Presenti n.1 Libertà

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Liceo Scientifico e Linguistico Leonardo da Vinci, Trento

A cura di Cecilia Dalla Torre e Stefano Paternoster


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Supplemento a LA SCUOLA DEL PONTE - VIII [2010] Rivista annuale di cultura e formazione civile Liceo Scientifico e Linguistico Leonardo da Vinci via Giusti 1, Trento T. 0461 913479 / 0461 913367 www.liceodavinci.tn.it Curatori Alice Perazzoli, Andrea Coali, Anna Stenico, Arianna Bampi, Edoardo Oss, Elena Clappa, Elena Gargano, Elena Mazzalai, Elisa Bianchini, Eugenia Cunial, Francesca Aquilia, Francesca Debiasi, Francesco Benanti, Gloria Girardi, Laura Gretter, Lisa Rosa, Luana Di Piazza, Martina Avancini, Matteo Previdi, Matteo Tamborski, Nicola Bortolameotti, Noa Ndimurwanko, Samuel Giacomelli, Sonia Peratoner, Stefania Santarelli, Tiziana Marino, Wilma Pilati Collaboratori Anna Pugliese, Arianna Bertoni, Federico Evangelista, Filippo De Vigili, Filippo Marzatico, Giuseppe Radente, Martin Rudatis, Milena Boller, Milena Rettondini, Nicole Lona, Rachele Tomasi, Ruan Barbacovi, Selene Ghezzi

Grazie a Alessandro Martinelli, Andrea Prevignano, Anna Molinari (Cinformi), Anna da Sacco, Bruno Molignoni (Caritas, Trento), Chiara Veronesi, Claudia Chemelli, Corrado Furlani, Diletta Giuntoli, Elisa Molinari (Libera Trentino Alto Adige Südtirol), Fabrizio Tosini (Redazione Presa Diretta), Francesca Zanoni, Francesca Zeni (Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani), Francesco Zizola, Frank Paul Weber, Gerhard Mumelter, Giulio Ragno Favero, Laura Fravezzi, Leonardo Parente, Lorenza Erlicher, Lorenzo Oss Eberle (Ufficio Cultura Rovereto), Luca Gardumi, Luca Panzera, Mauro Palmieri (segreteria del Questore di Trento), Michele Dossi, Paola Bisogni (Redazione Report), Roberta Quaglierini (Comunità Solidale), Roberto Giuliani, Serena Fait, Stefano Giordano, Stefano Rubini, Valentina Tordoni, Vanda Campolongo (Ufficio Stampa della Provincia Autonoma di Trento), Viviana Bertolini (Ufficio Stampa Centro S. Chiara, Trento), Walter Nardon, al Dirigente dott. Alberto Tomasi e a tutti i colleghi che ci hanno supportato agevolando l'impegno degli studenti coinvolti Illustrazione di copertina Lieve di Armin Barducci, Bolzano Ideazione, progetto grafico e impaginazione Verba Volant, Trento

Fotografia di Anna da Sacco “Ex-Italcementi” - 2010

Redazione Cecilia Dalla Torre Stefano Paternoster


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Liceo Scientifico e Linguistico Leonardo da Vinci, Trento


Presenti, perché per

l'oggi

bisogna passare attraverso gli sguardi e le storie degli altri, lasciandosi toccare da ognuna. Presenti, perché per l'oggi bisogna saperne cogliere la molteplice complessità, senza la pretesa di risolverla mai definitivamente. Presenti, perché per l'oggi bisogna avere il coraggio di abbandonare qualcosa di se stessi, per raccogliere quello che solo assieme si può realizzare.


storie e volti di un oggi multiforme. Un progetto, una piccola sfida, prima di tutto per noi che questo progetto lo abbiamo proposto nella sua imprecisione, con la fiducia che, se un'idea ha un suo valore, sa trovare anche la strada per chiarirsi e concretizzarsi. Una sfida che ha riposto la propria fiducia nei ragazzi, puntando sul loro e sul nostro entusiasmo, sulla loro e sulla nostra curiosità. Una sfida sul cui esito non abbiamo mai dubitato. Un'idea, la più semplice possibile, scegliere un tema e cercare le persone più adatte, le più vicine e le più lontane dal punto da cui si è deciso di partire. Mettere queste persone a contatto con i nostri ragazzi e con la loro voglia di ascoltare, stimolare storie nuove, narrare la realtà in modi diversi dal consueto. Nel tentativo di dare un volto alle tante e diversificate componenti che formano il nostro presente. Perché seppur condividendo lo stesso tempo, ci accorgiamo come in realtà le vite siano così uniche e talvolta così drammaticamente diverse da dare origine ad un tempo fatto di molteplici presenti.

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Cecilia Dalla Torre, Stefano Paternoster

libertà. Uno dei temi più banali che si possa immaginare, ma anche uno dei temi più profondi e malleabili che esistano. Capace di testimoniare, attraverso le varie forme che può assumere, i mutamenti e la varietà di esperienze che compongono il nostro e i nostri presenti. Come un elastico che puoi allungare senza riuscire a spezzare, come una pallina con cui giocare e che vorresti lanciare lontano. Così è la libertà. Difficile averla a portata di mano e rimanere indifferenti. Difficile non cercarla e difficile non averne talvolta paura, tanto da volerla allontanare da sé. Impossibile dimenticarsi di lei, separarsene per sempre, anche dopo averne abusato o dopo averla abbandonata: il richiamo a riappropriarsene, vive ancora. Una libertà che può essere colta solo avvicinandola, attraverso le vite e le parole degli altri: di chi l'ha vissuta, di chi l'ha coltivata, di chi l'ha maltrattata, di chi l'ha lasciata fuggire. Ora spetta a voi cogliere le tracce di libertà disseminate lungo questo viaggio fatto di tanti incontri. Il principale dei quali, come capirete, è stato con la nostra e con l'altrui libertà, d’altronde è mai possibile separare la nostra libertà da quella di chi ci sta vicino? presenti 5


Milena Gabanelli Riccardo Iacona Pino Rea Giovanni de Mauro Eric Jozsef Steve Scherer

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Un lavoro di sintesi e di ridefinizione di quei principi che dovrebbero stare alla base di un sistema di informazione, appare quanto mai utile in un periodo come quello attuale, nel quale nuove forme di giornalismo e di diffusione delle notizie stanno rivoluzionando questo settore, a partire dalle reti informatiche. Questo e molto altro è stata la nostra ricerca, condotta attraverso interviste e confronti con grandi e piccoli esponenti di media più o meno importanti. L'obiettivo principale vuole essere quello di capire quali regole siano necessarie per lo sviluppo di una stampa e di una televisione libera da condizionamenti politici ed economici, ormai sempre in agguato in numerose democrazie moderne. L'analisi si concentra in particolare sulla situazione italiana, molto varia, frammentata e fuori da qualunque schema che si possa osservare in altri paesi. Una diversità che molto probabilmente ha le sue radici nel nostro contesto culturale del quale è difficile da sempre capire ogni sfumatura. Perché mai siamo da tempo agli ultimi posti nelle classifiche riguardanti la libertà di

libertà E INFORMAZIONE Matteo Previdi

stampa nelle democrazie odierne? La risposta è contenuta nei vari dialoghi intrapresi durante il nostro lavoro, che lascia indubbiamente molti spunti di riflessione riguardo a questo tema. A livello internazionale è stato sicuramente il fenomeno Wikileaks ad aprire un acceso dibattito riguardante queste tematiche. Da questo punto di vista sembra che sia impossibile stabilire dei valori generici a priori, che possano fungere da guida per un migliore sistema divulgativo. Insomma, un sistema in continua evoluzione, mai come ora. La volontà di capire queste nuove dinamiche ha alimentato la nostra curiosità, la curiosità propria di noi ragazzi, che è stata il fondamento di questa ricerca. Questa raccolta inoltre non si pone assolutamente l'obiettivo di generare un punto di vista unico e indiscutibile nei lettori, ma invece di sviluppare altri dibattiti e di invitare alla partecipazione altri giovani come noi, spesso emarginati in questo dalla società di oggi. Buona lettura.

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Milena Gabanelli Milena Gabanelli (Nibbiano, 1956). Laureata al DAMS con una tesi in storia del cinema. Freelance da sempre, ha cominciato a collaborare con le tre reti Rai nel 1982 con programmi di attualità, passando poi al reportage con la testata «Speciali Mixer». Per Mixer è inviata di guerra in molti paesi, tra cui: ex Jugoslavia, Cambogia, Vietnam, Birmania, Sudafrica, Mozambico, Somalia, Cecenia. Nel 1991 introduce in Italia il video giornalismo, abbandona la troupe e inizia a lavorare da sola con la sua videocamera. Teorizza il metodo e lo insegna nelle scuole di giornalismo. Nel 1994 Giovanni Minoli le propone di occuparsi di un programma sperimentale che proponga i servizi realizzati dai neo-videogiornalisti e nasce «Professione Reporter». Nel 1997 diviene ideatrice e conduttrice di «Report»: inchiesta vecchio stile che, attraverso l'uso di nuovi mezzi, abbatte i costi e permette agli autori di dedicare più tempo all'inchiesta. Oggi Report, è considerato da pubblico e critica il miglior programma di giornalismo investigativo.

Milena Gabanelli, Cara Politica, BUR 2007

a cura di Elisa Bianchini, Matteo Previdi, Tiziana Marino Milena Gabanelli, Ecofollie, BUR 2009


smo. Inizialmente, ha riscontrato ostacoli o diffidenza da parte dei vertici della Rai o da suoi colleghi? All'inizio, quando ho proposto questo metodo, che era quello del giornalista che fa tutto da solo, ho avuto l'opposizione del sindacato; perché dicevano che era un metodo che aveva come obiettivo la riduzione del personale. Dopo di che ci ha pensato la tecnologia a spazzare via questa diffidenza e questi sospetti, adesso tutti lavorano con le piccole telecamere. Per il resto, per quel che riguarda i contenuti, che è la parte più problematica di un programma d'inchiesta, certamente ci sono delle difficoltà, molto più adesso che in passato. Questo perché man mano che aumenta la visibilità, aumentano anche i problemi. Però nulla di insormontabile, anche se certamente devi battagliare. Che tipo di impatto ha avuto questo nuovo metodo, in particolare sulla società italiana?

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Perché ha voluto intraprendere la carriera giornalistica? C’è una persona del mondo del giornalismo che l'ha condotta a questa scelta e a cui si è voluta ispirare? No, le cose sono arrivate un po' per caso. Nel corso della vita, ho seguito le mie passioni, quelle che ognuno di noi ha. Seguendo questa inclinazione naturale mi sono avvicinata al giornalismo d'inchiesta, ma per gradini, non è che tutto ad un tratto ho deciso di fare il giornalismo d'inchiesta. Certamente ho tanti modelli, che mi sono serviti in vari ambiti della vita, non solo quello professionale. Partendo da persone che non ho mai conosciuto, di cui ho solamente letto, da mio padre che senza dubbio era la persona più umile ma non certamente una persona che ha scritto libri. Però mi ha trasmesso la curiosità, la generosità e il senso del dubbio, che è fondamentale in questo mestiere. Con Report ha portato nella televisione italiana un nuovo modo di fare giornali-

Milena Gabanelli

Intervista a cura di Matteo Previdi, Elisa Bianchini


Certamente il metodo ha un impatto sulle casse, perché è un metodo molto economico. Poi se la domanda è: “Le inchieste smuovono?”, io rispondo: “Certo che sì”. In media abbiamo un ascolto di tre milioni e mezzo di persone a puntata, quindi tre milioni e mezzo di persone che prima non sapevano una cosa e poi la sanno, è un bel obiettivo raggiunto. Il nostro compito si fermerebbe qui. Poi in alcuni casi ci sono inchieste giudiziarie che partono dopo le nostre inchieste; in altre occasioni si innescano dei meccanismi di cambiamento dei comportamenti, e questo è un fatto importantissimo. Molto spesso le persone ci chiedono: “Cosa dovremmo fare per dare un contributo al cambiamento del nostro Paese?”. Bene, un cambiamento radicale che può dare ognuno di noi, è quello di fare la spesa in maniera oculata. È una grande rivoluzione che si può fare ogni mattina quando si va al supermercato. Per esempio scegliere prodotti di stagione: comprare le fragole a gennaio è un danno enorme all'ambiente, al pianeta intero, perché vengono da posti lontani. Lo stesso vale per tutti i prodotti fuori stagione, per i prodotti che non sono raccolti localmente. Una scelta consapevole su cosa mettiamo nel carrello del supermercato potrebbe innescare una rivoluzione. Lei è diventata in breve tempo un esempio di giornalismo libero; le è mai pesato questo ruolo pubblico? Certamente, il fatto che ci siano sempre aspettative molto alte, non ti fa vivere rilassato. Lei è a tutt'oggi una freelance, si tratta di una scelta? No, semplicemente nessuno mi ha mai proposto un contratto a tempo indeterminato, ma ci si arrangia uguale. Crede che questa condizione le garantisca margini di libertà più ampi? 10


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“Preferisci due pensioni o una?” Io non ho mai conosciuto una persona meno libera per il fatto di essere dipendente, men che meno un giornalista. Meno libero di che? Se domani mattina faccio girare le scatole a qualcuno, mi possono dire “Saluti, arrivederci”, ed io e la mia squadra ci ritroviamo senza qualcuno a cui fatturare. Se un giornalista Rai dovesse fare qualcosa che dà fastidio al suo capo, probabilmente non lavorerebbe più, ma potrebbe andare al mare ad attendere il 27 del mese per ritirare lo stipendio. Nel suo lavoro, si sente vincolata o influenzata da poteri politici, economici o mediatici? Le pressioni ci sono sempre, a seconda di chi ti occupi, del medico piuttosto che dell'imprenditore, del banchiere o del politico. Non è possibile salvarsi da questo tentativo di farti raccontare una storia diversa da quella che vuoi raccontare. Rompere le scatole di professione non può prescindere dal fatto che a loro volta le romperanno a te. Si sente sottoposta a pressioni anche da parte di qualche vertice della stessa Rai? La Rai è una azienda come le altre, se ti occupi di lei, lei si occupa di te. La grande mole di querele ricevute rappresenta un ostacolo per la vostra redazione? Querele poche, purtroppo. Magari! Quando arriva una querela stappo. Sono principalmente cause civili. La differenza è che mentre per una querela c'è un magistrato che guarda se ci sono gli estremi, le condizioni per iniziare un processo, e quindi guarda la denuncia fatta dal soggetto che si sente diffamato e se le storie non combaciano archivia, in un processo civile invece, se tu decidi domani mattina di farmi una causa milionaria perché oggi ho detto una parola che non ti è piaciuta e non ci


hai dormito la notte, ci infiliamo in un processo che probabilmente durerà dieci anni. Quindi io per dieci anni devo pagare le spese legali, devo accantonare nel fondo rischi una percentuale di quello che mi chiedi, perché il processo civile è fatto così. Non prevede nessun filtro, ti porta automaticamente dentro a un procedimento che dura tanto. E le cause che mi vengono fatte sono principalmente queste. La maggior parte hanno uno scopo solo, che è quello intimidatorio. Questa indipendenza e questa libertà che lei mantiene sono delle qualità che ha sempre rivendicato e avuto o sono piuttosto frutto di una maturazione professionale e personale? Non ho mai consultato un analista. Ognuno ha il suo carattere. Ho incontrato dei colleghi che soffrono di una patologia compatibile, siccome Dio li fa e poi li accompagna. In questi anni ha avvertito qualche cambiamento in Rai, per quanto riguarda la concezione del servizio pubblico dell'informazione? Sì, sicuramente sì. In peggio. A cosa è dovuto? È dovuto alla qualità delle persone. Metti un geometra a dirigere la sanità, anche se lui è in buona fede e ce la mette tutta, diventa problematico. L'idea di servizio pubblico per una persona che si è sempre occupata per esempio di agricoltura, sono frutto di un’esperienza e di una competenza che è straordinaria nel campo dell'agricoltura, ma nel campo della funzione del servizio pubblico, dell'organizzazione di tutto ciò che deve rendere il servizio pubblico (realmente moralista, realmente pubblico, funzionale a quella che è la missione di una Rai), o hai le competenze per dare un contributo positivo e costruttivo, altrimenti può essere problematico. La

qualità e la competenza delle persone fanno la differenza su tutto. Fai sedere un soggetto sbagliato su una poltrona importante e avrai un disastro. Ha riscontrato nella sua carriera una diffidenza o un pregiudizio nei confronti delle donne nel mondo del lavoro? No. In generale, dalla sua esperienza personale, come trova che si sia comportato il mondo della politica e le persone che lo rappresentano nei confronti delle trasmissioni come la vostra? La politica non si comporta in modo diverso dall'imprenditoria. Quando tu ti occupi in maniera critica di un politico, quello farà il possibile perché tu sparisca dalla sua visuale, e bene o male sulla Rai, essendo pubblica, il politico ha più potere ed influenza. Che cosa pensa della politica? La nostra classe dirigente, tutto l'arco parlamentare mi fa orrore. Dal punto di vista mediatico perché hanno più riscontro i programmi come «Annozero» e «Ballarò» rispetto al suo e a quello di Iacona? Il perché è semplice, non richiede una particolare partecipazione attiva. Ti alzi, vai in bagno, vai a fare una telefonata, torni indietro, ti risiedi sul divano e riprendi ancora il filo del discorso, sempre là siamo, no? Durante un nostro pezzo se ti distrai un quarto d'ora perché sei andato a fare altre cose, risulta un po' più difficile riprendere il senso del discorso. E comunque richiede un'attenzione, una concentrazione maggiore. Questo è un aspetto. L'altro è un aspetto più legato all'attualità: se noi portiamo in onda argomenti di cui il pubblico non sa nulla e che risultano completamente nuovi, chi fa i talk settimanali decide gli argomenti che sono più attuali. Quindi tratta quegli argomenti che stanno

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Certamente. Per esempio l'impostazione già denota uno svolgimento. Ovvero, una certa impostazione è quella di raccontare e mostrare una serie di testimonianze e dire “la storia è questa”, però non si andrà mai nel profondo a capire qual è la responsabilità di quella situazione, dove stanno le colpe, oppure dove si è originato quel fatto. Crede che l'informazione estera sia più efficace e imparziale di quella italiana? Dipende. Dietro l'informazione ci sta sempre un singolo giornalista, una testa. Noi abbiamo ottimi giornalisti che firmano sulle testate internazionali più importanti e che da noi sono considerati molto meno, oppure sono considerati schierati. Pensa che il suo lavoro sarebbe più apprezzato all'estero? Di questo sono abbastanza convinta, sì. Ho un grande apprezzamento da parte del pubblico, quindi questa cosa è molto gratificante. Certo, quello che in un paese nor-

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sulle prime pagine, e allora è evidente che sono più seguiti; poi c'è l'effetto pollaio, la gente che litiga, tutte cose che si seguono sempre con grande facilità. Poi li segui anche se alla fine ti chiedi: “Che cosa so di più di quello che sapevo prima?” Si è mai trovata nella situazione di dover abbandonare un'inchiesta a causa di grossi pericoli a cui si è trovata di fronte o di conseguenze che ha ritenuto pericolose per gli equilibri del Paese? Mi è capitato di dover abbandonare perché siamo partiti convinti che la storia fosse una, poi strada facendo si scopre che non è così, che la storia non c'è. Allora bisognerebbe fare delle forzature per portare a casa il pezzo, cosa che proprio non mi va di fare per questioni deontologiche e anche di principio. Quando guarda un servizio giornalistico, vi sono degli indizi che le fanno capire fin da subito, la qualità e il livello di onestà giornalistica che vi sta dietro?


male non succederebbe rispetto al mio programma è quello di essere targata. In Italia siccome non esiste l'idea che ci possano essere giornalisti indipendenti e intellettualmente indipendenti, ma tutti sono schierati o tutti sono portavoce di un'appartenenza, è complicato dire: “No! Io sono indipendente!” Soltanto per il fatto che noi andiamo in onda su Rai3, automaticamente siamo quelli di sinistra. A seconda di dove scrivi, tutto quello che fai viene declinato in funzione dell'editore, della testata, o di chi paga. La Rai è lottizzata, allora Rai1 è il governo, Rai2 è anche governo, Rai3 è l'opposizione. Repubblica è De Benedetti, che notoriamente sta con l'opposizione. Io sono convinta che a scrivere per «Il Giornale» e per «Libero» ci siano anche dei giornalisti indipendenti. Cioè quelli che proprio fanno con la loro testa. Ma se dici che scrivi su «Libero» e «Il Giornale» sei filogovernativo, a prescindere da tutto, ogni cosa che scriverai verrà interpretata in quella maniera lì. Nei Paesi fuori dall'Italia questo succede molto meno. Credo che da questo punto di vista il mio lavoro verrebbe maggiormente apprezzato ovunque. Trova che Internet sia uno strumento che contribuisce all'evoluzione dell'informazione, o rappresenta una fonte di pericolo per l'utilizzo che ognuno ne può fare? L'uno e l'altro. Un'automobile che va veloce è utile o pericolosa? Dipende dall'utilizzo. Bisogna avere strumenti per poter distinguere tutte le bufale che circolano in Internet dalle informazioni più fondate. E spesso succede che magari i giovani non abbiano questa capacità di discernimento. Anche perché loro si informano principalmente solo su Internet. Non credo che la vostra generazione legga tanto i giornali. Io vedo che mi arrivano a volte delle crociate che partono da dei siti che a ve-

dere chi sono quelli che scrivono lì... aiutami a dire aiuto. Questo è un pericolo straordinariamente democratico, come sistema, come metodo, come mezzi intendo. Però la democrazia non è un sistema perfetto, ma è il migliore che abbiamo. Che impressione le ha lasciato il fenomeno di Wikileaks? Io penso che se tu sei depositario di segreti di Stato devi mettere in atto sistemi che blindano queste informazioni. Se le informazioni escono e finiscono nelle mani di un giornalista, lui le pubblica, che ne deve fare? Sei tu che devi fare in modo che non escano e non prendertela con il giornalista perché il tuo sistema ha delle falle. Io di professione non spio dalla serratura, ma c'è anche chi lo fa. Quindi la serratura non deve avere un buco troppo grande sennò si vede tutto quello che si fa di là. E poi non te la puoi prendere con il guardone. Riscontra nei giovani giornalisti con cui ha lavorato una propensione alla ricerca dello scoop o trova che riescano a concepire nella giusta maniera il proprio ruolo senza lasciarsi andare a logiche economiche o di notorietà? Io lavoro poco coi giovani. «Report» è un po' un punto di arrivo, puoi lavorarci quando hai esperienza di inchiesta televisiva, sai usare il mezzo, sai montare il pezzo e sei passato da quella strada lì. Ed è una strada che non si improvvisa, la maturi facendo, quindi non arrivi a 30 anni a fare il giornalismo d'inchiesta in prima serata. È un genere che richiede una grande capacità di riflessione e di ponderazione. Certe intemperanze le hai già smussate, siamo ad un altro livello; io devo assolutamente fidarmi delle persone con cui lavoro, e quindi devo sapere che quando portano a casa lo scoop è perché sono stati capaci e non hanno forzato la mano per rincorrere

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Il merito, io andrei a rivedere tutte le poltrone una ad una in base a quello. E fuori dalle balle tutti quelli che sono lì ma non capiscono niente della funzione che devono coprire, del compito che devono svolgere.

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uno scoop di cui non ci frega niente. A me non interessa chi va a letto con chi, non è un problema nostro. Ma se uno è così bravo da portarmi a casa le carte che dimostrano che la tal banca ha truffato il tal cliente, è sicuramente più interessante. Ad ogni modo io vedo, dai contatti che ho coi giovani, che non sono ossessionati dalla ricerca dello scoop. Sono piuttosto un po' spaesati, un po' indifferenti a tutto e indecisi sul come bisogna fare, tendono a copiare dei modelli facili, semplici. E questo è un peccato, perché credo che ognuno abbia una propria specificità, un proprio talento unico, e dovrebbe invece ascoltarsi un pochino di più per riuscire a dare qualcosa di unico. C'è un argomento, un tema in particolare che si fa più fatica a trattare in Italia rispetto agli altri Paesi? Rispetto agli altri paesi non so dire. Sono certa che per intervistare un politico o un imprenditore in altri paesi fai una richiesta e in tre giorni ti arriva una risposta chiara; da noi no. Ci sentiamo tra una settimana, tra due, tra tre, tra un mese... e poi alla fine il no, non viene detto subito, ma ti sfiniscono. Oppure vogliono sapere chi c'è, cosa hanno detto gli altri, allora adesso vediamo... e per delle scemate. Ora stiamo facendo una puntata sulla Fiat; per riuscire ad avere i personaggi che lavorano in quel mondo è un'impresa impossibile. Abbiamo parlato con un direttore della Volkswagen, l'abbiamo chiamato, e in tre giorni la risposta è arrivata. Questo vale anche per i politici, perché da noi c'è questo vizio che si parla solo con gli amici ed i nemici si tengono lontani. O perlomeno si considerano nemici quelli che non scodinzolano abbastanza. Se lei in questo momento fosse nella nostra classe dirigente, cosa metterebbe all'ordine del giorno?


Riccardo Iacona Riccardo Iacona (Roma, 1957) Laurea in discipline dello spettacolo all'Università di Bologna. Dopo alcuni anni come aiuto regista per il cinema e la televisione, nel 1987 inizia a lavorare per Rai Tre. Il suo esordio avviene al fianco di un importante giornalista come Andrea Barbato per poi legarsi professionalmente a Michele Santoro, che seguirà in molti dei suoi programmi di maggior successo sia in Rai che su Italia 1: «Samarcanda», «Il Rosso e il Nero», «Moby Dick», «Sciusià». Dal 2004 diventa autore e regista di molti reportage, grazie ai quali il suo caratteristico giornalismo d'inchiesta dal forte impatto emotivo, raccoglie il consenso del pubblico oltre a diversi riconoscimenti ufficiali, tra cui va segnalato il Premio Ilaria Alpi, dedicato alla giornalista Rai uccisa in Somalia. Dal 2009 conduce un suo programma d'inchiesta: «Presa Diretta».

Riccardo Iacona, L’Italia in Presa Diretta, Chiarelettere 2010 Riccardo Iacona, Racconti d’Italia, Einaudi 2007


per lei la più vera e profonda differenza tra la televisione pubblica di fine anni '80 e quella di oggi? La Rai è sempre stato “il campo” dove si è esercitato il controllo dei partiti. E non c'è mai stata nomina importante dell'azienda alla quale non abbiano partecipato i partiti politici italiani. Perché dal controllo della Rai passa quello sull'informazione e, controllare l'informazione, significa riuscire ad imporre al Paese l'agenda delle priorità dettata dai partiti. Quando ho cominciato, questa pressione si esercitava in maniera indiretta e comunque non talmente forte da impedire, per esempio alla terza rete, di gareggiare alla pari con le altri reti e di crescere al punto da diventare la prima rete per autorevolezza e, in parecchie prime serate, anche per ascolti di tutta la televisione generalista italiana. Insomma si poteva gareggiare, perché la competizione non era “truccata”. Oggi la pressione si esercita in maniera diretta e il Presidente del

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Cosa l'ha spinta “a buttarsi” nel giornalismo d'inchiesta? C'è una persona, magari un giornalista, a cui ha voluto ispirarsi? Ho cominciato la mia carriera di giornalista con «Samarcanda», la trasmissione di Michele Santoro che è andata in onda in prima serata nella stagione televisiva 19881989 fino al 2002, l'anno dell'editto bulgaro di Silvio Berlusconi, che portò alla chiusura del programma. Ho collaborato con «Sciuscià, edizione straordinaria», e anche con dei programmi di Biagi e Luttazzi. Ho sempre lavorato con Michele Santoro, che è senza dubbio il mio riferimento professionale più forte. Nel suo libro «televisione aperta» ricorda i primi anni a Rai 3, come la prima volta in cui “nella storia della televisione pubblica italiana si apriva una finestra, una possibilità di scardinare i linguaggi televisivi dominanti”. Stiamo parlando del 1987 e immaginiamo che le pressioni politiche non mancassero neppure allora. Dove risiede

Riccardo Iacona

Intervista a cura di Matteo Previdi, Stefano Paternoster


Consiglio è anche il principale concorrente della Rai. Ed ecco che la gara si fa “sporca”, perché a dettare legge è il conflitto di interessi. Dopo il cosiddetto editto bulgaro, lei è rimasto stipendiato dalla Rai senza sostanzialmente poter lavorare per due anni. Da quest'esperienza è cambiata la sua visione sulla “libertà di informazione”? Il fatto di poter essere fermato da un momento all'altro, l'ha resa più consapevole dell'urgenza di informare ? Certo, aver vissuto sulla propria pelle la censura, essere messo nelle condizioni di non poter lavorare, di non potersi esprimere è un'esperienza che non auguro a nessuno. Quindi ne sono uscito cambiato, naturalmente, più forte e più debole allo stesso tempo. Più forte, perché tutto quello che riusciamo a fare è il risultato di una battaglia culturale e politica di cui sento fortemente l'urgenza e che portiamo avanti con grande determinazione e coraggio; più debole, perché so che l'editto bulgaro ha cambiato profondamente i rapporti tra politica e televisione. La forza di quell'editto è ancora largamente attiva, come del resto hanno dimostrato il contenuto delle intercettazioni di Trani da una parte e la recente chiusura di tutte le trasmissioni Rai durante l'ultima campagna elettorale dall'altra. Insomma, l'idea di ridurre gli spazi di democrazia partecipata, attaccando la libera informazione, è ancora pericolosamente presente e Berlusconi stesso non fa che confermarlo, appena può. Teme di poter essere fermato da un giorno all'altro anche oggi? Sì, perché, come scrivevo prima, la filosofia dell'editto bulgaro è ancora operante. Lei parla di una TV del “qui e ora”, di un'informazione che raramente segue i fatti fino alla loro conclusione. Secondo lei quanto le cause di questa mancanza di appro-

fondimento, risiedono all'interno del mondo del giornalismo e quanto invece di-pendono da interessi e pressioni esterne? La Tv del “qui e ora” è una televisione più conformista e poco autonoma nei confronti della politica, perché racconta quello che succede, per poi passare ad un “altro che succede”, saltando di cronaca in cronaca, ma non lavora mai ai fianchi il governo e i partiti, raccontandoci il “prima e il dopo”. Così abbiamo saputo tutto degli scontri di Terzigno, proprio mentre succedevano, ma abbiamo dovuto aspettare «Presadiretta» per vedere come si era arrivati a quegli scontri e di chi era la responsabilità politica. Un'informazione completa e approfondita è anche segno di rispetto da parte del giornalista per la propria libertà e indipendenza professionale. Valori che crediamo debbano essere prima di tutto trasmessi ai giovani giornalisti che entrano ora a far parte di questo mondo. Non crede che il passaggio di questi valori ai giovani, talvolta manchi o avvenga in maniera non corretta? Non puoi fare un'informazione indipendente se non sei “indipendente dentro”, se non cerchi di essere un uomo libero sempre e se nel tuo lavoro non ci metti anche un po' di “coraggio”. Insomma, la cosiddetta “schiena dritta” dovrebbe essere una delle principali qualità del lavoro del giornalista, forse il principale strumento del mestiere. Andrebbe quindi coltivato nelle redazioni. E invece avviene l'opposto. Il sistema dell'informazione non sembra amare l'indipendenza e l'autonomia. Dal punto di vista mediatico perché secondo lei hanno più riscontro i programmi come «Annozero» e «Ballarò» rispetto al suo e a «Report»? Perché «Annozero» e «Ballarò» parlano della “notizia calda” della settimana e tutto

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che è sempre più difficile indignarsi, anche i suoi stessi colleghi della carta stampata non avrebbero potuto dare maggior eco alle sue puntate? Siamo molto contenti del risultato delle puntate. Siamo riusciti a farne otto di seguito per la prima volta, cosa non affatto scontata, e siamo soprattutto riusciti ad aumentare il numero delle puntate senza abbassarne la qualità. Anche quest'anno abbiamo dato un piccolo contributo a tutto il sistema dell'informazione, introducendo nuovi argomenti, storie che in prima serata non arrivano mai. Sto parlando del mondo delle prigioni, del disagio psichico, della sofferenza sociale. Si sente sottoposto a pressioni anche da parte dei vertici della Rai? Nella terza rete di Paolo Ruffini lavoro in libertà, ma come giornalista della Rai seguo con partecipata attenzione tutte le vicende che riguardano l'attacco all'indipendenza e all'autonomia del nostro lavoro, dovunque si materializzino.

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questo in diretta. Noi lavoriamo su temi lunghi, non sempre di strettissima attualità e con un format che è quello dell'inchiesta che richiede più attenzione da parte del telespettatore. Il pluralismo dell'informazione è un elemento essenziale della libertà d'informazione. Vista la forza che in Italia esercita ancora la televisione, in questi ultimi anni, grazie al satellite prima e al digitale terrestre in seguito, ha visto crescere un pluralismo dell'informazione? O si tratta di una possibilità persa? Siccome il sistema che regola il mercato della televisione è ancora bloccato, cioè si è cristallizzato attorno al duopolio, impedendo di fatto a qualsiasi altro player di entrare sul mercato italiano, è chiaro che anche il pluralismo subisce la stessa sorte. Paolo Ruffini, direttore di Rai Tre, è da lei definito “un uomo libero”; oggi è difficile a suo giudizio incontrare uomini liberi nel mondo dell'informazione e non solo? Sì, la libertà non paga in Italia, in qualsiasi campo. Con il recente ciclo di puntate di «Presadiretta» ha ottenuto il riscontro che immaginava? In realtà non ha avuto l'impressione che alcune puntate avrebbero potuto avere un seguito ben più forte? Oltre a constatare


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Fotografia di Chiarelettere

Immaginiamo che il suo lavoro le avrà procurato qualche denuncia per diffamazione o querela. Lei o un suo collaboratore non è mai stato condannato per questo? Nessuna querela e quindi nessuna condanna. Negli anni si è occupato di tematiche molto delicate: criminalità, mafia, terrorismo, corruzione... non ha mai subito minacce durante o in seguito alle sue indagini? Nessuna minaccia. Non ha mai avuto il dubbio di coinvolgere nelle sue inchieste anche persone in realtà innocenti, dando magari di loro un'immagine sbagliata? In questi casi come si comporta? Siamo molto consapevoli della forza del mezzo televisivo e non esponiamo mai le persone solo per il gusto di “metterle in scena”, “alla berlina” di tutti. L'inutile cattiveria, soprattutto se esercitata su un soggetto più debole di te, mi disgusta. Dove pensa sia il confine tra rispetto del vissuto privato degli individui e libertà d'informazione? Un mondo libero è quello che sa raccontarsi e raccontare tutto, senza limiti. E non c'è niente che non si possa raccontare. Si è mai trovato nella situazione di dover abbandonare un'inchiesta a causa di grossi pericoli a cui si è trovato di fronte o di conseguenze che ha ritenuto pericolose per gli equilibri del Paese? No, per fortuna. Crede che l'informazione estera riesca ad essere più efficace e imparziale di quella italiana? Pensa che il suo lavoro sarebbe più apprezzato all'estero? All'estero il sistema dell'informazione non è bloccato dal duopolio come da noi e il conflitto di interessi è una patologia che viene tenuta sotto stretta sorveglianza. Questo fa la differenza.


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Riccardo Iacona

In seguito alle sue esperienze in campo giornalistico, nutre un sentimento di diffidenza verso le istituzioni italiane pubbliche e private? L'Italia è purtroppo sotto gli standard europei in parecchi ambiti, il che la rende un Paese più fragile e meno equo degli altri. Se fosse nella classe dirigente italiana, cosa metterebbe all'ordine del giorno? Tutte le grandi questioni dalla risoluzione delle quali dipende il nostro futuro: politiche di pace, soprattutto nei confronti dei paesi arabi, crisi economica ed investimenti nella formazione, nella ricerca, nello sviluppo, una nuova politica energetica e le grandi questioni dell'immigrazione. Nelle sue inchieste si è occupato più volte del tema scuola - università, qual è la sua opinione sul futuro della scuola pubblica italiana? Il rischio più grave è che la scuola pubblica diventi di serie B. C'è una soglia sotto la quale, infatti, i tagli diventano improduttivi, perché intaccano seriamente la natura del servizio pubblico offerto. In molte scuole italiane questa soglia è stata già oltrepassata.


Pino Rea Perché lei e i suoi collaboratori avete sentito la necessità di creare con «Lsdi» (Libertà di stampa, diritto all'informazione) uno spazio di riflessione e di analisi riguardo alla stampa e più in generale al mondo dell'informazione? Perché mancava uno spazio di analisi e di documentazione sulle questioni del giornalismo e perché, con la nascita delle nuove tecnologie, il giornalismo è entrato in una fase particolarmente delicata di passaggio, nella quale era importante capire, seguirne lo svolgimento, l'evoluzione. Ritiene che Internet in futuro possa diventare uno strumento più pericoloso o più funzionale per l'informazione? Internet, lo hai detto tu stesso, è uno strumento. E come tale dipende da chi lo usa; l'importante è essere convinti e impegnarsi perché sia uno strumento libero e si cerchi di non riprodurne all'interno i meccanismi di monopolio, di dominio e di mancanza di trasparenza, che dominano una parte dell'informazione contemporanea. Collaborando con giornalisti esteri, nota delle differenze tra il nostro modo di concepire l'informazione e il loro?

Sì, in Italia c'è sempre stata una forte ed eccessiva vicinanza del mondo del giornalismo col mondo della politica, mentre in altri paesi questa vicinanza è molto limitata e relativa. Inoltre nei paesi anglosassoni l'editore è un mestiere puro, cioè equivale a fare impresa. Mentre in Italia spesso chi fa editoria ha interessi predominanti in altri settori, per esempio la Fiat possiede «La Stampa», Mediobanca a Milano possiede il «Corriere della Sera». Le sovvenzioni statali all'editoria, previste dalla legge italiana, sono un sintomo di questa dipendenza tra politica e organi di stampa e d'informazione? Beh, la legge in teoria è positiva, dovrebbe dare sostegno anche a quelle voci, a quei giornali che non hanno la forza di vivere autonomamente, ma che rappresentano un elemento importante nel dibattito politico. Però non è concepibile che ci siano delle sovvenzioni anche a giornali che non sono organo di nulla, o semplicemente di due parlamentari che si mettono d'accordo. Quindi l'importante è dare più voce alla politica e meno voce ai partiti.

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Pino Rea (Vicenza, 1957) consigliere nazionale dell'Ordine dei giornalisti ed ex consigliere nazionale della FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana), coordinatore del gruppo di lavoro LSDI (Libertà di stampa/diritto all'informazione). Dal 1975 ha lavorato come cronista con numerose testate, tra cui «Il Nuovo», «La Repubblica», «Paese Sera», «Il Tirreno», «Il Giorno» e «Ansa». Attualmente è in pensione. www.lsdi.it

ne non è strettamente legato all'Università, questa esigenza viene sentita meno. Cosa ne pensa del fenomeno Wikileaks? In astratto la trasparenza è sempre un aspetto positivo. Il problema è che un tempo non c'erano le possibilità tecniche di pubblicare 250 mila documenti come è successo con Wikileaks, perché è molto più difficile far "uscire" documenti che file. Per certi versi, la quantità in certe occasioni diventa anche sostanza: se venivano fuori tre, quattro battute dell'ambasciatore americano che parlava male di Berlusconi, era una cosa, invece ne vengono fuori 50 mila e questo assume un peso diverso. Nel fondare questo gruppo di lavoro avete sentito una necessità contingente, legata all'attuale situazione dell'informazione o si tratta di qualcosa che va oltre la stretta attualità? Mi occupo di questi aspetti da molto tempo, almeno da una quindicina d'anni, quindi non c'è stata nessuna valutazione di opportunità o di momento politico, non è che abbiamo sentito l'esigenza di farlo perché l'informazione era peggiore, lo avremmo fatto anche in altre condizioni.

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Pino Rea

Quando la cosiddetta par condicio diviene un obbligo da applicare anche all'analisi di fatti che paiono lampanti, secondo lei è comunque un sintomo di democrazia o diviene un limite dell'informazione ? Anche questo dipende da come si fanno le cose, nel senso che è automatica nella cultura di un qualsiasi giornalista l'idea di sentire anche la controparte, viene considerata una prassi normale. Se in un processo sento l'accusa, devo anche sentire la difesa, per dare completezza. Quindi il problema fondamentalmente è quello della pluralità. Però il dividere 50 e 50 in maniera meccanica per pura formalità è assurdo. L'importante è che dall'insieme esca una pluralità di voci, che sono poi la pluralità effettiva della società. Nelle democrazie di oggi le regole del mestiere giornalistico vengono fatte rispettare in maniera sufficiente? E in Italia? All'estero molto dipende dalla formazione dei giornalisti. Nelle scuole di giornalismo la deontologia è sentita in modo più forte, perché fa parte della cultura generale delle scuole. Nella pratica, invece, in un paese come l'Italia, dove l'accesso alla professio-

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Intervista a cura di Matteo Previdi


Giovanni de Mauro Giovanni De Mauro (Roma, 1965), fondatore e direttore del settimanale d'informazione «Internazionale». Inizia la propria carriera giornalistica a «l'Unità», dove a soli diciott'anni lavora come grafico, per poi passare alla cronaca di Roma e infine agli esteri. Nel 1993 fonda «Internazionale», con il quale porta in Italia l'informazione e il dibattito mondiale, attraverso la pubblicazione in italiano di numerosi articoli provenienti dalla stampa straniera. Il settimanale diviene in breve tempo un riferimento all'interno del mondo dell'informazione nazionale, arrivando attualmente a superare la tiratura di 100.000 copie. «Internazionale» è anche editore, pubblicando dvd, fumetti e libri. Mentre dal 2007 organizza «Internazionale a Ferrara», un festival dove alla presentazione di libri e alla visione di documentari, si intrecciano incontri, dibattiti e laboratori con giornalisti, scrittori e fumettisti da tutto il mondo.

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Intervista a cura di Matteo Previdi, Matteo Tamborski

che di occuparci di notizie che gli altri non seguono. Non penso che questi due obiettivi siano in contraddizione o alternativi. Pensa che l'informazione italiana sia troppo ripiegata su se stessa e si concentri in modo eccessivo su quello che accade in Italia, snobbando numerose notizie che in realtà sono poi al centro del dibattito internazionale? Ormai non più di tanto; certamente l'informazione italiana è molto concentrata su se stessa, e soprattutto sulla politica interna, di cui si parla fin troppo. Però devo dire che la copertura degli esteri, almeno per quello che riguarda i grandi avvenimenti, è abbastanza buona. Da questo punto di vista non possiamo lamentarci. Quali sono gli organi di stampa italiani considerati come più autorevoli e presi in maggior considerazione all'estero? Di certo i grandi quotidiani della stampa nazionale, come del resto facciamo noi con la stampa straniera. Penso al «Corrie-

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Perché ha fondato la rivista Internazionale e con quale scopo? In realtà ci siamo ispirati a un giornale francese, che si chiama «Courrier International». Anche se ha una grafica completamente diversa dalla nostra, effettivamente segue la stessa idea, cioè quella di pubblicare articoli usciti sulla stampa straniera. La nostra rivista nasce così da un modello preesistente, che abbiamo deciso di portare in Italia. Secondo lei, Internazionale porta semplicemente un altro punto di vista sulle notizie di cui comunque si parla in Italia, o porta nel nostro paese tematiche e dibattiti che sono trascurati dal resto della stampa nazionale? Noi vorremmo fare un po' tutte e due le cose. Per esempio questa settimana ci occuperemo di Egitto, che certamente non è un tema di cui ci occupiamo solo noi, però speriamo di farlo in maniera diversa da come lo fanno gli altri. Poi cerchiamo an-

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Fotografia di Francesco Zizola/Noor Giovanni de Mauro e Roberto Saviano. Redazione Internazionale 2009


re della sera», a «Repubblica», a «La Stampa» e al «Sole 24 ore». Queste testante sono un punto di riferimento solo quando si parla di notizie riguardanti l'Italia, o anche per notizie che non ci toccano direttamente? Soprattutto per le questioni che riguardano direttamente l'Italia. Non vengono citati molto spesso quando si vuole discutere di fenomeni che non toccano da vicino il nostro Paese. Questo dipende più da una carenza di autorevolezza della nostra stampa o dallo scarso peso politico dell'Italia? Sempre se questi due fattori siano separabili. Sia la scarsa autorevolezza, sia lo scarso peso politico del paese. A cui va aggiunta la barriera linguistica: l'italiano non è molto parlato all'estero e i nostri siti non sono tradotti in inglese, a differenza di quanto succede con alcuni siti di news in Germania o in Spagna. La parzialità giornalistica è una caratteristica solamente italiana o anche delle altre democrazie moderne? No, non è un fenomeno solo italiano o un'esclusiva dell'Italia. Anche all'estero ci sono giornali faziosi, anche molto faziosi. Da questo punto di vista non abbiamo il monopolio della cattiva informazione e della cattiva televisione. Ci sono esempi di televisioni e programmi televisivi bruttissimi anche all'estero, anche peggiori dei quelli italiani, anche in paesi importanti. Una delle differenze, per rimanere alla televisione, è che accanto a pessimi programmi se ne affiancano altri molto belli, cosa che qui in Italia non avviene. Purtroppo ci dobbiamo accontentare della parte brutta della televisione; infatti sono veramente pochi i programmi televisivi veramente validi. Da questo punto di vista non abbiamo alternative. Secondo lei, in Italia, può veramente svi-

lupparsi un'informazione libera e priva di condizionamenti esterni, malgrado il costante intervento dello Stato attraverso il finanziamento degli organi di stampa? Il finanziamento non rappresenta in sé un ostacolo allo sviluppo di un'informazione libera. Rappresenta una stortura del mercato che forse può produrre altri effetti negativi. Bisogna distinguere due tipi di finanziamento. Quelli che vanno a tutti i giornali, per esempio sotto forma di sconti per le spedizioni postali o sulle tariffe telefoniche. Questi sostegni sono importanti, utili e, essendo dati a tutti indistintamente e in base ai consumi effettivi, non distorcono il mercato. Invece i finanziamenti alla stampa di partito o cooperativa sono dannosi perché distorcono il mercato, agevolando alcuni e non altri, e soprattutto perché alimentano un'editoria che prescinde completamente dalle copie vendute, quindi dai lettori. Ma nonostante tutto questo, il caso del «Fatto Quotidiano» dimostra che in Italia è possibile fare informazione anche senza ricorrere al finanziamento pubblico. Credo che un ostacolo più sostanzioso sia rappresentato dagli imprenditori. I grandi imprenditori potrebbero permettersi di finanziare la stampa veramente indipendente e di qualità, anche d'élite, ma a differenza di quello che accade negli altri paesi, non hanno ritenuto opportuno dotarsi di un grande quotidiano simile a quelli che ci sono in Francia, in Gran Bretagna e in Spagna. Quindi è possibile mantenere un giornalismo indipendente e libero, considerando anche i condizionamenti privati esercitati attraverso la pubblicità? Non credo che la pubblicità possa condizionare più di tanto la stampa, almeno più di quanto non sia già condizionata per altre ragioni, anche perché gli inserzionisti sono tanti e non è facile per un singolo e-

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L'ordine dei giornalisti è abbastanza unico nel panorama dei mezzi d'informazione occidentali, non ha eguali. Di solito c'è una forma di autocontrollo. Per esempio penso agli Stati Uniti, dove sono i giornali che decidono chi è giornalista e chi no, e quindi rispondono effettivamente dell'operato dei loro dipendenti, probabilmente più di quanto accade in Italia. Esiste ancora un'etica giornalistica? Parliamo per esempio delle ultime inchieste e notizie relative a fatti contrari al buon costume, riguardanti il Presidente del Consiglio, pensa che la stampa debba mantenere canoni linguistici appropriati o possa adeguarsi al tipo di argomenti trattati? Risulta molto difficile non adeguarsi, visto che è quello di cui si parla. Quindi è difficile occuparsene senza scendere a quei livelli. Uno dei problemi più grossi di questa vicenda è l'impatto che essa ha sulla società nel suo complesso, sul linguaggio, sui costumi, sulla percezione, sui rapporti tra sessi, proprio perché è talmente violenta l'esplosione di questo scandalo, di queste intercettazioni che è difficile difendersene; entra nel tessuto anche senza che uno se ne accorga, nella narrazione, nelle chiacchiere da bar. Non crede che il cosiddetto “quarto potere”, almeno in Italia, si stia sempre più delineando come un potere “forte con i deboli e debole con i forti”? Non più di quello che succede all'estero. E anche lì dipende da giornale a giornale, da come è schierato politicamente. Credo che in questo paese i giornali che vogliono colpire il proprio nemico politico non guardino in faccia nessuno, piccoli, grandi, medi che siano. Inoltre anche quando vogliono difenderlo o evitare di attaccarlo, non si fanno scrupoli da questo punto di vista. Quindi ne farei più una questione di oppor-

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sercitare una vera forma di condizionamento, poiché il suo peso non è determinante nell'insieme. In Italia i condizionamenti della stampa sono dovuti soprattutto a fenomeni di autocensura, più che a condizionamenti diretti. Certamente, quando nell'equilibrio tra ricavi da edicola e ricavi pubblicitari, questi ultimi superano il 50%, c'è il rischio di perdere di vista i bisogni dei lettori, perché non sono più loro che ti pagano lo stipendio. Quindi è più opportuno che i ricavi per un giornalista e per chi si occupa di informazione arrivino maggiormente dai lettori, dai telespettatori e dagli ascoltatori. Secondo lei i giovani giornalisti che stanno entrando in questi anni nel mondo dell'informazione, hanno ben chiaro il proprio ruolo o si considerano sempre più dei semplici “venditori di notizie”? Risulta molto difficile generalizzare. Perfino in Italia esistono giornalisti che non si fanno condizionare, che fanno molto bene il proprio lavoro di denuncia, o di ricerca delle notizie e altri che lo fanno male, ma questo alla fine avviene un po' in tutti i paesi. Non mi sentirei di generalizzare, né rispetto al resto del mondo né alla categoria nel suo insieme. Cambia molto da giornale a giornale, da mezzo d'informazione a mezzo d'informazione e ovviamente anche da persona a persona. Un'informazione libera coincide sempre con un'informazione senza regole? Non penso che un'informazione senza regole coincida con un'informazione libera. Le regole certamente servono, però devono essere trasparenti, condivise e rispettate da tutti. L'accordo deve esistere sia da parte di chi deve rispettarle sia da parte di chi deve farle rispettare. È vero che solo in Italia esiste l'ordine dei giornalisti? E come è possibile quindi l'autoregolazione in sua assenza?


tunità politiche che ci sono nell'attaccare o meno dei potenti. Non mi pare che vengano risparmiate critiche o attacchi agli organi di potere in questo paese. Se la sente di dare qualche consiglio ad un lettore, magari ad un giovale lettore, che cerca di districarsi tra tutte le possibili fonti d'informazione, alla ricerca di una lettura dei fatti il più possibile onesta e corretta? Certamente quella del confronto è sempre una pista interessante per formarsi una propria opinione e da questo punto di vista Internet è di grande aiuto, perché rende accessibili quasi gratuitamente molte fonti. Si possono così mettere a confronto notizie, punti di vista e i modi con cui queste notizie vengono date. Credo che questa sia la cosa migliore, la più utile per farsi un'idea propria e autonoma. Certo questo richiede uno sforzo, delle energie, però credo che sia un bene provare a farlo. Non crede che Internet costituisca, grazie alla possibilità di pubblicare notizie e opinioni da parte di chiunque, anche un effettivo pericolo per un'informazione certa? No, non penso. Internet da questo punto di vista è un grande strumento per confrontare, confrontarsi e informarsi su punti di vista diversi. Poi bisogna capire chi è che ci sta dando l'informazione, quindi saperla contestualizzare, ma sono strumenti che si acquisiscono in maniera molto semplice; è chiaro che non si può mettere sullo stesso piano l'attendibilità di un blogger sconosciuto a quella di un grande giornale americano. Però non è detto che il blogger non dia informazioni interessanti e in ogni caso non ci vuole molto per capire che l'attendibilità di un mezzo d'informazione autorevole, che ha alle spalle una grande redazione, è diversa rispetto all'attendibilità di un singolo che obiettivamente non può competere in termini di controllo, di veri-

fica delle informazioni, come con un grande mezzo. Credo che queste cose tuttavia siano molto facili da decifrare. Che valutazione si sente di dare al fenomeno Wikileaks? Mi sembra un esperimento molto interessante, che dimostra le potenzialità di Internet e del giornalismo, ancora con luci e ombre da esplorare, punti critici, questioni forse non ancora completamente svolte, trasparenza che forse potrebbe essere maggiore. Io lo vedo di buon occhio e penso sia stato molto interessante sia quello che è uscito sia le potenzialità che ha dimostrato: la possibilità di esercitare qualche forma di controllo sui cosiddetti poteri forti che ci circondano. Quale paese a suo avviso gode di una maggiore libertà d'informazione nel mondo e perché? Purtroppo è molto difficile rispondere; ci sono le statistiche, le classifiche. Direi che

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No, per fortuna no. Il lavoro che abbiamo fatto e che abbiamo sempre cercato di fare con Internazionale è stato un lavoro in totale autonomia, senza mai essere posti di fronte a scelte difficili o in cui si rischiava di mettere in gioco la propria indipendenza. Per concludere, dal direttore di una rivista che pubblica in Italia esclusivamente articoli provenienti dalla stampa estera, ci aspettavamo un giudizio più severo sulla situazione della nostra informazione. Possiamo considerare promossa la stampa italiana? La situazione della nostra stampa riflette abbastanza fedelmente la situazione generale del nostro paese.

