura. Tutti oltrepassavano, a piedi o sui loro mezzi di trasporto, le baracche strette e squallide, nulla più che gabbie, da dove proveniva l’eco di gemiti e sedie sbatacchiate dalla merce umana. La giornata di Memphis cambiò repentinamente, e con il primo accenno di una nuova alba cominciò la processione dai moli alle capanne di fango maleodoranti dietro i podi dei banditori d’asta. Lì dentro venivano portati uomini e donne nere seminudi, a mala pena coperti di stracci, legati e ammanettati, con cappi di cuoio non conciato al collo. I prigionieri meno collaborativi venivano trascinati con catene alla caviglia che ne limitavano i movimenti a passi corti e incerti. Sarebbero stati venduti, questi esemplari maschi, agli spietati Cajun delle paludi al livello del mare. Si diceva 15
che ogni anno trascorso nel caldo paralizzante di un’estate della Louisiana si rubava cinque anni della vita di un essere umano. Quando uno schiavo veniva venduto ai Signori della Louisiana, gli osservatori si lamentavano dicendo che era stato “venduto al fiume1”. Memphis maturò da mercato a metà strada a grande metropoli. Saloon e tende-bordello, una volta inzuppati del sudore di marinai ubriachi ed emananti il fetore del tanfo acido di suini, melma, liquame e schiavi, è oggi meglio conosciuta per Graceland e i Grizzlies più che per Beale Street e il blues. La sua sudicia fondazione come quartier generale per puttane ed esseri umani venduti al miglior offerente fu oscurata dalla magia della fusione musicale. La Sun Records si considerava la miccia che aveva acceso gli anni Cinquanta con Elvis e il rock’n’roll. Con Carla e Rufus Thomas e Otis Redding, la Stax Records portò il blues in classifica con ritornelli, fiati e un beat solido che si sviluppò con Al Green e Willie Mitchell. Memphis significò musica. E a meno che non ci si soffermi a riflettere per un minuto, si potrebbe forse dimenticare che fu proprio a Memphis, sul balcone di un motel, che il Dottor Martin Luther King Jr. fu ucciso il 4 aprile 1968. Quell’assassinio è uno dei nostri punti di partenza. Stevie Wonder non se n’era dimenticato.
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