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in generale in Europa e negli Stati Uniti certamente si gode di una libertà d'informazione che è difficile trovare negli altri paesi del mondo. Cosa pensa allora della legge sulla stampa approvata in Ungheria e che prevede un forte controllo sull'informazione da parte dello Stato? Quando parlo di Europa però intendo Germania, Francia e le democrazie in generale. Crede che su questa legge, la reazione da parte delle grandi democrazie europee sia stata sufficiente? Sì, soprattutto perché anche l'Ungheria è una democrazia e oltre un certo limite si rischia di sfociare nell'ingerenza. Nella sua carriera professionale si è mai trovato di fronte ad un bivio in cui, scegliere una direzione piuttosto che un'altra, sarebbe significato perdere o mantenere la propria libertà?


Archivio Ufficio Stampa Festival Economia - Romano Magrone

Eric Jozsef Eric Jozsef (Parigi, Francia 1966) Dopo una laurea in Scienze Politiche e in Economia, a 26 anni decide di venire a lavorare in Italia. Lavora inizialmente presso l'Accademia di Francia a Roma, con l'incarico di organizzare mostre, conferenze, concerti e rassegne di film. Parallelamente continua la sua attività di giornalista economico e da quasi vent'anni è corrispondente in Italia del quotidiano francese «Libération», collabora con il quotidiano svizzero «Le Temps» e con numerosi giornali e riviste francesi e italiane. Dal 2002 al 2004 è stato presidente dell'Associazione Stampa Estera. In Francia ha pubblicato due libri sulla situazione politica italiana degli ultimi anni, con particolare attenzione alla figura di Silvio Berlusconi. Per il canale franco-tedesco «Arte», realizza due documentari uno dedicato agli avvenimenti accaduti durante il G8 di Genova nel 2001 e uno sul tema della mafia.

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il gruppo «Mondadori» legato a Berlusconi. Riguardo all'affidabilità ci sono due elementi da considerare: il primo è di ammirazione, in particolare per i maggiori quotidiani, perché hanno delle tirature superiori rispetto ai giornali francesi. Nessuno in Francia fa una tiratura di 600 o 700 mila copie, a parte «L'Equipe». Si pensa che i giornali italiani, nonostante tutto, abbiano trovato la ricetta; ma in realtà, se andiamo in profondità, la maggior parte dei quotidiani nazionali italiani si appoggia su una base locale molto forte. Inoltre la cosa che sono riusciti a fare i giornali italiani è di mettere in prima pagina notizie di politica interna, di politica estera, di cronaca e di sport, in modo da attirare e di parlare a un vasto pubblico, cosa che non sono riusciti a fare i giornali francesi. Il secondo aspetto è che anche i giornali che dovrebbero cercare di essere imparziali, nel raccontare la realtà si sono fatti prendere dalle lotte politiche.

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Eric Jozsef

Quanto si ritiene affidabile la stampa italiana nel suo paese? Quali testate vengono prese in maggior considerazione? I giornali che vengono seguiti sono in particolare tre: il «Corriere della Sera», «La Stampa» e «Repubblica». Poi per quanto riguarda l'aspetto economico senz'altro il «Sole 24 Ore». Ovviamente negli ultimi 15 anni c'è stato uno sguardo particolare verso la stampa italiana, dovuto all'ingresso del principale editore italiano nel gioco politico. Abbiamo raccontato molto le distorsioni, sia a livello editoriale che del mercato pubblicitario, aspetto quest'ultimo che condiziona molto il mondo editoriale. L'elemento forte rimane la presenza del capo del governo nel settore editoriale, anche se testate come «Il Giornale» e il «Foglio», che sono riconducibili alla famiglia Berlusconi, non sono certamente i quotidiani principali. Questo crea comunque una tensione, e si è visto come si potesse scatenare una guerra tra il gruppo «Espresso» e

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Intervista a cura di Matteo Previdi


Secondo lei il finanziamento pubblico ai giornali, che è una peculiarità italiana, preclude un'informazione indipendente e libera? No, assolutamente no, perché ci possono essere anche dei giornali che non fanno ricorso al finanziamento pubblico. Però il finanziamento pubblico non garantisce il pluralismo. In Francia c'è un sistema di aiuti, che secondo me dovrebbe essere rinforzato. Ad essere importante non è l'aiuto diretto ai giornali, sarebbe invece importante supportare la distribuzione, permettere l'accesso ai giornali. Bisognerebbe continuare l'esperimento di distribuire i giornali in classe e permettere agli studenti di scegliere un quotidiano, poi eventualmente di cambiarlo durante il corso dell'anno; questi sono gli aiuti veramente utili. Gli aiuti a piccoli giornali, che in realtà sono legati a dei partiti e che nessuno legge, non sono un aiuto al dibattito democratico. Ancora di più oggi, che attraverso le nuove tecnologie, anche un piccolo gruppo politico che vuole esprimere le proprio idee, può raggiungere il pubblico, cosa impensabile fino a pochi anni fa. In definitiva, il finanziamento pubblico, costa molto e non rappresenta un elemento determinante per la buona espressione democratica. C'è da aggiungere che a causa del finanziamento pubblico, tutto il mercato pubblicitario italiano è falsato; ci sarebbero giornali capaci di vivere attraverso le risorse private. Tutto sommato in questo quadro molto particolare, il finanziamento pubblico è giustificabile, però non dovrebbe essere diretto ai giornali, bensì alla loro diffusione, fino a quando il mercato non funzionerà degnamente. Che forme di controllo avete nel vostro paese nei confronti dei giornalisti e degli organi di stampa? In Francia non c'è l'ordine dei giornalisti.

Può avere la tessera del giornalista chi ha almeno il 60% del proprio stipendio derivante dall'attività giornalistica. Questo è l'unico elemento di controllo per verificare se qualcuno sia veramente giornalista. Non c'è un concorso, non c'è un ordine, non ci sono sanzioni. Per le sanzioni si valuta da caso a caso; per esempio se c'è diffamazione, si va in tribunale e lì si valuta la situazione. Esiste ovviamente una responsabilità da parte dei giornalisti, che devono rispondere dei propri scritti, dei propri articoli. Senz'altro non bisogna dimenticare che non siamo in paradiso; le pressioni, in particolare del potere politico, sono sempre esistite ed esistono ancora. Però esistono anche dei contropoteri e l'importante è difenderli. Questa è la prima garanzia di pluralismo. Ad esempio, uno dei problemi dell'Italia di oggi è che un giornalista, soprattutto televisivo, che non dà soddisfazione al politico di turno, se perde il lavoro non ha mercato. L'altra questione poi riguarda il garantire l'indipendenza economica degli organi di stampa e dei giornalisti. In Francia c'è un elemento, però sicuramente accessorio e non rilevante, che è lo sconto fiscale per i giornalisti, che consiste in settemila euro sulla dichiarazione dei redditi, per garantire la loro indipendenza economica. In realtà non è questo che dà loro l'indipendenza. Poi c'è effettivamente il problema dei giornali, cioè la loro capacità di non essere controllati da amici del potere. Finché esisterà un sistema pluralista, è difficile che questo controllo possa realizzarsi, perché i lettori se ne renderebbero conto e comunque il giornalista può sempre rifiutarsi. Questa è una questione di volontà dei giornalisti e delle redazioni: rispettare le proprie prerogative. Una volta nei giornali come «Le Monde» e «Libèration» erano i dipendenti ad avere la maggioranza del capitale; oggi non è più

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di esercitare pressioni di tipo politico. Negli ultimi anni questa tentazione in Francia è ricaduta soprattutto sulla televisione più che sui giornali, anche se ci sono amici di Sarkozy che fanno parte del sistema editoriale. Ma molto spesso le redazioni hanno dato dei segnali di non lasciarsi controllare, segnali talvolta anche eccessivi. Per esempio tra gli azionisti di «Le Monde», quando pochi mesi fa ci fu la discussione su quale sarebbe stato il proprietario, decisione sulla quale dovette esprimersi la redazione, siccome uno dei membri della cordata era sospettato di essere vicino a Sarkozy, questo venne in pratica squalificato, anche se secondo me lui e la sua cordata avevano il migliore progetto editoriale. Ma i giornalisti hanno detto che non potevano votarlo, quindi hanno votato gli altri. È veramente difficile dire dove ci siano più pressioni. Bisogna ricordare che il potere cerca queste pressioni, perché pensa che così potrà vincere le elezioni,

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così: abbiamo una minoranza che può rifiutare un direttore imposto dal proprietario, ma ci rendiamo conto che è come una bomba atomica, cioè possiamo utilizzarla praticamente solo una volta. Recentemente Pierre Bergè, che è il proprietario di un gruppo di lusso, il «Saint Laurent», ha comprato con due altri azionisti il capitale di «Le Monde»; si è poi lamentato perché il giornale ha pubblicato un articolo contro Francois Mitterand in un momento in cui erano molto vicini. Quindi si è arrabbiato con la stampa dicendo che è inaccettabile che il suo giornale faccia queste cose. Per il momento i giornalisti hanno tenuto. Quindi è importante avere gli strumenti per resistere e per mettere in azione questa volontà di non accettare tali pressioni. Ritiene che in Italia la pressione esercitata sull'informazione da parte della politica e più in generale del potere, sia più forte rispetto al resto dell'Europa? Senz'altro l'Italia è un caso particolare, per due motivi: in primis perché abbiamo un capo del governo che è proprietario di un impero editoriale e televisivo. Nessuno in Europa è proprietario di tre televisioni, perché ci sono delle leggi anti-trust. Poi l'altro elemento è che in Italia si è pensato che il controllo dei media fosse un elemento di successo politico, un elemento determinante per vincere. Quindi c'è stata una lotta molto forte, in cui per un periodo l'avversario editoriale di Berlusconi è diventato in realtà uno degli attori politici. È stato il gruppo «Espresso» che ha condizionato le scelte del Partito Democratico, della sinistra e dei suoi leader. Dunque ovviamente il sistema è un po' particolare, però allo stesso tempo esiste una forma di pluralismo in Italia. Indubbiamente sia in Francia che in Italia c'è la tentazione


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nel mezzo tra le due opzioni, si tratta di una reale offerta politica, che ha risposto ad un'attesa con un'anomalia democratica. Non è un regime, però ci sono delle anomalie. Dunque i giornali seri hanno cercato di raccontare questo, sapendo che negli ultimi anni c'è stata una forma di disattenzione, non voglio dire di indifferenza, verso l'Italia. L'Italia è un po' uscita dal radar; prima perché erano sempre gli stessi personaggi, poi perché il personaggio principale prima ha fatto paura, poi non ha più fatto paura, perché ha perso credibilità e quindi si è rinunciato a capire perché gli italiani votassero per Berlusconi. Perché è quello il punto: lo hanno votato tre volte, e altre due volte no, perché? Ma l'idea generale è stata di un paese in declino, che non si sa perché vota per Berlusconi, e quindi è meglio girare lo sguardo. Questo è stato uno sbaglio. Lo abbiamo visto in Francia con Sarkozy: ci sono differenze tra i due personaggi, ma anche tanti elementi in comune, soprattutto nell'approccio politico. E questo non soltanto a destra, anche a sinistra. Dunque è stato un errore sottovalutarlo, perché l'Italia è stata un laboratorio politico, che avremmo dovuto studiare di più. È vero però che quando a gennaio ho chiamato la redazione per dire che c'era il caso di una nuova minorenne, mi hanno risposto che dovevano occuparsi dell'Egitto. Ed è altrettanto vero che la globalizzazione sta cambiando certi meccanismi; ad esempio è molto più importante avere un corrispondente in Turchia, in Cina, in India e in Brasile piuttosto che a Roma o a Madrid, dove è facile reperire le notizie. E poi l'Italia ha dato l'impressione di essere un paese fermo, senza cambiamento e questo ha portato ad avere sempre meno interesse per quello che succede.

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ma le ultime elezioni comunali in Italia hanno dimostrato che le cose non funzionano in questo modo. Comunque non si può dire che non abbiano un effetto, perché ovviamente i soldi e i media hanno un effetto, ma solo se l'offerta politica corrisponde all'aspettativa. Perché se l'offerta politica non convince, si può fare tutta la pubblicità che si vuole, ma non funziona. Le elezioni di Milano lo hanno dimostrato, perché Letizia Moratti ha speso undici milioni di euro per la campagna, Berlusconi è andato in tutte le televisioni e ha fatto campagna su «Libero» e su «Il Giornale», però ha vinto Pisapia che ha speso un milione di euro. Quindi la pubblicità è funzionale se il prodotto è buono. Quali notizie riguardanti l'Italia interessano maggiormente i vostri lettori? Ci sono due tipi di notizie, come se ci fossero due paesi diversi. Da una parte c'è l'Italia politica, dall'altra c'è tutto il resto. Senza dubbio l'Italia è un paese molto apprezzato, è il paese della cultura, della storia, di un vivere che continua ad appassionare i francesi. È il luogo delle vacanze, del turismo, dove si vengono a vedere le bellezze del patrimonio storico e culturale. Questa parte che va dallo sport, alla moda e alla gastronomia è molto seguita. Poi c'è l'aspetto politico. Se parliamo di questo, c'è una focalizzazione sul fenomeno Berlusconi e della Lega. Questo è stato l'elemento chiave negli ultimi quindici anni, anche se visto con molte deformazioni. Per esempio all'inizio si è pensato di vedere un nuovo regime, un nuovo fascismo per farla breve. Poi quando si è visto che non era un nuovo fascismo, si è pensato che fosse una barzelletta folkloristica. Le gaffe, la politica della barzelletta, delle provocazioni di Berlusconi hanno portato a sottovalutare la situazione. Io credo che la realtà si trovi


Intervista a cura di Matteo Previdi

Steve Scherer Steve Scherer (Muncie, Inidana 1970) laureato in Letteratura Inglese e all'Università di Giornalismo. È corrispondente politico per «Bloomberg News» a Roma da dieci anni. Arriva in Italia, a Bergamo, negli anni del Liceo con i progetti Intercultura. In America lavora come giornalista, vive per un anno in Romania, per trasferirsi nuovamente in Italia nel 1999. Nel 2003 è finalista del Gerald Loeb Award per il giornalismo economico.

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dell'Italia all'estero. Siamo noi giornalisti inviati in Italia che raccontiamo il paese, poi magari uno dall'estero viene ogni tanto per fare un servizio sul Papa o sullo scandalo dei preti pedofili; però non rimangono qua e non capiscono veramente la società italiana con una quadratura complessiva. Secondo lei il finanziamento pubblico ai giornali, che è una peculiarità italiana, preclude un'informazione indipendente e libera? Secondo me sì. Però allo stesso tempo devo dire che spesso tanti giornali che sopravvivono solamente grazie al finanziamento pubblico, non sono giornali che scrivono quello che vuole il governo di turno. Quindi è una domanda un po' difficile; io penso più che altro che dare soldi pubblici ai giornali non sia una scelta di mercato. Poi ci sono soldi dello Stato che vanno ai giornali non solo di partito, ma anche per esempio al «Corriere della Sera».

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Quanto si ritiene affidabile la stampa italiana nel suo paese? Quali testate vengono prese in maggior considerazione? Negli Stati Uniti non credo che conoscano veramente i giornali italiani, però per via del fatto che il Presidente del Consiglio è il più grande proprietario di media in Italia, cosa che si sa anche se forse non si immagina la vastità del fenomeno, l'affidabilità non è molto alta, perché si pensa più alla televisione e a Berlusconi. Queste sono le cose che si sanno della stampa italiana. Tra i giornalisti americani, il «Corriere della Sera», la «Stampa», «La Repubblica» e il «Sole 24 ore» sono i quattro giornali più conosciuti. Il «Corriere» viene visto un po' come il «New York Times» dell'Italia. Devo dire che il peso dell'Italia è calato molto dalla fine della guerra fredda, perché non è più un paese geostrategico e politicamente importante com'era prima. Quindi non è che ci si occupi più di tanto


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Penso che ci sia bisogno di coerenza: o si danno soldi ai giornali o non si danno. E non si può tagliare lì dove magari ci sono piccoli giornali di partito e poi non tagliare le sovvenzioni ai grandi giornali. Quindi è una questione un po' delicata. Che forme di controllo avete nel vostro paese nei confronti dei giornalisti e degli organi di stampa? Negli Stati Uniti si basa tutto sulla credibilità. Anche negli Stati Uniti sta cambiando il mondo mediatico e ci sono testate più faziose, per esempio «Fox News», che è un organo fortemente schierato a destra. Però diciamo che i controlli non ci sono. Ci sono la credibilità del giornalista, la credibilità della testata e basta. E se uno non si fida di quella testata non la compra. Infatti per i giornali più vecchi come il «New York Times» e il «Washington Post» è molto importante preservare la credibilità, perché quello che scrivono loro è poi sentito come verità. La credibilità ha un valore negli Stati Uniti; in Italia la credibilità non c'è più nell'informazione, almeno dal punto di vista di uno straniero come me. In Italia, non esiste un editore puro: c'è la Fiat, o Mediobanca, o Generali, o Intesa San Paolo, che sono i veri proprietari dei giornali e che parlano al pubblico per proteggere i loro interessi. Di nuovo c'è il «Fatto Quotidiano» che non prende fondi pubblici né privati e questa è una novità positiva. Però in Italia la credibilità in questo momento è stata persa. Ritiene che in Italia la pressione esercitata sull'informazione da parte della politica e più in generale del potere, sia più forte rispetto al resto dell'Europa? Nei paesi occidentali credo che ci sia una pressione politica molto forte; l'anno scorso al Festival dell'Economia di Trento ho

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c'era la Lega, però pochi giorni fa a Milano e a Napoli ha perso, nonostante il dominio della tv. Quindi non vince sempre e questo è positivo, perché vuol dire che la gente ogni tanto riesce a guardare e a riconoscere la realtà, le sofferenze, i problemi, senza arrendersi a quello che viene detto in televisione. Capisce cioè che c'è una differenza tra la realtà e quello che viene presentato in tv. E questo è positivo e importante. Quali notizie riguardanti l'Italia interessano maggiormente i vostri lettori? Quello che passa dell'Italia, per il lettore americano, sono gli stereotipi, i luoghi comuni. Cioè la mafia è ancora la cosa che viene letta di più. Anni fa ancora di più, perché in tv c'erano i Sopranos, c'era veramente un interesse culturale, quasi pop. Quello che passa adesso è il Presidente del Consiglio che fa un sacco di gaffe, di cavolate, che va sempre sotto processo, che è un uomo maschilista e quindi conferma quella figura stereotipata dell'italiano maschilista del Sud. Purtroppo dell'Italia contemporanea passano solo queste cose. Poi c'è un'altra Italia, simile a un mondo di fantasia, ammirata per l'arte, per il cibo, per la bellezza, cioè l'Italia storica. Invece riguardo all'Italia contemporanea ci si concentra solo sul fenomeno Berlusconi e sulla mafia, che hanno elementi folkloristici che attirano lettori. E poi c'è il fattore economico, una preoccupazione che all'estero sta crescendo, però in un segmento più ristretto di lettori. Perché il debito italiano è noto, la crisi europea non è ancora finita, specialmente la crisi del debito della Grecia, del Portogallo, della Spagna, dell'Irlanda. Quindi cresce la preoccupazione per l'economia italiana.

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partecipato ad un dibattito sulla televisione in Italia. Una cosa che è stata detta da Lucia Annunziata e poi confermata da me e anche da portavoce di ministri, cioè persone credibili, è che quando in Italia si fa un'intervista, per qualsiasi giornale ed è un intervista con un uomo importante, solitamente un politico o anche un presidente di una banca, il giornalista fa l'intervista e poi la fa rileggere e correggere all'intervistato. Questa cosa da noi sarebbe impensabile. Inoltre possono anche suggerire un titolo, correggere le domande e le risposte e va pubblicato così, ma non è un'intervista, è propaganda. In Italia ci sono anche giornalisti bravi che rispetto, che però lavorano in un sistema che non funziona. I giornalisti lasciano che gli intervistati correggano quello che dicono, questa non è una cosa vera, è propaganda. Che cosa la sorprende di più dell'informazione italiana? Quali sono a suo avviso le peculiarità più importanti dell'informazione italiana, sia in senso positivo che negativo? Sicuramente la televisione che domina ancora su tutto e Internet che prende piede molto lentamente. Pensiamo ai Tg, il Presidente del Consiglio ne possiede cinque su sette e lì controlla veramente e aumenta il suo controllo mentre aumenta la sua debolezza; lo stiamo vedendo proprio in questi giorni. La volontà di controllo della televisione aumenta, mentre la sua tenuta sul potere si abbassa. La cosa che mi sorprende di più però non è questa. A sorprendermi è che le televisioni non bastino per vincere sempre le elezioni; nel 2006 anche se per poco ha vinto Prodi anche senza le televisioni, il 1996 non si può contare perché lì non


Alessandra Cipollone - NUOVI ORIZZONTI Fiammetta Bampi e Angelo Poletti - PUNTO D’INCONTRO Nadia Brandalise - UNITÀ DI STRADA Antonio Rapanà - TAVOLO ACCOGLIENZA È SICUREZZA Fabio Tognotti - APAS -

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Tra tutti gli incontri fatti, forse sono proprio questi ad essere entrati più nel profondo. Basti pensare al silenzio che accompagnava e seguiva alcuni racconti, come se avessimo bisogno di tempo per farli sedimentare dentro di noi, prima di poterli accogliere. Guardare negli occhi queste storie non lascia indifferenti, vedere come la vita possa sfuggire di mano in un attimo o come le scelte quotidiane lascino dietro di sé dei piccoli semi destinati a germogliare o delle cicatrici che con il tempo crescono fino a non poter più essere ignorate o dimenticate, fino a fare male. Tutto questo, in qualche modo, ci chiamava in causa. Avremmo voluto saper dire qualcosa, trovare le giuste parole, ma quasi sempre ci limitavamo a guardarci negli occhi, per riprendere dopo un'impercettibile pausa con le nostre domande. Più volte siamo usciti affaticati e confusi. Così rileggere oggi queste nostre conversazioni, ci ha aiutato a capire meglio e con più distacco, quello con cui siamo entrati in contatto. Appunto, con cosa siamo entrati in contatto? Quello che abbiamo incontrato è il margine, quella linea appena tratteggiata lungo la quale molte persone, i cosiddetti invisibili, vivono e che altre persone, operatori - educatori - assistenti sociali, decido-

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no di frequentare, non per cancellarla ma per renderla più umana e anche più visibile. Da questi nostri incontri, abbiamo compreso prima di tutto che questo margine va rispettato. Nessuno di noi é qui per giudicare, né loro né noi né voi e neppure per proporre soluzioni. Vorremmo solo portare a galla queste vite e queste esperienze. Vanno cercati, crediamo, il tempo e i modi, per portare queste storie fuori dal ristretto cerchio in cui operatori e protagonisti vivono e lavorano. Perché tutti loro vanno ascoltati ma anche stimolati a parlare e a confrontarsi con i dubbi e le paure di ognuno di noi. Infine, la cosa che forse abbiamo sentito emergere in modo più forte, è l'unicità, è la particolarità di cui ognuno di loro sembra essere portatore. Potremmo obiettare, senza temere di essere smentiti, che ognuno di noi è unico, ma dopo aver avvicinato le loro vite, dobbiamo riconoscere che ognuna porta con sé una storia che non lascia indifferenti, una storia capace di insegnare qualcosa di profondo ad ognuno di noi.

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Nuovi Orizzonti Alessandra Cipollone (Vasto - Chieti, 1970) Laurea in Lingue e letterature straniere. Nel 1998 entra a far parte della Comunità di recupero «Nuovi Orizzonti», in qualità di operatrice. Dal 2002 è responsabile di Comunità in diverse sedi, dal 2007 guida la Comunità di Cei – Trento.


rappresentavano il mio contrario, chi non aveva avuto una casa, una famiglia… Poi mi sono trovata coinvolta in una situazione un po' particolare: durante il periodo universitario mi sono accorta che una mia cugina faceva uso di eroina. Quindi ho dovuto informarmi sulla questione della tossicodipendenza, per cercare di aiutare lei e i suoi genitori. In questo modo ho iniziato a sfiorare il mondo delle tossicodipendenze e delle comunità, ritrovandomi a far parte di un'associazione di volontariato all'interno di una comunità di recupero della mia zona. Questa comunità non mi piaceva molto in realtà, perché i ragazzi ospitati sembravano sempre tristi. C'erano tante persone che li volevano aiutare, però i programmi che venivano proposti mi sembravano troppo scontati. Così ad un certo punto mi sono detta che il mio posto era in prima linea. Frequentavo il servizio tossicodipendenze, avevo conosciuto una psicologa a cui avevo portato alcuni ragazzi

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Quale percorso ha vissuto e quale formazione ha ricevuto per svolgere questa attività all'interno di una comunità di recupero? Fin da quando ero piccola ho sentito il desiderio di spendere la mia vita per qualcosa d'importante, vivere per dei valori che avessero basi solide. Il valore fondamentale era rappresentato dalla mia famiglia e in futuro sarebbe stato crearne una mia. Spesso però mi dicevo che non sarei mai finita come mia madre, a chiedermi la domenica mattina cosa avrei voluto cucinare per pranzo. Io volevo avere davanti a me un mondo da affrontare, in maniera un po' inconsapevole però, perché in realtà non sapevo bene neanch'io cosa avrei voluto fare! Probabilmente avevo già una sensibilità, che mi spingeva a condividere con chi aveva meno; per cui ero sempre proiettata a voler aiutare gli altri attraverso il volontariato, il che significava andare da tutte quelle persone che

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Intervista a cura di Elena Clappa, Lira Rosa


conosciuti per strada e con lei abbiamo cominciato ad organizzare piccoli programmi con alcuni ragazzi, per vedere se poteva funzionare l'idea di non mettere i ragazzi in comunità, ma di riuscire a tirarli fuori dalle loro tossicodipendenze affiancandoli con una rete di aiuti, composta da psicologi, educatori e volontari. Però, anche in questa situazione io non ero soddisfatta, perché mi mancava sempre qualcosa. Che cosa le mancava? Nel tempo ho capito quello che mi mancava. Io ho avuto una formazione cristiana, anche se i miei genitori si sono convertiti quando avevo diciott'anni e così per tanti anni, all'interno della mia famiglia, ho vissuto dei valori molto umani. Un vero rapporto con Dio non l'avevo mai costruito. Sentivo di volerlo, ma non sapevo neanche da dove cominciare. Tramite la conversione dei miei genitori, ho cominciato a conoscere il movimento dei Focolari di Chiara Lubich e ho iniziato a sentir parlare dell'Amore di Dio. Allora ho cominciato a pensare che questi erano valori veri, che avevano un peso. Tutti i valori che avevo creduto miei, fino ad allora, potevano crollare, mentre io avevo bisogno di trovare qualcosa per cui spendere la mia vita, qualcosa di duraturo, che non sarebbe mai crollato… e avvicinandomi a Dio ho sentito quella fede, che soprattutto nei momenti più difficili, in cui ti senti solo o deluso, è l'unica cosa che rimane in piedi. Questa esperienza l'ha portata quindi ad avvicinarsi a «Nuovi Orizzonti»? Sì, è proprio così. Queste due esperienze che stavo portando avanti parallelamente, il volontariato e l'approfondire il rapporto con Dio, mi facevano capire che in tutte le comunità che conoscevo, non c'era mai posto per Dio. Non veniva mai proposto ai ragazzi l'idea che Dio poteva guarirli, men-

tre io sentivo che tanti ragazzi avevano proprio sete di quest'amore. In quel periodo mia madre mi portò un libro: «Stazione Termini», di Chiara Amirante. Mia madre sapeva di questa mia inquietudine e non capiva il perché del mio non essere felice, dato che a venticinque anni ero fidanzata, avevo già un lavoro e tante belle attività in corso. Ho iniziato a leggere questo libro e sono rimasta subito affascinata da questa ragazza, Chiara, che aveva deciso di andare per le strade di Roma per portare l'esperienza di Dio ai ragazzi che di notte si trovavano alla stazione Termini, dove tante altre persone portavano aiuti, ma dove nessuno aveva mai portato Dio. Ho deciso di scrivere a Chiara e di leggere il suo secondo libro «Nuovi Orizzonti», in cui raccontava non solo dell'esperienza della strada, ma anche della Comunità. Da qui ho iniziato a capire com'era strutturata questo tipo di Comunità. Com'è strutturata quindi quest'esperienza di recupero? È una comunità come tante, ma in più c'è un cammino spirituale, con un'idea di spiritualità molto simile a quella che vivevo io, dato che Chiara veniva dal mio stesso movimento dei Focolari. Quindi mi sembrava di aver trovato tutto quello che desideravo: la comunità e Dio. Ha quindi deciso di entrare subito in questa comunità? Chiara ed io ci siamo scambiate le nostre impressioni per lettera, finché lei mi ha chiesto di partecipare ad un ritiro, per avere la possibilità di conoscere da vicino quella realtà. Il primo giorno sono rimasta turbata perché ho incontrato ragazzi che avevano il volto segnato dalla sofferenza legata alla tossicodipendenza, però i loro occhi splendevano di una gioia che non avevo mai conosciuto. Loro mi sapevano parlare di Dio come un padre. Io non ero

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No. Sento sicuramente la fatica, perché per me è come crescere ogni volta dei bambini, non si finisce mai. Il fatto che siamo io e mio marito a gestirci è un bene, perché possiamo essere molto flessibili sugli orari. All'inizio, quando abbiamo aperto a Trento, è stata veramente dura, perché eravamo io, mio marito e quattro ragazzi, tutti da crescere, però sento che questo progetto mi ha dato una libertà vera. Come si svolge una sua giornata tipo? La mia giornata tipo non esiste. In teoria dovrei venire in ufficio, curare i rapporti che intratteniamo con l'esterno e tutte le pratiche burocratiche e poi dovrei curare i gruppi delle attività dei ragazzi. Ma alla fine questo non succede mai, perché c'è sempre qualche contrattempo. Generalmente mi alzo la mattina e non ho idea di come andrà la mia giornata. Per me la giornata tipo non esiste. Quali sono le regole che si devono seguire in comunità? A suo parere limitano o salvaguardano la libertà dei vostri assistiti? Le regole devono esserci e devono essere regole di vita, non regole perché i ragazzi sono tossici. Per cui le regole che si devono seguire sono date per insegnare a diventare uomini, regole che aiutano a tirare fuori il meglio e quindi per loro a volte non sono facili da seguire, dato che non sono abituati a vivere una vita di regole. Le persone che vengono da voi sono disponibili a farsi aiutare? Le persone che si rivolgono a noi non vengono perché vogliono farsi aiutare, non così facilmente… non c'è subito questa richiesta. Si rivolgono a noi perché li hanno mandati o perché qualcuno gli ha parlato di noi... di solito la voglia di farsi aiutare viene all'interno di un colloquio o dopo aver visitato un pochino la comunità, dopo aver visto i ragazzi, dopo aver parlato con

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capace di parlare così di Lui, per cui ho cominciato a chiedermi quale fosse stato il tipo di Dio che io avevo conosciuto per tutti quegli anni. Così mi è venuta voglia di fare un'esperienza a Nuovi Orizzonti. In quel periodo della mia vita insegnavo in una scuola, dato che le insegnanti non lavorano d'estate avevo tutto il tempo per dedicarmi a questo nuovo progetto, per poi ritornare a scuola una volta finita l'estate. Non sono più tornata indietro. Inizialmente all'interno della comunità svolgevo attività di segreteria ed insegnavo in una scuola a Roma. Però, dopo un anno, mi sono resa conto che il mio desiderio era quello di spendere la mia vita per quella comunità. Ho cominciato ad occuparmi di contabilità, a fare la segretaria e anche la volontaria. In seguito mi hanno chiesto se mi sarebbe piaciuto lavorare come operatrice. Ho fatto un corso interno e ho iniziato a fare l'operatrice. Qui ho trovato il mio posto, come quando si è sicuri di aver trovato la propria vocazione. Mi sono sentita adatta, tutto il cammino che avevo fatto nella mia vita, aveva un senso che mi aveva portato fino a qui. Per cui sono rimasta, diventando prima operatrice e poi responsabile di comunità. Come ha cambiato la sua vita questo lavoro? Questo lavoro, che per me non è un lavoro, ma piuttosto una vocazione, ha cambiato la mia vita perché ora sento di fare un'esperienza continua sia d'amore verso gli altri, sia nel sentirmi profondamente amata… per cui no, non è il lavoro che l'ha cambiata, è l'incontro con Dio che l'ha cambiata. Se prima di seguire questa strada aveva maggiori libertà, poteva gestire la sua vita in base alle sue priorità e a quelle della sua famiglia, ora deve pensare anche ad altre persone. Si sente meno libera?


loro. Altri vengono per una serie di motivazioni, le più disparate... si rivolgono a noi per tutti i motivi possibili ed inimmaginabili, anche perché tante volte non sanno neanche loro cosa facciamo, allora chiedono aiuto per la casa, per pagare l'affitto, per mangiare, per un prestito, perché hanno problemi con il figlio, con le mogli, perché vogliono fare un cammino di preghiera, per fare del volontariato… non lo so, sono tante le motivazioni per cui arrivano da noi. Secondo lei le persone che aiutate scelgono questa vita di emarginazione e sofferenza o vi sono stati costretti? Non credo sia una scelta, perché non c'è una vera consapevolezza. I ragazzi dicono spesso: “Ho iniziato per gioco, perché i miei amici fumavano e allora ho iniziato anche io”; quindi non è mai una vera scelta. Anche perché una scelta implica che tu ti metta di fronte a due alternative, spesso invece i ragazzi che arrivano in comunità, sono ragazzi che vengono da situazioni familiari difficili, dove non c'è stata la possibilità di crescere e di creare una propria identità, non ci sono state opportunità scolastiche. Per cui cosa potevano scegliere? Soprattutto non c'è stata un'esperienza d'amore profonda, cioè non hanno mai fatto un'esperienza d'amore, di accettazione di sé, di sentirsi profondamente amati, non hanno mai fatto un'esperienza di incontro con Dio. Secondo me nessuno sceglie la droga, si finisce in un disagio, in una dipendenza. Ti ci ritrovi, perché nella tua vita è mancata un'esperienza, che avrebbe potuto aiutarti a scegliere meglio. Intervista a 3 ragazzi della Comunità Ci dite i vostri nomi per favore? Daniele, operatore, 4 anni in comunità, sono di Mezzolombardo. presenti 46


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Patrick, 18 anni, vengo da Londra, sono in comunità da quattro mesi. Mattia, di Trento, sono qui da un anno e mezzo. Come sei venuto a conoscenza di Nuovi Orizzonti? D. Ne sono venuto a conoscenza perché mia mamma aveva sentito parlare di questa comunità, mentre io stavo aspettando per un'altra struttura però i tempi erano troppo lunghi, si parlava di mesi, mi serviva una soluzione immediata così mi ha proposto questa comunità e io ho scelto di venire a fare un colloquio e vedere com'era e dopo sono entrato. P. Io invece ero in un'altra comunità per minori, erano stufi di me e allora mi hanno detto che mi trovavano un'altra comunità hanno trovato questa e sono venuto a fare un colloquio (marzo 2010), però non volevo venire perché stavo per compiere 18 anni, ma poi, quattro mesi fa ho deciso, poiché sapevo che mi avrebbero accettato subito. M. Ero a casa, agli arresti domiciliari, sono arrivato qui tramite mia mamma, perché lei aveva saputo di questa comunità. È stata una tua libera scelta venire qui? D. Per me no. È stata una scelta forzata, perché se no ero per strada. M. Anche per me, perché se no sarei andato in carcere perciò, ho pensato che la comunità era meglio del carcere. P. Diciamo che all'inizio è stato per la mia famiglia, per la situazione, insomma bisognava venire e basta. Allora non so le percentuali esatte, ma è stata un po' la famiglia, un po' io e un po' la vita. Come ti sei trovato sulla via della dipendenza? D. Io mi sono ritrovato nella via della dipendenza perché anche mio fratello aveva avuto questi problemi, quindi me la sono trovata in casa. Per quanto riguarda la


prima domanda, beh non facevo niente... andavo in giro, feste e spacciavo. Con gli studi sono arrivato solo fino alla quarta, però adesso sto studiando. P. Spacciare, vivere per strada. A Londra è stato il momento peggiore, tossicodipendenza, ma soprattutto una dipendenza dalla violenza, facevo parte di Bande di strada. Io ho studiato fino alla terza Media. M. Anche io beh, lavoricchiavo, ma se no tutto il giorno spacciavo, feste, tatuaggi. Ho provato a studiare, facevo il Liceo Artistico, ma quando fai quel tipo di vita, è difficile, non ce l'ho fatta. Com'è una giornata tipo per voi in comunità? D. Beh ci si sveglia alle sette, si fa la colazione e poi c'è il momento di pulizia delle camere e delle stanze della casa. Poi ci si ferma per fare un momento di meditazione tutti insieme, leggiamo e commentiamo il Vangelo del giorno e cerchiamo di ricavare insegnamenti per la giornata. Poi alle nove iniziamo i settori, ognuno ha il proprio settore, in base al talento o a quello che preferisce fare. Poi c'è il pranzo, dopo un momento di relax, poi ci fermiamo per fare la messa. Si torna ai settori fino alle sei, c'è anche la merenda, poi ci sono le docce, alle sette il rosario, la cena e poi in base ai giorni della settimana abbiamo un appuntamento: c'è il film, la partita, l'esame di coscienza, il giovedì c'è la lode, che è aperta agli esterni, che vogliono venire a pregare con noi. P. Si vive abbastanza bene, all'inizio ho avuto un po' di difficoltà, perché era un ambiente nuovo, con nuove persone e nuovi orari; magari la vivi un po' male, però essendo qui vale la pena cercare di viverla bene. Ovviamente non è come a casa, ci sono anche momenti duri. Mi sto abituando e mi “sto buttando dentro” anche nella parte spirituale, che aiuta molto.

M. Bene si vive! Magari uno ha l'idea che quando si va in comunità non si sta bene, però qua dentro non si sta male. Si vive con persone che hanno un brutto passato, però convivere, dato che veniamo tutti da esperienze simili, non è così pesante. Ogni tanto ci sono dei confronti, perché comunque nella vita fuori si era abituati a mandare a quel paese le altre persone e piuttosto che affrontare il problema scappavi, ora devi affrontare la persona o la situazione, con scontri o confronti, ma sono momenti che fanno crescere e fanno superare insieme i problemi. Io sono contento, all'inizio è stata dura, ma una volta che entri nell'ottica che stai salvando la tua vita e che puoi salvare anche quella delle altre persone, inizi a vivere bene. Questa scelta ti ha cambiato? E in che modo? D. Mi ha cambiato profondamente, io ero entrato in comunità con altri progetti e ora lentamente li ho cambiati. Ho maturato una scelta di vita, ho deciso di sposare quello che sto facendo in comunità, perché ora inizio a capire qual è il vero impegno di questa casa, che va al di là del problema della tossicodipendenza e cerca di portare un messaggio profondo ai giovani. Ho visto che la mia vita poteva essere qualcosa di importante per gli altri, potevo dare tanto, sia per la mia esperienza ma anche per dare un senso profondo alla mia vita, per cercare di impostare il mio futuro su basi solide. P. Sì! Mi ha cambiato e mi sta ancora cambiando, è una cosa che continua ad andare, come un treno senza meta, cioè non nel senso che non si ferma da nessuna parte, è una cosa bella no? L'idea del treno che sta andando, che più va meglio è. Sta cambiando anche il mio atteggiamento, perché la violenza era una dipendenza, già venendo in Italia sono riuscito a lavo-

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sei mesi non puoi uscire e non puoi sentire i tuoi, ciò a me all'inizio sembrava una reclusione ed era un po' pesante, però passato quel periodo ti accorgi che ti ha fatto davvero bene. Se non avessi avuto quel periodo, difficilmente sarei riuscito ad uscire dalla mia dipendenza, mi serviva questo stacco. Poi con le regole riesci a darti dei limiti. Quali sono i tuoi sogni e come vedi il futuro? D. Uno dei miei sogni è aprire una comunità con la mia ragazza, futura moglie, una comunità per minori. Per il futuro, beh io ho capito che non sei mai a posto, devi sempre crescere come persona e ti sorprendi sempre di quante cose porti dentro, però ho imparato, o meglio mi sono imposto di vedere il mio futuro in maniera ottimista, anche se sono un pessimista di natura. P. Il mio primo sogno, da quando ho 12 anni è quello di avere una figlia, ho sempre voluto avere una sorella, ma visto che ora non c'è più questa possibilità vorrei avere una figlia. Sto crescendo mentalmente e sono pronto a dare tutto a questo bambino, o meglio bambina che spero arriverà. Insomma, costruirmi una famiglia. M. Il mio sogno è essere un padre perfetto per mia figlia, la perfezione non si potrà mai raggiungere, però almeno ci si prova. Poi vorrei riuscire a rendere la mia vita utile. Vorrei poter offrire a qualcuno la mia esperienza. Non ho l'idea di aprire una comunità, però voglio appunto rendermi utile per le altre persone, perché con quello che ho passato e con il percorso che sto affrontando potrei riuscirci.

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rarci su, anche con mio papà, che mi ha aiutato molto. Però qua dentro, sto tirando fuori molto del mio passato, i momenti in cui ho sofferto, pensando a quelle ferite che ho dentro, provando a guarirle. Sto proprio vedendo dei cambiamenti nel mio modo di comportarmi e di essere. Sto iniziando dalla mia famiglia e anche da me stesso, quando non sai cosa significa amare, sei perso. Ora ho una voglia incredibile di vedere mio padre e non ho mai avuto un desiderio così grande. Questa comunità mi sta insegnando cosa significa essere una famiglia. M. Beh sicuramente mi ha cambiato la vita, mi ha ridato la vita, io infatti avevo una visione della vita totalmente distorta, la comunità ha veramente aperto per me nuovi orizzonti. Ho una figlia, che adesso ha 5 anni! Con il mio passato di droga, io non ricordo i primi 2-3 anni della sua vita, da quando sono qua invece ricordo ogni momento che sto passando con lei e ho una visione migliore della vita, sento che posso essere un buon padre e posso dare qualcosa, perché ora so che valgo qualcosa. Quali sono le regole da seguire in comunità? A tuo parere limitano o salvaguardano la tua libertà? P. Guardando la situazione di adesso non mi limitano, anzi mi fanno capire quali sono i miei limiti. Mi sono reso conto che avevo la libertà di fare ciò che volevo e qui ti insegnano che la libertà non è fare ciò che vuoi, ma cosa puoi fare, sia per te che per gli altri. Perciò i limiti ci stanno, perché anche nel mondo di fuori ci sono limiti e regole, ed è giusto dare regole a noi stessi. All'inizio è difficile seguirle, comunque poi ti abitui e capisci che sono per il tuo bene. M. Le regole servono, perché noi veniamo da un passato senza regole, quindi ti aiutano. C'è anche il discorso che per i primi


Fotografia di Attilia Franchi

Punto d’Incontro Punto d'Incontro (Trento, 1979) Cooperativa Sociale al servizio delle persone emarginate, fondata da Don Dante, considerato in Trentino il “prete dei poveri”, assieme ad un gruppo di amici tra cui Piergiorgio Bortolotti, che ha lavorato in Cooperativa per 30 anni, ricoprendo anche l'incarico di Direttore. Oggi il Punto d'Incontro è impegnato in più settori. Il più noto è il servizio legato alla sala pranzo, a cui possono accedere per un pasto tutte le persone che vivono in situazione di difficoltà. Altrettanto prezioso è il sostegno che gli operatori forniscono alle diverse esigenze dei loro ospiti, con il servizio docce, guardaroba e attraverso la sala d'accoglienza dove poter socializzare e svolgere varie attività. È inoltre attivo un laboratorio di falegnameria, restauro e artistico all'interno del quale lavorano operatori e alcuni degli stessi ospiti.

Piergiorgio Bortolotti, Punto d'incontro, Il Margine 2006 Don Dante Clauser, La mia strada, Il Margine 2006 Angelo Starinieri, Angelo smarrito, Sperling & Kupfer 2010 Michelle Collard e Colette Gambiez, Un uomo chiamato Clochard, Edizioni Lavoro 1998

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Perché hai scelto di svolgere questo mestiere? Non c'è un motivo preciso per il quale ho scelto di svolgere questo lavoro. Forse perché volevo stare vicino alle persone escluse dalla società, che per varie vicende personali si trovano senza una casa, soprattutto senza legami familiari e di conseguenza sono sole. Ho conosciuto questa realtà attraverso il volontariato che ho iniziato quando avevo 18 anni e frequentavo il quinto anno dell'Istituto Magistrale. Questa scelta ha cambiato il tuo modo di vivere, di pensare? No, riguardo a molte cose la penso allo stesso modo. Ovviamente crescendo si matura e si elaborano le proprie idee, i propri pensieri, ma in generale le cose in cui credo sono le stesse. Quali studi hai dovuto compiere per svolgere questa professione?

Mi sono diplomata all'Istituto Magistrale e successivamente mi sono laureata presso la Facoltà di Sociologia qui a Trento. Comunque per svolgere questo lavoro forse la scuola più adatta sarebbe quella di Educatore Professionale. In questa professione conta molto anche l'esperienza, mettersi in gioco sul campo è fondamentale. Nel tuo lavoro hai un rapporto distaccato con gli utenti? Non si può avere un rapporto distaccato con gli utenti. In questo lavoro l'empatia è molto importante, ovviamente senza farsi coinvolgere troppo dalle situazioni altrimenti non si aiuta neanche l'altra persona. Bisogna mantenere una certa lucidità per il proprio benessere. All'inizio è più difficile, in quanto manca l'esperienza ed il coinvolgimento è maggiore. Che tipo di problemi incontri? In questi ultimi anni le problematiche sono cambiate. Quando ho iniziato a fare vo-

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Fiammetta Bampi

Punto d’Incontro

Intervista a cura di Anna Stenico, Elena Gargano, Elisa Bianchini, Francesca Aquilia, Francesco Benanti, Noa Ndimurwanko, Sonia Peratoner Stefania Santarelli


bilità di dormire a tutte le persone che si rivolgono, vi si può dormire solamente un mese all'anno. D'inverno bene o male i tre mesi più freddi sono coperti, anche se, per mancanza di posti, può capitare che qualcuno debba passare una settimana fuori. La maggioranza dei nostri ospiti quindi per la maggior parte dell'anno dorme fuori. Di che cosa hanno maggiormente bisogno le persone che vengono da voi? Il servizio principale è il pranzo, a cui si affianca il servizio docce dove le persone possono lavarsi e il servizio accoglienza dove possono stare durante il giorno. A pranzo in questo periodo abbiamo circa 150 persone, alla nostra sala d'accoglienza invece si rivolgono circa una quarantina di persone al giorno e così al nostro servizio docce. Ovviamente i bisogni di queste persone non sono solo quelli primari. Abbiamo un ufficio dove diamo delle informazioni, delle indicazioni su dove possono rivolgersi per trovare lavoro, o dove possono ottenere degli aiuti. Mettiamo in contatto le persone con i servizi sociali se decidono di iniziare un progetto. Come operatori siamo sempre presenti, facciamo ascolto, diamo

Fotografia di Elisa Bianchini

lontariato le persone ospiti del Punto erano prevalentemente persone che vivevano sulla strada, persone che erano ai margini per problematiche legate a situazioni familiari molto difficili, all'uso di alcol e di droghe. Oggi queste problematiche ovviamente ci sono ancora, ma il numero di ospiti è aumentato e la maggioranza di loro sono extracomunitari in cerca di lavoro. Per loro il problema più grave è quello di non avere un lavoro e un posto fisso dove dormire (a volte il dormitorio, a volte la strada o la fabbrica abbandonata). Il pericolo è che in alcuni casi questa precarietà rovina la loro salute e a volte li spinge ad iniziare a bere o a fare uso di sostanze stupefacenti, andando incontro a problematiche più gravi. Dove vanno a dormire principalmente le persone che vengono qui? Durante l'inverno vengono aperti dei dormitori di emergenza freddo da dicembre fino a febbraio-marzo e in questo modo, nei mesi più freddi, le persone non devono dormire per strada. Durante il resto dell'anno la struttura più importante è la Bonomelli. Il problema dei dormitori è che non riescono a coprire completamente il bisogno di accoglienza notturna poiché i posti letto sono pochi e, per dare la possi-


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Quello che facciamo, le scelte che compiamo, i comportamenti che assumiamo, sono frutto di quello che ci è stato insegnato, o di esperienze che abbiamo vissuto e che viviamo. Spesso aver vissuto esperienze negative nell'infanzia oppure vivere nella precarietà e ai margini può portare più facilmente ad infrangere alcune regole. Tra i motivi che portano queste persone a vivere sulla strada, quanto è importante la ricerca della libertà? Ci sono dei giovani che magari vanno a vivere per strada, in gruppo, perché in qualche modo non vogliono saperne delle costrizioni sociali e vivono per esempio suonando per strada. Se parli con queste persone magari ti dicono che vogliono cercare la libertà, ma spesso alle spalle questi ragazzi hanno esperienze di vita difficili. Sulla strada la vita è durissima e questi ragazzi che libertà possono trovare? Tu li consideri liberi? No, io non li considero liberi. La società considera chi vive per strada come pericoloso. Cosa ne pensi? No, ovviamente non la condivido, ma penso che neanche tutta la società creda a questo; sono spesso i media e alcune parti politiche che fanno passare questa immagine. Io penso che manchi la conoscenza, il fatto di mettersi nei panni degli altri. Secondo me il problema principale sta nel fatto che spesso molte persone, anche le più aperte e le più comprensive, pensano che chi vive ai margini della società, chi vive sulla strada, in qualche modo abbia una responsabilità personale; senza pensare che, se una persona è arrivata fino a quel punto, è per una serie di problemi, non perché lo ha scelto lui o perché semplicemente è cattivo. Le persone che fanno una vita regolare possono pensare: “Io faccio fatica ogni giorno a lavorare, a tene-

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un sostegno psicologico e cerchiamo di accompagnare le persone nel loro percorso. Quali sono le regole del Punto d'Incontro? Hanno solo uno scopo organizzativo o anche rieducativo? Ci sono delle regole di comportamento come ad esempio la regola che all'interno del Punto d'Incontro non si possono portare alcol e droghe e che non si può usare violenza. Se qualcuno non le rispetta, lo allontaniamo, anche per settimane. Questo perché deve arrivare il messaggio che il rispetto dell'altra persona è fondamentale. Poi ci sono regole legate all'organizzazione dei servizi. Ad esempio sull'orario del pranzo siamo rigidi altrimenti la cucina non riesce ad organizzarsi e noi non riusciamo a gestire gli altri servizi che abbiamo. Queste regole non le definirei educative, sono regole minime per la convivenza in un gruppo. L'educazione cerchiamo di farla attraverso l'ascolto e parlando con le persone. Secondo te queste persone scelgono questa vita o vi sono in qualche modo costrette? Sono costrette, senza dubbio. Credo che una persona può essere stufa e provata da esperienze negative che gli sono successe nella vita e quindi decide, non sceglie, di starsene in strada. Non la chiamerei scelta, perché penso che per essere tale una scelta debba essere consapevole e fatta serenamente. Se una persona sta male e finisce sulla strada, è perché gli manca qualcosa, perché gli sono venute meno delle cose essenziali soprattutto affettive, che l'hanno spinta in quella situazione. Alle spalle di queste persone oltre alle diverse storie personali, c'è anche una difficoltà nel rispettare le regole scritte e non scritte alla base della nostra società?


re in piedi la mia famiglia”, ed è vero, specialmente al giorno d'oggi, e quando vedono chi vive per strada, lo considerano in qualche modo colpevole della sua situazione e non vittima. Inoltre, siccome vive sulla strada, lo giudicano pericoloso. Non è assolutamente così. In alcuni casi alcune persone trovandosi in difficoltà delinquono ma non si può assolutamente generalizzare. Le strutture come il Punto d'Incontro sentono il compito di portare avanti una sensibilizzazione diversa su queste tematiche? Allo stesso tempo non c'è il rischio che la politica vi scarichi addosso questo compito, dimenticando quello che dovrebbero fare in prima persona? Noi cerchiamo di fare sensibilizzazione, andando per esempio nelle scuole e questo della sensibilizzazione sicuramente è uno dei nostri obiettivi principali a cui teniamo molto. Sperando però che le persone che ci ascoltano non ci liquidino con un “Va beh, interessante ma loro parlano così perché sono del Punto d'Incontro”. Sicuramente servirebbero anche delle voci diverse, soprattutto della politica, ma non solo sotto forma di slogan o di dichiarazioni generiche che non servono ad affrontare il disagio che queste persone quotidianamente vivono. La stessa informazione si muove per slogan, non riesce a far capire i problemi a fondo e così le persone rimangono con i propri pregiudizi anche perché non conoscono veramente i problemi e i disagi di chi si trova escluso dalla società.

> L’intervista seguente è a cura di Alice Perazzoli, Anna Stenico, Sonia Peratoner, Stefania Santarelli Wilma Pilati, Laura Gretter

Angelo Poletti Come si è avvicinato a questa attività? Per motivi religiosi, etici... Ho frequentato il Liceo Da Vinci e quando ho dovuto decidere cosa fare dopo la maturità, ho capito che mi sarebbe piaciuto frequentare la scuola di servizio sociale, che poi è diventata un corso universitario. Mi sono accostato anche per motivi religiosi, per i miei valori e perché nel complesso mi sentivo portato a questa attività. Durante il liceo avevo fatto volontariato nella parrocchia e in campeggi per minori, inoltre durante il corso di servizio sociale avevo partecipato, assieme ad altri studenti, alla fondazione della cooperativa sociale «La Bussola». Abbiamo iniziato senza copertura economica garantita, vedendo se poteva diventare un'iniziativa stabile e dopo un anno circa siamo entrati in convenzione con la Provincia. Ho lavorato lì per quattordici anni e poi nel '98 ho deciso di cambiare lavoro e sono arrivato al Punto d'Incontro. Venendo al Punto d'Incontro quali erano le sue aspettative, anche in relazione ai luoghi comuni sulle persone che lo frequentano? Quando ho cominciato a lavorare qui, il centro era aperto solo per i cittadini italiani, perché si voleva che nascessero nuove strutture per gli stranieri, che per lo più cercavano supporto per periodi limitati, durante i quali erano senza lavoro. Gli stereotipi in quella fase riguardavano soprattutto i clochard, visti da un lato come persone da tenere distanti, perché violente e pericolose, dall'altra avvolte dal fascino della loro immagine di persone che vogliono vivere fuori dagli schemi e liberi dalle convenzioni sociali. Lavorando qui, ha trovato riscontro a questi stereotipi?

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sta cercando lavoro, o chi ha un lavoro interinale e non continuativo. Sono queste le persone numericamente più presenti. I nostri servizi sono gratuiti, perché vogliamo occuparci di chi non ha niente, ma a noi si rivolge anche chi in realtà avrebbe qualcosa, ma troppo poco per permettersi quello che è disponibile qui a Trento. Pensate solo al trovare un posto per dormire, il minimo è l'ostello a 17€, relativamente poco per una notte, ma può diventare molto per un lasso di tempo prolungato. La risposta più valida per questo tipo di persone non saremmo noi, per questo sarebbe importante che nascesse una struttura capace di intervenire in modo più mirato su questo tipo di esigenze e difficoltà. Che tipo di giovani sono quelli che si rivolgono a voi? Alle loro spalle non c'è una famiglia? Per i giovani, diciamo quelli da poco maggiorenni, il problema spesso è proprio la famiglia, che non è più una risorsa, ma un problema. In qualche caso si tratta di un problema temporaneo e poi il ragazzo torna in famiglia, ma spesso la frattura è forte e risulta molto difficile riuscire a ricomporre i rapporti. Questo sia per i ragazzi italiani che per quelli stranieri. Ultimamente alcuni ragazzi stranieri, che magari hanno frequentato le scuole in Italia, vivono un forte disagio perché si trovano in conflitto tra due modelli di vita: quello più tradizionale della famiglia e il nostro. Molte volte ai loro occhi la soluzione è quella di andarsene, scappare via. Noi all'inizio cerchiamo sempre di valutare la possibilità di riprendere i contatti con la famiglia, ma se la situazione non si smuove all'inizio, a distanza di tempo, è molto difficile che si riprendano i rapporti. Più che ricerca di libertà è una fuga dalle responsabilità? A me sembra una fuga dai problemi, con-

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Per chi guarda solo ad una parte della realtà, determinate convinzioni possono essere giustificate, ma conoscendo a fondo la situazione e vedendo le difficoltà che queste persone vivono, ci si fa tutto un altro tipo di idea. In questo senso quando sono arrivato, avevo anch'io dei preconcetti, ma anche voglia di capire. Il primo punto riguarda la libertà. Noi operatori pensiamo che in realtà il loro vivere sulla strada sia la risposta ad una serie di problemi, piuttosto che una scelta effettuata in un panorama di libertà. È come se fossero delle palline in un imbuto: rotolando, è inevitabile che stringano mano a mano il loro giro e finiscano verso il basso. Questo è determinato dal fatto che spesso prendono la decisione più facile in un determinato momento, in fuga dalle responsabilità del lavoro e dei rapporti, forse anche per mancanza di autostima. Ho ritrovato qui un ragazzo che avevo già conosciuto quando lavoravo alla Bussola. Durante le scuole medie, era tra i più insicuri della classe, veniva preso in giro etc. Qui inizialmente sembrava avere grande sicurezza ed essere felice e libero, ma questo è durato poco. Fino a che sono emersi una serie di problemi con l'alcol e sostanze stupefacenti. Dietro il fascino del clochard, si nascondono dei problemi seri. Chi si rivolge a voi sono in maggioranza persone che hanno scelto di vivere così o che sono state costrette? Se uno si rivolge a noi, già significa che è costretto. Noi abbiamo notato che se le persone stanno meglio, qui non vengono. Noi vorremmo occuparci delle persone che non hanno dimora, che non hanno legami, ma i nostri servizi sono richiesti soprattutto da persone che hanno problemi legati all'inserimento lavorativo: lo straniero un po' avanti con gli anni che non riesce a trovare lavoro, chi è appena arrivato e


notata da una certa rabbia. Chi vive con rabbia non è una persona che si sente libera. Alla fine la cosa migliore sembra la fuga più che prendersi carico delle difficoltà. La fuga può essere una tentazione un po' per tutti, non sempre si affrontano le difficoltà con coraggio, però poi noi spesso la forza la troviamo. Le persone che vengono qua, non riescono a trovare questa forza per affrontare le difficoltà. Nei confronti di questi giovani, la scuola ha delle colpe? Moltissimi non parlano mai di scuola, come se non ci fosse stata. È molto raro che siano riusciti a finire una scuola conseguendo un titolo. La scuola non viene ritenuta come un elemento importante della loro vita. Su questo piano la scuola non è riuscita a coinvolgere, ad aiutare e diviene un'esperienza lontana dalla loro vita, un qualcosa che non sentono come “loro”. Lei conosce la vita di tutti quelli che vengono qui? Raccontano le loro storie? Le persone che vengono qui sono tante, i rapporti riusciamo a stringerli con chi è più socievole o più in difficoltà. Moltissimi di quelli che passano da noi rimangono nell'anonimato. Siamo anche una struttura che offre dei servizi e le persone ci considerano come il posto dove si trovano risposte a problemi concreti, quindi poco cambia se ci sia un operatore oppure un altro... con qualcuno nasce un rapporto significativo, ma succede con il 10% dei nostri ospiti. Ci sono persone che si spostano da una città ad un'altra, stanno a Trento e poi quando finiscono il mese di accoglienza nel dormitorio vanno via, così sono abituati a vedere operatori con cui però non instaurano rapporti molto significati. Poi c'è anche chi ha piacere ad essere riconosciuto. Ma quando cerchi di approfondire il rapporto, puoi trovare una sorta di muro di gomma; tu magari chiedi delle cose, ma

non hai nessuna risposta, lasci passare del tempo e provi nuovamente a chiedere, ma capisci che c'è una chiusura. Riuscire a parlare delle propria vita è già una richiesta d'aiuto. Secondo lei è possibile capire la realtà di queste persone non vivendoci “dentro”? Ad esempio un operatore, una persona che lavora a contatto con loro, può veramente capire come si sentono? Gli stessi operatori sociali hanno difficoltà a riuscire a capire appieno ciò che spinge queste persone ad arrivare a certi estremi. Una persona che questa sera torna a casa, mentre fuori fanno 6-7 gradi sotto zero, come può capire l'esperienza di chi invece alle 19.00 è davanti alla Bonomelli a cercare posto, con il fatto che alcune sere ci sono state anche dieci persone che non sono potute essere accolte e quindi vanno a dormire di nascosto nei sottoscala, oppure nelle fabbriche abbandonate. Queste esperienze di vita si possono solo cercare di immaginare, ma se non le si ha mai provate, sono molto difficili da comprendere. Per spiegare ciò che voglio dire e ciò che gli operatori devono “affrontare” ogni giorno riporto l'esempio di un ragazzo che era qui da noi un po' di tempo fa. Questo ragazzo, proveniente dalla Tunisia e clandestino, aveva un comportamento un po' “pesante”, nel senso che cercava di essere simpatico con tutti però, alla fine, andava al di là di tutti i limiti. Col tempo siamo anche riusciti a creare un rapporto con lui. Grazie a questo cercavamo di fargli capire che per lui, essendo già stato in carcere, era conveniente tornare in patria, ma lui non ne aveva nessuna intenzione. Dopo un po' in Tunisia sono scoppiati i primi disordini e, fra l'altro, lui proviene proprio dalla città dove c'è stato il maggior numero di morti. Così il ragazzo è rimasto a Trento ed è tornato in carcere. Finito il suo perio-

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per fare qualcosa che ho scelto e che sento più adatta a me. Lavorando sempre a contatto con questo tipo di realtà, è possibile che a volte vengano dubbi personali? Esiste il fascino del clochard? Forse oggi abbiamo parlato fin troppo di fascino, però in questa vita ci sono degli aspetti pesanti, di cui forse non abbiamo parlato abbastanza. I nostri ambienti sono fatti anche di molta conflittualità. Le persone portano qui un vissuto di disagio, di rabbia, di violenza e questo è uno dei grossi rischi delle strutture come la nostra. Mentre in altri lavori uno cade da un ponteggio, o si trancia una mano, noi possiamo essere coinvolti in situazioni di violenza e di difficoltà, questi sono i nostri “incidenti sul lavoro”. L'importante è decidere come gestire le difficoltà, i conflitti che ci possono essere e come stemperare le situazioni, perché, in casi estremi, arriviamo anche noi a dover chiamare la polizia e, anche se non succede da tempo, è una delle possibili risposte che siamo tenuti a dare. Sono mai avvenuti fatti gravi, anche a scapito di qualche educatore? No, cose gravi non sono mai successe ed è da tanto che non dobbiamo ricorrere alla polizia. L'ultimo episodio di una certa se-

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Fotografia di Attilia Franchi

do di reclusione, verrà probabilmente espulso ma, non essendoci mezzi per tornare a casa, rimarrà qui da clandestino. Questo per dire che noi lo spingevamo a partire per non vederlo finire in prigione, ma forse aveva ragione lui a non voler tornare in Tunisia. Noi vediamo la situazione da un determinato punto di vista e di conseguenza facciamo delle scelte, loro invece vedono un altro aspetto e prendono delle decisioni diverse. In che modo collega la sua attività al concetto di libertà? Uno dei miei punti fermi è che lavorare si deve, per cui da questo punto di vista non si ha nessuna libertà. Uno può usare la propria libertà di scelta nel cercare di crearsi i mezzi e le possibilità per scegliere quel tipo di lavoro che più gli interessa e più lo appaga. Per cui, in questo senso, credo che si debbano conciliare libertà e responsabilità, dovere e necessità. Bisogna però costruirsi le opportunità di studio, che dopo ti permettono di avere i mezzi per cercare di ottenere quel lavoro che piace. La mattina, quando suona la sveglia, anch'io non mi sento molto libero. Ma fra tutte le cose che “devo” ho scelto quella che più mi piace, quella in cui mi sembra di essere più libero di alzarmi la mattina


rietà è di 3-4 anni fa: una persona già molto problematica, aveva deciso di entrare al pranzo senza rispettare né fila né numeri, per cui si era catapultato dentro. Noi abbiamo sospeso momentaneamente il servizio, perché una persona così avrebbe portato ad ulteriori atti di violenza e perché, se lasci passare una situazione simile, perdi definitivamente il controllo del servizio. Allora questa persona aveva iniziato a buttare per terra le oliere, l'acqua, e noi abbiamo chiamato la polizia, poi, poco prima che arrivasse la polizia, se ne è andato e da quel momento abbiamo deciso che non lo avremmo più accolto al Punto d'Incontro. Tutta la storia ha anche un risvolto tragi-comico, perché un anno dopo si presenta una persona, che gli assomiglia e io, istintivamente, l'ho cacciato in malo modo; ero stato così deciso che si era subito allontanato senza dire nulla. Subito dopo un mio collega riesce a farmi capire che in realtà si trattava di un altra persona. Ormai era troppo tardi, ma ci sono rimasto veramente male, fino a che, qualche giorno dopo, questo “povero sosia” ritorna, e ci rimango male una seconda volta: mi avvicino e mi scuso, prendendomi tutta la colpa e lui in modo molto passivo mi risponde: “Ah sì sì, va bene!”. Sono rimasto colpito dalla sua gentilezza, perché aveva tutti i motivi per essere arrabbiato e offeso. Al di là di queste situazioni, quali sono le difficoltà quotidiane? La difficoltà sta nel dover ricostruire dei rapporti, partendo da zero e partendo da un atteggiamento di aggressione. Noi siamo una struttura dove ad esempio uno che esce dal carcere, arriva ancora sotto effetto di psicofarmaci. Quindi può capitare che ti si presenti una persona che tira fuori tutta la rabbia che ha, per quanto giusta o sbagliata che sia. E questa è una

delle cose che creano molto disagio, in quanto è difficile rapportarsi con gli ospiti e capire come comportarsi nei loro confronti. Un altro problema è accettare quelle situazioni in cui non si riesce ad incidere, quando le persone vanno gradualmente verso il negativo e non riesci ad aiutarle, a fare quello che sarebbe giusto... come nei confronti di chi beve e si rovina gradualmente. Ricordo due persone, un italiano che era sempre ubriaco, non andava nei dormitori e in una notte d'inverno del 2009 è morto. A causa del freddo? Sì, in una situazione di disagio fisico generale, solitamente il freddo è il colpo finale. L'altro era un ragazzo anche abbastanza giovane, rumeno, che abbiamo seguito per molto tempo e che a 31 anni è morto per cirrosi epatica. Ci sono anche queste situazioni. Ti domandi cosa puoi fare e arriva lo sconforto e rischi di pensare che con alcune persone non valga la pena continuare a provare, a combattere. Tra gli ospiti capita di vedere anche momenti di solidarietà? Sì, a volte c'è una forte solidarietà tra gli ospiti e c'è anche chi all'inizio del periodo di difficoltà si divide per gruppi razziali, per poi costruire legami con persone diverse. Vivere una serie di difficoltà porta con il tempo a sostenersi a vicenda. Si vive anche un rapporto conflittuale, se ottengo una cosa che l'altro non ottiene, è meglio per me. È difficile lasciare al compagno ciò che ho ottenuto: quando la posta in gioco è bassa, c'è solidarietà, quando si alza, ognuno pensa a se stesso. Le sigarette le divido, ma se uno di noi due deve dormire fuori al freddo, è difficile lasciar passare davanti l'altro. Tra le persone che passano dal Punto d'Incontro, pur così diverse, riuscite in qualche modo ad individuare un bisogno più

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Parlano spesso del fatto che le persone non li capiscono, non capiscono il disagio che loro vivono e come si sentano giudicati. In altri momenti ci sarebbe anche la voglia di passare il più possibile inosservati, il fatto di non trovare subito posto in sala da pranzo e dover aspettare fuori dal Punto d'Incontro, è una di quelle piccole cose che, se potessero, eviterebbero. Passano gli autobus, le macchine e le persone ti guardano, ti squadrano, dà fastidio anche a noi operatori, quando siamo fuori con loro, ma per loro è molto più pesante. Quando conosce qualcuno e le chiede il lavoro che fa, come reagiscono quando dice: “Mi occupo di persone che vivono in strada”? Si spaventano oppure pensano subito che lei è altruista e così via? Forse qui a Trento ci salva molto la nomea di Don Dante, perché se rispondi “Lavoro al Punto d'Incontro” o sanno già che è una struttura creata da Don Dante, oppure ti chiedono “Che cosa è?” “È la cooperativa creata da Don Dante”, questo dà un senso quasi di “eroico”. Probabilmente se invece fosse una cooperativa più anonima, ci sarebbero più difficoltà.

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Fotografia di Fiorella Turri

profondo che accomuna un maggior numero di persone? Qui posso dire due cose: una in positivo e un'altra in negativo. La prima cosa è la voglia di essere rispettati, spesso hanno la percezione che a loro venga negato quel rispetto che alle altre persone viene riconosciuto. Questo vale per gli italiani come per gli stranieri. La seconda è invece la difficoltà a sopportare le frustrazioni che la vita comporta. Uno dei reati più diffusi è l'offesa a pubblico ufficiale. Soprattutto in situazioni in cui non ci sarebbe motivo per rispondere male, loro lo fanno ugualmente, a volte è proprio come “andare al massacro”. Magari si trovano in situazioni di difficoltà, ma finiscono per andare al di là di quello che è la situazione oggettiva, avendo reazioni eccessive, quasi masochiste, senza pensare neppure a se stessi e a come uscirne al meglio. Questo non sentirsi rispettati è legato anche a situazioni come quelle per esempio di Piazza Dante? Dove queste persone non vengono considerate dai passanti oppure sono guardate male? È un qualcosa che a loro dà veramente fastidio? Sì, molto.


1. Ospite Da dove vieni? Vengo dalla Guinea. Da quanto sei in Italia? Due anni e tre mesi. Cosa ti aspettavi venendo qui? Cosa cercavi? Lavoro. Con che mezzi sei arrivato qui in Italia? Sono arrivato in Libia con la macchina e il pullman, poi fino a Lampedusa con le barche dei clandestini e poi ho raggiunto Catania e da lì Milano. Alla fine sono arrivato a Trento. È stato un viaggio pericoloso, sulle frontiere uomini di Al Qaeda ci hanno fatto del male. Eravate in tanti? Sì, molti. Ce l'hanno fatta tutti ad arrivare? Tante persone non ce l'hanno fatta, perché lungo la strada non c'era da mangiare e non c'era acqua. Un ragazzo che ho conosciuto in viaggio è morto in Algeria, perché non aveva più nulla. È morto di fame? Sì. Non vi aiutava nessuno? No. Ma come mai hai scelto proprio Trento? Me ne hanno parlato bene. Quando sono arrivato mi sono fermato una notte all'ostello e poi ho chiesto ad altri che mi hanno parlato della Bonomelli e del Punto d'Incontro. Qui mi trovo bene. Quando ho bisogno di qualcosa vengo aiutato da Angelo e dagli altri. Hai trovato amici qui? Sì, quando lavoravo ad Aldeno ho conosciuto un ragazzo di Ravina. Lui mi ha sempre salutato e ogni tanto ci chiamiamo e facciamo un giro. Lui mi ha spiegato un po' di cose. Non è facile la vita che fai adesso, vero?

No, dovrei imparare la lingua per sapermi spiegare. Non trovo lavoro, perché non capisco molto bene l'italiano. Adesso torneresti nel tuo Paese? Qui è meglio, però non so se in futuro tornerò. Hai lasciato una famiglia in Guinea? Sì, c'è mia mamma, mio papà e mia sorella, più piccola di me, con cui ho contatti grazie ad un uomo di Catania che li chiama al telefono. La tua famiglia condivideva la tua scelta di partire? No. Perché è difficile tornare. Però dovevo partire perché ho avuto problemi. Un giorno c'era una manifestazione e degli uomini sono venuti a chiedermi di chiudere il distributore di benzina di mio padre, per non vendere il carburante a quelli dei trasporti, ma io gli ho detto che non avrei chiuso e quindi loro hanno incendiato tutto. Io avevo una pistola e l'ho presa. Hai sparato a quelle persone? Sì, perché avevo dentro tanto odio, hanno incendiato tutto. Ma hanno bruciato anche persone? Sì, una mia collega era dentro. Poi alla fine sono morti tutti quelli che erano lì, bruciati. Allora sono scappato perché la polizia mi cercava. Sono passato dal Mali, dall'Algeria e poi dalla Libia poi sono stato un po' in Marocco, quindici giorni circa. Hai pagato per passare le frontiere? Sì, mi ero portato dei soldi quando sono scappato e dovevo pagare alla frontiera tra il Mali e l'Algeria. Se non hai i soldi ti sparano perché sono terroristi di Al Qaeda e comunque te li prendono tutti. A me hanno strappato tutti i vestiti, perché li avevo nascosti nei pantaloni. Ci hanno anche bucato le gomme della macchina e hanno ucciso un mio amico. Poi ho camminato per 190 km assieme ad altre persone, alcune delle quali sono morte.

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sto. Sono stato in altre città, a Ragusa, a Catania, dove ho un avvocato. E ti sei trovato bene lì? Non molto, spesso c'erano problemi. Qui invece sarà da un mese che è tutto tranquillo. A parte qualche volta che alcuni avevano bevuto. Che posti della città frequenti? Vari, vado in biblioteca e giro molto. Sono stato ad Arco e a Rovereto a cercare lavoro, oppure in qualche posto per cercare una scuola. In biblioteca ho preso qualche libro francese tradotto in italiano e ho provato a imparare. Un uomo del Marocco che è qui da quindici anni e sa bene la lingua, mi ha spiegato qualcosa. Lui ha lavorato otto anni, ma poi ha cominciato a bere e non lavorava bene, così il padrone l'ha licenziato. Hai studiato in Guinea? Sì, sette anni in una scuola francese. Ho il diploma di falegname che mio papà mi manderà tra un po'. A Catania ho lavorato un po' come falegname. Qui usano tutti i macchinari, in Guinea no. È una fortuna che io abbia studiato anche per quello. Adesso dovrei imparare la lingua bene, a qualche corso, ma non ce ne sono. Di che religione sei? Musulmano. Tu cristiano, no? E i terroristi alla frontiera? Musulmani, cristiani e altro. A loro interessano solo i soldi.

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> Le interviste seguenti sono a cura di Elisa Bianchini, Elena Gargano, Tiziana Marino, Laura Gretter

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Intervista a cura di Alice Perazzoli, Laura Gretter, Wilma Pilati

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Quando sei arrivato a Lampedusa, chi ti ha accolto? C'erano la polizia e la Croce Rossa, ci hanno raggiunti sulla barca con un elicottero. Sulla barca eravamo più di cento, ci siamo rimasti un giorno e due notti. Quindi tu sei scappato per conservare la tua libertà e ora che sei qui nonostante le difficoltà, ti senti libero? Sì, sono felice, sia qui sia a Lampedusa, ho trovato gente che mi ha aiutato. Tra voi ragazzi del Punto d'Incontro vi aiutate? Sì, ci aiutiamo tra di noi. Ci sono ragazzi della Costa d'Avorio, Guinea, con cui parlo francese, all'inizio parlavamo poco, ma adesso ho conosciuto tante persone. Anche Angelo qui al Punto d'Incontro mi ha aiutato molto per trovare lavoro, e anche quando ero ammalato, mi ha mandato dal medico e mi ha fatto comprare le medicine. Hai un sogno? Sì, trovare lavoro e guadagnare qualcosa. E cosa vuoi fare con i soldi che guadagnerai? Vorrei mandarli alla mia famiglia, perché dopo l'incendio mio papà ha perso tutto. In più mia sorella, che ha 14 anni, non mangia molto bene. Purtroppo non la conosco molto, perché quando ero in Guinea, lei viveva dalla nonna. Mio papà mi ha mandato una foto. Vorrei aiutarli. Ma tu, quanti anni hai? 20. Quanti anni avevi quando sei partito? 17. Oltre al Punto d'Incontro, le persone come ti trattano? Sono gentili, anche la polizia. L'altro giorno eravamo in una casa abbandonata perché non potevamo dormire alla Bonomelli. Ci hanno solamente chiesto i documenti e poi ci hanno lasciati tranquilli. Anche l'assistente sociale è gentile. Qui è un buon po-


2. Ospite Da quale paese viene? Già qui è una storia lunga, perché io sono nato in una zona di alta montagna. Sono stato adottato da una famiglia italiana quando avevo quattro anni e mezzo e ho vissuto con loro in Piemonte, ora vivo a Trento e così sono sempre in montagna. Com'è arrivato a Trento? Ho vissuto vicino a Biella, in un piccolo paesino di 900 persone, in una famiglia benestante. Ho studiato fino alla quarta liceo scientifico sperimentale e poi ho voluto smettere di studiare e ho cominciato un po' a viaggiare. Sono andato sul lago Maggiore, a Savona, in Liguria, in Lombardia, Valle d'Aosta, ho fatto un anno da giostraio, una settimana qui e un mese lì. Poi sono sceso in Sicilia, dove mi sono sposato con una ragazza e poi siamo saliti in Emilia Romagna e poi in Trentino. Era il 2001 e da quel momento non sono più andato via. Ho girato l'Italia dal nord al sud, mi mancano solo due regioni, la Sardegna e il Friuli Venezia Giulia. È ancora sposato? Adesso sono quasi divorziato, perché mi sono separato nel 2006. Mi sono sposato nel 2002, ma stavamo assieme già da cinque anni. Quando aveva la nostra età aveva qualche sogno? A 13 anni quando ho finito le medie, ho detto subito: “Non voglio andare a scuola, voglio andare a lavorare!” Il mondo del lavoro mi affascinava, io vedevo un mio zio che veniva tutte le sere a trovarci ed era sempre stanco morto, però era anche contento. A me piaceva l'idea di guadagnarmi qualcosa ed essere contento. I miei genitori però non mi hanno lasciato, io ero il quarto figlio e per loro era importante darmi tutto quello che avevano dato

ai loro primi tre figli. Ho sempre detto che ha me non interessava quello che volevano darmi e che volevo avere la capacità di capire cosa vuol dire guadagnarsi i soldi da solo. Alle medie avevo già 50.000 lire ogni due giorni, quando sono arrivato alle superiori erano le 50.000 lire ogni giorno e all'epoca erano soldi. L'estate, finite le medie, ho iniziato a lavorare, volevo fare il muratore, ma per i miei genitori era un lavoro troppo pesante e così mi hanno trovato un posto in una radio locale. Dopo un po' mi avevano dato una mezz'oretta e così facevo proprio il dj, mettevo dischi, era bellissimo. Passata l'estate non sapevo bene cosa fare e così ho ripreso ad andare a scuola. Ho girato tutte le scuole, ma in tutta franchezza non ce n'era una che mi piacesse. Allora sono andato nella scuola, dove erano già state le mie due sorelle, una scuola magistrale dove avevano creato un nuovo indirizzo: il Liceo Scientifico Sperimentale a indirizzo Biologico Sanitario con diramazione Ecologica. Il nome era lunghissimo ed era già tutto un programma, ma era la prima scuola magistrale aperta ai ragazzi, il che voleva dire che era pieno di ragazze e quello era un buon motivo per iniziare la scuola. Sono sempre andato bene, avevo la capacità di riuscire anche studiando poco. E poi ha lasciato la scuola? Poi ho lasciato. Ho smesso a 16 anni perché mi sono accorto che non era la mia vita quella di studiare e di stare sempre sui libri. Volevo andare via, però i miei non mi lasciavano, quindi ho preso la via più esplicita per farglielo capire, mi sono preso il mio zaino e sono andato via di casa per una settimana sulle montagne del paese. Loro non sapevano dov'ero, dopo una settimana sono sceso e sono ritornato a casa. Siamo stati ancora due mesi così e poi abbiamo litigato e purtroppo ho rischiato di

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tare il mio papà e la mia mamma e tutti i miei fratelli e gli ho detto che sarei partito. Ho chiamato il taxi, sono andato in banca, ho prelevato i soldi e avevo una paura tremenda, perché a 18 anni con tutti quei soldi in tasca... La mia idea era di tornare a Biella, prendere un appartamento, trovare un lavoro e dimostrare ai miei genitori che ce l'avrei fatta. Però il mio progetto è fallito, perché nel giro di quattro mesi avevo speso tutti i soldi che avevo. Facevo la bella vita: andavo a dormire in albergo, facevo delle serate, mangiavo al ristorante, andavo in discoteca tutte le sere e avevo tanti amici, ma solo per i soldi. Ogni tanto andavo a cercare lavoro pensando di potercela ancora fare e quando sono rimasto con 100.000 lire in tasca ho trovato lavoro, però dovevo fare una scelta: dormire per strada o abbassare le orecchie e andare dai miei genitori a chiedere aiuto. Ho scelto la seconda, perché non volevo dormire in strada. I miei hanno fatto un po' di resistenza, però mi hanno accettato. Rifarei tutto, sono arrivato a 35 anni e non ho fatto una vita tranquilla. Ho dormito in strada per circa quattro anni e mezzo, a periodi alterni. Il periodo più lungo è stato di nove mesi. Qui a Trento? Qui a Trento è stato il periodo più lungo. Sono arrivato nel settembre 2001, ad aprile del 2002 è nato mio figlio e l'assistenza sociale ha minacciato di portarci via il bambino e così mia moglie è tornata in Sicilia e io sono rimasto fino ad agosto a dormire fuori. Il periodo estivo era niente, l'inverno invece era freddissimo. Ha detto che rifarebbe tutto, ma ritiene di aver fatto sempre la scelta giusta? Ho avuto momenti in cui avevo tutto: moglie, figlio, lavoro. Mi sono separato e sono entrato in crisi, non andavo a lavorare con costanza, ho iniziato a bere, ho perso la

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far cadere mia mamma dalle scale, ma fortunatamente c'era mio papà che stava salendo e l'ha presa al volo Hanno capito che forse era il caso di lasciarmi andare. Siamo andati a parlare con gli assistenti sociali e io ho lasciato la scuola. Non aveva ancora 18 anni? No, infatti sono rimasto in comunità, quella di Giovanni XXIII, una comunità che amo tantissimo, sono scappato dalla comunità 4-5 volte, ma se non c'erano loro che mi riprendevano non so dove sarei adesso. Lei ha ancora rapporti con quella che è la sua famiglia adottiva? Sì, sì, adesso andiamo d'amore e d'accordo, ma il distacco c'è stato, perché io sentivo il bisogno di andare via, non mi mancava niente, ma mi sentivo impotente, sentivo che mi mancava la libertà di scegliere quello che volevo fare. Il mio senso di libertà è sempre stato più forte di qualsiasi altra cosa. Per lei la libertà è poter scegliere? Per me la libertà è poter scegliere quello che una persona vuole fare. Si sente libero? Sì. Se potessi tornare indietro farei le stesse cose, identiche. Quando a 18 anni sono ritornato a Biella e mia mamma ha visto che vita facevo, mi ha detto: “Tu non arriverai a 20 anni”. Poi un giorno sono andato a casa, ho bussato e le ho detto: “Sono quasi 21” e mia mamma mi ha risposto che lo aveva detto, perché aveva paura per me. A 18 anni avevo lasciato la comunità. Negli anni in cui sono rimasto in comunità ho sempre lavorato. Non spendevo nulla e mettevo tutto in banca. A 18 anni sono andato in banca a prendere i soldi che avevo messo via in due anni e sono partito, con qualcosa come 14 milioni di lire in tasca. È partito da solo o con qualche amico? Sono partito da solo, sono andato a salu-


strada e la mia ex-moglie se n'è andata e così non vedevo più neppure mio figlio. Non avevo più un motivo per stare bene e così sono caduto. Ma la libertà è anche sapersi rialzare. Ogni tanto faccio la mia vita da “barboncino”, dico così, perché sono più piccolo degli altri. Ogni tanto lo faccio perché sono stanco di trovarmi porte sbattute in faccia quando cerco lavoro, dopo quaranta no, ho bisogno di una settimana per essere pronto a ricevere altre quaranta porte in faccia. Poi nella vita non va sempre tutto male e ci sono delle occasioni per rialzarsi. I miei rimpianti sono due. Non aver sopportato un comportamento della mia ex-moglie e averla mandata via subito. Forse avrei ancora mia moglie e mio figlio. L'altro momento è stata la morte del mio primo figlio. La scelta più difficile è stata quella di scegliere se salvare mia moglie o mio figlio. Mio figlio aveva una malformazione e intervenire significava rischiare la vita anche di mia moglie. I momenti più difficili sono legati ai miei figli. Sente ancora sua moglie? Ora stiamo andando avanti per avvocati, perché non mi lascia vedere mio figlio. Mio figlio ha 8 anni. Oggi quali sono i suoi progetti? Il mio progetto, anche se forse è solo un'illusione, un'utopia, è quello di trovare una ragazza e sposarmi, rifare un'altra famiglia anche perché il mio ideale è questo. Sono cresciuto in una bellissima famiglia e anche se l'ho lasciata giovane, mi hanno fatto vedere che una famiglia vuol dire tantissimo. L'ho voluta abbandonare, ma voglio crearla di nuovo. Qui a Trento? Sì, c'ero quasi riuscito, ma purtroppo è andata male di nuovo, con una nonesa e dopo due anni ci siamo lasciati, purtroppo succede e così sono ritornato qui al Punto d'Incontro. Avevo un appartamento, un la-

voro anche se un po' saltuario, ma avevo riposto tutte le mie speranze e possibilità economiche in questa storia, invece son rimasto “in braghe di tela”. Ho la fortuna di trovare qualcuno che mi aiuta, c'è un signore argentino che ogni tanto mi chiama, mi fa lavorare con lui e mi aiuta anche per dormire. Ha detto che questo cambiare città, ed essere sempre in movimento la spinge alla ricerca di libertà, ma non si rischia di non riuscire ad afferrare nulla? La mia speranza è di trovare una ragazza che mi sopporti prima dei 40 anni. Ogni fallimento mi ha insegnato qualcosa, con il matrimonio ho imparato cosa non devo fare con le ragazze. Per la mia ex moglie sono cambiato tantissimo: ho smesso di bere, di giocare d'azzardo, di usare droga. Per smettere mi sono appoggiato a un movimento, che mi ha aiutato tantissimo. Avevo colloqui con altre persone che avevano avuto questi problemi e che ne erano uscite. Con l'ultima convivente ho imparato che il mio carattere è troppo impulsivo e tendo ad incavolarmi sempre con tutti, appena mi dicono che qualcosa non va bene. Infatti ci siamo lasciati, perché ho reagito troppo male a una situazione. Ho sfasciato mezza casa, avevamo un gattino che, quando ha sentito casino, si è messo sotto il divano e non è più uscito fino al giorno dopo. Sono cambiato tantissimo da quando avevo 18 anni ed ero spavaldo. Ancora oggi vado in giro spavaldo e tante persone, quando mi vedono, mi dicono che faccio paura. Ho questo modo d'atteggiarmi che ho imparato in strada, perché se non ti fai vedere sicuro, trovi qualcuno che riesce a metterti i piedi sulla testa. Il cambiare spesso città è anche una fuga da situazioni negative? Sì, alcune volte sicuramente sì. Alcune volte ho cambiato città perché mi piaceva, al-

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che non vuole regole. Dovrebbero essere un po' più elastiche, non si possono vietare troppe cose in maniera drastica. Non dico che sono tutte sbagliate, però talvolta sono eccessive. Alcune regole me le sono date da solo. “Vivi e lascia vivere” è quella che preferisco, cioè se vuoi vivere bene, devi lasciar vivere bene anche gli altri. Ma non è psicologicamente stressante come situazione? Lei vive nella precarietà e ciò la rende libero? Le persone che mi conoscono, spesso mi chiedono come faccio a vivere così, sempre con il sorriso e felice. Penso d'aver trascorso la mia vita da strada anche con delle sbandate, con alti e bassi. Quand'ero lucido avevo la forza di dirmi che non avrei dovuto continuare così e dicevo: “Io la mia vita la voglio!”. Sarebbe troppo semplice

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Fotografia di Attilia Franchi

tre volte per dimenticare delle cose. Per esempio ad Arona ho conosciuto la mia ex moglie e lì non ho più messo piede, a Savona ho avuto i miei peggiori incidenti... In ogni città devi trovare un posto sicuro. Il Punto d'Incontro è anche un luogo per calmarsi, se vado in giro vedo tante cose che non mi piacciono, vorrei mettermi in mezzo e so che andrebbe a finire male. Qui chiacchiero con gli operatori, che ormai mi conoscono, ogni tanto quando arrivo mi dicono “Ma, ancora qua sei?” ed io: “Eh, è andata male anche questa volta”. Fortunatamente qua non ti dicono mai di no. Ha detto che in questi anni è cambiato. È riuscito a trovare la positività delle regole? Cosa le portano via? La soffocano? Mi piace non avere orari o persone a cui rendere conto. Ho sempre fatto una vita


fare come tanti, fare i vegetali, gli amorfi e scappare dalla realtà. Io vado avanti e aspetto di raggiungere un bell'obiettivo. Ma non sarebbe più facile pensare ad una regolarità o è proprio quella che cerca di evitare? No, io la regolarità quando la trovo me la tengo: una casa, una famiglia. Ma la aspetta oppure la cerca? Ad agosto mi sono lasciato con una ragazza, ora aspetto che arrivi una nuova opportunità. Sto aspettando, perché sono uno particolare e con un brutto carattere e perciò dev'essere la ragazza che fa il primo passo, sono spavaldo ma da quel lato sono timido. Sono arrivato a 35 anni, se troverò una regolarità me la dovrò far andare bene. Se non ho una persona a cui tengo veramente tanto, io non ho niente. Non riesco ad entrare in una casa e trovarmi da solo. Qual è il suo rapporto con Dio? Una volta ero molto credente, anche perché la mia famiglia lo era. Io sono sicuro che esiste, ma troppe volte guarda da un'altra parte. Ho allontanato Dio dopo che è morto il mio primo bambino. In qualche modo sono praticante, vado in chiesa una volta alla settimana e la gente mi guarda come per dire: “Ma cosa ci fa questo?”. Quando devo fare una scelta, lo faccio anche in maniera stupida, vado in chiesa e gli dico: “O mi fai trovare un lavoro e un motivo per restare a Trento oppure parto”. Dopo due, tre giorni succede sempre qualcosa.

3. Ospite Ci può raccontare la sua storia. Come è arrivato in Italia? La mia storia è un po' particolare, un po' diversa dalle altre. Ho frequentato la scuola francese in Marocco, poi mi sono trasferito a Parigi dove ho preso il “Baccalauréat”, che sarebbe il diploma. La vita però a Parigi è estremamente cara, così sono andato in Belgio, a Liegi, dove c'era più disponibilità, sia per l'Università che per il vitto e l'alloggio. Dopo 3-4 anni però le cose non andavano più così bene, in quel periodo per me c'era troppa musica e troppi concerti e visto che con l'Università non arrivavo a nulla, ho deciso di andare a lavorare. Nel 1986 sono andato a trovare un cugino che viveva a Brunico, pensando di rimanerci per poco tempo. A dire il vero non pensavo che l'Italia fosse così bella, perché a Liegi c'è una forte comunità di italiani, figli d'immigrati, e molti meridionali raccontavano della mafia, e così pensavo: “Ma che paese è l'Italia?”. Poi un giorno vado a trovare questo mio cugino e da quel giorno non sono più andato via. Ho cercato un lavoro e tramite una persona che ho conosciuto a Bolzano sono arrivato a San Cristoforo, vicino a Pergine, dove ho lavorato dieci anni nel settore alberghiero. Mi sono sposato e mia moglie mi aiutava anche se si lamentava del fatto che a causa del troppo lavoro in albergo non poteva uscire il sabato e la domenica. Allora ho trovato lavoro in una ditta di serramenti e per alcuni anni è andata bene. Ho lavorato anche all'estero, sempre per questa ditta e una volta, dopo un cantiere durato circa un anno, mi sono fermato a lavorare ancora per qualche mese. Tornato in Italia, sono andato in questura per richiedere il rinnovo del permesso di soggiorno, ma ero in ritardo e mi hanno bloccato la pratica. Mi

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Quando era un ragazzo come noi, cosa pensava di fare? Aveva delle aspettative? Ma no, ho sempre studiato... la mia è una storia particolare. Una volta il dottore era rispettato, era una persona importante, parlo degli anni '60-'70. Mio padre mi diceva che dovevo fare il medico ed io ho fatto l'Università di medicina in Belgio. Però non sono mai stato portato, io sono più portato per la matematica, le scienze e la fisica, sono cose che mi piacciono e tutt'ora studio e leggo queste materie. Purtroppo con una laurea in fisica teorica o anche pratica, non si ha un'uscita sul mercato del lavoro che realizzi la preparazione accademica. Sei destinato a insegnare, prendi una paga da semplice insegnante. Mentre un medico ha un villone, una clinica sua, dal lato economico c'è un divario enorme. Forse la scelta che avevano fatto i miei genitori era giusta. Inizialmente era andato in Belgio con l'aspettativa di tornare in Marocco? Sì, l'idea era quella. Fallita questa strada ho cercato di avere almeno un lavoro, perché in Marocco oggi come oggi è difficile da trovare. Per tornare alla domanda di prima, un sogno in particolare non lo avevo. Prima diceva che andava spesso a concerti. La musica era una sua passione? Sì, proprio una passione. Alcuni dei miei amici suonavano, anche in Italia sono andato per parecchi anni con i miei amici a vedere i Deep Purple. Di loro ho visto una ventina di concerti. Nel periodo che facevo l'Università in Belgio, con gli amici siamo andati a vederli a Maastricht e poi a Utrecht, sono andato anche in Inghilterra a vederli. Era proprio un fan. In Marocco mi piaceva quella musica, poi anche musica francese e qui in Italia i Nomadi.

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hanno detto: ”Tu non hai precedenti penali, vai dall'avvocato, fai un ricorso e noi te lo accettiamo e ti diamo il documento”. Ci sono cascato, ci credevo. Sono andato dall'avvocato ecc. ecc., sono stato presentato a un giudice di pace che ha detto che il ritardo si poteva accettare, però non ho più avuto il rinnovo e ora sono sei anni che sono fuori in strada. Inoltre prima di chiedere il permesso, le cose in famiglia non andavano molto bene e con mia moglie ci siamo separati. Quindi non ha un documento? Adesso sono senza documenti. Lei ora che cittadinanza ha? Marocco. Quindi sarebbe clandestino? Sì sì, sono clandestino. Non c'è modo per ottenere il permesso di soggiorno? Niente, a meno che non ci sia un'altra sanatoria. Io sono arrivato in ritardo di due mesi e ho perso tutto. Senza il permesso di soggiorno non posso lavorare, tanti anni fa si poteva lavorare in nero ma ora sono tutti controllati. Nei cantieri ci sono le regole del lavoro e della sicurezza e non si può più lavorare. Io ho esperienza, ero un artigiano, il mio lavoro lo avrei e sarebbe un lavoro specializzato che a tanti extracomunitari non si dà. Scusi, ma cosa fa durante il giorno ora? Niente, qua mangio, non so… Non ha mai pensato di tornare in Belgio o a casa sua in Marocco? Per viaggiare ci vuole un documento. Con un’altra sanatoria potrei averlo. A suo tempo ho aiutato delle persone ad avere i documenti seguendo quella strada. Ora sono io ad aspettare. Prima ha detto che si è sposato, ma sua moglie era italiana, marocchina... Marocchina. Si è trovata un ingegnere, forse ha fatto bene.


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La musica era un po' un sogno? Magari farlo diventare un lavoro? No, no, no. Era solo passione per questo tipo di musica, ma suonare, fare un lavoro del genere, non mi ha mai interessato. C'erano dei miei amici di Pergine che suonavano. Se qualcuno di voi è di Pergine li conosce, sono i Rising Power. Erano i Deep Purple del Trentino. Nel primo disco c'è anche il mio nome e la mia foto dietro. Cosa fa durante il giorno? Per quel che riguarda la vita quotidiana vivo qua, faccio colazione e spesso sono in biblioteca in mezzo ai libri e passo le giornate a leggere. Qualche volta lavoro, qualche ora di aiuto volontario qua e là, come alla Caritas. Poi la sera qualche volta vado a mangiare dai frati cappuccini e dopo si ripete la stessa monotonia. E per il dormire? Qualche volta mi ambiento e qualche volta mi sposto qua e là. Oppure qualche amico mi ospita per il dormire… ma non sempre. Per la sua esperienza, la gente sceglie questo stile di vita o vi è costretta? No, vi spiego. Io odio talmente quello che mi è successo che non faccio male agli altri. So che ognuno ha avuto qualche cosa nella sua vita che l'ha spinto su questa strada. Io penso che tanti purtroppo abbiano preso qualche sostanza in eccesso che li ha portati fuori dalla vita; questo è terribile! Io non ne ho mai fatto uso e non ne farò mai, perché devo uscire da qui, non è che devo stare sempre qui. Ho visto tanti perdere la testa. Anni fa c'erano 5/6 amici miei, che erano sani di mente e stavamo a parlare qui come noi adesso, e poi li ho visti parlare da soli e mesi dopo iniziavano a peggiorare ancora. Nessuno di loro si rendeva conto che stavano peggiorando, che stavano diventando matti. Un


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italiano che conoscevo e che era sempre curato, due anni fa ha avuto problemi con il fratello per l'eredità e questo l'ha cacciato di casa. Diceva che un giorno sarebbe andato a parlare con il fratello, ma poi è peggiorato, si è lasciato crescere la barba, i capelli e ha cominciato a parlare da solo: adesso è proprio “fuori”. Non lo riconosce più nessuno. Ecco, questo è solo un esempio, ma sono tanti. Lei si sente libero di scegliere? Quando ero a Parigi c'era una zona dove vivevano dei senzatetto e per loro era una cosa normale, era veramente una scelta di vita; c'erano avvocati e dottori che ad un certo punto hanno lasciato la propria famiglia e sono andati a vivere lì. Loro hanno deciso di stare in disparte, non disturbando nessuno e nessuno disturbava loro. Se questa vita ti permette di essere più libero perché non farla? Ci sono invece persone che non hanno potuto scegliere e si sono ritrovate in questa situazione. Comunque io non mi sento più libero delle altre persone, credo siano gli altri ad essere più liberi di me. Lei crede in Dio? Credo in Dio ma non sono praticante, mangio anche la carne di maiale. Se tornasse indietro cambierebbe vita? Non lo so, per me sarebbe impossibile. È difficile. Le interessa il giudizio che ha la gente nei suoi confronti? Il giudizio della gente è importante e cerco di ascoltarlo. Molti non si curano del proprio aspetto e di quello che indossano, mentre altri come me, che hanno la possibilità, cercano di apparire in modo migliore, io cerco di essere pulito e lavo i miei vestiti quando posso. Provo a curarmi perché dopo tutto sono ancora una persona e non un animale, e anche in queste condizioni un uomo deve sempre avere la propria dignità.


Quando vede persone che trattano male i senzatetto come lei, cosa prova? Quando vedo queste situazioni ci sto male. La gente come si relazione con lei? Io non ho mai avuto problemi con la gente e cerco sempre di creare una relazione. Nessuno mi ha mai insultato e anche se lo fanno non faccio caso a ciò che dicono e mi sposto. Ha legato con persone qui al Punto d'Incontro? È da circa 3 anni che frequento il Punto d'Incontro e non ho instaurato rapporti con nessuno e anche se chiedete ad altre persone vi diranno la stessa cosa. Io starei a parlare ore e ore di matematica, letteratura e di argomenti che mi facciano imparare cose nuove, ma non mi piace parlare tanto per passare il tempo. Io leggo molti libri e giornali per tenermi informato su ciò che accade nel mondo. Credo che i problemi che ci sono di questi tempi in Africa non siano solo causati dall'Occidente, ma siano causati anche da noi. Se lei avesse bisogno di un aiuto o di un consiglio a chi si rivolgerebbe e chi sarebbe disposto ad aiutarla? C'era un signore anziano di Pergine, che faceva il muratore, lo aiutavo a raccogliere i pomodori e invece di andare avanti rimanevano lì a chiacchierare, parlavamo anche per ore senza accorgerci del tempo che passava. Questo signore era molto colto ma poi abbiamo perso i contatti. Non dovete pensare che io sia una persona chiusa, anche perché potrebbe essere pericoloso per la mente, bisogna confrontarsi con gli altri. Anch'io ho dei sogni come gli altri, anche più degli altri. Il mio è quello di avere un monolocale o un posto dove vivere. Sapere cosa voglio mi aiuta ad andare avanti. Conosco delle persone che non sono riuscite a fronteggiare la situazione, si

sono distrutte, hanno perso la speranza, e allora si lasciano andare e perdono la ragione... ne ho visti così tanti e io non voglio perdere la ragione. Per lei cosa significa essere libero? La libertà per me è alzarsi la mattina e non rendere conto a nessuno. Però se si ha un famiglia bisogna anche assumersi le proprie responsabilità e accettare i propri doveri. La libertà è poter uscire e andare a farsi un giro, ma per esempio quando sono al lavoro non posso lasciare quello che sto facendo e andarmene. La libertà è bella ma ha i suoi momenti. In Italia rispetto al Marocco, c'è il senso della libertà ma talvolta anche troppo, a volte ci sono cose indecenti, ad esempio guardando certi programmi in televisione. Ha mai incontrato persone che incarnano fino in fondo la sua idea di libertà? Non ci ho mai pensato. Da quando ero adolescente però ho un idolo, Stephen Hawking, uno scienziato inglese. Lui convive con una malattia che ora l'ha portato a rimanere paralizzato, ma nonostante ciò è riuscito a diventare un uomo importante in tutto il mondo, per i suoi studi sui buchi neri. Secondo me lui è l'uomo più intelligente che esista, è l'Einstein del mondo moderno. Fin da giovane leggevo i suoi libri e il mio preferito è: «Dal big bang ai buchi neri», dove spiegava cose molto complesse con un linguaggio semplice. Parla anche del rapporto Dio e la scienza e sono argomenti estremamente forti. Complimenti… ha una gran cultura, ed è una cosa che molte volte è sottovalutata. Uno scrittore ha detto: “la cultura è quello che rimane quando abbiamo dimenticato tutto.” Io leggevo tanto anche prima anche se non ne avevo il tempo, ma era più interessante della televisione. Leggevo non per sapere ma per curiosità, la curiosità è sempre stata importante per me. Leggo

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voro e che va tutto bene anche se a volte non è vero. Se dovesse parlare con noi giovani, che consigli ci darebbe? Non do consigli perché per me i consigli sono brutti, tranne quando si è genitori. Si può anche sbagliare, ma secondo me solo gli amici di lunga data e i genitori possono dare consigli. Ovvio che se uno mi dice: “quasi quasi mi butto giù dal ponte” gli direi “no aspetta, cosa fai? Guarda se cambia un po'...”. Ma su altre cose dico: “non lo so, non consiglio niente.” Una curiosità: qui al Punto di Incontro, c'è solidarietà tra di voi? Sì sì, ma è una complicità “tacita”, cioè sappiamo tutti dove siamo. È inutile che uno dica “avevo questo, avevo quello”, alla fine siamo qua allo stesso punto, siamo sullo stesso piano, siamo tutti fratelli. Magari non succede il contrario? Che si sfoghino i propri problemi sugli altri? Si si, ci sono situazioni difficili. Però non ho mai visto uno piangere e questo mi ha colpito. No, a volte ho pensato di piangere, ma non ho mai visto nessuno piangere e non so perché. Mi faccio questa domanda, perché la sofferenza morale è quella che fa più male e porta a piangere. Ho visto persone sfogarsi, spaccare ma non ho mai visto nessuno piangere. Mi è venuto in mente così, in realtà non ho neanche la risposta a questa domanda. Lei si è mai sentito perduto? Sì, a volte sento un senso di smarrimento, di delusione, e poi le cose vanno avanti lo stesso. Non so come spiegare, a volte tristezza. Secondo me la monotonia mi consuma, per questo cerco di rifugiarmi nei libri, lì ci sono tante esperienze. Io non sono mai qua al Punto d'Incontro al pomeriggio, dove ci sono le solite carte, il solito TG3... ho altre cose da fare. Qual è stata la prima reazione quando ha

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tutto quello che riguarda gli argomenti di qua e di là. Quando impari qualcosa diventi più consapevole. La cultura è importante, è importante leggere. In biblioteca le lasciano ancora prendere libri? Sì sì, per fortuna ho ancora la mia vecchia carta d'identità, altrimenti sarebbe più difficile. Ma io non li porto a casa, perché magari dormo di qua o di là e allora leggo solo lì. Ho preso qualche libro, solo quando c'era l'ultimo dell'anno o un giorno di ferie ed era tutto chiuso, allora l'ho preso perché non potevo andare in biblioteca e l'ho portato il giorno dopo. Leggo al Punto d'Incontro o alla fermata dell'autobus. La biblioteca è cambiata negli ultimi anni, una volta era bella ma purtroppo anche qua c'è uno che dorme, uno con lo zaino, uno che mangia panini, io ne conosco diversi. Ci sono molte persone che ci vanno solo per stare al caldo… Sì sì, perché non sanno dove andare, non c'è un posto dove dici: “Va beh, mi siedo qua”. La sala è piccola, al massimo possono andare alla stazione con tutta la gente che gira. Poi magari c'è qualcuno che legge un libro o un giornale, come faccio anch'io. Però sono costretti perché fa freddo. Lei ha ancora familiari in Marocco? Sì, sono sparsi in tutto il mondo. Ho un fratello in Finlandia, uno in Francia, uno qui in Italia e una sorella che è sposata e vive in Corsica. È in contatto con i suoi familiari e se l'aiutassero li vorrebbe raggiungere? I miei fratelli mi aiutano economicamente, però c'è il problema del viaggio perché se io li volessi raggiungere dovrei superare la dogana e non avendo il permesso di soggiorno non potrei. I miei genitori hanno investito denaro per farmi studiare e farmi diventare qualcuno ma io non ci sono riuscito e quando ci sentiamo gli dico che la-


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saputo che non poteva rinnovare il permesso di soggiorno? Delusione enorme perché avevo progetti ma ho dovuto cancellarli tutti. Avevo conosciuto una ragazza in Germania ma anche li si è chiuso tutto, ci siamo sentiti per telefono quasi due volte a settimana, poi una volta a settimana, poi una volta al mese e poi niente. Ma ho dovuto rinunciare a tante altre cose. Dovevo fare la partita iva come in Germania, dove lavoravo già per conto mio, ma alla fine niente come per tanti altri progetti. Abitavo a Pergine ma ho cambiato posto per non far vedere come sono diventato. Ogni tanto incontro qualcuno che ho conosciuto tanti anni fa e se posso lo schivo perché mi vergogno a farmi vedere, non mi piace far vedere co-

me sono diventato anche se le colpe non sono tutte mie. Lei ha parlato di ragazzi con problemi di droga che ha visto rovinarsi… Tanti, anche italiani, è inutile nasconderlo, hanno problemi di droghe e di solito droghe pesanti. Chi fa uso di queste cose non ha nessuna possibilità di sbocco, lo posso garantire. Quando si entra in quella strada, anche per provare solo una volta, è finita. È una strada senza ritorno. Io non l'ho mai fatto e non lo farò mai. Mi fa veramente paura, li vedi camminare con lo sguardo vuoto, sono tanti e sono senza vita, sono già morti prima di morire fisicamente, è una strada senza ritorno. Si trovano in una situazione molto peggiore della mia, io spero sempre di ritornare alla mia vita di prima


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danno i documenti anche a me, io il lavoro lo trovo subito. Telefono ai miei ex colleghi di lavoro e comincio a lavorare, anche se sono un po' invecchiato, la mente è ancora a posto. Lei ha detto che prova vergogna però volevo dirle di non preoccuparsi, perché con la sua cultura potrebbe fare qualsiasi lavoro anche per noi giovani. Raccontare la sua esperienza o visto che è bravo in francese insegnarci questa lingua. Per i giovani farei qualsiasi cosa, anche gratis, sono sempre disponibile. Ai miei tempi i giovani erano un po' più cattivi, con i miei amici facevo cose cattive. Giocavo a calcio, a carte, andavo a scuola ma facevo proprio il minimo indispensabile. Adesso che vado alla Caritas per fare un po' di volontariato e stare assieme alle persone, mi ha colpito vedere che ci sono tanti ragazzi di 16-17 anni che fanno volontariato. Una volta non era così. I giovani sono cambiati in meglio. Questa generazione è migliore della mia. Pensavo che i volontari fossero persone anziane, che non lavorano più, invece tanti sono giovani di 15-17 anni. Poi ci sono due studenti universitari che sono di Verona e sono venuti alla Caritas per chiedere se potevano fare i volontari, queste cose sono veramente belle da vedere. Non voglio generalizzare, però questi giovani sono veramente bravi. I genitori sono importantissimi. Penso che se un figlio ha dei bravi genitori alle spalle, con una bella educazione, andrà sempre avanti bene. Grazie, per tutto quello che ci ha raccontato. È giusto che ci sia qualcuno che parli e che spieghi queste cose. Anche se so che la mia storia non è quella di tutti, forse la mia è particolare. Ogni individuo è un caso.

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ma chi è dipendente dalla droga non ne esce facilmente, pochi ci riescono. Bisogna andare in comunità specializzate. Lei ha questa speranza di voler tornare alla sua vita, ha magari degli esempi di persone che erano in difficoltà e hanno avuto la possibilità di cambiare vita? Sì, centinaia, soprattutto quando abitavo a Pergine e stavo bene, aiutavo dei ragazzi. Negli anni ’90 mi fermavo al bar e vedevo queste persone, mi fermavo e davo loro 10 mila lire. Un giorno sono venuti due o tre a casa e mi hanno chiesto 400 mila lire per le pratiche di soggiorno e poi me li avrebbero restituiti. Loro erano messi veramente male poi hanno avuto il permesso e adesso sono a posto. Due sono andati in Veneto e uno deve essere a Trento. Se mi


Unità di Strada Nadia Brandalise (Trento, 1973). Laurea in Scienze della Formazione (Padova). Grazie ad un master sulla cooperazione internazionale, partecipa come volontaria ad alcuni progetti di cooperazione all'estero: a Pemba in Mozambico, Salvador de Bahia in Brasile e con Operazione Colomba a Scutari in Albania. Inizia la sua attività lavorativa presso la Coop Progetto '92 in ambito minori, per passare in seguito al Centro Anti Droga di Trento e nel 1999 alla Fondazione Comunità Solidale, attraverso la quale nel 2002 presenta il progetto per istituire un'Unità di Strada per la città di Trento. L'Unità di Strada, formata da quattro operatori, due donne e due uomini, si propone di andare sulla strada per incontrare le persone che vi si trovano a vivere, con l'ambizione di instaurare relazioni di fiducia, che permettano alle persone coinvolte di fare un percorso di miglioramento della propria condizione di vita.

Charlie Barnao, Antonio Scaglia, Hotel Millestelle, Cleup 2003 Antonella Chitò, Angeli sulla strada, Sensibili alle foglie 1994 Jean-Claude Izzo, Il sole dei morenti, Edizioni e/o 2004

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Intervista a cura di Francesco Benanti, Stefania Santarelli, Anna Stenico, Sonia Peratoner, Noa Ndimurwanko, Laura Gretter

bussare alla porta e chiedere: “Sono qui, ho bisogno di aiuto”. Ci sono sempre più persone, soprattutto quelle che sono in strada, che non sono in grado di farlo. Allora è importante non restare semplicemente nel proprio ufficio ad aspettare che qualcuno arrivi, ma andare noi a casa loro, dove vivono, dove passano la loro giornata, farsi vedere, farsi riconoscere ed essere pronti, nel momento in cui ci fosse la domanda, a rispondere. Il limite dei volontari era il fatto che un giorno potevano decidere di fare qualcos'altro e di conseguenza quel servizio sarebbe venuto a mancare. Partendo da queste considerazioni, ho scritto un progetto che prevedeva una presenza stabile: non due sere a settimana, ma tutta la settimana. Come operatore credo molto nel fatto che si debba stare a contatto con le persone, nei luoghi dove vivono, anche se non sempre c'è una domanda di aiuto. Noi andiamo al parco e in altre zone, senza che le persone chie-

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Perché hai scelto di svolgere questo lavoro? Sono un'educatrice professionale, una figura professionale che si occupa dei disagi presenti nella nostra società. Ho iniziato in comunità terapeutiche per persone con problemi di tossicodipendenza e in strutture di accoglienza per persone con problemi di disagio psichico. Nel 1999 ho saputo che c'era un gruppo di volontari che andava in strada e per un anno sono stata insieme a loro. Due sere in settimana si andava al parco, con tè e panini per farci conoscere dalle persone che lo frequentavano. Poi ci sono state delle tensioni all'interno del gruppo e mi sono staccata, mantenendo però la convinzione che questo stare in strada, era una risposta importante rispetto ai bisogni delle persone che in strada ci vivono. Non bisogna sottovalutare il fatto che, se una persona ha bisogno di un servizio, deve andare da qualcuno, dall'assistente sociale o dal dottore,

Unità di Strada

Fotografie di Stefano Rubini “La città ombra - Ex Sloi” - 2008


dano il nostro aiuto, poi magari con il tempo lo chiedono, così è nata l'idea di aiutare stando in strada. Quali studi hai dovuto compiere per svolgere questa professione? Ho studiato e ho preso la maturità qui, al Liceo Leonardo da Vinci, poi sono andata a fare la scuola per educatore e ho conseguito la laurea triennale per educatore. Qui si fermerebbe il mio corso di studi legato a questa professione. Poi ho fatto un master sulla cooperazione internazionale: “La dimensione educativa nella cooperazione internazionale”, perché il mio sogno sarebbe quello di fare l'educatrice in giro per il mondo. Anche se il “terzo mondo” ora ci sta dicendo di lavorare bene nel nostro paese e che questo potrà portare un beneficio per tutti. Questa scelta professionale ha cambiato il tuo modo di vivere, di pensare? Il mio modo di vivere non l'ha cambiato, nel senso che continuo a fare la mia vita, questo è il mio lavoro e io non vivo in strada! Ha cambiato però il mio modo di vedere la città, sto molto più attenta ad alcuni particolari, ad alcune zone. Queste persone non sono sempre riconoscibili, bisogna capire come si presentano, come riconoscerli, come avvicinarli. Non sempre si vestono male, non sempre quelli che dormono sulle panchine sono ubriachi. Tutto questo ha cambiato un po' il mio modo di lavorare, io sono arrivata in strada pensando di fare il mio lavoro in un certo modo e in questi 5 anni è sicuramente cambiato. È cambiato il mio modo di vedere le città, di vedere le persone, anche quando giro per i fatti miei. Pongo più attenzione a determinati particolari, che mi fanno riconoscere certe cose, ad esempio se un parco non è vissuto solo dai bambini, solo dalla gente di passaggio, ma anche da persone che magari

lì ci abitano, oppure imparare un po' a ridimensionare i fatti di cronaca: essere un po' più critica, nel senso di andare un po' più a fondo nelle notizie che ci vengono date, rispetto a certi luoghi, a certi tipi di persone. Quindi sicuramente questo lavoro mi ha cambiato. Riesci ad avere un rapporto distaccato con gli utenti? Se avere un rapporto distaccato con gli utenti, significa che riesco a non portarmeli a casa, allora sì. Sapere che la persona con cui hai parlato per tutta la sera, dormirà lì dove la lasci, soprattutto l'inverno, è faticoso. Te ne vai e pensi: adesso vado a casa e mi faccio una doccia calda, ho il riscaldamento, mentre quella persona era su quella panchina questa mattina e rimarrà lì anche questa notte. Non sempre riesco a lasciare le storie delle persone che incontro fuori dalla mia “pancia”, dalla mia parte emotiva, perché spesso sono situazioni simili alle tue oppure di profonda sofferenza. In questi momenti rimanere distaccata è molto difficile. Queste persone ci raccontano le loro sofferenze, poi, arrivati a casa, bisogna fare i conti con le sensazioni e il malessere che queste persone “buttano” su di te. Per fortuna non sono da sola a lavorare, ma insieme a me c'è un'equipe, per cui possiamo liberamente parlare delle nostre esperienze, magari confrontandoci. Inoltre ho una supervisione, dove una persona esterna, uno psicologo, aiuta a elaborare le cose pesanti che spesso ci troviamo ad affrontare. Bisogna mettere a posto la “pancia” che per me è la parte emotiva, dove si accumulano tutti i nostri malesseri e tornare ad essere la professionista di cui si ha bisogno. Sulla strada non c'è bisogno di “compassione”, qualcuno che dica loro: “Poverini, che storia difficile”, ma c'è bisogno di qualcuno che prima di tutto faccia

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quello che ne consegue. Hanno rotto a livello amicale, e gli amici diventano la piazza, diventano la strada. Hanno fallito con percorsi proposti dai servizi, spesso si rifiutano di parlare con gli assistenti sociali, hanno un brutto ricordo di percorsi contro alcol e droghe, che spesso magari hanno portato a ricadute e quindi si rifiutano di riprovarci. Tutta questa serie di fratture da loro subite ci fanno dire: “Queste persone, momenti per se stessi, per parlare di se stessi, per mostrare se stessi, non ne hanno”. Quindi la nostra “fetta” di lavoro, quella come «Unità di strada», è proprio quella: occuparci della relazione tra noi operatori e queste persone. Queste persone scelgono questa vita o vi sono in qualche modo costrette? Su questo punto c'è un grosso dibattito, anche sul mettere in campo dei servizi per queste persone, perché magari si dice: “Beh, ma l'hanno scelto, avevano altre possibilità e non vogliono uscire per mantenere la propria libertà”. Ai nostri occhi le loro vite possono farci dire: ”Ma tu un'altra possibilità, un'altra strada, l'avevi”. Quindi sulla carta ci sono persone che potevano fare una vita diversa, però questo non tiene conto di quello che la persona sta vivendo. Non so se vi è mai capitato di avere un problema e un vostro amico vi dice: ”Fai così, prendi questa strada” e tu razionalmente capisci che hai due opportunità, ma per come stai in quel momento, non sei in grado di prendere la strada che ti indica l'amico e quindi ne rimane solo una. Spesso le persone in strada sono in uno stato di sofferenza, di degrado, di difficoltà, per cui lo stare in strada è l'unica possibilità che loro si riconoscono; quindi quando hai solo una possibilità, non si può parlare di avere una scelta. Poi può capitare che nel corso della tua vita arrivi qualcosa per cui si apre un'altra possibilità, che ti porta in una si-

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accoglienza, che li veda e che sappia usare quello che loro raccontano per aprire la strada per un percorso diverso. Di cosa hanno maggiormente bisogno le persone che incontri? A Trento i bisogni materiali, ad esempio mangiare e lavarsi sono supercoperti; le persone che vivono in strada, infatti, mangiano gratuitamente cinque pasti al giorno (i due pasti principali e poi la colazione, la merenda a metà mattina e nel pomeriggio, che vengono offerti da gruppi religiosi), a differenza di altre città dove le unità di strada escono la sera e portano il pasto, la cena (ad esempio a Bolzano, dove c'è un solo pasto coperto al giorno). Noi invece negli anni ci siamo trovati ad avere a disposizione sempre meno risorse materiali di altro tipo, come posti letto per dormire, o percorsi di reinclusione. Al di là dei bisogni materiali, queste persone ci fanno capire che per loro, la nostra presenza è importante per rispondere al bisogno relazionale. Per loro è importante la relazione che si instaura. Ti aspettano, sanno che c'è qualcuno che li considera, che li cerca, che gli chiede come stanno, che li ascolta, che sa che loro ancora esistono, che se serve qualcosa (andare dal medico, fare una telefonata o anche parlare di come è andata la notte…) li aiuta. Allora, se tu mi chiedi: “Qual è il bisogno principale a cui assolvete?”, ti dico: “È il bisogno relazionale”. Per noi “persone normali” può sembrare una sciocchezza. Infatti, se dico ad un ente che mi finanzia, che io come operatore faccio relazione, questo aspetto non è misurabile, ma è l'aspetto più importante del nostro lavoro ed è quello che aiuta queste persone ad andare avanti. Certamente alle loro spalle ci sono delle “mancanze di rapporti”, perché la maggior parte delle volte hanno rotto a livello familiare, con fallimenti, abbandoni e tutto


tuazione migliore. Se parlate con queste persone quando hanno bevuto un bicchiere di troppo, magari la sera, ti dicono: ”Io amo la libertà, a me piace dormire fuori, non avere orari, costrizioni, limitazioni, non devo niente a nessuno, non vado a lavorare”. Però di solito non succede mai la mattina e capita sempre quando sono alterate da qualche sostanza. Se tu le incontri la mattina, che è il momento in cui non c'è in giro troppa sostanza e c'è la fatica di aver appena passato una notte difficile e la fatica di avere davanti una giornata da far passare, vi assicuro, perché l'ho imparato stando con loro, che lì arriva tutta la sofferenza e la difficoltà di stare in strada e se chiedi: ”Ti senti effettivamente libero?” vi assicuro che da parte loro ci sarà la risposta più sincera. Alle spalle di queste persone, oltre alle diverse storie personali, c'è una difficoltà nel rapportarsi e nel rispettare quelle che sono le regole scritte e non scritte che stanno alla base della nostra società? Sì, tanto. Tanto più loro hanno alle spalle una storia di degrado e di emarginazione, tanto più loro mettono in campo delle risorse di sopravvivenza. Col tempo imparano una serie di strategie che possano permettergli di non morire di fronte a questa situazione, perché vivendo in strada rischi la vita. Pensate a quante persone muoiono l'inverno, non sono numeri che vanno sulle cronache, perché è meglio che non ne venga fatta troppa pubblicità, ma tutti gli inverni e in tutte le città, muoiono persone per il freddo. Anche d'estate si muore, per problemi legati alla vita in strada, perché a livello di salute, il fisico non ce la fa più, ti molla, finiscono in ospedale e si muore. Si tratta di mettere in campo delle azioni per sopravvivere, tanto più queste strategie sono prolungate nel tempo, tanto più diventano forti. Non è che appena si ha

una possibilità di avere una casa, un lavoro, si rientra con facilità. A livello di studi, si afferma che un anno in strada, come vissuto e come esperienza, vale come 7 di quelli normali. Se pensiamo a noi, quanto ci vorrebbe per cambiare un'abitudine che va avanti quotidianamente per 7 anni. Tanto più se è un'abitudine che mi è costata fatica, mi è costata lacrime e dove il rischio è la vita o la morte. La società considera chi vive in strada pericoloso. Condividi questa opinione? Per chi ci vive sì. È pericoloso non perché c'è del male dentro, perché qualcun'altro mi può fare del male, il pericolo più grande è per me stesso, perché vivere così mette in pericolo il mio fisico, il mio equilibrio mentale, rischio di perdermi se non riesco ad essere incluso in tempo. La questione tempo è diversa rispetto al resto della società, il tempo di una persona che vive in strada è molto diverso da quello degli altri cittadini. È scandito dal discorso mense, tempo per fare le docce, per presentarsi nei dormitori o per chi dorme nei giroscale, nelle fabbriche abbandonate, negli atri dei negozi, il tempo è molto diverso dal nostro. Un'altra opinione è che siano dei fannulloni. Ci sono dei fannulloni come in ogni ambito e non penso che, se messi in un contesto in cui potrebbero fare una vita diversa, sarebbero delle persone superoperative. Non penso però che definirli fannulloni sia una classificazione che ci aiuta a capire il problema. Non è la stessa cosa guardare a queste persone, come a qualcuno che vive un disagio, che ha una sofferenza alle spalle, che la fa comportare in una certa maniera o più semplicemente considerarle persone, che non hanno voglia di fare niente. Se a contare è la prima, la società è chiamata in causa, perché la sofferenza di un cittadino mi chiama in causa. Invece,

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cose in comune, poi però ogni persona ha un'emotività diversa, un modo diverso di vivere quello che gli sta succedendo. Io per forza devo pensare che è possibile uscire, perché altrimenti non farei questo lavoro. A mio parere ogni persona può abbandonare questa vita, cambiare, mettersi in una situazione più sicura. In questi 5 anni però, ho imparato a non combattere la strada, nel senso che il mio obbiettivo non deve essere per forza uscire dalla strada e avere una casa dove stare, perché a volte anche chi ha una casa, rimane emarginato dalla nostra società. Chiaramente l'abitazione dà più sicurezza, non dormi in uno scantinato, ma dormi in una casa dove almeno l'esigenza fisica è co-

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che pensare che queste persone siano dei fannulloni non mi chiama in causa. Classificarli in questo modo è comodo, ti permette di sentirti tagliato fuori, di non sentirti responsabile, ma non perché tu hai delle colpe, ma perché sei chiamato a fare qualcosa insieme a lui, non per lui ma con lui. Devo capire chi sei, che storia hai, che risorse e che limiti hai. Nel momento in cui ti do del fannullone, il problema è solo tuo. È un modo per tirarsi fuori che a me non piace tanto, perché ovviamente ti deresponsabilizza e dice il problema è solo tuo e la maggior parte delle volte non è così. È possibile abbandonare questa vita? Sì, è possibile. I costi sono diversi per ognuno. Sono tutte storie che hanno tante


perta. Non combatto la strada nel senso che bisogna pensare a far arrivare quella persona in una situazione più sicura per lui. Spesso questo avviene stando in strada, seguendo quello che la persona riesce a fare, fosse anche affittarsi un garage, stiamo andando nella direzione giusta, che gli garantisce più sicurezza. Sono tappe, passo dalla panchina al garage, poi arrivo ad un colloquio con l'assistente sociale e così abbiamo allargato ad una terza persona che può dare un aiuto, oppure un medico quando la situazione di salute è compromessa, riprendere i rapporti con un famigliare... più si allarga la rete di relazioni che questa persona ha, più il mio obiettivo è raggiunto. Forse un po' alla volta lo porterà anche via dalla panchina, ma con loro combattere la strada non è vincente, come obiettivo non è attraente. Cosa ne pensi di questo modo di vivere? Credo che sia una situazione molto difficile e degradata. Basti pensare a cosa si può provare a non avere una casa, il che non significa solo non avere l'acqua, l'elettricità, ma anche non avere un posto sicuro ed accogliente che ti appartenga e dover essere costretti a passare il giorno cercando di trovare un luogo dove passare la notte. Le persone che vivono sulla strada non dormono mai per tutta la notte, per paura di essere derubate degli abiti e delle scarpe. Queste sono situazioni molto difficili, che non augurerei di vivere a nessuno. Tra i motivi che portano queste persone a vivere sulla strada, quanto è importante la ricerca della libertà? Ascoltando loro, lo stare in strada non significa libertà. Non c'è libertà nel non avere niente: non avere garanzie, relazioni fisse e durature, punti di riferimento o comunque un qualsiasi riconoscimento. Persone che non hanno un lavoro e una residenza, dopo un po' di tempo diventano

scomode per il territorio, in quanto possono dare fastidio e fare rumore, disturbando la quiete pubblica. In questi casi il questore decide di dare il “foglio di via”, il che implica l'abbandono del territorio per tre anni, in quanto indesiderati. Ad esempio ci sono persone nate e vissute a Trento che ricevono questa lettera dalla questura, il che fa pensare molto. Quindi per queste persone, più che ricerca della libertà, è una fuga dalle responsabilità? Ci sono stati momenti in cui queste persone non sono state in grado di affrontare le proprie responsabilità ed il risultato è sempre lo stesso. Comunque un conto è, se lascio tutto per mia scelta, e un conto è essere costretti a farlo. Se lo faccio di mia spontanea volontà, ho i miei motivi: la depressione o la mancanza di affetto. Le altre persone possono decidere se farmene una colpa, oppure se cercare di capire il motivo per il quale si è andati a vivere in strada. Nella vita di queste persone, la scuola è riuscita ad incidere in modo positivo? Per la mia esperienza, sentendo i giovani, anche se si tratta solo della loro campana, ma rappresenta comunque quello che hanno interiorizzato, la scuola ha messo in atto una serie di dinamiche espulsive. L'esperienza di molti è quella di aver interrotto questo percorso. Con loro la funzione educativa della scuola non ha attecchito. Perché qualcuno rifiuta l'aiuto delle associazioni benefiche? Ci sono tanti motivi dietro a questa scelta e variano tra italiani e stranieri. Gli italiani non arrivano a vivere in strada da un momento all'altro, prima hanno passato un periodo durante il quale hanno cercato un aiuto da un amico, da un famigliare o anche da un assistente sociale. Se una persona arriva a vivere in strada, significa che

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dargli il buongiorno. Può essere qualcosa. Quando sono assieme a loro, nei luoghi dove loro stanno, vedo spesso delle persone che passano davanti e non sono indifferenti, ma hanno un'espressione schifata, oppure cambiano marciapiede, passano alla larga. Questo non aiuta nessuno, le persone che vivono in strada se ne accorgono e lo capiscono. Provate a mettervi nei loro panni, vedete uno che vi vede e cambia marciapiede, oppure vi guarda con un'aria schifata. Cosa sentite? Rispetto a una persona che passa, vi guarda e vi dice buongiorno. Qual è la differenza? A me che faccio il gesto non è costato nulla. Ma alla persona che sta dall'altra può già significare qualcosa di positivo. Quindi fare questo, salutarli, se ce la sentiamo. Però, la cosa più importante è cominciare a pensare, sia quando leggiamo degli articoli sul giornale, sia quando dobbiamo dare un'opinione su questo tema, che queste persone esistono e non dobbiamo fermarci ai giudizi che chiudono, ai giudizi che ci fanno pensare che non è una cosa di “nostra competenza”. Questo non è vero. Questa cosa ci interessa, perché chiama in causa noi, ci chiama in causa tutti, come società, come trentini, come cittadini di questa città e quindi la cosa più importante è cominciare a pensare, a leggere gli articoli con un occhio un po' più critico, a non fermarci davanti a delle porte chiuse, a dei giudizi che non aiutano nessuno. Anche solo andare a leggere qualcosa, andare ad informarsi, fare domande, significa acquisire una cultura che in qualche modo li include. E quando magari me la sentirò, un giorno che vedo una persona per strada, perché è più facile con una che non con un gruppo, gli do il buongiorno e se vedo che c'è “contatto”, un giorno magari mi fermo e gli chiedo come sta. Noi come cittadini, direttamente con loro, non

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tutti i tentativi fatti in precedenza non hanno funzionato e questo porta con sé un senso di fallimento. Sono persone che hanno già ricevuto tanti no e chiedere nuovamente aiuto non è facile. Per questo ci vuole tempo, costanza, bisogna far capire a queste persone che sei interessato a loro; questo lo fai capire se riesci ad essere presente e vicino nel tempo, anche se non è facile, non sempre veniamo subito ben accolti. La nostra forza è nell'essere presenti oggi come domani, questo sul medio-lungo termine fa sentire un reale interesse nei loro confronti, e questo dà i margini per instaurare dapprima un rapporto, poi un rapporto di fiducia, fino a che arrivano delle richieste d'aiuto e poi assieme si vede cosa si può fare. Quando si incontrano queste persone per strada si prova molta compassione. Qual è il modo più corretto per aiutarle? Secondo me la compassione non è un gran bel sentimento, per come la intendo io, vuol dire vedere qualcuno e dire: “Poverino, che sfigato”, ponendomi in una situazione di separazione: io qui e tu lì. Sicuramente ci saranno 1000 altri modi per intendere questo sentimento, ma se ci mettiamo nell'ottica di “differenziare le parti”, distinguere tra me e queste altre persone, non aiuta loro, ma neppure aiuta me a capire qual è la situazione. Per aiutare queste persone ci sono vari modi, dipende un po' da come sono io e da quello che voglio “mettere in campo”. Per prima cosa dobbiamo cominciare a vedere che nella nostra città ci sono queste persone. Lo dobbiamo fare per noi, perché è molto utile partire dal presupposto che queste persone esistono, anche nella mia città, non solo nelle città grandi, non solo nei film, che vivono nella mia stessa via, che ci sono tutti i giorni nella strada che faccio io. Un aiuto può essere quello di salutarle,


possiamo fare nulla se non vederli e considerarli. Possiamo fare tanto a livello di cultura, cultura di rilettura di quello che ci viene detto a livello di comunicazione complessiva. Esiste una sorta di solidarietà della strada o le difficoltà che ognuno si trova ad affrontare spingono le persone a pensare solo a se stesse? In un'ottica di strategie di sopravvivenza, esiste il bisogno di appartenere ad un gruppo, ci sono dei legami che accomunano quelli che vivono per strada. Il concetto di solidarietà è però un termine un po' troppo complicato da pretendere da parte di queste persone. In ogni modo chi vive per strada pensa prima a se stesso, poi, se rimangono energie o risorse, queste si possono condividere con qualcun altro per non rimanere da solo. In quanto donna, hai paura che qualcuno ti possa fare del male? Per come sono fatta io non ho questo ti-

more e in questi anni non è mai successo niente di male né a me né alla mia équipe. L'équipe è composta da due donne e da due uomini. Nel tuo lavoro ti sei mai scontrata con la burocrazia? Sì, per offrire delle possibilità a queste persone, ci si scontra spessissimo con la burocrazia. Ad esempio, un nodo cruciale è la residenza: chi non ha un'abitazione per tanto tempo, nel corso degli anni perde la residenza. Con la legislazione in atto, essere senza residenza significa non esistere e quindi perdere tutti i diritti: perdono la tessera sanitaria, quindi la possibilità di essere curati e il diritto di voto. Non si possono nemmeno portare le persone in difficoltà da un medico di base, ma si è obbligati a portarle al pronto soccorso, ma se una persona necessità di una cura, il pronto soccorso non può garantire continuità. In alcune città d'Italia, i comuni si sono attivati per trovare una via nella quale iscri-

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Quando si riformulano delle nuove leggi, o dei regolamenti anche provinciali, venite interpellati? No, veniamo saltati. Non c'è modo di essere interpellati? No, ci viene risposto che, in un momento in cui ci sono dei tagli, non si può fare diversamente. Per capire meglio è necessario anche fornire dei dati. L'anno scorso, abbiamo avuto a che fare con seicento persone, che per una città come Trento non sono certamente poche. Si tratta di un numero calcolato per difetto, ovviamente non siamo riusciti a contattare tutte le persone che ci sono a Trento, in quanto non tutti usufruiscono del nostro aiuto. Quest'anno il numero è leggermente diminuito, in quanto ci sono meno stranieri. Tra questi ci sono coppie, singoli, persone giovanissime e anziane. La persona più anziana che seguiamo ha settantanove anni e vive in strada.

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vere tutte quelle persone che vivono sulla strada, per dar loro la possibilità di avere la carta d'identità, la tessera sanitaria, ecc… A Trento questo fatto non è ancora regolamentato. Prima un servizio deve certificare che tu vivi in strada per almeno un anno e ricordo che un anno vissuto in strada è come sette anni per noi. I problemi ci sono anche per la richiesta di un appartamento Itea, per fare richiesta devi risultare residente nella Provincia di Trento da almeno tre anni. Questo è un grosso problema, sia per gli stranieri sia per i trentini che magari sono sempre rimasti qui, ma che hanno perso la residenza e non possono fare la domanda, anche se sono nati e vissuti sempre a Trento. Vi assicuro che capita, che ci siano persone magari residenti da due anni e undici mesi e non possono fare la richiesta. Spesso la burocrazia non fa i conti con la realtà delle cose. Ora poi i servizi sociali hanno alzato la soglia d'aiuto e molte persone restano senza sostegno.


Fotografia di Anna Da Sacco “Ex-Italcementi” - 2010

Tavolo accoglienza è sicurezza Antonio Rapanà (Lecce, 1948) Laurea in Sociologia presso l'Università di Trento, ha insegnato diritto ed economia alle scuole superiori. Nei primi anni '90 è presidente di Shangri-La, prima associazione interculturale del Trentino, fondata assieme al sociologo Abel Jabbar. Dopo alcuni anni di volontariato presso la sede locale della CGIL, dal 1999 al 2007 entra nella segreteria del sindacato come responsabile del coordinamento dei lavoratori immigrati. Dalla sua nascita nel 2009, in seguito al decreto legislativo 773 il cosiddetto ”pacchetto sicurezza”, è portavoce del «Tavolo Accoglienza è Sicurezza», formato da varie associazioni trentine come: il Punto d'Incontro, la Comunità Solidale, la Caritas, Villa Sant'Ignazio, il Centro Missionario, le ACLI, l'ASGI, il Gris e l'Atas. È inoltre collaboratore per la stampa locale per le tematiche legate all'immigrazione.

Marco Aime, Eccesso di Culture, Einaudi 2004 Enrico Pugliese e M. I. Macioti, L'Esperienza migratoria, Laterza 2010

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questi hanno iniziato a rivendicare un trattamento più umano. Una “cosa” che sfrutto non ha diritto di pretendere di essere una persona. Io sono andato a vedere gli immigrati che lavorano nelle campagne pugliesi. Sono sotto gli occhi di tutti, persone che vivono in baracche improvvisate, senza acqua, in condizioni pietose. 10/12 ore al giorno per 20 euro. Queste sono le braccia che convengono. Vuole spiegarci meglio in cosa consiste il “pacchetto sicurezza” e quali problemi cercherebbe di risolvere? Io lo chiamo “pacchetto insicurezza” perché è criminogeno. Si tratta di un insieme di norme che individua nell'immigrato senza permesso di soggiorno un pericolo per la società. Introduce una serie di norme repressive che traducono la condizione personale in un reato penale che porta al carcere. In questo modo una persona priva di permesso di soggiorno, riceve il marchio di criminale.

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Quando nasce il «Tavolo Accoglienza è Sicurezza»? Da chi è formato e quali obiettivi cerca di raggiungere? Il tavolo ha cominciato a incontrarsi e a confrontarsi nel 2009, in seguito all'approvazione del “pacchetto sicurezza”. L'invito iniziale era rivolto a tutti i soggetti sociali e culturali di Trento, a cui sostanzialmente hanno risposte le associazione cattoliche (Caritas, Punto d'Incontro, Villa sant'Ignazio...). Il nostro obiettivo è quello di sensibilizzare. Vorremmo sollevare un po' il velo da una cultura miope e repressiva che si è diffusa in Italia. Il caso del lavoratore agricolo di Rosarno, costretto a condizioni schiavistiche ad esempio è emblematico: tutti sapevano che erano persone prive di permesso di soggiorno. Le autorità, le forze dell'ordine, i sindacati e i cittadini. Lo scandalo non era che vivessero come animali, ma la mancanza di permesso di soggiorno. L'aggressione dei bravi cittadini italiani è avvenuta quando

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Intervista a cura di Tiziana Marino, Andrea Coali


Tra le altre cose prevedeva che se un reato veniva commesso da una persona irregolare, l'irregolarità dovesse essere considerata un'aggravante e il reato punito con un terzo di pena in più. Questo è stato dichiarato incostituzionale. Precedentemente la corte aveva già dichiarato che la condizione di irregolari di per se stessa non è un indice di pericolosità sociale. Noi pensiamo che tutte queste norme siano oppressive, inutilmente pesanti e criminalizzanti. Si tratta di norme che danneggiano tutti, perché un Paese che non comprende chi sia effettivamente il cittadino immigrato irregolare e lo marchia come criminale, compie un attacco alla democrazia di tutti. Oggi in Italia ci sono circa 4 milioni e 350 mila immigrati con permesso di soggiorno che vivono e lavorano. Di questi pochissimi sono entrati in Italia attraverso i canali ufficiali; le vie legali prevedono che un datore di lavoro chiami una persona all'estero, senza averla mai vista in faccia. Si tratta di un meccanismo di incontro tra domanda e offerta irrealistico; aggravato dal fatto che le quote, ossia i numeri che il governo fissa ogni anno per i lavoratori stranieri, sono sempre state estremamente limitate. Quindi è accaduto che trovata chiusa la porta ufficiale si è entrati dalla finestra. La finestra è sempre stata quella dell'ingresso irregolare. Ma non attraverso i barconi, dove le persone rischiano la morte e che portano in Italia circa il 12% degli stranieri, ma più semplicemente con un visto turistico. Ovviamente non sono turisti, vengono in Italia con un permesso di 90 giorni e si cercano un lavoro in nero. Scaduto il visto, secondo queste leggi, da turisti diventano criminali e non resta loro che attendere una sanatoria. Finora ce ne sono state sei e sono state il rimedio ad un meccanismo che non funziona. La cosa si

è ripetuta ciclicamente per prosciugare il bacino di irregolari. Quindi l'immagine dei barconi che vediamo nei TG non rappresenta che una piccola parte della situazione reale. Va anche precisato che nel 2008, quando è stato creato l'allarme per i barconi, il 70% delle persone arrivate in Sicilia in quel modo hanno fatto domanda d'asilo, perché erano prevalentemente persone che fuggivano da situazioni di oppressione o di guerra, soprattutto dal Corno d'Africa. Il 50% di queste hanno ottenuto una protezione umanitaria. Non erano persone che venivano in Italia per delinquere, io li ho conosciuti gli stranieri delinquenti e vi assicuro che arrivano in altro modo. In Italia si arriva comunque solo in modo irregolare? Gli stranieri regolari hanno quasi tutti una storia di presenze irregolari, favorita dal fatto che in Italia esiste un'economia sommersa molto alta, nelle campagne del sud nessuno si preoccupa del permesso di soggiorno. L'immigrato lavora e vive in condizioni disumane, ma è utile e conviene al datore di lavoro. Una volta ottenuto il permesso tramite una sanatoria, vengono al nord a cercare occupazioni più umane. Si tratta di persone irregolari non per scelta ma obbligati dalle condizioni ipocrite e irrealistiche degli ingressi ufficiali. Inoltre va tenuto presente che da regolari si può tornare ad essere irregolari: se perdi il lavoro, ottieni un permesso di “attesa occupazione” che dura sei mesi, quando scade devi aver trovato un lavoro altrimenti diventi irregolare. Con la crisi molti perdono lavoro, soprattutto gli immigrati, e si rischia di perdere il permesso di soggiorno. Noi avevamo proposto già nel 1990 di concedere un permesso per ricerca lavoro: si entra in Italia, grazie ad un cittadino italiano che garantisce alloggio e assistenza e

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un reato che può essere punito fino a tre anni di carcere. In passato i sindacati avevano persino paura di raccogliere lamentele degli immigrati irregolari. Poi noi abbiamo cominciato a dire: “No, tuteliamo anche loro”. Naturalmente la persona immigrata che ha subito condizioni di violazione di diritti non si fa vedere, altrimenti viene cacciata, ma noi agiamo a suo nome anche vincendo molte cause. Il clandestino ha diritti sul lavoro, non potrà avere il permesso, ma i diritti gli spettano. Ciò che chiediamo da anni è che, quando una persona denuncia un datore per le condizioni di sfruttamento, a questa persona sia dato un permesso di soggiorno per motivi di giustizia. È difficile altrimenti denunciare il datore, perché si ha paura: si perde il lavoro e si rischia di essere espulsi. In casi eccezionali e discrezionali può essere concesso un permesso. In Trentino è succes-

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se dopo un anno non si trova lavoro si deve rientrare in patria. Allo stato non costava nulla. Come potrebbe trovar lavoro un cittadino clandestino? Un clandestino può solo sperare in una sanatoria. L'anno scorso per esempio, vi è stata quella selettiva per le badanti. Ma pensiamoci: io sono un cittadino egiziano, faccio il pizzaiolo e mia moglie fa la badante. Lavoriamo da quattro anni in Italia e non abbiamo mai disturbato nessuno, rispettiamo le leggi e le tradizioni. Arriva la sanatoria ma solo per mia moglie che fa la badante, per me niente. Si creano così situazioni inique: il problema è che della badante abbiamo bisogno. In Italia l'integrazione avviene solo sul modello dell'inclusione subordinata: braccia sì, ma persone no. La mia accoglienza inizia e finisce solo per l'orario di lavoro. Quando finisci di lavorare, il mio sogno sarebbe di farti sparire, perché non ti considero una persona a cui garantire la parità di ogni genere di diritti. Non metto in discussione però, che la condizione di irregolarità possa indurre a fenomeni di devianza. Ho visto come vivono molti clandestini e cosa significa abitare in una casa abbandonata. Essere una persona che ha cercato la dignità e non riuscire nemmeno ad acquisire le condizioni minime di essere umano, ti svaluta e la disistima produce fenomeni terribili. Ho conosciuto molti che hanno commesso piccoli crimini, cosa che non hanno ripetuto appena ottenuto il permesso di soggiorno. Il clandestino aspetta solo che emerga una condizione di dignità e di libertà, perché lui può essere preso a calci da chiunque perché “non ha voce”, non ha esistenza. A che conseguenze incorre chi sfrutta l'immigrato irregolare? L'impiego di lavoratori senza permesso è


so per la truffa delle mele della Val di Non: a quei lavori che denunciarono, fu concesso un permesso per lavoro. La xenofobia ormai è un atteggiamento sempre più diffuso: perché non si cerca, anche tramite i mass media e la scuola, di ridurre se non eliminare tutti questi stereotipi che ci portano a vedere lo straniero come un pericolo? Personalmente parlo di razzismo con molto pudore. Il razzismo che si è diffuso in Italia e in Europa ha segni innovativi. Non è un razzismo biologico ma di stampo culturalista: ti giudico incompatibile con i nostri modelli di comportamento. La diversità suscita sgomento. Non sono buonista, lavoro con gli stranieri dal 1990, non sono l'amico, sono uno con cui cerchi di condividere percorsi, se sbagli te lo dico: “Non sei un minus che dev'essere coccolato, sei un cittadino che si deve aggiungere a un sistema di diritti e doveri”. L'intolleranza xenofoba, esplicitata o meno, nasce da sentimenti di paura. La sicurezza è un diritto importante, soprattutto per i più deboli: devo capire qual è la causa della paura, e perché si concentra sull'immigrato. Questo paese è cambiato, è venuto meno un senso di appartenenza alla comunità, che rompeva la solitudine. Viviamo in una comunità senza legami sociali in cui le persone sono sole e si guarda al futuro con preoccupazione ed incertezza, sentimenti aggravati dalla mancanza di rapporti e di solidarietà. In una situazione come questa, in cui il senso di appartenenza alla comunità è venuto meno, qual è il soggetto che meglio di altri può diventare oggetto di questa paura? Lo straniero. La questione è che non si può addossare la responsabilità dell'inquietudine sociale, sullo straniero in quanto tale. Certo che ci sono i problemi. Ci sono concezioni del vivere diverse, ma io chiamo anche il cittadino im-

migrato a cambiare, non può continuare a vivere come se abitasse in Pakistan, in Marocco o in Albania. Dobbiamo fare un cammino di avvicinamento reciproco. La mia e la tua identità non sono una pietra ma una costruzione sociale e storica che cammina. Il mio mondo non inizia e finisce nel mio orto. Per raggiungere l'integrazione sociale non servono i poliziotti o il carcere, ma prima di tutto dei bravi operatori sociali. Berlusconi nel 2010 ha affermato, durante il consiglio dei Ministri a Reggio Calabria, che “una riduzione degli extracomunitari in Italia significa meno forze che vanno a ingrossare le schiere dei criminali”. Qual è la sua posizione nei riguardi di questa affermazione? Nella frase di Berlusconi c'è una cosa importante: è assente la distinzione tra regolare o irregolare, tutti devono essere allontanati salvo poi dover raccogliere le lamentele degli imprenditori a cui servono braccia. Le statistiche però sono precise: la paura è un sentimento paranoico che si alimenta. L'allarme sulla comunità è cresciuto in anni in cui sono diminuiti i reati. Noi abbiamo la fortuna che a Trento non si sono mai costituite delle bande organizzate. Anche lo spaccio è sempre stato piccolo. Tempo fa degli immigrati toscani cercarono di costruire una banda, ma fu sgominata subito. Certo ci sono situazioni che richiedono una vigilanza e all'occorrenza interventi mirati, ma non può essere il terreno indifferenziato dell'azione. Il dossier Caritas ha fatto un altro studio: il rapporto sulla criminalità del 2007 evidenzia come il tasso di criminalità degli immigrati sia pari a quello degli italiani, il 2%. Lo studio della Caritas ha approfondito la composizione dei reati per classi di età. I reati sono più frequenti nelle classi medie. Il dossier dimostra che, se io faccio la valutazione

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coglienza di bassa soglia, e poi sapendo che non tutti i problemi posso essere risolti o eliminati. Bisogna capire quali sono le motivazioni che spingono queste persone ad accedere a determinati comportamenti. Ci sono situazioni di sconfitte personali drammatiche e per esempio l'alcool aiuta a non pensare a quello che è un fallimento, all'impossibilità di tornare nel proprio paese, perché si verrebbe emarginati da una società che non prevede la declassazione e la rovina personale. Hanno paura di tornare in patria: però se si pensassero percorsi di rimpatrio assistito, di reinserimento nel paese con le autorità del luogo, si eviterebbe un futuro di degradazione. La stampa come affronta il problema dell'immigrazione e della sicurezza, anche a livello locale? Mediamente c'è un problema di preparazione culturale. La libertà di stampa non è la libertà di disinformazione, non sempre il giornalista è sufficientemente preparato. La qualità dell'informazione si collega anche alla sensibilizzazione sociale. Parliamo dei problemi veri, ricordiamoci che si parla di persone; bisogna cercare di capire la loro situazione, le loro storie. Pensiamo anche all'etnicizzazione del comportamento. Noi forse non gli diamo la giusta importanza. Ma dire: “Arrestato spacciatore pachistano”, è terrificante. Do un marchio etnico ad un reato. E i ragazzi pachistani con cui io parlo dicono che sembra che quel reato sia stato commesso da tutta la comunità. Questo è terribile. Questa superficialità fa comodo alla politica? Io ho lavorato nelle associazioni, sono un insegnante, ho trascorso dieci anni in CGL dove mi occupavo di immigrati. Continuo a lavorare con gli stranieri, ma mi considero un perdente, con dolore. In 20 anni ho tro-

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comparativa per classi, il tasso di criminalità degli immigrati è uguali a quello degli italiani. Si è parlato del rapporto immigrato - sicurezza. Voglio fare un esempio: lei pensa che una famiglia che voglia portare i figli in Piazza Dante, possa farlo in sicurezza? Piazza Dante è anche mia. E io devo avere il diritto di attraversarla con calma. Non voglio che mi offrano roba, che mi si facciano commenti quando passo. C'è il problema? Sì. Io ho fatto parte all'inizio del gruppo che ha discusso in Comune di Piazza Dante. Li c'è una devianza, è zona di spaccio. Progressivamente è diventato un fatto costitutivo della piazza. La piazza era stata abbandonata da anni, prima spaccio di italiani, e poi di immigrati, che hanno un rapporto simile ai meridionali con la piazza come luogo di incontro. Li c'è un lavoro da fare di ripopolamento della normalità, portando la gente, iniziative, scuole e sapendo che non tutti sono lì perché spacciano. Così si crea una mediazione sociale. Il problema che si creerà sarà: questi dove vanno? Si trasferiscono in altre aree? Io credo che bisogna ragionare bene. Se si spostano, siamo punto e a capo. Io non ho risposte certe, mi piacerebbe ragionare molto sulle persone: possono non piacermi, ma non le cancello. Allora, posso cominciare a ragionare su come affrontare anche il problema dello spaccio che non è drammatico come si pensa, in discoteca è peggio, ma nessuno pensa di organizzare irruzioni in disco. Io sono un cittadino e godo della libertà, se mi togliete uno spazio sono meno libero e non mi piace. L'aumento di controlli, anche più visibili, gioverebbero ad aumentare il senso di sicurezza? Io ripenserei globalmente la presenza sociale in Piazza Dante. Probabilmente con meno vigili, qualche struttura in più di ac-


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Fotografia di Anna Da Sacco “Ex-Italcementi” - 2010

vato solo porte chiuse. Ho fatto politica in strada per molti anni, sono un uomo di sinistra e le porte chiuse che ho trovato a sinistra come nel sindacato mi hanno sfinito. Forse sono riuscito a tener la porta socchiusa, perché entri aria fresca, ma ho comunque perso. In Trentino, dell'immigrazione non gliene frega niente a nessuno. Lo dico pesando la gravità delle parole. Certo, si fa finta, si partecipa alle manifestazioni, si mette una firma... Le uniche parole forti provengono periodicamente dalla Chiesa. Le posizioni che su molti punti questa ha assunto, la sinistra se le sogna. In Trentino non c'è una politica per la convivenza che non siano chiacchiere; si organizzano eventi, parola tra l'altro terribile che indica l'interesse momentaneo per il problema, ma nulla di più. Qui io perdo la mia battaglia. Come definirebbe la libertà sulla base della realtà con cui lei è in contatto? La libertà, è una domanda difficile. Libertà è godere del rispetto che do agli altri e del rispetto che ricevo dagli altri, possibilmente sempre lontano da logiche di potere. Io non voglio che, nel mio rapporto di solidarietà anche con l'immigrato, nascano situazioni di gerarchia. C'è una lezione che mi dette un immigrato: uno straniero, che poi è finito molto male, ma era uno che aveva studiato alla Sorbona. Lui mi disse: “Non credere di fare così: se mi stai accanto hai preso un impegno e lo rispetti sempre, quando hai voglia e quando non ne hai. Anche la domenica”. Poi abbiamo discusso, perché questo doveva essere un rapporto reciproco. Questo mi aiutò a capire che il mio era un impegno a tempo pieno, un impegno a cui io dedicavo tutto il mio tempo, non qualcosa di sporadico da fare nel tempo libero.


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Fotografia di Stefano Paternoster “Ex Carcere - Trento”

APAS Associazione Provinciale Aiuto Sociale Fabio Tognotti (Ala, 1974) Laurea in Scienze della Formazione presso l'Università di Verona con qualifica di “esperto nei processi formativi”. Dopo cinque anni di attività maturata nel settore delle dipendenze patologiche, dal 2008 lavora presso l'Associazione Provinciale di Aiuto Sociale (APAS) di cui è divenuto direttore nel gennaio 2010. Un ente non profit che si occupa del sostegno e del reinserimento sociale e lavorativo di persone detenute ed ex detenute.

Lucia Castellano e Donatella Stasio, Diritti e Castighi, Il Saggiatore 2009 Carcere: per una cultura della solidarietà, Atti del seminario Apas & Caritas (1998-1999)

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Queste persone hanno solo amici con i quali vanno a delinquere, la loro amicizia non è una risorsa, bensì è qualcosa che li trascina in guai peggiori. Più nello specifico, quali servizi fornite? Il primo servizio che forniamo è quello dell'accoglienza abitativa e per questo gestiamo sei alloggi protetti. Possiamo dare un domicilio, un letto, una cucina a persone che non hanno una casa, oppure che possono, anziché stare in carcere, usufruire di una misura alternativa, i famosi arresti domiciliari. La detenzione domiciliare significa che se tu hai un ente, come il nostro, che ti vuole aiutare, invece di fare sei mesi o un anno di carcere, lo stesso tempo lo puoi fare nella tua abitazione. Durante gli arresti domiciliari hai la possibilità di vedere più spesso la tua famiglia, l'assistente, uscire per attività lavorative, a differenza del carcere in cui devi rimanere tutto il giorno “dietro le sbarre”. Il secondo servizio è quello lavorativo: queste

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Quali obiettivi si pone l'APAS attraverso i propri progetti e a quali persone sono rivolti? Il nostro obiettivo è quello di rimuovere gli stati di emarginazione in qualsiasi forma essi si presentino, prestando però particolare aiuto alle persone che hanno problematiche di ordine penale. Rimuovere l'emarginazione significa proprio “prendere” una persona, accoglierla, capirla ed accompagnarla lungo gli anni in un percorso di reinserimento sociale e lavorativo. Le persone che purtroppo entrano in carcere sono persone che prima avevano ampia libertà e che l'hanno utilizzata nel modo sbagliato. In genere forniamo aiuto a persone che hanno difficoltà personali, materiali, scarse risorse cognitive, psicologiche, culturali e quindi fanno fatica ad affrontare problemi complessi. Non hanno risorse familiari economiche, relazionali, che sono per tutti noi un patrimonio incredibile.

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Intervista a cura di Edoardo Oss, Nicola Bortolameotti, Samuel Giacomelli, Arianna Bertoni, Nicole Lona, Rachele Tomasi, Ruan Barbacovi, Selene Ghezzi, Laura Gretter


persone, incapaci di mantenere un impegno, di affrontare le difficoltà, incapaci di essere costanti e continui, vanno messe dinnanzi alle proprie difficoltà ed aiutate a superarle. Il nostro laboratorio di assemblaggio e il magazzino, dove movimentiamo dei prodotti editoriali, permettono loro di fare dei percorsi sotto la nostra tutela. Non è una semplice accoglienza, ma un lavoro che richiede serietà e impegno, affinché capiscano quanto è difficile presentarsi tutte le mattine, lavorare sei ore al giorno, arrivare a fine mese per guadagnarsi la busta paga, invece di andare a rubare. Devono imparare quali sono i vissuti che portano ad essere autonomi e capaci. Quello che noi facciamo è preparare le persone incapaci di lavorare ad essere integrate nel mondo del lavoro. I più bravi saranno poi in grado di cercarsi un lavoro nelle cooperative sociali, oppure di trovarsene uno da soli. Per un detenuto non è facile presentarsi bene in un colloquio di lavoro, perché il datore si accorge che non ha lavorato per più anni e quando chiede spiegazioni, l'ex carcerato si trova a rispondere: “Ero in galera”. È vero che magari non ha lavorato per anni, però se è stato occupato presso le nostre aziende, ha acquisito delle competenze lavorative. Ci sono inoltre delle agevolazioni per le aziende che assumono personale con problematiche di ordine penale: godono di sgravi fiscali; quindi grazie a queste agevolazioni costeranno meno all'azienda che li assumerà e avranno maggiori possibilità di ricevere un lavoro. Bisogna tenere conto che il pregiudizio nei confronti di queste persone è molto forte e talvolta lo abbiamo anche noi che lavoriamo con loro. Quali sono le difficoltà reali che un ex-carcerato incontra nel percorso di reinserimento nella società? Le difficoltà sono così tante da essere im-

possibili da elencare, ognuno ha una difficoltà che lo caratterizza e per la quale si trova poi a vivere una situazione di emarginazione. Quando si esce dal carcere, si è poveri: invece di una valigia, hai in mano un sacco della spazzatura con dentro le tue cose e in tasca non hai neanche un centesimo, quindi cosa puoi fare se non possiedi niente? È dura non avere una casa, relazioni, un lavoro… È già tanto se trovi posto al dormitorio dove comunque non puoi stare più di venti giorni e poi devi ritornare solo l'anno successivo. Quindi è molto difficile uscire da questa difficoltà. La mia associazione serve a questo: ti do una casa, un lavoro, ti accolgo, ti oriento ai servizi più specifici, ti accompagno dal medico, al CSM, al servizio sociale del territorio, dall'avvocato per tutelarti nella difesa legale o dal parroco che con la sua parrocchia ti può affiancare delle persone che ti stiano vicine. Questo fa l'APAS: prendere una persona, accompagnarla ed inserirla gradualmente nella società. Con quale criterio vengono selezionate le persone da seguire? L'associazione nella quale ho la fortuna di lavorare è di seconda fascia, cioè lavora a progetto. Non possono venire tutti, perché decidiamo noi chi può accedere ai servizi. Per cui, da un punto di vista formale, siamo aperti a chiunque voglia venire da noi a chiedere un'informazione sia un utente sia un familiare, un volontario, un operatore di un altro servizio, non ha importanza. Però poi, chi verrà inserito nel progetto, è una persona che deve avere dei requisiti: per primo deve avere problematiche di ordine penale, e poi deve avere forti motivazioni al cambiamento. Hai voglia di cambiare? Bene. Altrimenti do spazio a persone più motivate. Purtroppo noi dobbiamo comportarci così, perché dobbiamo far capire a queste persone che devono impe-

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un ragionamento che chiamiamo esame di realtà. In carcere è molto difficile analizzare la realtà in modo obiettivo, servono capacità, cultura e risorse cognitive adeguate. Questo li porta a scegliere soluzioni semplici: guadagnare facilmente e arricchirsi il prima possibile. Infatti seguono spesso “il primo pirla” che incontrano al bar ed entrano nella truffa. Ci sarebbero tanti episodi da raccontare in merito, da poter scrivere un libro. Tutti i carcerati chiedono di essere aiutati? No, in generale un tossicodipendente preferisce rimanere in galera, perché in questa situazione di forte contenimento non può drogarsi e questo gli dà pace interiore e sicurezza. Per di più, se uscisse dovrebbe frequentare una comunità terapeutica, dove il percorso è molto duro. Chi non vuole provare questo percorso, trova nel carcere la soluzione più facile. Chiedono aiuto maggiormente donne o uomini? Statisticamente l'80% sono maschi. In provincia di Trento abbiamo tre istituti di pena, sono tre case circondariali e non di reclusione, come quelle che ci sono a Padova o a Verona, che sono istituti con persone che hanno commesso reati molto gravi e quindi con pene molto lunghe. Nelle case circondariali come la nostra, i periodi di detenzione sono inferiori ai cinque anni. Nelle case circondariali di Bolzano, di Trento e Rovereto, abbiamo poche detenute donne. A Rovereto ci sono venti detenute; sostanzialmente sono straniere, che vengono colte in fragranza di reato per motivi che possono essere lo spaccio, la tossicodipendenza, la prostituzione, ma anche truffe o associazione con persone che commettono questo genere di reati. Le donne sono poche, noi non le gestiamo soprattutto perché non abbiamo richiesta.

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gnarsi in un percorso duro. A volte abbiamo persone che chiedono il lavoro da noi per avere la faccia pulita e la sera andare a rubare. Queste sono le loro debolezze, le loro difficoltà: vivere seguendo una “libertà sbagliata”. Le persone che noi aiutiamo sono libere, ma non sono rispettose della legalità e del diritto, quindi noi cerchiamo di far loro capire che, se vogliono ricevere un aiuto, possono ottenerlo solo se si comportano bene. I vostri progetti sono indirizzati anche ad evitare una recidività dei reati? Questo sarebbe il secondo obbiettivo della mia associazione: far sì che gli strumenti che mettiamo a disposizione per fare un progetto, servano a far cambiare veramente i nostri assistiti; questa è una vera garanzia per non tornare in carcere, altrimenti è solo questione di tempo. Dobbiamo riuscire a spezzare la catena del male, dell'emarginazione, di quella libertà violata e di quella libertà eccessiva, che la persona non è in grado di gestire. Inoltre, la recidiva, la reiterazione dei reati è purtroppo un aggravante terribile, perché non ti permette di usufruire delle agevolazioni previste dal codice penale. A suo parere quando i detenuti escono dal carcere danno più importanza alla libertà riottenuta? Quando escono dal carcere, dicono: “Dammi una casa, un lavoro e ho risolto i miei problemi”. Lo dicono tutti e noi rispondiamo: “Sì? Prima non avevi casa e lavoro? Perché allora sei andato in carcere?”. Nella privazione della libertà a cui il carcere li costringe, vedono il mondo da dietro le sbarre e all'interno di un forte contesto di privazione, falsificano l'esame della realtà e si creano delle fantasie per tenersi su di morale; le nostre proposte permettono loro di decostruire quelle fantasie e costruire


Per quanto tempo vengono seguiti i detenuti e a che risultati puntate? Nel caso della tossicodipendenza, un esempio facile da capire, se la persona non sta bene e quindi non può lavorare, prima subentra il servizio che garantisce la salute di quella persona, in questo caso il SerT (servizio per le tossicodipendenze). Il SerT interviene con i propri operatori, medici e psicologi, che possono ricorrere ad un trattamento farmacologico e psicologico, quando la persona sarà pronta per poter essere sostenuta lavorativamente, abitativamente, ecc… interverrà l'APAS. Per cui è sempre complesso capire le coordinate della progettualità che si hanno con i detenuti, non è facile neanche per noi. Spesso passa molto tempo per arrivare a concludere quella che è un'indagine, un'analisi dei bisogni dei singoli detenuti. Di cosa si occupano gli operatori penitenziari? Collaborano con voi? Gli educatori penitenziari sono in carcere tutti i giorni, per vedere i detenuti e con loro affrontare tutto ciò che è l'area trattamentale, cioè tutta l'area che verte su ogni bisogno della persona: culturale, lavorativo, formativo, di educazione alla convivenza, partecipazione ad attività socializzanti, ecc… Quell'area viene curata dagli educatori, che però sono pochi e hanno tanti detenuti. Sono loro a dover produrre il documento di osservazione dei detenuti, necessario per chiedere all'autorità giudiziaria il permesso di inserirli in un progetto, ma per realizzarlo possono passare anche nove mesi. Per cui se io ti conosco in carcere e dopo due mesi dico: “Guarda che bravo, è la prima volta che va in carcere e quindi posso tirarlo fuori prima di altri, perché non è un delinquente abituale, posso dargli una mano ecc.”. Passano però altri otto mesi prima che possa intervenire e questo perché a causa dei meccanismi di presenti 96


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Fotografia di Nicola Orempuller “Ex Carcere - Trento”

legge, gli educatori impiegano diverso tempo per portare a termine il proprio lavoro. È vero che una persona non può essere osservata e capita in cinque minuti. Ho bisogno di seguirti per dei mesi, durante le attività “inframurarie”, ovvero dentro al carcere, e solo dopo una serie di spunti, di stimoli, di osservazioni, posso concludere la sintesi. Questo però è tempo che passi in galera e nelle grandi carceri, sovraffollate, passano tempi anche superiori all'anno! Ma qual è il paradosso più grande? Che nelle case circondariali dove hai pene brevi, o finisci la pena senza interventi, oppure prima che possa intervenire sei già stato trasferito in un altro istituto e tutto deve ricominciare da capo. Magari nel frattempo l'educatore era in prossimità del termine della sintesi e voleva appoggiarti ad un servizio che ha già dato disponibilità, ma non può più fare niente, perché ti hanno trasferito dall'oggi al domani. Nell'aiutare queste persone ci sono tante difficoltà nelle difficoltà! I detenuti mantengono dei rapporti con i familiari o vengono “abbandonati”? Dipende. In genere se il familiare c'è, va a trovare il detenuto in carcere; le sale colloqui hanno un tavolino e due sedie. Le vetrate come si vedono nei film ci sono solo nei carceri di massima sicurezza, in sezioni speciali. La realtà però non è un film e il contatto familiare è relativo. L'importante è che il familiare sia una risorsa e non un problema, bisogna fare in modo che scontata la pena questa persona possa trovare subito un riferimento pulito, onesto, altrimenti è veramente un problema. Vi occupate anche del disagio degli operatori e delle guardie carcerarie? Esiste questo disagio? Mamma mia! I suicidi riguardano anche la polizia penitenziaria, non lo si dice ma è vero. Naturalmente in misura ridotta, però


ci sono, perché è un lavoro molto difficile. Fare 8-10 ore in carcere, è come essere un detenuto se ci si pensa, non è molto diverso. Farlo tutto il giorno, tutti i mesi, tutti gli anni, è veramente molto provante. Stiamo ragionando come territorio su cosa si possa fare per loro: formazione, eventi educativi/formativi, però siamo solo agli esordi, è ancora presto per dire cosa si possa fare. Quali spazi di libertà sono previsti all'interno del carcere? Quali sono le forme di libertà permesse per i carcerati? Libertà non ce n'è. L'ora d'aria consiste nell'entrare in un cortile che ha una grata sopra, però almeno vedi il cielo e ti fai un giro in tondo: è questa l'ora di aria libera per essere espliciti. Il carcere nuovo, grazie a Dio, essendo molto grande, avendo anche del verde, può permettere delle attività inframurarie maggiori, che nel carcere di via Pilati non potevano assolutamente essere eseguite, attività lavorative fuori la cella, che possono essere una forma ricreativa, una forma di respiro. Però non c'è libertà dentro al carcere, la libertà forse è dopo, nelle misure alternative alla detenzione o a fine pena. Qualche volontario è riuscito a creare un rapporto di amicizia/fiducia/confidenza con qualche detenuto o si sono riscontrati dei problemi? Mai essere amici, altrimenti hai perso la battaglia. Se tu sei molto problematico e io sono la brava persona che si vuole avvicinare con molta enfasi, con molta empatia, tu che sei il “delinquente scafato” mi mangi, mi prendi in giro, me le racconti e io ci credo; se io divento tuo amico abbasso le difese, annullo le distanze e questo è deleterio. L'operatore dev'essere molto distaccato dalla persona, ma anche molto obbiettivo, capace di aprirsi e dare quella giusta dimensione alla relazione, altri-

menti si è troppo freddi e non si raggiungono dei punti in comune. Il volontario è un ruolo ancor più delicato, perché non essendo un operatore, ha la libertà di giostrarsi la relazione di aiuto, una relazione che però deve avere delle distanze; nessun volontario chiede mai a un detenuto che cosa abbia fatto, perché non ha senso chiederlo, devono essere loro ad aprirsi nei nostri confronti. La relazione deve crearsi con molta prudenza, però è veramente una risorsa per i detenuti, perché vedono finalmente qualcuno che non è un agente di polizia che si avvicina a loro e gli chiede:” Come stai? Vuoi parlare? Hai bisogno di qualcosa? Devo fare da tramite con la tua famiglia?” Il volontario deve agire con molta attenzione, ma anche con molta capacità. L'esperienza aiuta molto: il volontario è gratuitamente a loro vicino per dare un aiuto vero, non per diventare dei complici, non per essere amici tanto per fare. Premia molto di più questo atteggiamento rispetto all’amicizia in senso comune, anche perché l'amicizia è un termine che pone in equilibrio due realtà troppo distanti tra loro e questa distanza non può essere abbattuta con l'amicizia, perché loro la usano male. Va chiarita la distanza, che si trovano in carcere, perché spesso sono convinti di essere innocenti e cercano di trarre in inganno. La relazione d'aiuto è un mistero profondo, è molto difficile, molto complesso, ci vuole tantissimo tempo per capirlo. Quante persone collaborano con l'associazione? Ci sono dieci dipendenti, con trenta-quaranta volontari e poi tutta la rete dei servizi e gli operatori che ci sono in provincia e fuori. Ci sono molti collaboratori diretti ed indiretti. Quale titolo di formazione devono avere? Dipende dal ruolo che occupano. Per quan-

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esclusivamente delle carceri). C'erano tutte le autorità immaginabili, anche perché non tutti i giorni viene inaugurato un carcere, perché nessuno al giorno d'oggi ha i soldi per costruirlo e in genere i politici presenziano alla posa della prima pietra, promettendo grandi cose e poi nessuno partecipa alla posa dell'ultima pietra, perché nessuno conclude il lavoro e rimangono dei cantieri aperti anche per 20 anni. Io tempo fa scrivevo su Uct (rivista uomo-città-territorio) raccontando le disgrazie delle carceri italiane, nel senso che documentandomi un po', vedevo che ogni regione ha tanti cantieri aperti e mai conclusi o peggio delle carceri in via di costruzione, ma su siti inadeguati per la costruzione di un carcere. Immaginate un po' l'affare malavitoso, che negli anni che furono ha procurato a buon prezzo un posto dove fare un carcere, ma naturalmente in posti dove non può essere costruito per rischio sismico, per falde acquifere e per altre mille cose. Avere un carcere come quello che abbiamo è un lusso che tutta Italia ci invidia. Il carcere nuovo è molto grande, può contenere 240 detenuti, ma attenzione 240 detenuti significa altrettanti problemi, progetti, osservazioni, colloqui. Immaginate cosa voglia dire; è per questo che la polemica ancora in corso, è quella di dire che servono più guardie, perché 240 detenuti, in uno spazio così grande, richiedono 300 guardie, che 24 ore al giorno coprono i turni di sorveglianza, di scorta, di accompagnamento. Il nuovo carcere è una fortuna, nel senso che non abbiamo più la disgrazia del vecchio carcere, con condizioni inumane, vi assicuro che dentro era tragico; quello nuovo è un albergo in confronto, solo che richiede molto più impegno, molti più progetti, molte più risorse. Noi ci siamo come associazione, però siamo piccoli, occorre un intervento da parte di tutti.

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to riguarda le attività di inserimento nel mondo lavorativo: l'artigiano, il falegname, il magazziniere, ecc… sono figure professionali che permettono ai detenuti di imparare un lavoro. In ufficio, dove io opero, ho due operatori più un jolly, che hanno invece dei titoli più specifici per essere operatori dell'accoglienza; c'é un educatore professionista laureato in filosofia e un assistente sociale, che sta facendo anche la laurea magistrale specialistica. Poi ci sono i volontari che hanno competenze varie, perché si va dal pensionato che vuole dare una mano, al professore universitario che partecipa alle attività del consiglio di amministrazione e fornisce delle indicazioni molto professionali e specifiche, ci sono anche avvocati e professionisti di vario genere. È possibile che un ex carcerato diventi un operatore o un volontario? No. Succede in altri ambiti, come ad esempio nelle tossicodipendenze, dove nella comunità c'è l'ex che ha fatto ottimamente un percorso e si rende disponibile ad aiutare chi entrerà in comunità. La fortuna di questa dinamica è che l'ex tossicodipendente conosce tutti i trucchi e gli aspetti negativi che un tossicodipendente vive e quindi sa affrontare le bugie, le menzogne, ecc... Nel nostro caso no, perché, se tu hai un precedente, non puoi andare in carcere come operatore; la giustizia ti dice di restare lontano e quindi bisogna avere persone qualificate, pulite, che hanno anche delle capacità di stare distanti come dicevo prima dal problema. Nel nostro caso è così, poi magari ci sono altre soluzioni. Ci racconti qualcosa del carcere nuovo? Ieri sono andato all'inaugurazione e c'era il ministro della giustizia Alfano, c'era Franco Lonta ovvero il capo del D.A.P. (dipartimento amministrazione penitenziaria, il sotto ente del ministero che si occupa


Fotografia di Lucia Calliari “Ex Carcere - Trento”

> Intervista a cura di Edoardo Oss, Arianna Bampi, Eugenia Cunial, Gloria Girardi, Laura Gretter, Luana Di Piazza

Mario e Samir Quanto tempo siete stati in carcere? Mario Complessivamente 12 anni. Samir 4 anni e sette mesi. Com'era la vostra cella e cosa provavate a viverci? S. Dipende, non tutti i carceri sono uguali. Quindi sei stato in più carceri? S. Sì, sì. Ci sono dei carceri dove in una cella ci possono vivere due persone. Nel 2009 qui a Trento, gli ultimi 30 giorni che ho fatto, in una cella eravamo undici persone, in 30 mq. Era difficile la convivenza? S. Dura. M. È difficile convivere nella stessa casa con la propria moglie, o con la propria ragazza, figuratevi in una cella di “2 x 3”, con persone che non conosci, magari di nazionalità diversa dalla tua, di religione diversa dalla tua, con un modo di vivere diverso e per poter stare assieme bisogna per forza andare d'accordo e trovare dei compromessi. Immaginatevi, vivere 24 ore al giorno in un contesto del genere, dopo un giorno, un mese, un anno, la cosa diventa abbastanza dura da sopportare. Com'erano le condizioni igieniche e di vita all'interno del carcere? M. Anche questo dipende da carcere a carcere. Ci sono degli istituti, ad esempio quelli nuovi, ma anche alcuni di quelli vecchi, che sono tenuti molto bene, e poi ce ne sono degli altri che fanno veramente paura. Quando vai a fare la doccia in alcune carceri devi andare armato, c'è uno schifo che non ci entrerebbe mai nessuno, però devi lavarti. Devi stare attento a cosa tocchi, ci sono sempre problemi di malattie. Io una volta ho appeso l'accappatoio al muro e il giorno dopo avevo macchie rosse su tutto il corpo. Com'era quello di Trento in via Pilati? presenti 100


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celli per andare a fare quattro passi nel cortile, fino alle 11. Poi di nuovo in cella perché a mezzogiorno passa il carrello del vitto per portare il pranzo. Alle 13 ci mandano giù un'altra volta fino alle 15. Poi si torna in cella dove si sta fino all'indomani. Sempre in cella. Praticamente dovevamo inventare qualcosa per passare il tempo. Che possibilità avevate di ricevere visite e come si svolgevano? M. Le visite dipendono da istituto a istituto, è la direzione che istituisce le regole dei colloqui con i familiari. Una volta erano molto più rare, adesso hai la possibilità di fare quattro colloqui ordinari e due straordinari. Quindi sei colloqui in un mese. Nelle carceri dove ci sono detenuti ritenuti pericolosi, i colloqui vengono fatti in stanze con dei vetri, tipo quelli che vedete alla televisione, per gli altri detenuti si svolgono in stanze normali, dove ci sono dei tavolini e delle sedie. I familiari entrano da una porta e tu ovviamente entri da un'altra, ci si trova in questa stanza e si può rimanere per un'ora. I colloqui straordinari durano due ore. Per tutto il tempo del colloquio c'è un agente che ti segue o delle telecamere che riprendono tutto. Solitamente in queste cose sono corretti, ma a volte si subiscono anche perquisizioni “particolari”. Spesso quando esci dal tuo colloquio ti fanno spogliare nudo davanti ad un medico o un agente, non mi vergogno però è una di quelle cose che toglie dignità. C'era la possibilità di telefonare o scrivere lettere? M. Sì, una volta alla settimana hai diritto a 10 minuti di telefono, però solo se hai i soldi. Le telefonate te le devi pagare, altrimenti non le puoi fare. Per mandare lettere, puoi scrivere tranquillamente. Ci sono delle bussole all'interno, la posta parte e arriva. Diciamo che fino agli anni '70, giusto per fare un po' di storia, le lettere che u-

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S./M. Quello è tra i peggiori! M. Invivibile! Invivibile sotto tutti gli aspetti. Nel rapporto con le guardie, per quanto riguarda gli spazi comuni, le celle. Veniva fatto qualche sforzo per portare avanti dei corsi per i detenuti. Io mi ricordo quando ci sono stato, molti anni fa, nell'82, avevo fatto un corso di teatro. Questa è stata la più bella cosa che ho fatto in quel posto. Poi abbiamo fatto anche una rappresentazione alla fine del corso, ovviamente all'interno del carcere. Comunque alla fine è più difficile vivere in carcere che fuori. Tu a Trento sei stato recentemente? Era ancora pesante la situazione? S. Io l'ho soprannominato l'Inferno! Mi hanno fatto scontare 30 giorni d'Inferno. Ho avuto problemi di alcol e con l'aiuto degli assistenti sociali dell'alcologia mi avevano inserito in una comunità di frati a Cles. Stavo facendo questo percorso e con l'aiuto dei frati avevo iniziato a riprendermi, a tornare me stesso, ripensando agli errori fatti... quando una mattina alle 6.30 si presentano i carabinieri, dicendo che mi dovevano portare in carcere. Al carabiniere che mi accompagnava ho detto: “Non parlarmi perché sono concentrato”. La mentalità del carcere l'ho dimenticata parecchi anni fa, ho dovuto tirarla fuori di nuovo, per capire come entrare, in che modo affrontare le persone, le guardie, come affrontare la vita dentro. E lì veramente è un inferno. Un inferno vero e proprio. Se qualcuno ti chiede: “Sai cosa vuol dire la parola nullità?”, magari rispondi è un oggetto che non serve a niente. Ma lì si tratta di persone, ti senti una nullità in tutti i sensi. Vivi, cammini, ma non sei nessuno. Più che vivere, vegeti. È dura! Com'era organizzata la giornata? Avevate dei momenti di svago? S. La mattina ti alzi più o meno all'ora che vuoi, si fa colazione e alle 9 aprono i can-


scivano ed entravano venivano lette tutte. Di solito lo faceva il cappellano del carcere. Poi nel '75 sono cambiate un po' le leggi e questa cosa non è più stata fatta. Le lettere ora vengono lette solo in situazioni particolari, ma in questi casi vieni avvertito che la tua posta è controllata. Com'era il rapporto con le guardie del carcere? M. Ci sono carceri in cui non auguro neppure al più “bastardo” di starci. È come se tu vivessi in un mondo completamente diverso. Il carcere è un mondo a sé, dove comanda chi ti chiude e chi ti apre la porta. Ci sono posti in cui rischi anche solamente se ti permetti di guardare male una persona che porta la divisa. Ci sono anche posti in cui c'è molta umanità, dove gli agenti sono delle persone che fanno il loro lavoro, che sono come tutti, magari padri di famiglia, sono persone molto affabili, con cui puoi discutere, che se c'è qualche problema ti aiutano e prima di arrivare al limite ti parlano. Nelle carceri tante volte, si superano i limiti. È una questione di tensione, di ansia o magari perché ti arriva una brutta notizia e “dai fuori di matto”, spacchi qualcosa... quando capiscono che tu puoi arrivare a certi limiti, cercano di intervenire prima, per poterti aiutare senza arrivare a farti del male. Altrimenti vengono dentro, ti prendono, ti danno quattro bastonate sulla testa e ti portano in cella di isolamento e stai lì finché ti passa. Ci sono delle persone con cui hai legato particolarmente, che hai ritrovato anche quando sei uscito? M. Sì, però non sono necessariamente persone detenute come me, soprattutto sono persone che erano volontarie che venivano in carcere un'ora a settimana o la domenica alla messa, con cui ho instaurato un ottimo rapporto e che vedo e che sento tuttora. Mi chiamano, andiamo in gi-

ro assieme, parliamo, facciamo tante cose; sono delle bellissime persone. Qual era il pensiero più frequente che avevate quando eravate in carcere? S. L'arrivo del giorno in cui sarei uscito da quel posto. È l'unico pensiero che puoi avere, una volta che ti chiudono dentro il resto non esiste più, non esistono più nemmeno i pensieri. Pensi, cosa pensi? Guardando in giro vedi solo sbarre, non hai neanche la libertà del pensiero, di dire domani mi alzo, faccio questo, faccio quello... l'unica cosa che ti viene da pensare è: “Quando finisce la pena?” Tra un anno, un anno e mezzo, io penso solo a quel giorno lì. Il resto non mi interessa, non mi metto a pensare perché non serve proprio a niente. Non è che se penso risolvo qualcosa, non risolvo niente. Metto solo davanti il giorno della fine della pena e aspetto che arrivi quel giorni lì. Poi, il giorno che esco da quel posto comincio a pensare, ma fino a che si è lì dentro i pensieri non servono proprio a nulla. Anche se di pensieri non ce n'erano tanti, si dice che leggere aiuti a liberare la mente. Cosa vi piaceva leggere in carcere, se leggevate qualcosa? M. Beh, io ho letto di tutto. Oltre a suonare, leggere è ciò che mi piaceva fare di più, leggevo e scrivevo. L'unico posto in cui potevo andare a suonare era la chiesa, non è che puoi tenere uno strumento in una cella, però in chiesa si poteva. E quindi mi ero fatto fare un permesso per poter andare in chiesa a suonare e mi davano la possibilità di farlo. Andavo in chiesa a suonare oppure scrivevo e leggevo tutto quello che mi capitava. Ma, ad esempio, il permesso per andare a suonare in chiesa: avevi delle fasce orarie prestabilite o potevi chiedere di andarci liberamente? M. No, ci sono delle fasce orarie. Nel car-

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un'altra passione che non sia la musica? M. Sì, anche se dipende dal posto in cui sei. Ho conosciuto tanta gente che disegna molto bene. Per la pittura si utilizzano sostanze nocive ed attrezzi particolari, cose che non puoi tenere in cella, quindi si dava la possibilità di poterle utilizzare in una stanza apposita, dove avevi tutte le tue cose, potevi fare tutto quello che volevi e dopo, una volta che avevi finito, uscivi e le guardie chiudevano la stanza. Io non potevo andare in cella con una corda di chitarra, può essere pericolosa, puoi tagliare il collo a qualcuno, puoi impiccarti, puoi fare qualsiasi cosa. È sempre un'arma e loro cercano di evitare di lasciarti qualsiasi tipo di oggetto che possa essere usato in modo pericoloso. A Trento, in via Pilati queste cose c'erano? M. Quando ci sono stato io, qualche volta andavo in chiesa a suonare durante la messa, e poi facevo qualche prova.

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cere c'è “la conta”, viene fatta la mattina alle 8, il pomeriggio alle 16 e poi alla sera. Sono gli orari in cui cambiano il turno e in questo modo loro sanno quante persone ci sono, dove sono, ecc. La possibilità di andare a suonare poteva essere alla mattina, dalle 8.30 alle 11.30, oppure il pomeriggio dalle 13.30 alle 15.30, questi erano gli orari. Per me erano due ore per poter suonare e starmene tranquillo. In questi momenti, ti sentivi un po' più “libero” o comunque questa attività riusciva un po' ad alleggerirti? M. Beh, io quando suono non ci sono più per nessuno. Ci sono solo per me, tutto il resto sparisce. Ed è per questo che lo facevo. Anche quando leggo o scrivo, sono talmente immerso nelle cose che faccio che sono in quello che sto facendo. Poi dopo torni nella tua realtà: il carcere. Ma vengono favorite queste cose? Magari anche per le altre persone che hanno


S. In via Pilati venivano dei volontari, per fare scuola ai detenuti. Il carcere è sovraffollato di stranieri, di cui la maggior parte non parla bene l'italiano. Io capisco la loro lingua, e quando hanno scoperto che parlo bene anche l'italiano, mi chiamavano ogni giorno per andare dal magistrato; non potevo nemmeno rifiutarmi, perché non c'era nessun altro. Facevi l'interprete? S. Sì, sì a me conveniva, perché ero sempre fuori. Mi chiamavano la mattina, il pomeriggio, e rimanevo lì, passeggiavo per il corridoio. Quando ero a Torino, dove sono rimasto per due anni e mezzo, sono entrato in una cooperativa. Avevano pensato: noi portiamo il lavoro e al posto di lasciarvi tutti i giorni chiusi in cella senza fare niente, vi facciamo fare un'attività. Quando sono arrivato hanno aperto una gran falegnameria e siccome io di professione faccio il falegname, mi hanno chiamato subito; facevamo quelle panchine che trovate nei parchi. All'inizio noi le facevamo e altre persone andavano a montarle. Poi, quando mi mancava poco, uscivo anch'io; andavo a lavorare di giorno fuori e rientravo la sera. Diciamo che ci sono dei carceri dove c'è la possibilità di imparare anche un mestiere. Avete ottenuto uno sconto di pena? S. Io a dire la verità no, li ho scontati tutti. Siete stati agli arresti domiciliari? Rispetto al carcere è una situazione migliore? S. Sicuramente migliore. Io ho fatto sette mesi di arresti domiciliari, per motivi di lavoro. Uscivo alle sette del mattino e andavo a lavorare fino alle sette di sera, poi tornavo a casa e non uscivo fino all'indomani. Si è sempre a casa, ma non ti vengono a svegliare quando vogliono, e ogni 10 minuti non c'è un casino: è questa la differenza. M. Non ho mai fatto gli arresti domiciliari,

ma ho avuto la possibilità di ottenere dei benefici, come l'affidamento sociale. Rispetto agli arresti domiciliari, c'è la possibilità di avere degli spazi molto più ampi di movimento. Con gli arresti domiciliari devi andare a lavorare, facendo sempre lo stesso percorso. Se ti trovano fuori da quel tipo di percorso, rischi che ti venga tolto il beneficio e ritorni in carcere. L'affidamento invece è un po' più ampio, hai comunque degli orari ma hai delle ore libere e un maggiore spazio di movimento. Il sabato e la domenica, che non lavori, hai la possibilità di andare dove ti pare. Sempre restando dentro un certo raggio d'azione, che può essere il comune, la provincia o la regione, dipende da quello che il magistrato ti concede. Che tipo di lavoro fate ora? È lo stesso che facevate prima di entrare in carcere? M. No, non è assolutamente quello che facevo prima. Io sono un floricultore, ho lavorato e spero di lavorare ancora nel mio campo che è la cosa che mi piace di più. Ho sempre lavorato nello spazio verde, tra piante, fiori, qualsiasi cosa che avesse a che fare con la terra e con le piante. Dall'anno scorso ho iniziato un programma con l'APAS, che oggi mi ha portato a lavorare presso la Erickson di Gardolo. Terminerò alla fine di questo mese e intanto sto cercando un’altra soluzione, ma sapete anche voi che adesso non è facile trovare una soluzione lavorativa per nessuno. Oltre che nel lavoro in che modo ti ha aiutato l'APAS? M. Diciamo che l'APAS interviene parlando con le altre cooperative, informandosi se ci sono spazi per persone idonee e pronte a reinserirsi nel mondo lavorativo. Ci indirizzano in vari posti. Com'è nato il rapporto con l'APAS? M. Il mio programma è partito dal carcere, dopo averne sentito parlare da altre perso-

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Fotografia di Paolo Guolo “Ex Carcere - Trento”

ne. Ho scritto una lettera all'APAS e dopo un po' di tempo mi ha risposto un operatore. Abbiamo fissato un colloquio dove abbiamo parlato della mia situazione ed è iniziato un primo rapporto. In seguito, ho chiesto un permesso al magistrato per poter andare negli uffici dell'APAS e fare un colloquio più approfondito. Mi sono state concesse 4-5 ore, poi sono stati tre giorni e poi cinque. Quando mi mancavano tre mesi al termine della pena, sono uscito in affidamento sociale. Oggi che il mio problema con la giustizia è finito, il programma continua e terminerà alla fine di questo mese. Qual è stato il momento più difficile che avete vissuto dentro al carcere? M. Non ce n'è solo uno ce ne sono di più. S. Il momento più difficile è quando ti sbattono dentro, quello è proprio drammatico. Dopo un paio di giorni cominci a organizzarti, a renderti conto di dove ti trovi, e piano piano inizia a passare. M. Una cosa che non potete sapere è che il carcere ha diversi modi per toglierti la libertà. Non si tratta semplicemente della mancanza di libertà di movimento, perché una persona chiusa in una stanza può sempre continuare ad avere la sua vita. In carcere ti vengono tolte altre cose che sono molto più importanti a livello emotivo, di pensiero, di comunicazione, sia col mondo esterno che interno. È come se entrando ti aprissero e con una mano tirassero fuori tutto, lo mettessero in un sacchetto e te lo riconsegnassero solo nel momento in cui esci. Dentro di te manca tutto, è una sensazione talmente sgradevole che fa male. Io ho avuto la possibilità di accedere nel tempo a dei benefici. Avevo la possibilità di uscire dalla mia cella tutte le mattine alle otto, uscire dalla sezione del carcere e rimanere fuori tutto il giorno. Arrivavo alla porta e dicevo all'agente apri e


lui mi apriva. Era una sensazione bellissima. A Rovereto ci sono nove cancelli per arrivare alla strada e avere la possibilità di superarli tutti è una sensazione che per un detenuto è veramente importante. Se l'agente lascia la porta aperta e mi dice: “Non uscire”; io non esco ma dentro di me cambia qualcosa, perché so che quella porta è aperta. Ti senti già più libero. S. È tutto un fattore psicologico. Io non ho potuto provarlo, ma sentire che la chiave fa il giro al contrario, che la porta si apre, ti cambia tutto. Poi non varrebbe neppure la pena di provare a scappare. Voi ve la sentireste di dire che il carcere è rieducativo? S./M. No, mai. S. Ho sentito anche questi discorsi. Ma non è vero niente. M. Sono entrato nel carcere che mi facevo le canne e sono uscito che mi facevo le pere. Il carcere non ripara, non dà possibilità. Non c'è niente di positivo. Il carcere è solamente repressione. Reprime il pensiero, la persona, tutto. Spero che nel futuro le cose possano cambiare. Ora io sono uscito, ho saldato il mio debito, basta è finita col carcere. Il carcere non riesce a fare niente per una persona. Io ho fatto qualcosa per me. Nell'ultimo periodo sono cambiate molte cose dentro me. Ho scritto un’autobiografia e questo mi ha dato la possibilità di rileggere le cose che ho fatto e di rivedere tutto me stesso, come se avessi uno specchio di fronte. Mi sono avvicinato alla fede, mi ha aiutato tantissimo. Mi ha dato una sensazione di serenità, di tranquillità, mi sentivo in pace con me stesso nonostante fossi in un carcere. Mi chiedevo come potesse succedere una cosa del genere e ne parlavo con una persona importante del carcere, un padre cappuccino che avevo conosciuto tanti anni fa, una persona per me importante. Ab-

biamo pochi anni di differenza e per me non era solo un confessore, ma un amico con il quale potevo parlare di tutto quello che avevo dentro. Il fatto di ricevere un riscontro continuo da una persona che non ha nessun problema a dirti qualsiasi cosa, bella o brutta che sia, questo mi ha aiutato tantissimo nel trovare questa forma di serenità. Quando sei dentro, pensi ai tuoi figli, alla tua famiglia e a tutte le cose di questo mondo. Se non viene a trovarti la moglie o la ragazza, cominci ad andare in ansia e pensi a cosa può essere successo. Non puoi prendere il cellulare e chiedergli dove sei, cosa fai, cosa è successo, è impossibile; per telefonare bisogna fare una richiesta e passano almeno tre giorni minimo. È diverso dal mondo esterno, ed io facevo sempre più fatica a sopportare questa situazione. Andavo poche volte all'aria, ci andavo solo la domenica e quello che sentivo erano sempre le stesse cose:”Mi mancano tre mesi”, “Mi mancano tre giorni” e a me mancavano quattro anni. Parlare con queste persone mi metteva ansia e, pur di non sentire queste cose, me ne stavo nella mia cella. Questo per farvi capire il mondo che esiste dentro il carcere. Come ci si sente a essere liberi? M. Dipende. Se tu fai un giorno di carcere, un mese o duemesi, diciamo che quasi non te ne accorgi, perché non hai vissuto niente, non hai capito niente. Ma se fai dei periodi molto lunghi, allora le cose cambiano. Quando esci ti ci vuole del tempo per poterti rendere conto che non sei più lì, che sei fuori. Non sei abituato a vedere tanta gente, al casino. Ti senti perso. Ti rendi conto di aver perso una parte del tempo della tua vita. Appena usciti dal carcere, è automatico riacquistare la libertà? S. La libertà è facile da perdere, non ci vuole niente, ma riconquistarla è dura,

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glietto. Mi sentirei fuori posto, non in regola. Se vado in un posto dove non mi conosce nessuno, presento il mio curriculum e quello che interessa è se so fare bene o male un lavoro. Ma se vado dove mi conoscono, tutti sanno del mio passato, anche se ci sono persone che non hanno pregiudizi. S. A me è successo pochi giorni fa, vado in un'agenzia per fare una domanda di lavoro e leggo: “Hai avuto precedenti penali?”. Cosa gli metto? Se dico sì, non mi prendono anche se ho detto la verità e sono stato sincero, se magari salto quella domanda, loro fanno accertamenti e lo scoprono, così non mi prendono e mi dicono:”Perché non l'hai dichiarato?”. Il mio passato mi spaventa, soprattutto adesso che il lavoro non c'è. Già è difficile per gli italiani, figuratevi per me. Com'è cambiato il vostro rapporto con i familiari e con la società una volta usciti dal carcere? M. Con la società, intesa come persone, mi sento uguale agli altri, non mi sento diverso. Non mi sento a disagio, il rapporto con me stesso è buono e anche con gli altri, ho un buon rapporto con tutti. Con i famigliari… è un tasto un po' dolente. Mi sono sposato due volte e sto divorziando anche dalla seconda moglie. Ho una figlia dalla mia prima moglie, che a sua volta ha due figli e infatti sono nonno. Mia figlia è stata e lo è tutt'ora, il peggior giudice che esista. Non ho fatto mai male a mia figlia a livello fisico, ci mancherebbe altro, però le ho fatto del male in altro modo: andando via di casa, ma anche il fatto che io fossi in carcere per lei non era una bella cosa. Soffriva e io andavo in giro a fare i cavoli miei per il mondo. Nel frattempo lei è cresciuta, ci siamo incontrati varie volte in questi anni, ma non siamo mai riusciti ad avere un rapporto profondo. Con lei avevo un bel

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credimi. Quando perdi la fiducia delle persone che ti sono care, riconquistarla è molto difficile. Io sono divorziato, e ho tre bambini: il più grande ha 19 anni, l'altro 11 e uno 9. Quando combinavo le cavolate non mi rendevo conto. Ad un certo punto mi sono girato e ho visto mio figlio che era diventato più alto di me, allora ho cominciato a darmi una regolata, ho detto: “È il momento di dire basta”. Ho voluto provare “quella strada”, l'ho provata e ho pagato, ho capito e ho detto basta. Con mio figlio più grande parliamo spesso, lui mi fa domande, anche sulla droga e io gli dico: “Non credere all'amico che ti dice: vieni ho la canna o la pasticca!” Io so l'effetto che fanno queste cose e ho detto basta con la vecchia strada. Sono stato un anno in una comunità per disintossicarmi dall'alcol e dalle droghe. Ora è un anno che sono con l'APAS e anche con loro ho fatto un bel programma, sono tornato a vivere la vita che da un po' di anni non vivevo più. È cambiata la vostra idea di libertà dopo aver vissuto l'esperienza del carcere? M. È cambiata molte volte. Io ho fatto tre detenzioni. Tutte le volte che esci dici: “Basta, chi me lo fa fare di tornare dentro?!” Dentro vivi male, soffri, però col passare del tempo ti dimentichi di questo dolore ed è facile ricadere un'altra volta. È l'età che ti fa capire. Ti fa capire di aver buttato via del tempo, tempo in cui avresti potuto fare tante cose e allora la tua sensazioni di libertà diventa qualcosa di veramente forte. Vi sentite pronti ad affrontare qualche progetto, qualche sogno che avete? M. Come no! Siamo qua per quello. Avete paura di incontrare ostacoli? M. Sì. Li ho incontrati tante volte. Molta gente pensa: “Quello è stato in carcere, è un delinquente”. Non è vero. Io non sono capace di prendere l'autobus senza il bi-


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Fotografia di Nicola Orempuller “Ex Carcere - Trento�


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M. Ho fatto 1000 copie e l'ho dato a tutte le persone che conoscevo. Però la prima persona a cui l'ho dato è stata mia figlia, lei alcune cose le sapeva già e altre le ha capite leggendo. Perché siete stati in carcere? M. Io sono partito facendomi le canne e poi sono passato alle banche. S. Anch'io sono partito con le canne poi sono andato sul pesante. Con le canne sembra una cosa leggera poi quando vai sul pesante, cominci a renderti conto. Pensate di riuscire a tenervi lontani da ciò che vi ha portato a soffrire in prigione? S. Speriamo di sì. Abbiamo trovato delle persone che ci hanno dato una mano. Io sono stato aiutato dai frati e poi dall'APAS, non mi hanno lasciato solo, diciamo che mi hanno protetto e grazie a questo, oggi parlo in questo modo, perché sono tornato a ragionare con la mente lucida. Io poi sono musulmano, e pensate a quello che ho fatto, la nostra religione proibisce alcol, droghe... eppure mi sono cacciato nei problemi da solo. Ora dobbiamo proseguire su questa strada, sperando di trovare qualcuno che ci dia la giusta spinta, perché la vita è bella e bisogna anche goderla. M. Lui è musulmano, ma è uno dei miei migliori amici. Le mie motivazioni per vivere in libertà, sono i progetti e la fede, che mi danno la possibilità di avere una presa sicura su tantissime cose. Ormai quello che è stato è stato, io non ho più debiti con nessuno, non ho più sensi di colpa, solo con mia figlia, però per il resto mi sento molto bene. Come dice una mia amica: “Quando si chiude una porta si apre un portone”. Dipende tutto da te, dal tuo modo di vivere, dal saper credere nelle cose che hai attorno. Non avete mai pensato alle conseguenze di quello che stavate facendo?

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rapporto quando aveva 12 anni, perché avevamo vissuto insieme per tanti anni, poi le cose sono cambiate. Il nostro rapporto è difficile, ma è l'unica persona a cui sono legato. Io ho solo lei. Purtroppo i miei genitori non ci sono più e l'unico rapporto che ho di sangue è con lei, ci vorrà del tempo, ma sto facendo di tutto per riconquistare la fiducia di mia figlia. Questa è l'unica cosa che desidero veramente. Ancora oggi lei è capace con una parola, con uno sguardo, con una telefonata, con un messaggio, a farmi provare alcune cose, è l'unica persona che ha la possibilità di potermi giudicare e da lei i giudizi gli accetto. Gli altri possono dirmi quello che vogliono, ma entra da un orecchio ed esce dall'altro, non mi fanno più male. Una volta mi facevano male, adesso non più. Qual è stata la prima cosa che avete voluto fare appena usciti dal carcere? M. Sono andato al bar a prendermi una birra, e ho invitato i miei amici, quelli con cui lavoravo all'esterno del carcere. Quando sono uscito, erano tutti in portineria ad aspettarmi. Sono sempre stati buoni, corretti, persone che non mi hanno mai fatto sentire “il detenuto”, con loro avevo un rapporto di parità e questo mi ha fatto molto bene, mi ha fatto capire che dipende tutto da te. Siete stati sinceri con le persone che avete incontrato dopo l'uscita dal carcere? M. Al di là di alcune persone, non dico di essere stato bugiardo, semplicemente ho omesso delle cose. Con le persone con cui ho un certo tipo di rapporto, non avevo niente da nascondere, perché conoscevano molto bene il mio passato. A tutte le persone che conosco ho dato una copia del mio libro e li c'è tutta la mia vita. Non è una vergogna avere un passato, mi serve come specchio, come segnale di pericolo. Ha realizzato lei questo libro?


S. No, all'inizio non ci pensi proprio. Ci pensi solo quando ti trovi il muro davanti e dici: “Ecco sono arrivato al capolinea”, allora cominci a pensare. C'è stato un momento in cui vi siete accorti che stavate prendendo una strada da cui non potevate più tornare indietro? M. Sì, “il momento di non ritorno”. Te ne accorgi quando arrivi in carcere. Quando ho svaligiato la banca avevo accumulato tanti soldi, ma una volta finiti l'ho rifatto, perché la prima volta era stato così semplice. Nel momento in cui non ti va più bene capisci come vanno realmente le cose. Se aveste la possibilità di cambiare il carcere, per renderlo migliore e più educativo, quali sarebbero le cose più importanti da cui partire? M. Una prima cosa sarebbe quella di insegnare alle guardie ad avere un rapporto di umanità molto più forte. Per poter capire un detenuto bisogna ragionare come un detenuto e un agente di custodia non può ragionare come un detenuto. La parola fiducia è inesistente nel carcere, nessuno si fida di te, se invece incontrassi qualcuno capace di darmi questa fiducia, lo sentirei come un grande valore. Poi è importante che le persone che stanno in carcere possano seguire dei corsi, chi li può fare vive molto più serenamente la propria giornata. I detenuti in carcere devono pagare per il periodo della reclusione? M. Si, devi pagare per il tuo mantenimento. Se in carcere lavori, ti viene trattenuta una parte dallo stipendio. Lavorando avevo una certa disponibilità e così potevo comperare pasta, sugo... e la sera in cella con un fornelletto da campeggio cucinavamo. Ci sono persone che non hanno nulla, neppure una sigaretta, del caffè o anche il sapone, lo shampoo.

Perché anche queste cose se le deve procurare un detenuto? M. Certo. Costa tutto, qualunque cosa. Però questi momenti in cui facevate da mangiare non era tanto per la fame, diventava anche un momento di socializzazione? M. Sì, per stare assieme. Diciamo che la sera c'era la possibilità di farlo, si chiama proprio socialità. Chiami qualcuno di un'altra cella e si prepara la cena, si sta assieme quelle due ore, si mangia, si ride e si scherza, altrimenti diventa proprio pesante. Negli anni '70 non c'era una televisione per ogni cella, ma una in bianco e nero in una sala e così ci trovavamo tutti assieme. Adesso tutti hanno la loro televisione in cella, hanno il loro telecomando e stanno sul loro letto e nei carceri nuovi, come quello di Trento, ci sono anche le docce. È molto bello, le celle sono più spaziose, 19 metri quadrati in due e si vive molto meglio, ma questo ti toglie la possibilità di andare da qualsiasi altra parte: per andare a fare la doccia non esci più, per guardare la televisione non esci più… ti dicono: “Hai tutto qui, cosa vuoi di più dalla vita?” “Eh, ciao…” In vari articoli e servizi si può leggere che nei carcere si fa un forte uso di psicofarmaci, è così? S. I farmaci si danno per farti rimanere con la mentre annebbiata, così non hai ansie ed eviti di impazzire. M. Pensate ai carceri sovraffollati, con una forte presenza di stranieri che obbliga ad una convivenza forzata di culture diverse. Parliamo di celle con letti a castello, un tavolo, un lavandino e un bagno, in questi spazi ristretti immagina quante liti possano avvenire anche per piccoli problemi, quante situazioni di disagio possono crearsi. Sono situazioni di disagio e di paura.

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dere tutto. Le violenze magari ci sono, ma avvengono di nascosto. Pensando sempre ai film, la corruzione delle guardie esiste? M. La corruzione delle guardie da noi esiste molto poco, se cominci ad andare a Roma, Napoli, Palermo… più vai giù e più ne trovi. Trento e Rovereto sono case circondariali, solo per particolari tipologie di reato e solo fino a 5 anni. Invece se vai nei carceri grossi come Roma, dove ci sono persone che devono scontare 20 anni oppure l'ergastolo, non gliene frega assolutamente niente di un beneficio o di qualunque altra cosa. Tanto tempo fa sono stato nel vecchio carcere delle Murate di Firenze, era veramente fatiscente: nella mia sezione c'erano 600 detenuti, liberi di girare da parte a parte e dentro succedeva qualsiasi cosa: la gente si ammazzava, si accoltellava, girava qualsiasi tipo di sostanza. Ecco, all'epoca queste cose succedevano, adesso sono piuttosto cambiate. Ieri ho sentito che nel 2010, nei carceri italiani, si sono suicidati 66 detenuti. Non è un numero piccolo, perché una persona che decide di suicidarsi in un carcere vuol dire che davvero non ne poteva più. La sopravvivenza è propria dell'istinto umano, si cerca sempre di vivere, eppure se qualcuno lo fa vuol dire che ha raggiunto il limite.

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Fotografia di Fiorella Turri “Ex Carcere - Trento”

Hai detto che c'era la possibilità di andare a messa, ma per chi non era cristiano? M. Poteva andarci lo stesso. Ma se per esempio i detenuti musulmani volevano pregare? M. Quando sono tanti e vogliono pregare assieme, magari viene data la palestra. I carceri hanno sempre una palestra, avete presente i film americani in cui i carcerati sono sempre muscolosi? Anche in Italia ci sono le palestre, magari più piccole. Pensando ai film, esiste la violenza in carcere? M. È sempre abbastanza elevata ma è più nascosta. Fortunatamente, oggi, nelle carceri ci sono moltissime telecamere, in qualunque posto. Per legge è punibile sia il promotore della violenza, sia chi risponde a una violenza. Le conseguenze sono che magari ti tolgono la possibilità di telefonare, oppure i colloqui e in più ti vengono negati i benefici di riduzione della pena. Io sul totale della mia condanna, ho avuto un beneficio di nove mesi, perché il mio comportamento è sempre stato ottimo, ho sempre lavorato, non ho mai avuto discussioni o litigato con nessuno. Questi benefici per un detenuto extracomunitario senza residenza non esistono. A lui non importa nulla di comportarsi bene, tanto non gli danno niente lo stesso; invece una persona che ha la possibilità di accedere a dei benefici sta molto attento, perché può per-


Antonella Forgione Giorgio Iacobone Giuseppe Ayala Don Ciotti Lorenzo Dellai Giacomo Santini Giorgio Tonini

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Per il genere umano è difficile definire la parola libertà: ha un significato talmente vasto e soggettivo, che ognuno di noi la interpreta diversamente. In questa sezione abbiamo cercato di analizzare un aspetto di essa, circoscrivendola all'ambito politico-istituzionale. Sembrano dei paroloni, ma in realtà abbiamo cercato di guardare una realtà che spesso ci sembra lontana, una realtà delicata, soprattutto in questi giorni dominati da episodi che sempre più evidenziano una crescente brama di potere degli uomini più rilevanti di ogni stato, politicamente ed economicamente parlando. Abbiamo avuto la grande opportunità di discutere, ascoltare e confrontarci con persone importanti, personalità che spesso identifichiamo solo con nomi altisonanti e nulla più. Ognuno di loro ha voluto condividere con noi le proprie idee, la propria visione della libertà e come la stessa si colleghi ad un mondo che ai nostri occhi si proclama libero, ma molto spesso si rivela non esserlo. Condurre l'intervistato verso un percorso predefinito di domande non è sempre fattibile, e spesso abbiamo incontrato delle difficoltà, ma crediamo di essere riusciti a far emergere dai numerosi colloqui ciò che cercavamo, ovvero il rapporto tra potere e libertà. Legalità, immigrazione, politica: questi sono i temi che troverete sfogliando le pagine che seguono. Sono temi scottanti ed attuali, molto spesso trattati superficialmente o solo come lo “scoop che fa notizia”. Queste interviste ci hanno aiutati a ca-

libertà E ISTITUZIONI Andrea Coali, Tiziana Marino

pire che un problema persiste fin quando non viene totalmente eliminato, e non quando i vari mezzi d'informazione di cui disponiamo smettono di parlarne. Ognuno dei nostri intervistati è riuscito a insegnarci qualcosa. Sarebbe pura ipocrisia se dicessimo che all'inizio del nostro percorso credevamo che il mondo politico-istituzionale fosse un mondo libero, prescindendo dalle comuni norme civili. Parlando con i nostri intervistati abbiamo avuto la possibilità di ricrederci, almeno parzialmente. La “macchina” dello Stato è molto complessa: ha bisogno di una continua rigenerazione ma anche di stabilità, necessita impegno, voglia di fare del bene per il proprio Paese, di mettere in atto delle norme a volte scomode. Abbiamo sotto gli occhi esempi lampanti di corruzione e di poca voglia di fare, ma generalizzare non fa mai bene. Sono molte le persone che si sono preoccupate, e molte che si preoccupano ancora oggi, del benessere del nostro Paese: manca, a volte, solo la giusta informazione. L'idea che noi ci siamo creati si può riassumere molto brevemente e con l'aiuto di una metafora (non prodotta dalle nostre menti!). In termini sportivi potremmo dire che lo Stato è come una squadra: un'insieme di giocatori che nel momento in cui è unito riesce a raggiungere ogni obiettivo prepostosi. Speriamo che questo nostro lavoro possa far luce su un argomento così attuale, sfatando magari, anche quei luoghi comuni che dominano molte volte i nostri discorsi.

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Fotografia di Nicola Orempuller “Ex Carcere - Trento”

Antonella Forgione Antonella Forgione (Benevento, 1966) Laurea in Giurisprudenza presso l'Università di Urbino. Esercita come avvocato dal 1989 fino al 1994, anno in cui diventa vicedirettrice del carcere di Verona. Nel 2003 viene nominata direttrice della Casa Circondariale di Rovereto e dal 2008 anche di quella di Trento. Sotto la sua direzione è avvenuta la chiusura della storica struttura carceraria di via Pilati e l'insediamento nella nuova sede di Spini (Trento) nel dicembre 2010.

Jacques Audiard, Il Profeta, 2010

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che in questa cittadella lavorano e sono tutti gli operatori, che a diverso titolo svolgono la loro attività. Si tratta di due realtà umane molto diverse. Oltre all'attività di gestione, un direttore risponde anche della sicurezza, dell'ordine e della disciplina. È a contatto con i detenuti? Non come altri operatori, perché una buona parte dell'attività è gestionale e amministrativa. In questo campo lavorano molte donne? Come direttori ci sono tantissime donne, credo che in Italia siamo in maggioranza, può sembrare strano, però è così. Rispetto al passato, intendo 40 o 50 anni fa, si tratta di un lavoro che oggi si può intendere sempre più facilmente al femminile. In un contesto prettamente maschile la sensibilità femminile è un vantaggio o un limite? Più vado avanti e più mi convinco che essere donne in questo lavoro significa mettere maggiori energie, perché come avete

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Per quale motivo ha deciso di fare questo lavoro? Per passione. Nel periodo in cui maturavo l'idea di svolgere questo lavoro, ho conosciuto un vecchio direttore delle carceri, un magistrato che si chiama Nicolò Amato, che negli anni ’90 compariva spesso in televisione. Aveva un modo di parlare del carcere che mi ha fatto innamorare e come neo laureata in giurisprudenza mi ha spinto verso questo lavoro, perché pubblicizzava un'idea di carcere che si avvicinava molto a quella che anch'io avevo. In cosa consiste il suo lavoro? Quando mi fanno questa domanda cerco sempre di rispondere con un'esemplificazione. Il direttore è come il sindaco di una città e deve gestire e amministrare quella che è la cittadella penitenziaria. Una cittadella fatta di uomini, di cui una parte sono custoditi, detenuti privati della libertà che dipendono dall'istituzione in tutto e per tutto e un'altra parte è formata da persone

Antonella Forgione

Intervista a cura di Martina Avancini, Samuel Giacomelli, Stefano Paternoster


notato, è un ambiente molto maschile, ma è anche un ambiente molto gerarchizzato e il direttore è in assoluto il capo dell'istituto penitenziario. Avere sotto di sé un gruppo in gran parte formato da uomini, comporta alla donna un impegno maggiore. Credo che si faccia più fatica ad affermare il proprio ruolo di superiorità gerarchica. A livello di autorevolezza, forse l'uomo è più riconosciuto. Una donna deve affermare il proprio potere, nel senso sano del termine, utilizzando atteggiamenti diversi. Cerco di spiegarmi: l'uomo può essere anche autoritario, mentre la donna autoritaria viene spesso vista come isterica, antipatica, acida. Ci sono attribuzioni ed attributi diversi per la donna capo, per l'uomo è più facile essere ad un posto di comando e questo lo dico per esperienza, perché l'ho sperimentato. Se abbiamo qualcosa di diverso, noi donne lo abbiamo non tanto nelle relazioni o nei rapporti, ma forse nella capacità di avere un quadro più ampio delle questioni, sapendo immaginare e guardare ai problemi con un occhio più aperto, ma questa è solo una mia impressione. Ha mai avuto un coinvolgimento particolare con qualche caso? Sì, ed è collegato proprio con la gestione di alcuni detenuti, che spesso possono entrare in contrasto con l'autorità che il direttore rappresenta. Ricordo un caso particolare, parliamo dell'Istituto di Rovereto e non di quello di Trento, dove un detenuto doveva essere isolato dagli altri, perché aveva dichiarato la propria omosessualità e in un contesto penitenziario maschile questo tipo di inclinazione deve essere tutelata. Si trattava di una separazione a tutela di questa persona, che però l'ha interpretata come una restrizione delle proprie libertà ed è entrata in contrasto con l'autorità del carcere. Questo ha creato non pochi problemi e personalmente sono stata

vittima di numerosi attacchi sui giornali e di una certa campagna mediatica che tacciava il carcere di atteggiamenti discriminatori. È stata una situazione difficile, ma non impossibile. Poi siete arrivati ad un chiarimento con la persona interessata? In questo caso il chiarimento non è stato facilissimo, perché poi c'è stato l'innalzamento dei toni e in questi casi si risolve il problema alla radice, trasferendo la persona anche perché l'Istituto di Rovereto non era idoneo a contenere una persona con questo tipo di identità. Vi sono degli istituti che ospitano detenuti transessuali e omosessuali. Per esempio l'istituto di Belluno ha una sezione che ospita solo persone transessuali, l'identità sessuale delle persone può essere una problematica detentiva. Il rischio è non solo la discriminazione, ma anche la violenza? Sì, sono scelte prese per salvaguardare l'incolumità del soggetto. Quindi, in questi anni, per il suo lavoro ha ricevuto lodi ma anche critiche? Mi ricordo più critiche che lodi a dire la verità. Forse perché, per quanto riguarda il nostro lavoro e uso il plurale perché parlo come operatore, è più facile essere tacciati di qualcosa di negativo, che non essere riconosciuti per le cose positive che si fanno. Come direttore, le soddisfazioni ci sono quando viene riconosciuta la responsabilità nel condurre delle iniziative meritevoli. Come tutta una serie di attività che si fanno all'interno del carcere, che chiaramente attribuiscono meriti a quella che è una gestione della direzione stessa. La libertà è un elemento essenziale per la qualità della vita. In questo senso quali sono le iniziative che mettete in atto nei confronti dei detenuti, per cercare di garantire almeno in parte la loro libertà?

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Antonella Forgione

poter tentare di ricostruire il danno che è stato commesso da questa. Si tratta di un lavoro che si fa sulla persona, con l'utilizzo di strumenti che più sono efficienti e più accrescono le possibilità di recuperare questa persona alla società. Alle persone detenute devono essere fornite opportunità e modelli positivi, perché se avessero rispettato questi modelli e se gli avessero avuti davanti, con ogni probabilità non sarebbero finiti in carcere. Il pilastro di tutto questo è il lavoro; fornire ad una persona la possibilità di lavorare significa farle rispettare gli orari, stimolarla ad impegnarsi e darle la possibilità di guadagnare in ragione di quello che sta facendo. Può sembrare una cosa scontata nel mondo esterno, ma non lo è nel mondo detentivo, anche per il fatto che molte persone che finiscono in carcere non sono abituate a lavorare e l'educazione al lavoro è già qualcosa che fornisce un valore aggiunto. Poi c'è l'istruzione, che rappresenta il secondo pilastro delle offerte che l'istituzione fornisce. Qui a Trento, arriviamo fino alle scuole superiori, con i primi due anni dei geometri. In questo modo si possono apprendere delle attività professionalizzanti, che qualche volta possono anche essere spese nel mondo libero. L'obiettivo non è quello di far trascorrere del tempo, ma fornire la possibilità di apprendere un lavoro. I detenuti sono soddisfatti di queste attività? Ci auguriamo di sì. Di centocinquanta persone detenute, centoventi sono occupate con scuola e formazione, più il lavoro intramurario. Tenere impegnata la persona detenuta è uno strumento per gestire la collettività, per salvare dall'ozio la persona che altrimenti passerebbe venti ore nella sua cella senza far nulla. La scarsità di fondi limita la possibilità di

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La detenzione è in sé la limitazione della libertà, è la massima condanna che si possa attuare da parte di uno Stato ai danni di un individuo. Non si può parlare di libertà in carcere, si può parlare della possibilità di autodeterminazione della persona detenuta, vale a dire della possibilità di esprimersi all'interno del rispetto di quelle che sono le regole carcerarie. Maggiori sono le possibilità, le occasioni e le opportunità di far esprimere quest'autodeterminazione, maggiore è l'aspettativa di successo nei confronti di una persona. Una persona che è in carcere, si trova in un luogo che non si è scelto, vive con un gruppo di persone che non si è scelto e deve sottostare a dei tempi che non sceglie lui. Capite che il detenuto sceglie ben poco in ragione e a causa del proprio stato di privazione della libertà, però se questa fosse l'ordinarietà, credo che ci sarebbe fondamentalmente una violazione della dignità della persona. Invece ridare dignità ad una persona, significa anche dare la possibilità di autodeterminarsi all'interno di queste limitazioni. Questo significa svolgere un lavoro, poter seguire dei corsi di formazione, poter seguire anche i suoi interessi o comunque le cose positive che l'istituzione penitenziaria propone. Non possiamo pensare che debba stare chiuso dalla mattina alla sera, piuttosto dobbiamo offrire anche delle alternative, dei modelli positivi. Può fare degli esempi di attività che a Trento per tradizione si svolgono? Le attività fondamentali di un carcere sono il lavoro, l'istruzione, la formazione e tutta una serie di iniziative che si possono definire ludico ricreative e anche culturali. Certamente, non è qualcosa che si inventa solo Trento, ma è qualcosa dettato dall'ordinamento penitenziario, perché il nostro ordinamento dice che questi sono strumenti per recuperare la persona e per


far partire nuove iniziative all'interno del carcere? Decisamente sì. Se dovessimo basarci solamente sulle risorse proprie dell'istituzione penitenziaria faremmo molto poco, per fortuna c'è la possibilità di tessere delle relazioni e dei rapporti con il territorio in maniera tale da avere un aiuto. Con la Provincia e il fondo sociale europeo si riesce ad avere i finanziamenti, per poter condurre delle iniziative formative interne. Quanti detenuti occupano una cella? In questo istituto due o un solo detenuto. Quali sono le dimensioni di una cella? Le dimensioni delle celle per due detenuti sono di 18 metri quadri, mentre quelle che ospitano un solo detenuto hanno delle dimensioni di 16 metri quadri. Queste sono le dimensioni di una cella nell'istituto di Trento, ma non tutti gli istituti rispettano questi standard. Con quale criterio si valuta di sistemare i carcerati nelle varie celle? I criteri sono quelli stabiliti dalla legge, perché la raccomandazione normativa è quella di tenere separati i detenuti a seconda del tipo di condanna che stanno scontando: una persona che sta scontando una condanna definitiva non può essere messa con una persona che sta scontando una pena non definitiva. Questo perché per la legge italiana, le persone che non hanno una condanna definitiva, sono innocenti e nei loro confronti non si può pretendere di fare interventi correttivi. Un'altra distinzione è per il tipo di reato o per l'esperienza pregressa o meno con il mondo penitenziario. Chi è alla prima esperienza detentiva viene tenuto lontano da chi invece ha alle spalle altre esperienze in carcere, come in modo analogo, vengono tenuti separati i cosiddetti giovani adulti (1825 anni) dalle persone più adulte. Questi criteri normativamente fissati, stabilisco-

no come vadano distribuite le persone detenute, in modo da evitare che i soggetti più deboli possano subire sopraffazioni. Si sono mai presentate situazioni in cui qualche detenuto si è lamentato dei suoi compagni di cella? In questo caso si cerca di andare incontro a queste richieste? Se si riflette che il detenuto non si sceglie lo spazio, non sceglie il compagno, la risposta viene da sé. Nel nuovo carcere abbiamo due persone per cella, mentre in quello vecchio si arrivava sino a dodici persone in celle delle stesse dimensioni che ho detto prima. Due persone possono litigare anche solo per decidere quale canale televisivo guardare, ma è la convivenza forzata ha genere in sé conflittualità, che possono essere accentuate da abitudini diverse, magari dovute a provenienze geografiche o culturali diverse. La conflittualità è una realtà che non si può negare. In questo Istituto, per quanto possibile si cerca di fare attenzione alle scelte e quindi se c'è una persona che preferisce stare con un'altra, perché l'ha conosciuta e quindi si trova meglio, si cerca di accontentarla. Fino a qualche mese fa nel vecchio Istituto era impossibile accontentare i gradimenti delle persone, dovevamo separare le persone nel momento stesso in cui nascevano dei disordini, generando ulteriori problemi, perché veniva spostato in un'altra situazione problematica, perché le celle erano tutte di 7-8 persone. Oltre che affrontare i problemi dei detenuti, sono mai sorte delle difficoltà con le guardie? All'inizio dicevo che il direttore gestisce una comunità di uomini custoditi e una comunità di uomini che custodisce. Le difficoltà sono quelle che ogni capo ha nel gestire i suoi collaboratori e i suoi dipendenti. Come riesce una guardia a portare avanti

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Fotografia di Stefano Paternoster “Ex Carcere - Trento”

il proprio lavoro, cioè a restare chiusa in carcere come se fosse un detenuto? Questa è una bellissima domanda, perché dà attenzione anche a coloro che lavorano nel carcere. Quello dell'agente di polizia penitenziaria è decisamente un lavoro molto difficile e molto pesante, perché è una figura che sta costantemente a contatto, almeno otto ore al giorno, con il detenuto e questo significa che sta a contatto con la miseria, con tutte le necessità di cui sono portatori questi uomini e queste donne, con un'umanità che può avanzare una variegata rosa di domande, dalla più banale alla più importante. Conta moltissimo la capacità di instaurare rapporti umani, bisogna avere molto equilibrio, cercare di non lasciarsi contagiare da quella che è la miseria con cui si convive tutti i giorni, tenendo presente che qualche volta si possono subire violenze da parte della persona detenuta, non si tratta necessariamente di violenza fisica, ma anche violenza psicologica, violenza verbale, offese. Va ricordato, che l'agente di polizia penitenziaria è compreso nel novero degli operatori che si occupano del trattamento del detenuto, viene riconosciuto come un tipo di lavoro che non è di mera vigilanza e sorveglianza, ma è compartecipe insieme a tutti gli altri operatori a quel percorso trattamentale della persona detenuta stessa. Il ruolo dell'agente è molto importante, perché, come dicevo, trascorre più di qualsiasi altro operatore il suo tempo con le persone che custodisce e quindi le conosce bene. Nel carcere ci sono mai state donne con bambini? Come trascorreva la loro giornata? Le donne stavano tutto il tempo con i loro figli? Per legge le detenute possono tenere con sé i figli fino a tre anni d'età. Capita spesso di ospitare delle detenute madri ed è un enorme ingiustizia che il bambino stia in


carcere, perché a sua volta sconta la pena, è qualcosa che fa veramente molta tristezza. In questi casi si cerca di alleviare il più possibile la pesantezza di una situazione di detenzione, per cui le sezioni sono fondamentalmente aperte, dove si può stare per la maggioranza del tempo all'aperto, trascorrendo il tempo con il proprio bambino. Queste situazioni avvengono quando non ci sono altri familiari che possono prendersi cura di questo bambino o, anche se ci sono, la madre può decidere di tenere con sé il figlio. Per quanto riguarda il tema della rieducazione, in una puntata del programma «Presa diretta» di Riccardo Iacona, la direttrice del carcere di Bollate ha esposto questi dati: il 67% dei detenuti che trascorre in carcere l'intera pena, una volta libero torna a delinquere, mentre per chi usufruisce delle misure alternative la percentuale si abbassa drasticamente al 19%. Lei come interpreta questi dati? Tommaso Amedei (educatore, responsabile dell'area trattamentale) Il dato è certo, ma l'interpretazione è controversa. Se la recidiva riguarda i 3/4 delle persone che sono state detenute, mentre riguarda 1/4 delle persone che hanno seguito misure alternative, i fautori delle misure alternative possono dire che queste sono realmente efficaci. Quindi la semilibertà, il lavoro in cooperativa, i domiciliari, la comunità terapeutica serve veramente, è la medicina. Altri sono invece più cauti e affermano che le persone che vanno in misura alternativa, sono quella parte della popolazione detenuta che secondo gli operatori penitenziari e secondo i magistrati di sorveglianza è stata scelta come la più affidabile, rappresentano quella parte che comunque non avrebbero recidivato. Il dato è relativo, ma sicuramente la misura alternativa è un'esperienza rieducativa avanzata, intensa,

non è solo lavoro, ma è sperimentazione di sé a contatto con la società libera e perciò diciamo in una misura un po' più intensa che non la stessa cosa fatta all'interno. Direttrice Dobbiamo considerare anche un altro aspetto. La fallacità del recupero sta probabilmente nel tempo ridotto che il carcere può investire sul recupero della persona. In Italia il sovraffollamento carcerario sta crescendo esponenzialmente. Siamo arrivati a 70.000 detenuti rispetto ad una capacità che non dovrebbe superare i 45.000. Questo perché si ricorre sempre più spesso al carcere, anche per periodi brevi, trovandoci così ad affrontare un duplice problema: dover intervenire su un numero troppo grande di persone, per un tempo ridotto di detenzione. Espresso in modo semplice: in galera si finisce spesso e si rimane poco. Il tempo per iniziare, condurre e portare a buon fine un lavoro di recupero sulla persona, diventa estremamente difficile per noi operatori. All'inaugurazione del nuovo carcere il ministro Alfano ha dichiarato: “In un carcere dove non c'è la dignità della detenzione non ci può essere rieducazione”. Da questo punto di vista quale crede sia la situazione delle carceri italiane? Tragica, la situazione nelle carceri italiane è tragica. Si tratta di strutture sovraffollate e in buona parte fatiscenti, strutture che risalgono al secolo scorso, se non a quello precedente, che necessitano di interventi strutturali importanti rispetto ai quali non ci sono sempre finanziamenti e che quindi non consentono una vivibilità dignitosa. L'attuale Istituto di Trento, credo sia un esempio unico nel panorama territoriale, è una struttura all'avanguardia, che ora non soffre di sovraffollamento e che dispone di tutta una serie di potenzialità, anche strutturali, che gli consentono di fornire una detenzione più che dignitosa.

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Antonella Forgione

Ha mai dovuto affrontare casi di suicidio o tentativi? Ho dovuto anche affrontare casi di morte, le due cose più brutte per il carcere e per la comunità carceraria sono l'evasione e la morte, soprattutto se questa morte non è per cause naturali, ma è perché si porta fino all'estrema conseguenza un tentativo di togliersi la vita. La morte violenta in carcere è un evento che scuote tutta la comunità penitenziaria, operatori e detenuti. Nelle carceri di Trento e Rovereto ci sono stati dei casi negli ultimi anni? A Rovereto c'è stato nel luglio di due anni fa un suicidio ed è un evento traumatico per tutti. Nella stessa puntata della trasmissione di Iacona citata in una precedente domanda, è emerso il forte ricorso di psicofarmaci da parte dei detenuti delle carceri italiane. Questo succede anche a Trento sia nel vecchio che nel nuovo carcere? Questa è una bellissima domanda. Voglio rispondere in maniera coerentemente onesta. La condizione di privazione della libertà è in quanto tale una condizione incidente sulla psicologia e quindi sulla persona, lo stato detentivo comporta tutta una serie di difficoltà di natura psicologica, che si possono accentuare in una situazione già di per sé problematica. Se la persona detenuta fosse impegnata per la stragrande maggioranza del suo tempo in attività che la portassero fuori dalla cella e lontana dall'ozio, noi avremmo una riduzione drastica del ricorso a psicofarmaci. Psicofarmaci che possono essere dati dal medico o richiesti dalla persona. Al malessere della persona si può rispondere farmacologicamente, o può anche diventare ineluttabile se non crei delle alternative. Si può scegliere di imbottire una persona di psicofarmaci, perché una persona che non ragiona dà meno fastidio, ma una per-

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Questo a livello nazionale? A livello nazionale, riconosciuto dallo stesso Ministro. Se il Ministro le dovesse chiedere un consiglio su quali interventi sarebbero da ritenersi più urgenti per migliorare la situazioni delle carceri italiane, lei cosa risponderebbe? In primo luogo bisognerebbe migliorare le strutture. Bisogna pensare che la credibilità di uno Stato si misura dalla capacità di far rispettare le proprie leggi, ma far rispettare le proprie leggi significa rispettarle a propria volta. Lo Stato non può detenere delle persone in strutture che sono fatiscenti, come quelle di Poggioreale a Napoli, San Vittore a Milano, dove sono detenute il doppio, se non il triplo, del numero di persone per cui sono nate, sono strutture che risalgono al 1800 e che versano in condizione di sovraffollamento e fatiscenza tali, per cui la detenzione è assolutamente disumana. Le condizioni di detenzione rappresentano il motivo di maggiore attenzione che uno Stato dovrebbe avere. Perché investire sulla struttura significa non solo rendere dignitosa una detenzione per la persona detenuta, ma anche per le persone che vi lavorano, costrette in una struttura deprimente, fatiscente, angosciante, come poteva essere anche la struttura di via Pilati. Con quel tipo di struttura, era indegno e indecoroso continuare a lavorare e detenere nelle persone; chi nel carcere lavora, è una persona che torna nella propria famiglia, è una persona che torna con i propri bambini, con la propria moglie, con i propri affetti, i propri interessi, quindi bisogna porre grande attenzione rispetto a questa tematica. In questi ultimi anni lei ha notato un cambio di attenzione? Credo che siano anni che non c'è una precisa politica penitenziaria e non dico altro.


sona che non ragiona non può neanche aderire liberamente a quelle che sono le possibilità che vengono offerte dal carcere. Oppure si può ricorrere all'ospedalizzazione della detenzione, per il semplice fatto che si ritiene che la stessa situazione di essere detenuto comporti l'assunzione di tranquillanti. L'approccio dovrebbe essere ulteriore, capace di volare più in alto. Dobbiamo creare delle possibilità per cui la persona viva meglio il malessere, lo viva in maniera più umana. Io sono contraria all'identificazione dello stato detentivo con un certo malessere, non è detto che sia così. Il ricorso agli psicofarmaci è un modo per rispondere con il farmaco a domande a cui non si sa trovare risposta. Tommaso A Trento nell'ultimo decennio non abbiamo avuto gesti autolesivi, tuttora non li abbiamo nel nuovo carcere e non abbiamo un grande ricorso ai farmaci, perché invece abbiamo un grandissimo ricorso ad attività di laboratorio, attività di studio, di lavoro, ecc... Penso che il mio ufficio sia stato bravo ad organizzarle e penso che ci siano stati tre direttori di fila che le hanno consentite. Abbiamo costruito una rete di collaborazione: l'Istituto Pozzo, il Comprensivo 5, il Con.Solida, ecc. che permette ad un detenuto che non vuole stare in cella, di accedere a delle attività, spesso anche in contemporanea, l'italiano con l'informatica, con l'assemblaggio... ci sono voluti anni, c'è voluta la disponibilità dei direttori, c'è voluto lavoro, però se noi non abbiamo tanti eventi critici, è anche perché, come detto prima, tre quarti dei detenuti fanno qualcosa. Questa è una buona strada per abbattere il livello della sofferenza e credo che ci siamo riusciti. Dopo il trasferimento dei tenuti nel nuovo carcere, assieme ad un piccolo gruppo di studenti siamo entrati via Pilati per un reportage fotografico e siamo rimasti scioc-

cati. Come si poteva sopravvivere in quella situazione? In via Pilati la vita era diventata insostenibile per tutti, per i detenuti e per chi ci lavorava, era divenuto un girone dantesco. Non si può pensare di tenere chiuse delle persone in quel contesto, perché da quel contesto, da quel ambiente, non può uscire nulla di buono, ma può uscire solo negatività, sia per le persone che sei costretto a detenere sia per chi ci lavora. Se tu fornisci bruttura in cambio riceverai bruttura, se tu non hai un terreno fertile su cui piantare qualcosa, non potrai mai pensare di raccogliere dei frutti, per questo io tornerei a insistere sul fatto che l'architettura ha un ruolo molto importante, non dico fondamentale, ma molto importante nel concepire il carcere. Allo stesso tempo è importante la presenza umana. Sapete quante volte sono stati sventati tentativi di suicidio da parte di agenti penitenziari? L'intervento degli agenti è stato più volte essenziale, per salvare la vita ad alcuni nostri detenuti. Entrando in via Pilati abbiamo vissuto una sensazione di abbandono. Negli anni in cui lei è stata direttrice, si è sentita abbandonata? Quando è chiaro che si deve abbandonare una struttura, come nel caso di via Pilati dove sapevamo che prima o poi ci saremo dovuti spostare nel nuovo carcere, diventa automatico non investire più nel fare determinati lavori. Se l'impianto di riscaldamento andava in tilt e per realizzare un intervento risolutivo, se mai quella struttura avesse permesso un intervento risolutivo, dovevamo investire diverse migliaia di euro, si decideva di non intervenire, perché sicuramente non sarebbe mai stato finanziato. Si interveniva a tampone, nell'attesa del trasferimento. Questo è quello che è successo e queste sono le ragioni dell'ab-

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bandono. Attenzione, l'impianto di riscaldamento che non va o la doccia che non eroga acqua calda, sono problemi di ordine pubblico. Il detenuto che si lamenta per il freddo, è una persona moltiplicata per centocinquanta e potenzialmente può mettere a ferro e fuoco il carcere. È successo in più di un'occasione e avete potuto leggerlo sui giornali. L'ultimo episodio risale a maggio dell'anno scorso, ero presente e in queste situazioni devi andare a placare gli animi. Ha trovato aiuto esterno al carcere? Interessamento da parte dei politici? C'è un tessuto politico molto sensibile qui in Trentino e credo che di questo non mi possa lamentare. Dopo l'inaugurazione del nuovo carcere, sia tra le lettere sui quotidiani locali che tra le discussioni tra le persone comuni, è emersa la perplessità per un investimento così importante in un carcere, che in fondo accoglie delinquenti, rispetto per esempio ad un ospedale. Lei come si sente di rispondere a queste affermazioni? Ad essere sbagliato è già il modo con cui si pone la questione, perché è un investimento della collettività. Con tutto quello che abbiamo detto, dovrebbe essere chiaro che un carcere come quello di via Pilati

non poteva generare nulla di buono, generava problemi di mente, generava malattie, generava promiscuità tra di chi è stato dichiarato innocente rispetto a qualcuno che era un accanito delinquente, generava altra delinquenza. Con il nuovo carcere, lo ha detto bene il Presidente Dellai: ”Vogliamo portare avanti un' idea di detenzione che vada nella direzione del recupero della persona, se questo si può fare partendo dalla struttura è quello che abbiamo voluto fare”. Il carcere esiste e se noi investiamo sul tempo che vi passano queste persone, attraverso interventi di qualità forse qualcosa di positivo tornerà a tutta la collettività. Le persone che noi abbiamo non sono ergastolani, ma sono persone che torneranno nella società e se noi le facciamo uscire migliori di come sono entrate, a guadagnarci sarà la collettività. Torniamo allora in via Pilati, che autorità ha uno Stato che ti costringe in celle sovraffollate, che sudano sporcizia da tutte le pareti, dove c'è una turca condivisa con un po' di muretto a nasconderla, ma tu mangi, dormi e fai tutto il resto in questo stesso ambiente. Che dignità è? Cosa puoi pretendere da una persona costretta in questa situazione? L'investimento fatto va analizzato in questi termini.

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Antonella Forgione

Fotografia di Fiorella Turri “Ex Carcere - Trento”


Giorgio Iacobone Giorgio Iacobone (Napoli, 1949). Laurea in Giurisprudenza all'Università la Sapienza di Roma. Ha prestato servizio a Macerata tra il 1975 e il 1987, dove ha diretto l'Ufficio Politico (oggi Digos), partecipando alle attività di contrasto alle Brigate Rosse, poi dal 1982, ha assunto l'incarico di dirigente della Squadra Mobile stroncando i tentativi di insediamento nella zona della camorra napoletana in particolare del clan dei Casalesi. Dal 1989 al 1991 ha diretto la sezione terrorismo internazionale e traffico di armi dell'Interpol. Dopo alcuni anni a Taranto e a Palermo, negli anni successivi è rientrato a Macerata dove ha assunto importanti incarichi, contrastando la volontà di insediamento di alcuni elementi di spicco della mafia russa e svolgendo sotto copertura importanti indagini internazionali sul traffico di droga. Dal 1998 al 2001 dirige il Commissariato di Polizia di Aversa, dove ha arrestato latitanti inseriti negli elenchi dei ricercati più pericolosi. Nel 2002 viene nominato Questore di Enna, dopo alcuni anni ad Ancona, nel 2010 diviene Questore di Trento.

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te a cui sono stati limitati i diritti. Questo in nome dell'ordine pubblico. La tutela dei diritti dei cittadini è quindi tutela di libertà? Sì. È necessario che il cittadino possa uscire di sera tranquillo, che la donna possa uscire di notte e non essere soggetta a violenze o che l'uomo non sia oggetto di aggressioni. È certamente un valore il poter uscire di casa con la sicurezza che poi, nel rientrare, non troviamo la casa devastata dai ladri. Questa è una sicurezza di per sé. Quindi noi abbiamo bisogno sia della sicurezza reale che di una percezione di sicurezza. La percezione di sicurezza ha un valore di per sé. Se io vado in un cinema a Napoli e parcheggio la macchina fuori dal cinema, posso essere preoccupato di non ritrovarla e vivo uno stato di tensione. Davanti ad un parcheggiatore abusivo, se non si dà la somma richiesta, si ha sempre il timore che questo possa farti uno sfregio o rubarti la macchina. Questo

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Qual è il giusto connubio tra sicurezza e libertà? Per quanto riguarda la sicurezza è proprio l'Art. 1 del testo unico delle leggi della Repubblica che impone a noi, come ufficiali di polizia, la tutela dei diritti del cittadino: la loro incolumità e la salvaguardia dell'ordine pubblico, inteso come vita sociale tranquilla. Molto spesso ordine pubblico e sicurezza pubblica sono ritenuti quasi sinonimi o comunque consequenziali, normalmente se c'è una vita sociale pacifica, c'è anche una tutela dei diritti. La tutela dei diritti è però qualcosa di più rispetto al solo ordine pubblico, deve tutelare la libertà di espressione, la libertà di manifestare. Per esempio si ritiene che negli stati totalitari sia molto più facile mantenere l'ordine pubblico, ma questo a scapito dei diritti dei cittadini. Se nel semplice sospetto prendo dei provvedimenti restrittivi, è logico che in un gruppo di dieci persone ce ne saranno tre che delinquono, ma altre set-

Giorgio Iacobone

Intervista a cura di Tiziana Marino, Francesco Benanti


è una limitazione della propria libertà. A Trento se si va al cinema, non si pensa mai che qualcuno possa rubarti la macchina; poi può anche capitare che a Napoli non ve la rubano e a Trento sì, però quello che provate nelle due ore in cui guardate il film, la rilassatezza di Trento e quella certa tensione che potete avere in un'altra città, ha un valore di per sé. Fino a che punto però possiamo dire che, se noi mettiamo mille telecamere e teniamo tutto sotto controllo, questa è libertà per le persone? Fino a che punto queste telecamere, questi controlli, questi sistemi che in qualche modo opprimono, sono necessari? Noi tentiamo di mediare, perché la cosa migliore sarebbe quando l'ordine pubblico coincide con la tutela dei diritti del singolo. Un esempio è il diritto di un cittadino a manifestare e il diritto del cittadino che vuole circolare nella zona della manifestazione. Bisogna compensare per salvaguardare gli interessi di tutti e due i cittadini. La cosa principale deve essere la legalità, perché il sistema può in qualche modo sopportare un'illegalità parziale, ma non un'illegalità generalizzata; tant'è che quando l'illegalità diventa generalizzata, il sistema trova per forza necessario porre dei rimedi. Ad esempio a quali situazioni si riferisce? Pensiamo alle badanti, c'è stato un periodo in cui erano quasi tutte irregolari e andare ad incidere su questa illegalità poteva avere degli aspetti devastanti, come molte persone anziane che non avrebbero più avuto nessuna tutela. Allora è stato necessario fare una legge che le regolarizzasse. Parliamo ora di clandestini, che forse sarebbe meglio chiamare irregolari, il sistema può sopportare una piccola percentuale di irregolari, ma la stragrande maggioranza deve essere ed è regolare. Quando parliamo male degli stranieri do-

vremmo ricordarci che in realtà è una minima percentuale che delinque. La stragrande maggioranza sono persone in regola con il permesso, lavorano e non danno problemi. Questi però non fanno notizia, mentre far sembrare generalizzato quello che generalizzato non è, crea una disinformazione notevole. Questo purtroppo succede in tutti i campi e forse la responsabilità è di noi cittadini, che sui giornali desideriamo più vedere il lato patologico di una situazione e non il bene fisiologico che c'è nella stragrande maggioranza. A proposito di clandestini e immigrati è stato varato nel 2009 il pacchetto sicurezza che prevedeva l'irregolarità come un'aggravante dal punto di vista penale. Lei cosa ne pensa? Può sembrare molto strano che mi trovi ad esprimere delle idee che in qualche modo possono sembrare retrograde, conservatorie; in realtà, per vedere la situazione reale, non si può dire che clandestino è uguale a delinquente o irregolare è uguale a delinquente. È vero però che uno che non è in regola, per necessità fa delle attività irregolari e quindi illecite. In altre parole, se io mi trovassi in un paese straniero da irregolare, nel migliore dei casi lavorerei in nero. Quindi comprendo che non si voglia fare questa uguaglianza tra clandestino e delinquente, però in realtà mi sembra una necessità che quanto meno un irregolare faccia qualche attività illecita: sarà un lavoro in nero nel migliore dei casi oppure andrà a rubare. Quando ci si scandalizza, nel ritenere questa equivalenza tra irregolare delinquente, stiamoci un po' attenti, cioè tentiamo in tutti i modi di regolarizzare la persona per dargli la possibilità di fare poi un lavoro regolare, ma scandalizzarsi per questo, mi sembra un po' ipocrita. Crede sia corretto che, se una persona ir-

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lo straniero quello che gli può togliere il posto di lavoro. Lo straniero viene da fuori, è più “scafato” e più disponibile rispetto ad un ragazzo italiano che vive in famiglia. Penso per esempio a quello che recentemente mi è stato raccontato a riguardo di un corso per direttore di albergo: quando hanno chiesto ai ragazzi che avevano partecipato, chi di loro fosse disposto ad iniziare non come direttori d'albergo ma come persone di sala, gli stranieri si sono dichiarati subito disposti, mentre gli italiani hanno espresso delle riserve. In questo modo con l'esperienza lo straniero acquisterà una maggiore sicurezza nel settore e la situazione si evolverà in questo senso. La mancanza di scambio e di integrazione è pericolosa anche in un altro senso. Perché lo straniero che resta chiuso nella sua cultura, resta chiuso in una cultura che non si è mai evoluta rispetto al suo paese iniziale. Se io sono napoletano, sono molto più napoletano del napoletano che vive a Napoli, perché sono rimasto alla Napoli di 40 anni fa; il vero napoletano è quello che trovi a Brooklyn in America, ma quel napoletano non esiste più a Napoli. L'islamico fatto in un determinato modo, lo straniero fatto in un determinato modo che è venuto in Italia e continua con quelle tradizioni, diventa molto più pericoloso del suo connazionale che è vissuto nella sua nazione ed è rimasto lì con l'evoluzione che c'è stata, quindi questa mancanza di colloquio è un pericolo fondamentale molto più del permesso di soggiorno. Concretamente come fa ad avvenire questa comunicazione ed integrazione? Penso che specialmente a Trento si stia facendo molto, perché è una città che esprime molta solidarietà e molto interscambio. Dobbiamo sentire la necessità di non ghettizzare nessuno e allo stesso tempo di far rispettare le regole, partendo dai ra-

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regolare in questo paese commette un atto illecito, abbia una pena di un terzo maggiore rispetto a un regolare che compie lo stesso reato? Forse dopo questo discorso che ho appena fatto ci vorrebbe addirittura un'attenuante. Il problema non è tanto il fatto dell'aggravante o meno, il problema è che bisogna fare in modo che gli irregolari non ci siano e che quelli in possesso del permesso di soggiorno, possano avere più facilmente possibile il ricongiungimento familiare. Se vediamo cinque stranieri che stanno insieme e hanno un comportamento culturale diverso dal nostro, cosa normale, abbiamo un senso di timore. Se vediamo invece lo straniero con una moglie e con un bambino passeggiare, siamo più tranquilli. Certe volte mi chiedo come mai si parla tanto di insicurezza nel momento in cui i reati diminuiscono? Mi ricordo che alla fine degli anni '70 e '80 nelle strade di tutte le città italiane trovavamo il tossico con la siringa che stava per terra e quindi doveva in qualche modo alimentare il nostro timore; in realtà noi sapevamo chi era, per esempio Maria la figlia della sarta ecc. Il fatto di poter identificare quella persona non causava nessuna insicurezza percepita, adesso invece se vediamo una persona ubriaca in mezzo alla strada, non sappiamo neanche chi è, vediamo che parla in una lingua che noi non comprendiamo e tutto questo genera insicurezza. È la non conoscenza a determinare una maggior insicurezza e pertanto la strada da seguire è l'integrazione. Quindi l'integrazione rappresenta la strada che può portare maggiore sicurezza? Sì. La mancanza di rapporti sociali e di conoscenza è una cosa che genera insicurezza. Poi bisogna tener presente altri fattori, legati alla nostra attuale situazione. Con la disoccupazione il giovane vede nel-


gazzi, dai minorenni, tra cui si sviluppano forme di bullismo che in realtà molte volte sono vere e proprie forme di delinquenza e sopraffazione. Alla base vi è certamente un disagio, molte volte determinato dal fatto di essere stranieri. Facendo sconti e del buonismo corriamo il rischio di fare il male loro e della società, perché poi si arriva all'intolleranza e sinceramente penso sia la cosa più deleteria per la vita sociale. Legandoci a quello detto fino ad ora, spesso si parla di una bonifica di Piazza Dante. Cosa si sta cercando realmente di fare non per eliminare persone che potrebbero sembrare dannose alla quiete pubblica, ma per integrarle e rendere quell'area di nuovo un posto tranquillo dove circolare senza alcun problema? Su Piazza Dante il comitato per l'ordine sulla sicurezza pubblica, che è formato dai vertici delle amministrazioni statali, dal sindaco e dal Presidente della Provincia, sta facendo molto. In primis stiamo tentando di conoscere tutte queste persone, che tante volte desiderano raccontare la propria storia. Ogni città ha la sua Piazza

Dante e in ogni città c'è un ritrovo di queste persone, che hanno bisogno d'aiuto, però più che d'aiuto materiale hanno bisogno di persone che siano disposte ad ascoltarle ed ascoltarle spesso non è facile, perché loro per primi non dicono tutto. In questo momento quello che stiamo facendo è cercare di conoscerli, sapere tutto anche il nome, il cognome e i disagi che hanno. Se noi riusciamo a conoscerli tutti, la conoscenza già di per sé determina una minore insicurezza. E allora come portare le famiglie in Piazza Dante? Ora come ora se avessi dei figli, non li porterei in Piazza Dante. È vero, dobbiamo riappropriarci di questo territorio, quante cose sono state fatte e quante sono ancora da fare. Il sindaco Andreatta sta facendo molto: la fiera che c'è il sabato, le varie manifestazioni, sono tutti tentativi per riappropriarsi della piazza. La nostra tradizione e la nostra cultura ci porta tante volte a stare dentro le nostre case, anche perché le nostre case sono più confortevoli e molto spesso lo straniero o il portatore di disagio stanno sulla

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tina” piuttosto che di tante altre ragazze. Forse attrae di più, perché è una contraddizione in termini, nel senso che chi dovrebbe controllare e salvaguardare la nostra sicurezza si scopre essere dall'altra parte... È giusto, però in questo modo ci scordiamo di tutto ciò che c'è di buono. Qual è secondo lei il rapporto tra libertà e delinquenza? La delinquenza non conviene a nessuno. Non conviene non solo alla brava persona, ma neppure al delinquente, piccolo o grande che sia e non conviene nemmeno l'illegalità diffusa che commettiamo tutti quanti. Incominciamo da un ragazzo che nasce in una zona a forte indice di criminalità e che entra a far parte della camorra a livello di manovalanza. Questo ragazzo nel 2000 guadagnava un milione delle vecchie lire al mese. Con questi soldi aveva un tenore di vita un po' particolare per differenziarsi dai suoi coetanei, ma per farlo veniva ridotto in schiavitù dai suoi capi. Questo ragazzo perdeva la sua libertà, quella quotidiana. Doveva rimanere per ore a fare il palo, a controllare una zona e se usciva con la propria ragazza e arrivava la telefonata del capo, doveva lasciare tutto per rispondere ai suoi ordini. Tutto questo per ottenere quanto guadagna un coetaneo meccanico del nord-est, che ha un orario di lavoro, le ferie e che quando finisce di lavorare può uscire tranquillo con la sua ragazza. Ma non solo. Quando entravo nelle case di queste famiglie, rimanevo scosso per quante foto di ragazzi morti ammazzati trovavo. Questo ragazzo doveva stare attento a non farsi arrestare, a non farsi ammazzare dalla contro parte, nel migliore dei casi faceva avanti e indietro dal carcere e quando era libero veniva schiavizzato dai suoi capi. Qualcuno potrebbe però pensare che le cose vadano in

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strada. In realtà quello che lei dice, che non porterebbe mai suo figlio a giocare lì, è determinato da questa sensazione di insicurezza nel vedere queste persone e non sapere le loro reazioni, perché io sono sicuro che se lei conoscesse quell'ubriaco che sta con la bottiglia in mano nella panchina e lo conoscesse perché fosse cresciuto con lei, probabilmente lei porterebbe lo stesso suo figlio. È molto spesso la mancanza di conoscenza, che ci porta a questa insicurezza. Questa conoscenza da una parte e questo riappropriarci con iniziative sempre più frequenti in questa piazza, può portare ad una risoluzione del problema. I giornali influiscono positivamente su quello che è un lavoro per la tutela della sicurezza? Tutti, incominciando da noi poliziotti ma finendo a tutti i cittadini, puntiamo molto spesso il dito contro i giornali. L'ho già detto prima che normalmente la notizia rilevante è quella patologica e quindi quello che è fisiologico non fa notizia. Quanti casi meravigliosi ci sono di persone che si dedicano agli altri e quanti poliziotti che danno l'anima per ottenere sicurezza e via dicendo. Ma cosa fa notizia? Fa notizia il poliziotto arrestato, quel poliziotto che è un delinquente e che getta il discredito su tutta la polizia; però perché prendersela con il giornale e non con noi che preferiamo leggere quella notizia piuttosto che leggere la notizia di tante brave persone che vivono facendo del bene? Quando si dice che i giovani sono tutti drogati non è vero, nessuno dice che ci sono tanti giovani bravissimi, che la maggior parte dei giovani studia e si impegna. La colpa è nostra più che del giornale, perché preferiamo leggere per esempio di questa ragazzina che si è prostituita anche in Provincia di Trento della “Ruby tren-


modo sostanzialmente diverso per il “grande delinquente”. Ma non è così. Sono stato nella casa di Francesco Schiavone, detto Sandokan, una casa bellissima, in una strada stretta e piena di buche. Lui è stato latitante per cinque anni ed è vissuto in un bunker. Se fare una passeggiata con la moglie ha un valore, lui questo non avrebbe mai potuto farlo. Dal 1998, e sono passati tredici anni, si trova in carcere con il 41 bis, è ancora temuto e forse comanda ancora. Ma chi di noi farebbe a cambio con lui? Tanto potere, ma a sacrificio della propria libertà, prima con la latitanza e ora con il carcere. Veniamo ora alla brava persona. Faccio l'esempio del gioielliere palermitano. Pagando il pizzo potrebbe tenere la porta aperta e non subirebbe la rapina. Il gioielliere milanese, paga la stessa cifra per la vigilanza e la sicurezza passiva e poi subisce comunque la rapina. A questo punto che cosa conviene? In realtà io dico che conviene il milanese. Perché il palermitano pagando il pizzo, perde la libertà. Non è più libero imprenditore, non si può allargare e fare quello che vuole nella sua attività commerciale, perché è la criminalità che stabilisce come deve muoversi ed è sempre la criminalità che gli offre o gli impone, la merce rubata e lui deve accettare. In questo modo ha perso la propria libertà e parlare poi di concorso esterno alla criminalità e alla mafia, viene naturale. Forse non ci sono neppure le giuste tutele per il gioielliere palermitano e così non ha la forza di dire: “il pizzo non lo pago”. Questo mi fa guardare a quello che è stato fatto negli anni, a come è nato tutto. Alla fine degli anni '60 e '70 c'erano molte manifestazioni, problemi di ordine pubblico e le forze dell'ordine si sono concentrate sul mantenere sotto controllo la piazza. Non accorgendoci che poco a poco si faceva

strada il terrorismo. Poi ce ne siamo accorti e tutte le forze si sono concentrate su questo. Anche negli anni '80 tutte le forze erano incentrate lì, scordandoci quasi della criminalità. Non ci siamo accorti che poco alla volta la criminalità organizzata prendeva piede. Negli anni '80 tra Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Bari si guardava a chi faceva prima ad arrivare a cento morti in un anno. Ci siamo così accorti come la criminalità organizzata avesse il sopravvento su molte zone d'Italia, allora c'è stata una concentrazione nel combattere la criminalità organizzata, con personaggi che hanno lottato con precisione e tenacia, tanto che quei cento morti oggi non ci sono più. Dall'altra parte concentrandoci sulla criminalità organizzata, abbiamo lasciato correre la criminalità diffusa, il cittadino si è sentito meno sicuro, e allora è stato necessario il poliziotto di quartiere, la pattuglia, il poliziotto vicino alla gente, che ha caratterizzato gli anni 2000. Penso che mai come in questo momento possiamo organizzare la nostra attività, tenendo presente le varie componenti in termini paritari: l'ordine pubblico e quindi la libertà di manifestazione, l'attenzione al terrorismo sia interno che esterno, l'attenzione alla criminalità organizzata che è cambiata tantissimo e l'attenzione alla criminalità diffusa e alla sicurezza del cittadino. Vedere tutto questo solo come una competenza della polizia è perdente e per questo noi chiediamo una sicurezza partecipata. Perché se il cittadino ha fiducia nel poliziotto e questo gli dà quello che lui auspica, riusciamo a fare qualcosa di utile tutti quanti insieme. Pensare alla polizia solo come un qualcosa che riesca a dare sicurezza, penso che non porti a nulla. La legge stessa deve collaborare: adesso si parla dello stalking, prima uno faceva delle ingiurie, dei pedinamenti ad una donna,

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casi muore per disidratazione e il corpo viene abbandonato... in alcune zone i controlli sembrano mancare in modo drammatico. Non serve andare molto lontano. Fare questo lavoro ti pone talvolta di fronte a delle domande morali. Noi ci siamo meravigliati di quanto era successo a Rosarno, però all'Italcementi era la stessa cosa, come anche all'ex-Sloi. Quando noi andiamo a fare degli sgomberi, a volte ci poniamo il problema: meglio lo sgombero e l'espulsione o è meglio vivere in questo modo terribile? Prova a dire: “Guarda che c'è l'amianto e che è pericoloso” e ti risponderanno: “Può essere che io muoia ancora prima”. Quante volte anche noi facciamo finta di non vedere? Non sempre è tutto bianco o tutto nero. Per questo, temo la tolleranza zero. Un giudizio finale complessivo su quella che è la situazione di Trento dal punto di vista della sicurezza. A me, come poliziotto, la politica attuata in Trentino si addice: è inutile parlare della totale tolleranza zero, perché ci sono dei valori che vanno al di là. Noi dobbiamo badare al superamento degli stati di disagio, colpire la persona unicamente per quello che ha fatto, è inutile mandare persone in carcere senza alcuno sviluppo successivo. Questo sta qualche giorno in carcere e poi ricomincia da capo. Dovremmo tentare di eliminare quel disagio. Finalizzare la sicurezza verso un qualcosa che serva a delimitare e a prevenire. Il mio interesse è che il furto non avvenga. Che una volta avvenuto si riesca ad identificare il ladro va bene, ma è il furto che non deve avvenire. Ci sono due autorità: quella di pubblica sicurezza, attività che è tesa alla prevenzione, e l'autorità giudiziale che è di competenza del Procuratore. Il nostro scopo è il primo, l'arresto fine a se stesso non porta a tanto.

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e questa faceva la querela, ma erano piccole cose che non portavano a niente, perché erano considerati reati minimi, ma potevano generare anche atti gravissimi. Con lo stalking, la legge ha dato la possibilità di porre un freno a queste situazioni. Ci vuole la partecipazione di tutti quindi ? Certamente. Se la vita sociale viene vissuta con la partecipazione di tutte le sue componenti, permette una vita libera e sicura. L'imprenditore che decide sulla propria attività, il cittadino che esce di casa senza paura di subire un furto, la persona impegnata in politica che esprime le proprie idee senza il timore di finire vittima di un attentato, sono tutte questioni di libertà. Pensiamo anche alle piccole cose quotidiane. Oggi, se una persona affitta la casa e non fa un contratto regolare, si trova in grosse difficoltà, perché, se l'inquilino non se ne vuole andare, lui non può fare niente... diventa libertà anche registrare un contratto e alla fine conviene molto di più. Andare a 160 km/h in autostrada crea tensione, perché devo preoccuparmi per l'autovelox, per la pattuglia, alla fine magari guadagno mezz'ora, ma quanto stress in più accumulo? Mi sto convincendo sempre di più che la legalità, il rispetto delle regole, conviene non solo alla società, ma proprio anche alla singola persona. Il rispetto delle regole diviene un indice di libertà. La polizia riesce a colpire con la stessa forza l'irregolare e allo stesso tempo anche l'imprenditore o comunque il “regolare” che approfitta della posizione di debolezza dell'irregolare, magari per sfruttarlo da un punto di vista lavorativo o di affitto? Io penso che sia abbastanza facile colpire l'imprenditore che ne approfitta, magari non lo facciamo con la necessaria forza. Si vedono però quei servizi dove il clandestino che raccoglie i pomodori, in alcuni


Fotografie di Stefano Paternoster

Giuseppe Ayala Giuseppe Ayala (Caltanisetta, 1945), magistrato ed ex politico italiano, laurea in Giurisprudenza conseguita presso l'Università di Palermo. Magistrato di punta nelle indagini e nei maxi processi alla mafia negli anni ottanta, nonché amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Nel 2002 pubblica il libro verità “Chi ha paura muore ogni giorno: i miei anni con Falcone e Borsellino” che è diventato in seguito anche uno spettacolo teatrale. Dopo essere stato iscritto al Partito Repubblicano Italiano, è stato eletto senatore nel 1996. Ha ricoperto diversi incarichi: Membro della Commissione Permanente di Giustizia, Sottosegretario di Stato per la Grazia e la Giustizia nel Governo Prodi dal 1996 al 1998. Dal 2001 al 2006 è stato eletto senatore con i Democratici di Sinistra. Attualmente è consigliere presso la Corte di Appello dell'Aquila.

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corso degli anni, veniva riassunta in questo modo: “Agli inizi degli anni '80, in una Palermo devastata dal crimine mafioso, un gruppo di magistrati molto bravi e molto preparati, si misero assieme e ottennero dei risultati che mai prima lo Stato aveva ottenuto; la mafia poi ammazzò i due indubbiamente più rappresentativi e lì la storia finì”. Questo non è vero. A noi ci ha fermati lo Stato e non la mafia. Questa è la verità! E non nel '92 ma nel '88. Non tutto lo Stato, poiché c'erano alcuni pezzi delle istituzioni che lavoravano, per esempio il pool antimafia. Secondo me queste cose vanno dette, sennò tutti ci riempiamo la bocca di una memoria sbagliata, fare memoria è una cosa giusta, a patto che sia la vera memoria. Anche i negazionisti sulla Shoah hanno la loro memoria. Permettere che la responsabilità delle istituzioni venga messa da parte, è intollerabile. Sono offeso ed arrabbiato ancora oggi per quelle vicende che ho vissuto sulla mia pelle.

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Perché ha sentito il bisogno di raccontare la sua storia a quasi vent'anni dalle vicende di cui parla nel libro? In un'intervista parla di pudore, perché? Ho scritto materialmente questo libro nell'estate del 2008, quindici anni dopo le stragi del '92 in coincidenza con la fine del mio percorso parlamentare. La cosa non è casuale, nel senso che temevo che il libro potesse essere strumentalizzato, poiché penso che quello della politica sia un “ambientaccio” da qualunque parte lo si guardi. Quindi avevo il libro in testa, ma rimandavo sempre. Quando è finita l'esperienza parlamentare, ho pensato di ritornare a fare il magistrato, tra l'altro in punta di piedi, senza pretendere incarichi di rilievo. Sono venuto a scriverlo sulle Dolomiti, a Corvara. Sono stato contento di essere riuscito a scriverlo, perché lo maturavo da tempo, ma il pudore mi impediva di portarlo a termine. L'ho voluto realizzare perché mi sono reso conto che quella storia, nel

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Intervista a cura di Elisa Bianchini, Matteo Previdi, Tiziana Marino, Milena Rettondini


Quindi lei lo ha scritto per... L'ho scritto per fare ordine. Io ho una formazione classica e al Liceo Classico che ho frequentato mi insegnarono “historia magistra vitae”, la storia è maestra di vita. Chi può smentire questo? Ma la storia deve essere quella vera. E la storia vera è quella che ho raccontato nel libro. “Tra i giudici che avevano combattuto la mafia e la mafia stessa, vinse quest'ultima perché li aveva ammazzati, pur subendo sostanziose perdite”. Ma chi, ma dove? Vogliamo scherzare? Oltre a Falcone e Borsellino a chi si riferisce nella dedica del libro “A chi lo dovevo”? Io avevo pensato, come è normale che sia, di dedicare questo libro ai miei tre figli, perché il fatto di avere un padre blindato per diciannove anni non è una cosa da poter trascurare. Quando ho finito di scrivere il libro e mi sono accorto di aver fatto una cosa seria, mi è piaciuto molto come ho ricostruito tutto e ho compreso di aver reso un servizio a molte più persone che solamente a Falcone e Borsellino. Quindi ho pensato a quanta gente leggendo quel libro, che ha avuto un riscontro pazzesco, mi dirà grazie, perché non aveva capito come erano andate le cose. I libri hanno un grande vantaggio: sopravvivono al suo autore, i libri non muoiono. Per cui mi sono messo l'anima e il cuore in pace: fra molti anni, chi vorrà conoscere la storia, basterà che legga questo libro e saprà tutto. La riprova che è scritto in maniera assolutamente fedele è che non ha sollevato una polemica, non c'è stata nessuna critica. Il libro ha venduto 100.000 copie, che non sono poche. Nessuno ha osato aprire bocca se non in modo positivo. Ma non c'è un po' di rammarico per il fatto che il libro è stato completamente ignorato dai media?

No! Io ho imparato proprio da quel periodo lì, gli anni '80, che certe cose non sono gradite all'estabilishment. Questo è un libro che dà fastidio, perché racconta la verità e non è contestabile poiché è documentato. E allora viene ignorato anche da chi non me lo sarei aspettato, tipo dal quotidiano «Repubblica». Solo il «Corriere della Sera» ne ha parlato. Ma anche questa non è stata una sorpresa. Non è una forma di censura non parlarne? Io vado oltre loro. In Italia per un fatto di ignoranza diciamo “midia” come gli inglesi, ma essendo una parola latina bisognerebbe dire “media”. Io non ho bisogno di essere mediato, perché se io vengo a Rovereto e questa sera parlo a 500 persone, se sono stato ad Avellino e ce n'erano 700, non ho bisogno dei media e loro lo sanno che sono fatto così. Sarò presuntuoso, ma siete voi che mi autorizzate ad esserlo. Al giorno d'oggi si parla di mafia a differenza di trent'anni fa, se ne parla nel modo giusto? Quello che ti posso dire è questo, l'importante è che se ne parli, perché la cosa che più gradisce la mafia è che non se ne parli. Se tu fai a un mafioso la domanda: “Qual è la gerarchia delle cose che preferisce?” Primo che non si parli di mafia, perché loro amano l'omertà, nessuno deve sapere quello che fanno, nessuno ne deve parlare, quindi il fatto che se ne parli va benissimo; è chiaro che in una situazione del genere ci può essere chi ne parla a sproposito, ma va bene così, l'importante è che se ne parli. Perché tutto questo veicola anche una presa di coscienza; lo noto moltissimo nelle scuole, e onestamente mi invitano molto più spesso al Nord che al Sud e c'è una certa diffusione di consapevolezza di questo fenomeno, della sua pericolosità. Questa presa di coscienza era impen-

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sabile ai miei tempi, non solo non c'era, ma era impensabile che ci potesse essere; in questo c'è stato un progresso della società civile italiana. Ora non voglio distribuire meriti, ma sicuramente Falcone e Borsellino ne hanno un po'. È un dato di fatto confortante; io voglio essere fiducioso, addirittura ottimista. La mia valutazione è positiva, il guaio è quando non se ne parla. Ho frequentato un'ottima scuola, non vi stupite era a Caltanissetta, con professori di grandi qualità; ma io non mi ricordo che un solo giorno, una sola mattina, sia stata pronunciata una volta la parola mafia, pensa che differenza rispetto ad oggi. Io non andavo a scuola ai tempi delle guerre Puniche, qualche anno fa per carità, ma non cento anni fa. Non è una sorta di accettazione del fenomeno come inevitabile? Prima era così, in Sicilia della mafia non si sapeva quasi nulla; anzi c'era chi addirittura si chiedeva “Ma siamo sicuri che esista? Magari sono dei semplici criminali”. C'era una sorta di accettazione, come avviene per una calamità naturale; faccio quest'esempio per far capire che non era un'accettazione come una sorta di adesione, perché non tutti sono filo mafiosi, perché cinque milioni di siciliani che aderiscono alla mafia non esistono, ci sono delle frange, ma cinque milioni no. Secondo lei persiste ancora questo fattore dell'omertà? Assolutamente. Secondo me è dovuto anche ad un fattore psicologico: siccome è un problema e non c'è siciliano che non lo avverta, c'è una forma di rimozione che è istintiva, naturale e per certi versi anche comprensibile. È un problema natale, perché tuo nonno lo sa, tuo bisnonno anche, cioè la mafia è più vecchia dell'unità d'Italia: Garibaldi, quando venne a liberare (che poi non si sa se ha fatto bene o ha


fatto male, per me ha fatto bene! Questione di punti di vista), trovò la mafia e fu anche aiutato, perché i latifondisti misero i mafiosi a sostenerli. Quale forma di criminalità organizzata al mondo può vantare una vita così lunga? Nessuna, perché la mafia, oltre ad essere una forma di criminalità organizzata, è una forma di potere; ha sempre preso parte al potere, figurati in Sicilia. Secondo lei si può considerare la mafia al pari di uno Stato? Loro hanno una straordinaria capacità di infiltrazione dentro la politica e dentro la pubblica amministrazione; sono una lobby, perché hanno una grande forza elettorale. Nella sentenza del maxiprocesso, in base a dati processuali, abbiamo calcolato che nella provincia di Palermo all'epoca la mafia gestiva direttamente 180.000 voti. Capisci che 180.000 voti opportunamente orientati garantiscono una rappresentanza politica. A tutti i livelli: dai Comuni, alle Provincie, alle Regioni e anche al Parlamento Nazionale. Io li ho visti in Parlamento i mafiosi. Ci sono. Su mille non sono novecento, ma ci sono. Poi ci sono in tutti i campi della pubblica amministrazione, specialmente quella regionale. La Sicilia è una regione a statuto speciale, ha dei poteri che qui in Trentino vengono usati bene, da noi meno. Voglio essere molto cauto (ride). Quindi è un problema, ma non è uno Stato nello Stato. È una lobby molto

forte, quindi riesce a piegare, in una maniera funzionale ai propri interessi, scelte anche importanti. Ma se diciamo che è uno Stato nello Stato stiamo esagerando. Però alla fine è organizzata economicamente, socialmente attraverso una gerarchia, ha delle forze militari, politicamente va di pari passo con la gerarchia sociale, perché non si potrebbe definire uno Stato? In un certo senso. Se tu cerchi la definizione di Stato nei libri di diritto cosa trovi? Lo Stato si ha quando un popolo si organizza su un territorio sotto la guida di un governo. Gli elementi costitutivi dello Stato sono il territorio, il popolo e il governo. La mafia li possiede tutti. La nostra regione è stata occupata a suo tempo anche dai Savoia. Che siete venuti a fare qua? Chi siete? Piemontesi? Quella era l'ennesima invasione della Sicilia. Una caratteristica che spiega tante cose di questa regione è che fino al 1946, cioè ieri, non ha mai espresso un governo siciliano, è sempre stata dominata da altri. Prima i Greci, poi i Romani, poi gli Arabi, poi i Normanni, poi i Francesi, poi gli Spagnoli, poi i Borboni, poi i Savoia, che differenza c'è? Quindi c'è una preesistenza di questa realtà, che aveva anche un radicamento sociale, una sorta di legittimazione. Non c'era la stazione dei Carabinieri in ogni paesino; se tu subivi un torto a chi ti rivolgevi? C'era il capomafia che era un

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Tutti sanno chi sono i mafiosi. Che sensazione ha provato ad essere stato abbandonato dalle stesse istituzioni a cui aveva dedicato la propria vita? Nutre sfiducia nei loro confronti? Siamo rimasti attoniti quando lo abbiamo capito. Sfiducia no, assolutamente. Io sono un uomo che le istituzioni le continua a servire con una grande fiducia: poi vedete, io ho ricevuto molti insegnamenti da Falcone, perché lui non era soltanto un bravissimo magistrato e un uomo di grandi qualità, era di più. E io ho imparato molto da lui, anche perché quando ho cominciato a frequentarlo avevo 36 anni, ero abbastanza giovane; vi racconto questo episodio: una volta dovevamo andare a Roma ad interrogare come testimone un ministro, che era “uno chiacchierato”, avevamo appuntamento alle tre; ma io dissi a Falcone: “Guarda, questo non lo voglio proprio conoscere”. Allora Falcone mi disse: “Se tu non vuoi venire non venire, una ragione molto valida sarebbe che sei molto stanco e che ti vuoi fare una pennichella. Se è quella la ragione, non venire”. Dissi: “No non è quella la ragione, è che io con questo non ci voglio avere a che fare”. Lui allora ribatté: “Sbagli! Perché le istituzioni non vanno mai confuse con le persone che temporaneamente le rappresentano”. È un bell'insegnamento, ricordatelo. Quindi io nelle istituzioni italiane credo ancora. Io faccio parte di un'istituzione. L'ho sempre servita bene, o almeno credo, quindi tutto mi può capitare meno che la mancanza di rispetto verso le istituzioni. Poi non sempre mi piacciono le persone che le rappresentano, come non mi piaceva quel ministro, ma questo non deve portare alla sfiducia in esse, che hanno una continuità che va al di là degli uomini e delle donne. Cosa l'ha spinta ad entrare in politica? Ri-

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mediatore sociale. Io faccio sempre un esempio per far capire questa realtà: a un contadino gli rubavano le dieci vacche che aveva; lui disperato, la famiglia distrutta; andava dal capomafia con la coppola in mano e quello gliene faceva trovare otto, perché due andavano ai picciotti che avevano fatto il loro lavoro. Da quel momento nasceva un'obbligazione, perché quel contadino per il capomafia avrebbe fatto qualsiasi cosa. Quindi se il boss aveva bisogno di un rifugio per un latitante, gli avrebbe mai detto di no quel contadino? Crede che la lotta alla mafia debba partire dal basso o essere promossa dallo Stato? Sinceramente devo dire che ho una grande speranza nel partire dal basso. Cioè ci vuole una grande maturazione, che secondo me è in corso, della società civile. Ho letto sul giornale di oggi che il presidente della commissione antimafia Pisanu, una persona seria che conosco bene, ha fornito dei dati su quanti collusi con la mafia vengono eletti in parlamento. E quindi questo rafforza la mia tesi; perché non è che il mafioso in parlamento ci è andato per diritto ereditario o per investitura. Ci è andato perché ci sono delle persone che lo votano. Ecco che la partita vera si gioca nella società civile; io, faccio quel pochissimo che posso fare, ovvero parlare coi ragazzi, cercare di far nascere una futura classe dirigente che abbia questa consapevolezza. E magari se c'è quel partito che nella sua lista ha quella persona... arrivare a dire: “Non ti voterò mai!”, perché magari gli altri candidati vanno bene, ma questo in parlamento non ce lo mando; perché come sapete oggi c'è la lista bloccata, cioè nessuno sceglie nessuno. Però non si gioca a carte scoperte: cioè io non so se quella persona è entrata lì perché collusa con la mafia, no?


farebbe questa scelta? Che impressione le ha lasciato questo mondo? Domanda semplicissima: non è una cosa che mi ha spinto, è una persona che lo ha fatto, Falcone. Mi venne offerta questa candidatura nel Partito Repubblicano, alla quale non avevo mai pensato e quindi ero molto incerto. Anche perché temevo l'esito, erano delle elezioni difficili. Falcone invece insistette, volle andare a parlare direttamente lui con La Malfa, che al tempo era il segretario generale del Partito Repubblicano e mi convinse. Si assunse lui tutta la responsabilità, non so se ha fatto bene o male, ma è stata una cosa del tutto casuale, infatti poi si è capito che non c'entravo niente con la politica. L' impressione che mi ha lasciato non è stata positiva. Ho conosciuto anche delle persone di grande qualità, ma io sono estraneo a quel mondo. Probabilmente per limiti miei. I politici si fanno portavoce del successo contro la criminalità organizzata, è un successo reale o il sistema mafioso rimane invariato? La politica si deve effettivamente attribuire dei meriti? Maroni lo conosco. Ho un buon rapporto con lui ed è una persona seria. È chiaro e del tutto legittimo che il Ministro si prenda i meriti dei risultati ottenuti dalle forze dell'ordine e dalla polizia. Non mi sentirei di criticare mai nessuno. Perché c'è l'altra faccia della medaglia, quando le cose vanno male la responsabilità è del Ministro. Quindi perché non il merito? Poi non è che va a catturarli lui di persona i latitanti, però diciamo che è al vertice di una struttura che ottiene dei risultati per cui è del tutto legittimo che li rivendichi. Perché ripeto, bisogna pensare all'ipotesi contraria. Il Ministro sarebbe chiamato a rispondere di un'insufficienza o di una carenza. Riconosce un contributo di Roberto Savia-

no nella lotta alla mafia? Cosa ne pensa di lui? Saviano secondo me è un grande comunicatore. È un ragazzo indubbiamente coraggioso, non posso che dirne bene. È diventato però un fenomeno mediatico. In una società che sui media seleziona le priorità. Io quando ho guardato la trasmissione di Santoro in cui ho visto Saviano parlare in maniera molto documentata e molto precisa, ho condiviso tutto quello che ha detto; nel periodo della vicenda di Giovanni Falcone, lui aveva nove-dieci anni. Lo dico a merito suo, perché si è documentato, bravo. Però non ci sarebbero mai stati dieci milioni di italiani ad ascoltarlo, se la storia non l'avesse raccontata lui, è lì il problema. Senza nulla togliere a Saviano, anzi dandogli molta della mia ammirazione. È l'aspetto mediatico che mi convince meno. Non voglio parlare di politica. Quando però si fa una riunione a Milano, in cui parla Umberto Eco, parla Gustavo Zagrebelsky, ma la standing ovation è per Saviano, beh te la chiedi qualche cosa. Ed è questo qualcosa che non va. Cosa consiglia a un giovane che vuole intraprendere la strada della lotta alla mafia nel giornalismo, nella magistratura? Di farlo. Se uno fa il giornalista o il magistrato ha un ruolo per il quale non può nascondere che questi problemi esistano. È un po' il discorso che ho fatto nel titolo del libro: «Chi ha paura muore ogni giorno»; non bisogna provare paura. L'esempio che faccio sempre io è quello dell'automobile col freno a mano: tu metti in moto, ma ti sei dimenticato il freno a mano mezzo tirato, la macchina parte, ma tu non saprai mai che velocità potrà raggiungere la tua macchina, se ha una bella ripresa o invece è lenta. Senza con questo esagerare nel verso opposto, ma con responsabilità, misura e consapevolezza delle cose che devi

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Giuseppe Ayala

delle debolezze umane. Se così stanno le cose, è chiaro che con una pressione molto forte sulla magistratura da parte della politica, non mi sento di escludere che essa non condizioni qualche magistrato e lo trovo del tutto umano. Il suo lavoro e la sua lotta, accompagnata comunque da pericoli e da limiti per la sua libertà personale come la scorta, l'hanno però da un lato fatta sentire un uomo più libero? Anche in questo bisogna considerare che la dimensione umana fa la differenza: per esempio Falcone la vita blindata la sopportava molto meglio di me; perché lui era un metodico, un abitudinario: la mattina usciva da casa, andava in ufficio, non tornava neanche a mezzogiorno e ritornava a casa la sera. Per carità, non è che non gli pesasse, gli pesava, ma col mio carattere invece quel sacrificio è stato molto pesante. Io poi sono stato blindato per diciannove anni. Però non mi sono mai posto la domanda: “Ma chi me l'ha fatto fare?”. La vita che ho fatto è sempre stata il frutto delle mie scelte. L'unico bilancio, che riconosco coerente con il mio modo di essere, è quello di aver fatto soltanto quello che volevo fare. Siccome l'avevo scelto, evidentemente avevo delle ragioni per farlo e ho la presunzione di dire, che ho fatto bene. Mafioso uomo libero o schiavo del proprio ruolo? Allora, dobbiamo partire dal presupposto che il mafioso è un pezzo di merda. È la peggiore categoria umana che possa esistere. Dopodiché sono affari loro. Dei loro problemi esistenziali non me ne sono mai occupato. E non ho nessuna voglia di farlo.

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scrivere, se sei un giornalista, o di quelle che devi fare, se sei un magistrato, perché così dai senso al ruolo che hai scelto. Il mondo non è fatto di scorciatoie, io oggi vedo una cosa che mi allarma molto nella nostra società tra i giovani, non tutti s'intende. È questa ricerca della scorciatoia, che ha un suo fascino certamente, ma la scorciatoia non porta mai solo dati positivi, prima o poi la paghi, altrimenti tutti la prenderebbero. Noi adulti lo sappiamo fare con molta più lucidità, perché abbiamo un'esperienza di vita alle spalle. Bisogna andare per la strada giusta, la strada maestra. Al giorno d'oggi la politica o in generale i poteri forti in Italia influenzano il mondo giudiziario, la magistratura, o si può riconoscere che questo mondo sia indipendente? È un mondo che conosco abbastanza bene; tu considera che i magistrati in Italia sono alcune migliaia, quindi non siamo in dieci, cinquanta, cento ed è chiaro che donne e uomini possono anche avere i limiti che donne e uomini hanno, ma complessivamente è una struttura che funziona; la stragrande maggioranza dei magistrati italiani è gente che lavora e lavora con grandissimo impegno. Poi c'è normalmente, com' è naturale che capiti in ogni campo, quello che invece è bravissimo a non fare nulla, io ne conosco, bravi ammiro pure quelli, io non ci sono mai riuscito, la tentazione l'ho avuta, ma non ci sono mai riuscito. Poi magari c'è qualcuno che ha un momento di cedimento alla notorietà, di protagonismo, ci sono, ma direi che mi stupirebbe il contrario. Quando tu entri in magistratura vinci un concorso serio e difficile per fare il magistrato, non per diventare perfetto. Non è previsto il concorso vincendo il quale diventi perfetto; quindi anche dentro alla magistratura ci sono


Fotografia di Francesca Zeni

Don Ciotti Luigi Ciotti (Pieve di Cadore, 1950). Sacerdote ed editorialista su varie testate. Nel 1968 inizia una serie di interventi all'interno di istituti di pena minorili, occupandosi anche del recupero dalle tossicodipendenze. Fonda l'associazione Gruppo Abele e nel 1986 diviene presidente della Lega italiana per la lotta contro l'AIDS. Nel 1995 inizia ad occuparsi di lotta alla mafia attraverso Libera, una rete che coordina diverse associazioni impegnate su questo fronte.

Nando Dalla Chiesa, Le Ribelli, Melampo 2006 Saverio Lodato e Roberto Scarpinato, Il ritorno del principe, Chiarelettere 2008

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Puglisi. Mannoia, dicendo che la mafia si era stancata, perché c'era qualcuno che si dava da fare nella Chiesa, diceva una verità che se fosse stata colta, forse don Pino sarebbe ancora vivo. Quando un magistrato chiederà a dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia: “Perché avete ucciso don Pino Puglisi?” Uno di questo signori, si chiama Giovanni Drago, dirà: “A Brancaccio (che era la parrocchia di don Pino Puglisi a Palermo) è arrivato un prete che non era dalla parte dei mafiosi”. Terribile, perché vuol dire che c'erano dei preti dalla parte dei mafiosi. Ma la risposta più puntuale la darà un uomo di Cosa Nostra di nome Salvatore Cancemi, il quale a verbale disse queste parole: “Questo qua (cioè don Puglisi) era un prete scomodo, un prete che disturbava Cosa Nostra, sicuramente al mille per mille, perché un prete che si fa i fatti suoi, che predica la Chiesa e non tocca i mafiosi, sicuramente questo campava cent’anni”.

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Come si pone la Chiesa nei confronti della mafia? Il 19 agosto 1993, un uomo in carcere, un uomo di Cosa Nostra, il suo nome è Francesco Marino Mannoia, dice di voler parlare con un magistrato. A verbale dirà queste parole: “Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile, ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa, perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d'onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite”. È drammatico, vuol dire che molti hanno taciuto, si sono resi complici, non hanno ritenuto come un proprio impegno prendere delle posizioni, stare dalla parte della giustizia, della ricerca della verità. Troppi si sono chiusi solo nella dimensione intimistica, spirituale, pensando che certe cose non gli dovessero interessare. Dicevamo agosto '93, attenzione perché c'è una successione di date che è importante, neanche un mese dopo viene ucciso don Pino

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Intervista a cura di Anna Pugliese, Elisa Bianchini, Federico Evangelista, Martin Rudatis, Matteo Previdi


La mafia avrebbe voluto una Chiesa che non interferiva, che lasciava fare, che si richiudeva nella dimensione spirituale nel senso stretto. Invece io credo che noi dobbiamo interferire. Dove ci sono le ingiustizie e la violenza, dove si creano forme di illegalità, di corruzione, il nostro dovere, di tutti, anche della Chiesa è di avere il coraggio di una denuncia seria, documentata, mai faziosa, mai retorica e di prendere una posizione chiara dalla parte del povero, dell'ultimo. Dobbiamo lottare per la giustizia. Torniamo alle date, 19 agosto 1993 Mannoia che parla con il magistrato, 15 settembre viene ucciso don Puglisi, inizio del 1994 viene ucciso don Peppino Diana a Casal di Principe in provincia di Caserta. Viene ucciso alle 7.30 di mattina, in sacrestia mentre si prepara a celebrare la messa. Venti giorni prima della sua morte, mi aveva chiamato a parlare nella sua parrocchia. Mi ricordo i parrocchiani, i ragazzi che vivevano nella terra di Sandokan, il soprannome di Francesco Schiavone, uomo di camorra. Violenza, morti, sangue, traffici e poi questo bravo prete. Io vado a questo incontro, molte domande, si fa tardi e dopo ci mangiamo una mozzarella e un salame. Mi ricordo i ragazzi, quel prete piccolino e grassottello e io piccolo piccolo, perché poi siamo tutti molto piccoli di fronte all'immensità dei problemi. In quei venti giorni scrive un articoletto sul giornale locale e quello che mi colpisce è che in quell'articolo, riflettendo sull'incontro che avevamo avuto, dice alla sua gente: “Dobbiamo risalire sui tetti per riannunciare parole di vita”. Scuote la sua gente, giovani, parrocchiani ma non solo, a risalire in alto, per portare parole di vita, per non denunciare solo le cose che non vanno, ma per invitare tutti noi a fare la nostra parte, partendo dalle piccole cose. Parole di vita, di concretezza e di impegno. Viene ammaz-

zato. Quando viene ammazzato comincerà un'opera denigratoria nei suoi confronti. Si dirà: “Ammazzato non per il suo impegno, ma per un problema di donne”. La mafia usa le sue strategie e ci sarà un quotidiano di Caserta, che sosterrà questa tesi. Io sono sotto processo dal 1994, insieme alla mamma di don Peppino Diana, all'ex sindaco e a un ragazzo che faceva il giornalista di quel giornale di paese. Sono sotto processo, perché ho detto che quello non era giornalismo, ma spazzatura. Quel prete l'avevo conosciuto, avevo visto la sua forza, la sua passione e poi l'ho visto denigrare sul giornale e mi sono arrabbiato, non si poteva tacere. Anche per tutelare quei bravi giornalisti che si impegnano a scendere in profondità, a darci un informazione seria, non dimenticando che alcuni giornalisti sono stati uccisi dalla mafia. Io ho visto la mamma di don Peppino che vedendo questa sporcizia, gridava che suo figlio era un bravo prete, un bravo ragazzo. Il processo ha dimostrato che don Peppino è stato ammazzato perché spronava la sua comunità a non stare ferma, ma a salire sui tetti e a darsi da fare, ad assumersi la propria quota di responsabilità. Una piccola soddisfazione: tre anni fa hanno arrestato la proprietà di quel giornale, perché era a libro paga della mafia, era in mano alla camorra e aveva il compito di screditare quel prete che muoveva le coscienze delle persone. Cos'era successo prima di quel 19 agosto 1993? Giovanni Paolo II era andato in Sicilia. Durante il suo pontificato ci è stato in tutto cinque volte, cinque visite pastorali. La prima volta il Papa non ha parlato della mafia. Lui arrivava dalla Polonia e qualcuno doveva aiutarlo a leggere il territorio e a spiegargli le cose. La seconda volta, durante la messa conclusiva della sua visita

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dice nel terzo articolo che l'uguaglianza è il pilastro e l'architrave della nostra costituzione. Il pluralismo è uno dei più grandi doni, la ricchezza delle differenze che ci cambiano la vita, nel confronto, nella costruzione di un percorso insieme. Ora voglio farvi un regalo, voglio leggervi l'ultima omelia di don Puglisi. Don Pugliesi si era accorto che c'era un clima pesante a Brancaccio, lui in chiesa chiedeva tutte le domeniche una cosa: la scuola per i ragazzi. I ragazzi andavano a scuola in un palazzo di proprietà di una società in mano ai mafiosi e a cui lo Stato pagava l'affitto. Don Puglisi chiedeva una scuola vera, le aule, i laboratori, la palestra. I boss di Brancaccio erano disturbati dal fatto che Puglisi avesse preso un locale per fare un po' di oratorio con i ragazzi, lo volevano loro il locale, perché volevano dimostrare che loro avevano il controllo, la forza e il potere e non i preti. Don Puglisi riceverà delle minacce e dirà ai suoi ragazzi: “Non venite a trovarmi di se-

Fotografia di Francesca Zeni

pastorale, il 9 maggio 1993, nella valle dei Templi, di fronte a milioni di persone, sembra non fare nessun riferimento alla mafia. Il Papa sta per andarsene, fa un metro ma torna indietro e griderà come forse avete visto qualche volta in televisione, tenendo in mano il pastorale di Paolo VI, delle parole chiave, dirà delle parole dure e forti. Che cosa fa la mafia che si sente scomunicata, che si sente attaccata? Mette le bombe in una chiesa a Roma, mette le bombe anche in un'altra chiesa, ucciderà poi don Puglisi e ucciderà don Peppino Diana. Allora, io, Luigi Ciotti, sacerdote con tutte le mie fragilità e limiti, ho due riferimenti fondamentali: uno è il Vangelo, la parola di Dio e l'altro è la Costituzione italiana, con in più la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Questi sono i miei due grandi riferimenti e mi auguro che lo siano anche per voi, perché i diritti umani ci fanno capire che le persone sono un fine e mai un mezzo. La nostra costituzione ci


ra”. I ragazzi capiranno qualche giorno dopo che il prete era preoccupato che potesse succedere qualcosa a loro. La domenica alla sua ultima omelia dirà queste parole: “Lancio un appello ai protagonisti delle intimidazioni, parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono ad ostacolare chi tenta di educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e dello studio”. Questa è la sua grande testimonianza, la forza di lanciare un appello ai protagonisti delle intimidazioni. Sono delle belle espressioni di Chiesa, dovete cogliere le cose belle, ma anche le aeree grigie, le contraddizioni. È un processo di purificazione rispetto a qualsiasi tipo di potere, per stare di più dalla parte degli ultimi e di chi fa fatica, di chi è povero. La posizione contro la mafia è chiara in tutta la Chiesa? Nella Chiesa, oggi come oggi, è decretato senza mezzi termini: il Vangelo è incompatibile con le mafie. Non solo verso il singolo mafioso, ma anche con quanti si rendono complici di tutto questo. Il Vangelo è incompatibile con l'illegalità, con la corruzione e questo deve essere molto chiaro. Anche se, purtroppo, mentre veniva ucciso don Puglisi, da un'altra parte c'era un frate sacerdote che andava a celebrare la santa messa nel covo di un uomo di Cosa Nostra, di un latitante. Nella Chiesa troverai delle fragilità e mi auguro che cresca un processo di purificazione anche nella Chiesa, rispetto a qualunque forma di potere: economico e politico. La Chiesa deve ritrovare la sua libertà di fronte a qualunque potere, deve stare dalla parte di chi fa fatica, deve riuscire a portare alla luce la parola di Dio, ma anche impegnarsi per la giustizia e la ricerca della verità, deve saldare la terra con il cielo. Crede che anche oggi, come nel 1992-

1993, lo Stato contrasti la mafia con la stessa forza? Di Giovanni Falcone, magistrato, ne avete già sentito parlare. Falcone riuscirà ad aprire una breccia grazie al primo vero collaboratore di giustizia, un uomo che si pente, che collabora e che spiegherà a Falcone qual è il sistema di Cosa Nostra. Quest'uomo si chiama Buscetta. Comincia quindi una stagione nuova e importante che porterà all'arresto di migliaia di persone: nascerà quello che poi si chiamerà “il maxi processo”, centinaia di uomini di mafia alla sbarra. Leggendo i giornali di quegli anni si percepisce enfasi: “Tagliata la testa alla piovra”, “Sconfitta la mafia”. Siamo nel 1985 e a prendere posizione, ad andare controcorrente, ad essere profeta, è Paolo Borsellino. In un'intervista spiegherà che continuando a fare grandi parole la mafia ha la possibilità di trasformarsi e continuare a penetrare in silenzio. La mafia si avvale del silenzio, ammazza solo in casi estremi. Ecco cosa disse Paolo Borsellino: “La risposta dello Stato deve essere continua e costante, nel rispetto doveroso delle garanzie del cittadino non sono consentiti allentamenti di impegno e di tensione, non perniciose illusioni di cessata pericolosità solo in presenza di un calo statistico degli episodi di violenza, per altro niente affatto scomparsi”. In un momento di grande euforia sono parole profetiche. Io credo che dobbiamo stima e riconoscenza al lavoro dei magistrati, delle forze di polizia, vedi grandi operazioni ogni giorno, nonostante l'insufficienza di mezzi che loro denunciano. Ci vuole riconoscenza per questo lavoro. Vedo scomparire dei padri di famiglia, uomini della polizia di stato che sotto coperture devono infiltrarsi in quegli ambienti, lasciano per mesi la famiglia e non possono dire neppure alla moglie cosa stanno facendo in certe ope-

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Centro. Ha avuto le radici storiche al Sud, ma in questi ultimi 50 anni, si è radicata a Milano; prima ha fatto solo affari, poi ha iniziato il controllo del territorio, adesso l'ultimo rapporto della direzione nazionale antimafia parla di colonizzazione, quindi di una rete forte. Nel luglio del 2010, nell'anniversario di Paolo Borsellino ucciso nel 1992, vicino a Milano, la polizia mette delle telecamerine presso un circolo privato e così registra delle persone al suo interno che fanno una riunione e alzano la mano per votare il coordinatore della 'ndrangheta per la Lombardia. Questo significa che era presente sul territorio un'associazione già autonoma. Ma il più doloroso schiaffo di quelle immagini è che in quella sala, prestata da dei ragazzi in buona fede, la votazione avviene davanti alla gigantografia della foto di Falcone e Borsellino. Loro hanno votato il loro capo in questo modo. Quindi la mafia al Nord c'è. La mafia continua a uccidere, sono 26 morti in questi ultimi sei anni, 10 in Piemonte e 16 in Lombardia. Con «Libera» noi siamo presenti in queste zone, con la società civile organizzata, con le scuole, le università, si sta creando un fermento sociale. Nel 1996 abbiamo raccolto un milione di firme in Italia per chiedere al Parlamento una legge: confiscare i beni mafiosi e concedere l'uso sociale di questi beni. Oggi alcune ville dei boss sono diventate un asilo nido, una casa per gli anziani, una piccola scuola. La gente però non sa una cosa, degli 11.000 beni confiscati, solo la metà è stata consegnata e di questa solo una parte è utilizzata. Il 45% di questi beni non possono essere utilizzati, perché sono sotto ipoteca bancaria. I mafiosi hanno fatto un'ipoteca con le banche e le banche ora dicono: il destinatario ultimo del bene confiscato è il comune che a sua volta si impegna all'uso sociale, allora

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razioni. In alcuni territori qualcuno dice di non vedere mai la polizia nel proprio quartiere, ma chi di noi ci lavora insieme, sa che ci sono, non in divisa, ma nascosti. Ovviamente, come nella Chiesa ci sono aree grigie, ci sono anche nella magistratura, come nel mondo della scuola, insegnanti e ragazzi come voi che avete voglia di capire e vi interrogate, ma ci sono anche quelli a cui non importa nulla. Cogliamo le positività e verso la positività ci sia stima, perché tutto questo impegno e questo lavoro ci sta consegnando degli ottimi risultati! Potrebbero essere molti di più, ma guai se non si dà continuità, altrimenti si cade nelle “perniciose illusioni”. Recentemente si parla sempre più spesso della presenza della mafia al Nord. Cosa ne pensa? La mafia al Nord è cinquant’anni che c'è. Mi stupisco di chi si stupisce. Il grande errore è stato il soggiorno obbligato per i mafiosi, che venivano portati in Trentino, in Piemonte, in Lombardia, in modo da allontanarli dalla propria regione. I mafiosi si sono organizzati nel territorio. A Torino tanti anni fa è stato ucciso il procuratore capo della Repubblica, Bruno Caccia. L'altro giorno hanno commissariato Bordighera in Liguria. Al nord Italia ci sono 1377 beni di mafia confiscati, nella provincia di Milano sono 534. Tutte le associazioni mafiose vanno dove possono gestire il loro denaro, ecco allora che la presenza delle mafie al Nord non la si scopre solo oggi, non è un giudizio, ma un dato di fatto. Nell'ultima operazione anticrimine, con cento arresti tra Lombardia e Calabria, la cosa più sconcertante che il magistrato ha messo in evidenza, è che tra gli imprenditori ha trovato l'omertà. Questo a Milano, non in Sicilia o in Calabria dove respiri nell'aria quella violenza. Il problema delle mafie è un problema trasversale, si trova al Nord, al Sud, al


sia lui a pagare il mutuo, mutui anche di milioni di euro. Questa è stata una strategia. Ci potranno essere situazioni di buona fede, ma io alle banche dico: “Chi ha dato il mutuo a Totò Riina, a Piromalli?”. Quindi oggi il 45% dei beni confiscati alle mafie non possono essere utilizzati, ma questo non lo senti dire. Ecco le “perniciose illusioni”. Dov'è la forza della mafia? Per raggiungere i propri scopi la mafia si avvale di parte del corpo sociale. Totò Riina faceva il contadino, non era in grado di giocare in borsa a New York, di fare grandi acquisti immobiliari e così tanti altri. Per fare tutto questo gli uomini di mafia si avvalgono di fiscalisti, di commercialisti, di avvocati e ci sono persone con alta professionalità, che per denaro si sono resi complici di tutto questo. Allora il problema della mafia sta fuori la mafia, la forza della mafia sta fuori la mafia, perché è lì che trova quelle professionalità, quelle competenze di alta personalità. Il problema non è il pesce, ma il bacino d'acqua dentro il quale il pesce si alimenta. Il problema non è il singolo mafioso, ma sono queste complicità e tra esse c'è sempre l'elemento, su piani diversi, della politica. Voi sapete che è stato denunciato dal presidente della Commissione Antimafia che in questo momento nel parlamento italiano ci sono 45 deputati e senatori che hanno delle vicende giudiziarie, di un peso non indifferente. Allora bisogna che le forze politiche facciano chiarezza e pulizia. Chi ha delle vicende giudiziarie si metta da parte, collabori con la giustizia e non la ostacoli nella ricerca della verità. Vengano tutelati per poter dimostrare la propria innocenza, ma fino a che non sarà fatta chiarezza non occupino questi posti di grande responsabilità. In Italia qual è la situazione per quanto riguarda il rispetto della legalità?

L'Italia è dal 1999 che non mette nel codice penale quello che l'Europa ci chiede e cioè l'introduzione di tutta una serie di meccanismi contro la corruzione. L'Italia non l'ha fatto ed è l'unico paese in Europa. Ma l'Italia ha fatto di più, ha spolpato quei reati che dimostrano la corruzione, come il falso bilancio, che avrebbe messo in galera o per lo meno condannato dei personaggi che adesso sono al governo. L'abuso dell'atto in ufficio è stato spolpato e così non puoi dimostrare la corruzione. Nel dire queste cose dobbiamo essere delle persone serie, bisogna documentarsi, poi ognuno può avere la sua opinione, ma la documentazione deve essere seria. Devo avere gli strumenti per capire le cose, per capire quello sta succedendo nel nostro Paese. Vi faccio un esempio: io non sarei qui se da una intercettazione telefonica, chi di dovere, non avesse intercettato che lungo la Portogruaro-Udine, si stava preparando un attentato per farmi fuori assieme alla scorta. Sono d'accordo che non bisogna mai abusare delle intercettazioni, le vicende personali delle persone devono essere tutelate e degli abusi possono esserci stati, ma questo non deve spingere a “spazzare via tutto”, riducendo all'osso le intercettazioni. Molte vicende si sono scoperte partendo da intercettazioni di piccoli reati, chiamati reati spia e da qui si è risaliti a cogliere cose ben più grandi. Se ci fossero stati quei limiti che qualcuno oggi vorrebbe, ripeto, io non sarei qui, perché non si stavano intercettando grandi boss di mafia. Voglio dire, spero con rispetto e umiltà, che alcuni strumenti che qualcuno vuole cancellare, possano essere anche modificati, ma non impoveriti. Quello che colgo è che la soluzione a tutto sarebbe partire dalle piccole cose, e semplicemente fare il proprio dovere, cioè quello che secondo il proprio mestiere o-

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confessando che quel ragazzo l'aveva ammazzato lui, proprio perché era un bravo ragazzo. L'avevano ucciso perché aveva visto delle persone che conosceva incendiare delle auto, sapendo che era una persona ligia e che sarebbe certamente andata a denunciare la cosa, hanno deciso di ucciderlo. Si è tolto questo peso dopo 14 anni e ha spiegato di averlo fatto perché, guardando una di quelle giornate della memoria alla televisione, ha visto queste famiglie con le foto dei figli ammazzati ed è andato in crisi.. Allora capite che si può scavare? Credo, che ci sia molto su cui riflettere. Vi ringrazio, ma lasciate che vi legga una lettera, una lettera personale di una mamma di tre bambine. Ho incontrato questa donna nel sud Italia, ed è una delle tante storie che si possono raccontare. Storie dove il cambiamento è possibile, la presenza a scuola, l'educazione, il ragionare, la sfida alla mafia è prima di tutto culturale. Questa donna, quando era ragazza, a ragioneria, si innamora del suo compagno di banco e con lui si sposa giovanissima. Lei prende coscienza che suo marito è un uomo di mafia, ma è talmente innamorata che pur accorgendosi di tante cose, non ha il coraggio di reagire, perché il vero problema è la mentalità mafiosa, la cultura mafiosa, i codici mafiosi. Lei scrive questa lettera, chiedendomi di darle una mano perché non voleva che le sue figlie crescessero nella stessa maniera, ascoltate: “Negli ultimi due anni ho imparato tanto dalla vita, da quella vita precedente dove tutto quello che accadeva intorno a me sembrava normale, dove non mi accorgevo o meglio acconsentivo tacitamente a tutto il male che mi ruotava intorno. Oggi, pensando a tutto ciò, mi sento in colpa per non essermi ribellata, per non aver salvato la persona che amavo, ecco perché mi

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gnuno dovrebbe fare. Però, nonostante ciò, le sue parole sembrano molto utopiche, quindi questa normalità, su cui bisognerebbe fondare tutto, è diventata un'utopia. Non è vero. Non fa testo quello che dico, ma ti porto solo la nostra piccola esperienza. Il 75% delle facoltà universitarie italiane, hanno firmato con «Libera», dei protocolli affinché nelle università si facciano master, corsi di aggiornamento, approfondimenti su queste tematiche, perché conoscere significa essere consapevoli. Anni fa non sarebbe successo. Merito degli studenti e di molti professori. Non cambia il mondo, ma prima non c'era. Vedere dei ragazzi che con bando pubblico, vanno a lavorare sui beni confiscati ai grandi boss e il fatto che tu puoi andare all'Ipercoop e comperare la pasta e l'olio con quella targhettina: “Dalle terre liberate dalla mafia”, tutto questo è un segno che “è possibile”. L'anno scorso abbiamo aperto le iscrizioni sul sito di «Libera» per quei ragazzi che vogliono trascorrere le loro vacanze lavorando in queste terre, la mattina si lavora ed il pomeriggio c'è lo spazio per la conoscenza del territorio, le testimonianze... in tre ore abbiamo chiuso le iscrizioni, perché 3.500 ragazzi si erano già iscritti. I numeri non devono esaltarci, ma la passione delle associazioni e dei movimenti impegnati, è qualcosa di vero e di reale. A Niscemi, anni fa, c'era una mamma che magari avete visto in televisione con una foto del figlio scomparso che ripeteva: “Aiutatemi, mio figlio è un bravo ragazzo”. La gente del paese, pensava la mamma ha poco da dire, se il figlio non è più tornato a casa non può che essere stato un regolamento di conti. Ma questa donna non si arrendeva. Un anno e mezzo fa, un ragazzo che era in carcere, chiede di parlare con il magistrato e piange disperato per un'ora e mezza,


sento di non potermi definire vittima di mafia, solo adesso, che mi sono liberata di quella prigione mentale, che è stato il luogo, le persone e il modo di pensare, ho capito che la vita non era quella che stavo vivendo, perché non stavo vivendo, mi stavo semplicemente adeguando al sistema. Ora ho conosciuto un mondo nuovo, e se in passato ho agito in modo sbagliato, so che Dio attraverso te, mi ha dato una seconda possibilità di vita. Sento il bisogno di esternare questa forte sensazione di libertà, di amore e di gioia verso la vita. Mi piacerebbe tanto aiutarti nella tua missione, aiutarti a salvare anime prigioniere di quel male, mi piacerebbe far capire alle mamme che perdono i figli, alle mogli che perdono i mariti, a tutte le donne che subiscono un male, che devono lottare, che non si devono vendere per un migliaio di euro al mese, che non devono lasciare i propri figli in balia di queste bestie, convinti che con un po' di soldi possono essere ritenuti signori. Vorrei che tutti scoprissero la magnifica sensazione di sentirsi liberi, a volte ci vuole tanto per ottenerla, ma è la cosa più importante al mondo per cui vale la pena di lottare”. Questa è la mamma di tre figlie, che ha lasciato quella terra. Ho trovato un bravo sindaco che si è messo in gioco, un gruppo di famiglie che non la lascia sola con le tre bimbe piccole. Suo marito non è più tornato, pare che sia stato ammazzato dalla sua stessa famiglia, perché ci sono anche questi codici interni tremendi. Ragazzi, se andate in quella terra meravigliosa che è la Sicilia, andate in quegli agriturismi che siamo riusciti a confiscare ai mafiosi. Se andate a Partanna, lì vicino c'è un cimitero dove è sepolta una ragazzina di 18 anni appena compiuti, a cui questo Paese deve moltissimo. Questa ragazza si chiamava Rita Atria e il fatto più grave è

che non troverai mai il suo nome scritto sulla tomba, perché nella mentalità mafiosa non bisogna collaborare con gli “sbirri”. Ma quando uccidono il padre che era mafioso e poi il fratello, lei si ribella e diventa testimone di giustizia, non collaboratrice ma testimone, come aveva fatto sua cognata, una donna eccezionale di nome Piera. Quando la cognata sparisce, perché era diventata testimone, lei era una ragazzina e andava con le amiche a scrivere sui muri: “Piera uguale infame”. Perché non si deve collaborare con la giustizia. Lei frequenta la scuola a Sciacca, anno 1991 e il preside dice ai professori: “A scuola non si parla di mafia”. Ma un professore ha Rita in classe, la vede piangere e un giorno, pensa che non può più tacere, apre una discussione, offre una riflessione. Un giorno non la vedranno più arrivare a scuola. Va alla procura di Marsala e chiede di essere ascoltata come prima avevano ascoltato la cognata. Lì incontra un magistrato, una donna eccezionale, Alessandra Camassa e le spiega che quando lei scriveva le lettere per essere ascoltata, non la chiamavano perché era piccola e non volevano coinvolgerla. Quando la vede davanti, capisce la fermezza e così diventa anche lei testimone di giustizia, e la nascondono. A Marsala il procuratore che comandava in quel momento, era Paolo Borsellino, che la considerava come una figlia e lei lo considerava come un padre. Agnese, la moglie di Borsellino, ricorda che quando Paolo la incontrava nel luogo protetto, prendeva le misure dei vestiti, le portava a sua moglie e quando andava a interrogarla le portava i vestiti e dei regali come alle sue figlie. Quando Rita vede la strage di Capaci e poi di via D'Amelio e vede che è morto il suo secondo papà, è disperata. Allora scriverà l'ultima pagina del suo diario, il diario di una ragazza ribelle,

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coraggiosa, la cui più grande sofferenza è che sua madre l'ha rinnegata, perché ha collaborato con la giustizia. È in un momento di fatica, di fragilità e di grande sofferenza, sette giorni dopo la morte di Borsellino, si butta giù dalla finestra. Al funerale a Pantanna a portare la bara ci sarà solo un gruppo di donne e la tomba viene subito distrutta. In questa Italia così civile, oggi 2011, c'è una tomba di una ragazza, sen-za nome. Non è possibile. Vi leggo cosa scrive lei, nella sua ultima pagina del diario: ''Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza, e dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi, ed è il nostro modo sbagliato di comportarci”. Io quindi devo farmi un esame per vedere se il mio modo di parlare, di fare, d'agire e le trasgressioni della quotidianità, non diano un cattivo esempio. Prima riuscirà a fare la maturità nell'istituto alberghiero, solo il suo professore ed il preside sanno chi è realmente e non lo svelano. Vi leggo ora il tema della sua maturità: ''L'unica speranza è non arrendersi mai. Rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia, che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o quella persona. Forse un mondo fantastico non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse, se ognuno di noi provasse a cambiare, forse ce la faremo”. Io credo in questo, credo che valga la pena, anche se talvolta qualcuno si sente piccolo piccolo: è il noi che vince.


Lorenzo Dellai Lorenzo Dellai (Trento, 1959). Nel 1990 è stato eletto a soli trentun anni Sindaco di Trento, rieletto nel 1995. Ha ideato e guidato la lista Civica Margherita, aggregazione di forze popolari e riformiste del centro sinistra. Dal 1999 è Presidente della Provincia Autonoma di Trento. Nel 2008 ha dato vita ad un nuovo partito Unione per il Trentino.

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nella scala delle istituzioni, più difficile è trovare giovani che si impongano sulla scena politica non solo “per la durata di un baleno”. Talvolta i media stessi sono alla ricerca del giovane solo per qualche settimana, che poi scompare così com'era apparso. Tra i motivi c'è anche che noi non abbiamo, e da molto tempo, un sistema di partiti che si preoccupi di far crescere una classe politica. Abbiamo da un lato dei partiti che stanno faticosamente cercando di costituirsi e organizzarsi. Dall'altro abbiamo anche modelli diversi di partito, molto legati ad una persona, mediatici. Questo rende quasi impossibile realizzare ciò che si faceva all'epoca della prima Repubblica: crescere e formare una classe dirigente. Penso che sia questo il motivo principale per il quale i giovani, che in realtà si interessano di politica, non se ne occupino: la completa mancanza di fiducia nelle nuove generazioni, la non responsabiliz-

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L'età media della classe politica italiana è sempre più alta. Lei ha iniziato la sua carriera politica già a trent’anni come sindaco e in meno di dieci anni ha raggiunto la presidenza della Provincia. Secondo lei qual è la ragione per cui i giovani non riescono più ad introdursi nel mondo della politica? Non si può indicare un'unica ragione, come causa di questo innalzamento dell'età media della classe politica. Qui in Trentino io vedo comunque e soprattutto negli ambiti più bassi delle istituzioni, come per esempio i comuni o nelle comunità di Valle dove ci sono dei presidenti che hanno meno di 30 anni, una presenza considerevole di giovani. Probabilmente sono due i motivi per cui si trovano principalmente a lavorare negli ambiti amministrativi: primo sono quelli più direttamente connessi con la comunità, in secondo luogo per rivestire cariche più elevate è necessaria anche una certa “anzianità”. Più si sale

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Intervista a cura di Andrea Coali, Tiziana Marino


zazione della futura classe dirigente. Viviamo in un'epoca caratterizzata da dinamismo e rinnovamento e le idee dei giovani sarebbero molto importanti ed apprezzate. In particolare che cosa l'ha spinta ad intraprendere questa carriera? Che cosa consiglierebbe per avvicinare i ragazzi a questo mondo? Dare loro spazio e fornire loro una formazione, necessaria per l'attività politica, senza condizionamenti ideologici. Una volta c'erano le scuole di formazione dei grandi partiti, un modello non più attuabile al giorno d'oggi. Io piuttosto guardo positivamente alle attività proposte dalla chiesa, dalle associazioni che concedono ai giovani ruoli di grande responsabilità. È ovvio anche che un giovane, che voglia intraprendere la carriera politica, deve dimostrare interesse per quest'ambito. Io sono diventato sindaco di Trento a trent’anni per il mio impegno, per fortuna, ma anche perché si sono create le condizioni; mi occupavo di queste cose già da anni, avevo compiuto tutto un percorso, come si faceva all'epoca. La formazione è l'aspetto fondamentale. Soprattutto oggi per fare politica, per un giovane, c'è bisogno di avere solidità interiore e anche una preparazione. Per intraprendere questa carriera bisogna aver voglia di farlo, interessarsi ed impegnarsi seriamente. La Provincia si occupa della formazione della classe dirigente? È molto difficile che sia l'ente pubblico ad organizzare iniziative, anche perché verrebbe visto con un po' di sospetto. La formazione politica implica infatti anche analizzare e riferirsi a determinate ideologie politiche. La Provincia deve rispettare l'autonomia. Investe però sulla formazione in termini generali, in particolare ci occupiamo più di cultura a sfondo professionale.

La formazione politica spetterebbe più a fondazioni sociali, che si preoccupano della cultura e della creazione di questa nuova classe dirigente. In uno dei suoi ultimi incontri con i ragazzi, nell'ambito della protesta contro la riforma Dalmaso, è stato anche definito un “coniglio”. Qual è oggi il suo rapporto con il mondo della scuola e dei giovani in particolare? Devo dire che il mio vuole essere un rapporto adulto: non credo che sia giusto che si abbia un rapporto con i giovani accomodante. Proprio l'esperienza citata mi porta a dire che bisogna anche avere un atteggiamento di verità; io faccio una domanda: che cos'è rimasto di quella protesta? Forse, voi studenti, stavate protestando contro un nemico che non c'era, non era affatto la riforma ciò per cui eravate scesi a protestare. Io ho proposto e mi auguro che sia possibile mantenerlo, un rapporto meno episodico e meno basato sugli slogan. Mi ero preso l'impegno di discutere con la consulta degli studenti con una certa costanza e periodicità, per parlare delle questioni che devono preoccupare seriamente i giovani e gli studenti: per esempio la possibilità o meno di avere delle esperienze di formazione all'estero, le nuove frontiere di diritto allo studio… Naturalmente quando si ha la vostra età ci si rapporta in maniera dialettica con il potere; quindi non mi sono certamente offeso per l'episodio del coniglio. L'ho ritenuto ingiusto, ma piuttosto mi sono meravigliato che improvvisamente il mondo degli studenti era in piazza a protestare per qualcosa che forse non conosceva bene. Mi auguro di vedere gli studenti protestare per questioni che siano veramente legate ai loro interessi. In questi ultimi anni la politica è considerata una “casta” privilegiata, molto distan-

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senso del limite, a differenza dei casi eclatanti che sentiamo oggi. Io ho anche la fortuna di avere una famiglia che mi tiene “ben ancorato a terra”. C'è anche la questione relativa del tempo. Chi fa politica ha una gestione temporale un po' diversa, la sua vita privata cambia un po', in quanto è meno presente in casa. La democrazia è importante e va difesa in tutte le sue caratteristiche. Io guardo con terrore a questa società nella quale ha sempre più importanza il potere della comunicazione: potere che può descrivere la politica negativamente. Questo può portare alla ricerca di altri strumenti che regolino la vita civile. Certo è, che spetta anche a noi politici, dimostrare che la politica non è un mondo corrotto. Lo scorso anno internet è stato candidato alla vittoria del Nobel per la pace. Molte sono le storie portate a favore del suo utilizzo come strumento democratico. Lei lo considera un mezzo democratico di informazione? Penso che come tutte le realtà che appartengono ad un'epoca storica particolare, questa abbia anche una grande forza rivoluzionaria, che però esige il contrappeso di una cultura. Certo Internet ha grande forza democratica, perché grazie ad esso ci si riesce a mobilitare anche in contesti istituzionali particolari. Bisogna però essere formati e preparati ad utilizzare e leggere questo mezzo di comunicazione. Questo vuol dire formarsi anche dal punto di vista tecnico. Paradossalmente è uno strumento che possiede una duplice valenza: la lettura e la produzione di informazioni. Bisogna quindi avere un approccio di responsabilità e di consapevolezza. La mia è una valutazione più che positiva. Credo che l'uomo abbia come sua missione quella di costruire strumenti nuovi, usando la conoscenza e le proprie capaci-

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te dal cittadino. I politici possiedono vantaggi non raggiungibili con altre posizioni lavorative. Nel suo caso, quali vantaggi comporta il suo ruolo politico nella vita di tutti i giorni? Premettendo che nella mia visione il mondo non è diviso in caste, io credo che l'essere Presidente di una Provincia autonoma, come Trento, significhi avere un grande vantaggio, soprattutto quello di poter usare degli strumenti potentissimi. Posso avere a mia disposizione molti collaboratori, strumenti di conoscenza che diversamente non avrei, essere a contatto con strutture in grado di rappresentarmi quello che sta accadendo e quello che potrebbe accadere. Ci sono anche vantaggi che derivano dal mio status: poter lavorare in un bel contesto, usufruire di servizi particolari. Però diversamente da quanto qualcuno dice, ossia che la politica è il luogo dei privilegi, il luogo dei vantaggi personali, io non credo che dica la verità. La mia esperienza mi dice, ormai faccio politica ai massimi livelli da anni, che la mia vita non è cambiata: faccio la spesa, mi occupo della casa, come fanno tutti. È anche vero però, che la politica è il luogo delle tentazioni: più uno ha potere, più tentazioni ha di usare il potere per interessi diversi dal bene comune. A quest'ultime si resiste in ragione della propria formazione e del proprio carattere. Per quanto riguarda le libertà personali non credo che chi fa politica debba in qualche modo avere una morale diversa. Chi fa politica è sottoposto a principi morali ed etici, che sono quelli che riguardano tutti i cittadini. Ha un dovere in più però: la sua vita privata deve essere coerente con i valori e le parole che lui stesso proclama. Ci sono tante persone che lavorano in politica che svolgono il loro lavoro nelle istituzioni in maniera corretta, rispettando il


tà. La storia umana ha alti e bassi, quello che fa la differenza è la cultura. Questa è la sfida: produrre contributi culturali che siano altrettanto potenti, quanto i nuovi mezzi d'informazione. I mass media possono essere considerati indipendenti dal potere politico? La situazione in Trentino è migliore o peggiore rispetto al resto d'Italia? La domanda rivolta al nostro Paese è una domanda che ha una risposta quasi scontata. Oggi in Italia noi abbiamo un assetto dell'informazione che certamente non è equilibrato, la politica il più delle volte influenza la stampa, anche se credo che molto dipenda dalla capacità professionale dei singoli giornalisti. Quindi certamente rispetto al quadro nazionale dico no. Sarebbe necessario un intervento che riequilibri i rapporti tra politica ed informazione. A fare ciò però non può essere una classe dirigente sospettata di non comportarsi onestamente. A livello locale francamente devo dire che possiamo scherzosamente affermare il contrario. Talvolta mi pare che esista un potere di condizionamento della stampa locale sulla politica, che molto dipende dagli umori della prima. Il Trentino è visto in Italia come “un'isola felice”; secondo lei quanto ha influito la sua attività negli anni riguardo ciò? Le libertà fondamentali, che ha un territorio autonomo, sono soprattutto quelle di poter costruire una parte del proprio futuro con decisioni prese a livello locale. In un'epoca di interdipendenza non possiamo illuderci di essere un'isola, però una parte importante del nostro futuro possiamo deciderla: se investire nella scuola, nella conoscenza o in altro; come organizzare le attività, come gestire il nostro territorio. Siamo molto più liberi, soprattutto di rapportarci in maniera autonoma rispetto ai grandi problemi a cui ci rivolgiamo. Le presenti 154


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tudini, deve essere vista come un trampolino per rapportarsi con il mondo, offrendo importanti opportunità. La politica italiana all'estero è considerata inefficiente. Qual è la causa di ciò secondo lei? Io penso che molto derivi dal fatto che in questi ultimi anni la politica si è inceppata a livello nazionale; non voglio dare un giudizio manicheo, non è solo Berlusconi. Il nostro è il problema di un Paese che ha smarrito la sua missione, bisogna recuperarla, se vogliamo che la percezione dell'Italia sia diversa. Paradossalmente penso che, proprio gli sconvolgimenti epocali che stanno cambiando il volto del Medio Oriente, offrano all'Italia il cambio della propria vocazione che è internazionale: possiamo recuperare il ruolo di mediatori tra Europa e Africa. Quando si è in crisi, come in Italia, quando si smarrisce il senso della comunità, il recupero non è sulle piccole azioni, ma sulle grandi, compiendo un salto di qualità che ci possa procurare il rispetto anche delle altre nazioni. È vero che c'è chi ci identifica con fattori come pizza, spaghetti, mafia… ma è anche vero che quando dimostriamo un certo tipo di visione delle cose, siamo apprezzati. Ci sono tante persone in giro per il mondo a testimoniare una visione del futuro, e questa è l'Italia che deve essere messa in prima fila. Io sono positivo, credo che il declino non sia un processo inesorabile, credo che siamo alla chiusura di un ciclo di decadenza. La politica è ciò che unisce il piccolo passo con la grande visione. Non c'è dubbio che abbiamo un sacco di cose da mettere a posto, importante però per il nostro Paese è recuperare l'idea del futuro. Dovremmo anche iniziare a sentirci tutti parte di un'unica terra, tutti piccoli ingranaggi necessari per formare un'unica nazione.

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nostre decisioni avranno effetti che si verificheranno tra dieci o vent’anni: le decisioni di oggi dipingono un Trentino che si vedrà tra molti anni. In questo periodo, io credo di aver dato un contributo per il rafforzamento di questa autonomia, ma non sono megalomane. Il Trentino ha una formazione stabile e grazie ad essa si sono mantenuti forti i valori civili, nonostante i grandi cambiamenti avvenuti nel corso del tempo. La questione dell'autonomia mi sta a cuore, anche perché sono convinto che i nostri giovani siano indotti a considerarla una cosa datata: vista quasi come un complesso di regole legate al passato in opposizione alla visione del mondo globale. Io uso sempre dire che la nostra autonomia è un po' un antidoto contro le soli-


Giacomo Santini Giacomo Santini (Bologna, 1941) Giornalista sportivo della Rai per vent'anni, commenta in particolare il ciclismo e diverse edizioni delle Olimpiadi invernali. Nel 1994 viene eletto parlamentare europeo con Forza Italia. In Europa presiede la Commissione per la libertà e i diritti dei cittadini. Attualmente è senatore, sempre nelle fila del partito di Berlusconi, Il Popolo della Libertà ed è vice presidente della Commissione per le politiche europee.

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potrebbe essere gratificato in questo contesto, si deve rassegnare, perché questi ruoli spettano agli anziani. Il giovane però inizia a fare esperienza e la presenza di anziani nel contempo può prevenire errori. Il problema è quando gli anziani vedono crescere i giovani e non si fanno da parte. Io sono entrato in politica a 53 anni, prima ho fatto il giornalista. Per me entrare in politica è stata una scelta. Non ero giovane nemmeno al parlamento europeo. Il mio mestiere precedente mi ha aiutato a capire molte cose. Ma come si fa a dire ad una persona che fa politica da 40 anni di farsi da parte? Nella vita ha fatto solo quello e dopo cosa potrà fare? Penso ad un collega, Pisanu, che è lì da dieci legislature. E poi ce ne sono altri. Dieci legislature sono trentadue anni. Finché non ci sarà una legge che pone un limite obbligatorio alle legislature, questo problema non sarà risolvibile. Personalmente mi sono imposto di ritirarmi dopo tre legislature.

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L'età media della classe politica italiana è sempre più alta. Secondo lei qual è la ragione per cui i giovani non riescono più a introdursi nel mondo della politica? Il senato presenta un'età media elevata, anche se adesso qualche giovane c'è anche lì. Dico la verità però non ce ne sono tanti, soprattutto intorno ai 35-40 anni. Gli anziani più che di età, lo sono d'esperienza politica, il problema è quando trovi che c'è gente lì da quattro o cinque legislature. Capisci che è difficile il dialogo tra un giovane e chi ha così grande “mestiere” politico, può essere questo il problema. Appena iniziato ci si inserisce in un gruppo politico per lavorare in base all'estrazione del partito che ti ha portato alle elezioni, ma poi vieni inserito in commissioni. La presenza di anziani significa che molte strade per i giovani sono precluse, infatti nelle commissioni legislative, composte da 2530 membri, c'è un presidente, dei vice e questi sono ruoli onorifici. Il giovane, che

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Intervista a cura di Andrea Coali, Tiziana Marino


Come ha deciso di lasciare il mondo del giornalismo per dedicarsi alla politica? Alla politica si può arrivare per vocazione: c'è chi da giovane ha passione, si inserisce in un partito ed incomincia un percorso sotto la spinta dell'entusiasmo e dell'interesse. Purtroppo passa per i partiti che a volte rovinano il senso della politica. Questo giovane compie tutte le tappe e tutti i gradini. Poi passa dall'ambito comunale, provinciale fino all'europeo. Anche all'interno del partito si può fare carriera, anche perché generalmente sono posizioni non retribuite, ma importanti per il potere reale che si ricopre. C'è poi chi non ha mai avuto interesse per questa attività, viene avvicinato e gli viene proposto di entrare in un ruolo politico come soggetto civile. Io ero giornalista, come inviato della Rai e stavo benissimo, non volevo cambiare mestiere. In quel momento la mia professione andava benissimo, e dopo 30 anni di carriera mi proposero il parlamento europeo. Io non avevo mai avuto interesse per la politica di partito. Mi avevano già offerto degli incarichi politici e avevo una certa visibilità, che nelle logiche di partito è un aspetto molto importante. In quel momento venni avvicinato da Forza Italia, un emissario mi disse che, dopo un sondaggio nel Triveneto, ero considerato molto popolare: “Perché non si candida per le europee? Lei è un volto nuovo, non ha mai avuto la tessera di un partito (c'era appena stata tangentopoli nel 92-93). Noi cerchiamo gente nuova per una risposta pulita a tangentopoli”. Valutai che potevo provare e che potevo in caso di insuccesso riprendere il mio ruolo in Rai. Avevo due settimane per una campagna elettorale! Andò bene e arrivai terzo nel Nord Est. Meriti politici inesistenti, solo simpatia per l'immagine televisiva, effetto che solitamente dura fino a che non entri veramente in politica!

Quale rapporto intercorre tra politica - libertà personale e competenza? Mi sono trovato a fare il deputato europeo senza aver fatto nulla prima, unico parlamentare trentino. Ero impreparato, avevo solo il vantaggio di essere fresco di idee. Senza interessi lobbistici. All'inizio mi interessavo di tutto, perché dovevo imparare tutto; credo che la mia esperienza sia stata molto libera, anche grazie alla mia carriera precedente. Ho potuto interpretare questo ruolo in modo molto più libero rispetto ad altri, anche nei confronti del partito. Non ho mai voluto incarichi di partito e avrei potuto ricoprire qualsiasi incarico avessi voluto. Ho sempre rifiutato queste cariche in primo luogo per credibilità, non puoi ricoprire tali incarichi senza la carriera politica. In secondo luogo, perché ho sempre calamitato voti come non politico e c'è bisogno anche di soggetti con un margine di libertà. Così ho potuto esprimere le mie idee e non quelle del partito. Sono tra quei politici che si chiede perché è in politica e perché c'è ancora. Nel 2006 fui obbligato moralmente dal partito a ricandidarmi, perché, se io non mi candidavo, non c'era nessuno. La mia libertà era diventato un motivo di appiglio per il partito. Molta gente nel dubbio vota uno che tutto sommato ha una posizione moderata e libero di dire certe cose. Nella mia condizione puoi tornare indietro quando vuoi. Una libertà a doppio taglio. Chi assume un ruolo come il mio è un “cane sciolto” che non ha padroni, ma prende calci da tutti. Rivestire importanti cariche istituzionali consente di avere le stesse libertà di un altro cittadino, compresi i possibili eccessi nella vita privata, o dovrebbe tenere un profilo moralmente più corretto? Ho già detto quello che penso sui giornali, “beccandomi” tutti i rischi del caso. Ho già

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dra che non fa capo solo al Presidente. Al senato lavoro con centoventi persone. A livello privato non mi sento rappresentato da Berlusconi, ho ricevuto chiamate da persone che mi dicevano che dovevamo stare uniti, io ho detto che su certe cose non potrò mai dire che condivido. Ho avuto una formazione cattolica. Non mi sento rappresentato quindi sul piano privato, ma sul piano politico. Quello che mi fa arrabbiare, è l'immagine dell'Italia in Europa. L'immagine all'estero è buona, grazie a Ministri come Tremonti e Frattini, ma c'è una curiosità morbosa su Berlusconi e un certo accanimento dei giornali nei suoi confronti. Il Presidente è penalizzato dalla sua immagine pubblica, gli hanno perdonato

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detto che, quando qualcuno assume una carica istituzionale, ha una responsabilità che non è solo sua, rappresenta tutti gli altri. Non puoi avere tutte le libertà che può avere privatamente un cittadino che può essere condannabile eticamente, ma può continuare a fare quello che vuole, senza dare scandalo pubblico. Se rivesti una carica, rappresenti tutti i cittadini. Non è vero che si possano avere obblighi diversi rispetto ad un cittadino comune. Lo scivolamento del limite morale è inquietante, soprattutto se si pensa al mondo della politica. Si sente rappresentato dal governo? Io ho votato la fiducia. C'è un programma da realizzare. C'è poi un impegno di squa-


molto perché è sempre stato considerato un imprenditore, perché non ha avuto una formazione semplicemente politica. Va anche ricordato che la politica è uno spaccato della società intera. È spesso la ripercussione più ampia di tutte le passioni della società. I mass media possono essere considerati indipendenti dal potere politico? La situazione in Trentino è migliore o peggiore? Il giornalista è libero e, se è bravo, può scrivere quello che vuole. Una volta c'erano i giornali di partito ufficiali e poi i giornali di grande informazione, che erano sostenuti da persone che avevano una loro idea politica, ma non era “spiattellata” direttamente sui quotidiani. Era un tentativo ipocrita, ma onesto, di mantenere l'informazione neutrale. Adesso quello che appare sui giornali ha già un'ispirazione politica dichiarata. Una volta aprivi un giornale e dicevi vediamo contro chi sparano oggi ed era un po' contro tutti. Adesso è in un unico senso e verso un'unica persona! Difficile dire quale sia un giornale d'informazione indipendente. In questo momento i mass media non possono essere considerati indipendenti dal potere politico. A livello locale la situazione è un po' mitigata dal fatto che qui è tutto più piccolo. Ho lavorato vari anni a «l'Adige» quando era per il 51% della Curia e per il 49% della Democrazia Cristiana. Non ho mai fatto politica, mi occupavo di cronaca. Eravamo lineari e coerenti con una posizione di centro. Era un giornale schierato, ma che nella realtà dei fatti non si poteva dire apertamente schierato. L'unico condizionamento giusto era su un certo modo di fare cronaca. È stata una grande esperienza di libertà per me. Lo scorso anno internet è stato candidato alla vittoria del Nobel per la pace. Molte sono le storie portate a favore del suo

utilizzo come strumento democratico. Lei lo considera un mezzo democratico di informazione? Internet è il nuovo dominio: per il momento non è strumentalizzato, è un organo eterogeneo d'informazione. Ma se pensiamo che per Obama è stato il suo maggior veicolo nella campagna elettorale, altri staranno acquistando la struttura, i canali, le testate, per poi cercare di avere la forza di condizionare anche questo mezzo. Quante libertà ha la nostra regione e in particolare la nostra provincia, essendo a statuto speciale, rispetto alle altre? Io posso dirvi come vedono il Trentino in Europa e a Roma. Ci odiano tutti, perché ci vedono privilegiati. L'autonomia non è capita, viene considerato solo l'aspetto amministrativo. Noi prendiamo tanti più soldi rispetto alle altre regioni, abbiamo un federalismo di fatto da anni. Io penso invece che prendiamo i soldi, ma anche la responsabilità di organizzare i servizi, non è che prendiamo i soldi e ce li godiamo. Da noi lo Stato ha fatto un passo indietro molti anni fa. Non avrebbe lo stesso effetto dare la medesima autonomia al Veneto o alla Lombardia, perché sono troppo grandi. Il Trentino è visto in maniera ambigua. Inoltre prestiamo il fianco sotto l'aspetto politico ad interpretazioni faziose, perché cerchiamo di crearci un'autonomia politica. Non è che qui possiamo considerarci uno Stato nello Stato. Siamo visti male per l'autonomia politica, perché cerchiamo collaborazione con il Tirolo più che con Roma. Noi in Trentino siamo un'isola, se diventi un'isola hai il vantaggio di fare da solo, ma non ti aiuta più nessuno. Penso che invece abbiamo bisogno di collaborare con le altre regioni. C'è poi la posizione ambigua dell'Alto Adige che tenta di sganciarci in tutti i modi. Una volta c'erano la regione e le province. La prima carica di competenze

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reali, le seconde con meno poteri. Adesso è viceversa. Questo meccanismo è stato favorito da Bolzano per crearsi un'autonomia più forte. Noi siamo autonomi perché abbiamo l'aggancio con l'Alto Adige e per il bilinguismo. Se Bolzano va avanti a creare un rapporto più stretto con il Tirolo, prima o poi il Trentino viene sganciato. Già in Lombardia e in Veneto si chiedono perché abbiamo questa autonomia. In Trentino c'è una miopia profonda verso questi orizzonti. Qui ci chiudiamo tra le montagne come se fossero un baluardo, invece di considerarle un trampolino per andare più lontano ne facciamo una barriera. Il Trentino sarà alla deriva se non si aprirà all'Europa. Ci sono 30-35 euroregioni, in cui l'Europa ha creato luoghi di scambio, favorendo l'unione e creando cooperazione. Quest'anno ricorre l'anniversario per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Secondo lei la nostra nazione può ancora considerarsi unita? “Abbiamo fatto l'Italia ora dobbiamo fare gli italiani.” Non lo siamo ancora, ma c'è tempo. In Trentino, accanto alla Lega, ci siamo distinti per posizioni ipocrite e ambigue. Io sono stato molto amareggiato da quelle che credevo fossero battute, e invece ho visto che hanno avuto anche un effetto a macchia d'olio, nel cercare di dimostrare chi si sente meno italiano. Essere siciliano o di qualche altra regione, perché dovrebbe renderci meno italiani? Questa è una distorsione, ma se vogliono portare avanti queste radici, perché devono essere portate avanti come esclusione a quella italiana? Poi quando si fanno le statistiche, noi italiani siamo quelli che si sentono più europei. Siamo tutti bugiardi?


Giorgio Tonini Giorgio Tonini (Roma, 1959) Laureato in filosofia, è giornalista professionista. Ha lavorato per la CISL. Nel 2000 è diventato membro della segreteria nazionale dei Democratici di Sinistra. È uno dei dodici “saggi” che hanno redatto il manifesto del Partito Democratico. Attualmente è senatore nelle fila del Partito Democratico.

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è ferma, bloccata. Io dico che “si è fermato l'ascensore sociale”, con questo intendo che, dove un tempo c'era una sorta di ricambio generazionale, oggi tutto si è fermato. Ciò dipende in primis da ragioni demografiche, in quanto siamo uno dei paesi più invecchiati dell'Occidente, facciamo meno figli, abbiamo una vita media più lunga. Ciò riguarda soprattutto la mia generazione, quella del cosiddetto “baby boom”, quando l'Italia ebbe un'esplosione demografica. Questa generazione è stata la prima a non essere decimata da una guerra, ed anche la prima a non procreare ai tassi di sostituzione, ovvero due figli per coppia. Oggi infatti siamo di poco superiore all'uno. Quindi andiamo verso una sorta di piramide rovesciata: una classe di anziani molto estesa che poggia su una base ristretta che è la massa dei giovani. Metaforicamente parlando è come se vi fosse un gracile Enea che deve sorreggere un pesante Anchise. Questo dunque è il

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L'età media della classe politica in Italia è sempre più alta, secondo lei qual è la ragione per cui i giovani non riescono più ad introdursi in questo mondo? È vero che in Italia c'è un'età media molto elevata, in particolare nelle alte cariche dello Stato, dove si raggiunge una media di 70 anni. A livello parlamentare le cose sono invece già diverse: ad esempio, facendo un confronto con la Camera inglese, si trova che la media è attorno ai 50 anni in entrambi gli Stati. In ogni caso è vero che i giovani fanno fatica ad introdursi in questo mondo, in particolare per due ragioni. Una ragione risiede nel paese Italia in sé: noi abbiamo tendenzialmente una classe dirigente anziana, il problema non è specifico della politica, ma è esteso a vari ambiti, come università, imprese, magistratura, ordini professionali. In tutti i settori, si ha un'età media molto alta rispetto al resto dell'Europa. Questo ha a che fare con la struttura della società, che

Giorgio Tonini

Intervista a cura di Andrea Coali, Tiziana Marino


problema di fondo: bisogna rimettere in moto questo dinamismo. In secondo luogo esiste anche una specificità della politica, per cui si è spezzata la linea di continuità tra generazioni. È un problema serio, che riguarda tutte le aree della politica, dovuto al fatto che forse fino a dieci anni fa c'era una sorta di continuità delle forze politiche, mentre oggi, pur essendoci forze politiche nuove, non si riesce a favorire i giovani. Questo avviene anche perché queste forze nuove non hanno una tradizione, e inoltre si è rotto l'importante meccanismo di formazione politica, che non esiste praticamente più. L'unico canale di ingresso in questo mondo per i giovani è la cooptazione: ogni esponente politico prende qualche giovane a lavorare con lui e successivamente lo introduce nell'ambiente, ma non è la stessa cosa che farsi strada autonomamente. Quindi è solo un problema organizzativo, il fatto che i giovani siano così lontani dalla politica? Secondo lei come si può formare una classe dirigente, prendendo dei giovani che si assumano la responsabilità di affrontare questo compito? Non è solo un problema organizzativo. C'è anche la base demografica come detto. Oggi se uno vuole prendere la maggioranza in democrazia, non si deve rivolgere ai giovani che sono ormai la parte più ristretta della società. Inoltre c'è una componente culturale: la mia generazione non ha pensato al futuro. Io dico sempre che noi abbiamo pensato a noi stessi come eterni, ovvero come se non ci fosse la “morte professionale”. Per noi c'è sempre una continuazione: tale mentalità ti impedisce di pensare al futuro, al domani, all'investire su forze nuove. Bisogna quindi invertire questa macchina. Invertire lo squilibrio demografico in realtà è molto difficile, è un processo molto lungo e ormai per questa

generazione il “danno” è fatto. Bisognerà anche pensare a quando noi saremo anziani, il che per voi sarà un peso! L'unica via che si sta utilizzando è l'immigrazione: noi stiamo “importando giovani” dall'estero! Praticamente è come il petrolio, ci manca e lo importiamo. All'Italia mancano giovani e per questo li importa. Per quanto riguarda la politica bisogna tornare a pensare al futuro: un po' dipende da noi, ma anche da voi. Dipende da quanta grinta ci mettete: dovete, pur essendo pochi, cercare di alzare la voce. Rivestire delle cariche importanti occupa molto tempo. Abbiamo visto inoltre che lei ha sette figli: come riesce a conciliare il suo ruolo di padre di famiglia con quello di senatore? Il giudizio dovrebbero esprimerlo i miei figli e mia moglie. L'aspetto più difficile è la vita da pendolare. Ciò riguarda ovviamente, anche chi fa altri lavori. È faticoso, ma guai lamentarsi! Questo tipo di vita inevitabilmente allenta i rapporti con la famiglia. Inoltre il tempo libero è una variabile, non è facile fare dei programmi: ad esempio si può mancare nei giorni di festa o nelle occasioni importanti. Di solito dico alla mia famiglia, come fanno gli assenteisti: “Ciò che conta è la qualità!”, ma bisognerebbe vedere se sono d'accordo! Magari sono pure contenti di non “avermi tra i piedi”! In questi ultimi anni la politica è considerata una “casta” privilegiata, molto distante dal cittadino. I politici possiedono vantaggi non raggiungibili con altre posizioni lavorative. Quali sono i vantaggi più rilevanti secondo lei? Allora, il vantaggio fondamentale è quello di poter fare una cosa che ti piace e che è molto gratificante e interessante, a tempo pieno e pagato. Invece che fare i salti mortali nel tempo libero, come fanno, fortunatamente, molti appassionati di politica, io

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ro de Gasperi, Berlinguer… oggi la classe politica deve fare un esame di coscienza, chiedendosi cosa ha fatto in questi anni. Se lo facesse, si accorgerebbe che è stata ed è ancora oggi, inconcludente, soprattutto a livello nazionale. In dieci anni che sono a Roma, posso dire che l'Italia non sta meglio, che non si è fatto nessun miglioramento. Complessivamente è un bilancio non positivo. A livello nazionale si parla di elezioni anticipate: secondo lei l'Italia, il PD, le sinistre che storicamente sono state molto divise, possiedono un'alternativa credibile a Berlusconi? La nascita della Seconda Repubblica coincide con la discesa in campo di Berlusconi nel 1994. Vi sono state cinque elezioni politiche e ogni volta gli Italiani hanno punito chi aveva governato e premiato l'opposizione: ciò significa che gli Italiani, che ai tempi della DC non avevano mai cambiato il governo, questa volta hanno sfruttato appieno il loro potere di elettori. Questo cambiamento significa che sono insoddisfatti di entrambi gli schieramenti, perché nessuno dei due poli fino ad ora è riuscito davvero a risultare all'altezza dei problemi del Paese. Al suo interno ognuno dei due schieramenti si è diviso nel corso del tempo: si pensi alla sinistra, ma anche a Berlusconi e ai suoi scontri con Casini, Fini, la Lega. Si è perso molto più tempo a farsi la guerra nelle coalizioni, che a pensare ad un'alternativa. Io credo nel bipolarismo, ma bisogna andare verso un nuovo bipolarismo. Il PD era nato per questo, per creare un progetto per il paese. Purtroppo la sconfitta del 2008, causata soprattutto dal precedente fallimento di Prodi, ha “rotto” il partito dall'inizio: invece che essere pazienti, ci siamo affrettati a mettere insieme una grande alleanza di tutti contro Berlusconi, ma non è questo che vogliono

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ho il vantaggio, come molti altri in Italia , di poter fare a tempo pieno questo lavoro e vivere di politica. Questo è un grande privilegio, tuttavia penso che siamo in troppi: il solo fatto che ci siano mille parlamentari e altrettanti consiglieri regionali, fa pensare. Si dice sempre che questo numero deve essere ridotto, ma fin'ora non si è mai fatto nulla. Per il resto ci sono altri privilegi: il primo è la pensione, il vitalizio. Su questo punto però le cose più “odiose” sono state corrette. Ad esempio, se prima un politico in carica anche pochi anni poteva andare in pensione giovanissimo, oggi prima dei 60 anni non è più possibile farlo. Gli altri privilegi dipendono soprattutto dal livello a cui una persona fa politica: se non si è tra quei famosi mille, non si ha un gran guadagno, anche perché le spese per la politica sono molto elevate. Il guadagno reale di un parlamentare è di circa 5-6 mila euro al mese. Il resto che entra lo spendi per il partito, le campagne elettorali, per il collaboratore e altro. Io penso che in questo momento, più che i privilegi economici ,il vero problema sia che gli Italiani, giustamente, pensano che non ci guadagniamo quei soldi, dato che il nostro rendimento è molto basso. Un paragone può essere fatto con l'amministratore di condominio: se arrivo a casa e trovo tutto sporco, giustamente me la prendo con lui dicendo: “Spendo un sacco di soldi per lui e questo non fa il suo lavoro”. Se invece uno arrivando trovasse tutto in ordine e pulito direbbe: “Mi costa un sacco, però se li guadagna”. In questo momento gli Italiani dicono: “I politici costano un sacco di soldi e non fanno un bel niente per il paese”. Per me bisognerebbe pensare, oltre che a ridurre il numero dei politici, a “de-paralizzare” la politica. Oggi è infatti bloccata da quegli eventi che si leggono sui giornali. Nessuno un tempo chiedeva quanto guadagnasse-


gli italiani. Noi oggi possiamo vincere se Berlusconi perde, in quanto ha deluso per la terza volta al governo. Tuttavia, se salisse al potere il nostro sistema fondato su alleanze enormi, quanto potrebbe durare? Cosa potrebbe fare per l'Italia? Io penso invece che sia ora di cambiare le cose, proponendo nuove idee, con schieramenti più ridotti, ma più omogenei che si confrontino per il bene del paese. La spettacolarizzazione dei lati negativi della politica è quello che fa vedere la TV e che porta gli Italiani a non fidarsi più della classe dirigente. Speravo che con la nascita del PD,

creato per mettere insieme forze per un progetto per il paese e non contro, si potesse ristabilire l'ordine, ma a quanto pare c'è ancora molta strada da fare. Bisogna avere una classe matura, che sappia affrontare i veri problemi dell'Italia, come il problema del Mezzogiorno. Quest'anno ricorre l'anniversario per i 150 anni dell'Unità d'Italia. Secondo lei la nostra nazione può ancora considerarsi unita? La risposta è: sì e no. Sì, perché noi siamo una nazione, lo siamo sempre stati: siamo uniti da una lingua e da una serie di elementi comuni. Quando andiamo all'estero ci sentiamo Italiani e questo è un elemento di unità. Esiste un'unità spirituale del paese che è molto più antica della storia della nazione. Ad esempio Dante, padre della lingua italiana, è anche, in un certo senso, fondatore della nazione. Sul piano politico invece, l'Italia ci ha messo molto ad avere uno stato nazionale. Noi celebriamo i 150 anni dello stato-nazione: tra l'altro un'unificazione incompleta e “in ritardo” rispetto al resto d'Europa. Inoltre esistono le promesse mancate dello stato nazionale: l'Italia ad esempio è rimasta uno stato diviso dallo squilibrio territoriale. Tra Nord e Sud vi è un divario oggi più forte di quello che c'era nel 1861! Basti pensare a Napoli che al tempo era una delle città culturalmente più ricche! Oggi la situazione è invece drammatica: per fare un esempio, in un convegno della Banca Nazionale, Napolitano disse: ”Il Mezzogiorno è la più vasta e popolosa area arretrata d'Europa”. L'Italia ha quindi in sé, assieme a regioni del Nord tra le più avanzate d'Europa, l'area più arretrata dell'Unione! È un problema anche dell'Europa e non solo dell'Italia. È il più grande fallimento della politica e bisogna cercare di ricomporre questa frattura. Le ricorrenze, gli anniversari ser-

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Giorgio Tonini

anche la parte migliore della politica: ad esempio parlando da senatore, si tende a parlare di noi solo se si “dà spettacolo”, magari con una rissa in aula. Se invece c'è un lavoro serio e fatto bene, si viene totalmente ignorati. Questo si riflette sia sull'immagine della politica che ha il cittadino sia sul comportamento degli stessi politici, per cui si viene incoraggiati a fare “i pagliacci”, i protagonisti dei duelli e scoraggiati dal fare le cose serie. Io cito sempre una mia esperienza: nella mia prima legislatura, fui relatore di minoranza sulla legge della procreazione assistita per i DS. Avevamo fatto un gran lavoro in commissione e mi ero preparato la relazione, come uno prepara la sua tesi. Si va in aula: leggiamo le relazioni e improvvisamente arrivano sulle tribune del pubblico un gruppo di deputate che lanciano volantini contro la legge che si stava approvando. Erano dalla mia parte, ma agivano con altri mezzi. Era un atto diciamo provocatorio, uno strappo del regolamento, che ovviamente ha attirato tutte le TV, che prima avevano ignorato il nostro lavoro. Quella è stata la giornata della protesta delle deputate e la mia relazione ad esempio è stata completamente ignorata. La politica “cattiva” in sostanza uccide la politica “buona”. Ai tempi della costituente tale cosa non si sarebbe mai verificata. Forse, se ci fosse stata la TV, oggi non avremmo la bella costituzione che abbiamo oggi! Per queste ragioni spero in Internet che, sebbene non abbia ancora soppiantato la TV e abbia anch'esso delle contraddizioni, è in un certo modo il canale privilegiato della comunicazione tra pubblico e parlamento: ogni cosa che si fa in aula è infatti disponibile a tutti su Internet. La forza dei media è molto più forte di quella politica: cosa sapete della politica se non quello che viene pubblicato su giornali o tv? I difetti peggiori

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vono per festeggiare, ma anche per fare un bilancio, un esame di coscienza. E non si può pensare di risolvere i problemi ridividendo l'Italia, o agendo con logiche separatiste! Il Nord è legato al Sud e viceversa. Bisogna che il Sud faccia la sua parte, ma sempre sotto il controllo del resto del paese, che deve essere a conoscenza di questa grave situazione. Spero che con quello che sta succedendo nel Mediterraneo, se il mondo arabo conoscesse finalmente la democrazia, il Mediterraneo potrebbe diventare un'area fondamentale per il commercio e lo sviluppo. Se ciò accadesse, il Mezzogiorno potrebbe sfruttare questa occasione per rinascere. I mass media possono essere considerati indipendenti dal potere politico? In questo momento il medium più forte è la TV, anche se deve affrontare la concorrenza di Internet, soprattutto con la vostra generazione: tuttavia è ancora lei che fa il “clima”. La TV ha svolto un ruolo fondamentale, basti pensare alla lingua, ma in questo momento presenta diversi fronti di preoccupazione: dall'involgarimento a quello del “rimbambimento” per citare un termine utilizzato dalla moglie di Ciampi. Per il rapporto con la politica, più che l'elemento dell'imparzialità, che è quasi un'utopia, il problema è la faziosità. L'azione negativa della TV è il suo alzare i toni in modo tale da rendere spesso impossibile il dialogo, aumentando la litigiosità e di conseguenza la faziosità. Questo è un rischio molto forte. Basti pensare a come sono organizzati i talk show, che sembrano dei duelli da Far West: ciò che conta è l'apparire, il riscuotere applausi e consensi del pubblico. Assomiglia più a una partita di calcio che non alla ricerca di un confronto sui problemi, che può essere anche duro, ma che non deve degenerare in insulti. Ciò tende a far sparire dalla vista


della politica sono enfatizzati dai media! Ad esempio io sono stato a «Ballarò»: a me piace ragionare e cercare un confronto, ma sempre nel rispetto dell'altro. Siccome a «Ballarò» ci sono le tribune, con i tifosi, mi ricordo che quando c'erano gli stacchi pubblicitari mi dicevano: “Sei bravo, però devi essere più cattivo!”. Ecco, questa è la deformazione a cui porta la TV e la spettacolarizzazione della nostra attività. In questo senso il Berlusconismo ha avuto un ruolo fondamentale, dettando questo rapporto tra media e politica che è inesistente negli altri paesi.

Il Trentino in Italia, per via della sua autonomia, viene visto come un modello da imitare o viene accusato di avere troppe libertà? Le autonomie speciali come sapete sono cinque. La più grande di queste regioni è la Sicilia: questa è considerata un pessimo esempio. La Sicilia è una regione che “fa peggio degli altri con più risorse”, l'autonomia siciliana è diventata uno scandalo nazionale per via dello spreco di soldi. Per lanciare lo sviluppo della Sicilia, molti hanno affermato che bisognerebbe toglierle l'autonomia. Nel caso del Trentino si dice

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che abbiamo. Come diceva De Gasperi si deve “stare sull'attenti”, per dare un futuro vero all'autonomia bisognerà fare in modo che i Trentini sappiano “fare meglio con meno”, in quanto fare meglio con più è relativamente facile. Il modo per essere veramente autonomi, è dimostrare che sappiamo fare meglio degli altri con meno o uguali risorse. Il futuro del Trentino sarà raggiungere questo obiettivo.

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che “facciamo meglio degli altri, ma con più risorse”. Abbiamo il privilegio di poter avere più mezzi. I Lombardi ad esempio dicono che, se avessero la nostra autonomia, farebbero grandi cose e soprattutto affermano di esser loro a “finanziare” l'Italia con le tasse. Ciò può anche essere vero, ma è anche vero che tutto ciò che spendi torna in opere pubbliche anche sul tuo stesso territorio. Sul Trentino molti dicono che questo privilegio dell'autonomia è eccessivo, in quanto i legami con l'Alto Adige non sono molto buoni. Tuttavia si ammette che sappiamo utilizzare bene la ricchezza


Moni Ovadia Paolo de Benedetti Eraldo Affinati Roberto Keller Enrico Molteni Daniele Gaglianone Angelo Giovanetti

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Il celebre filosofo ed economista inglese, John Stuard Mill scriveva nel saggio “Sulla libertà”: “La tirannia del costume è ovunque un ostacolo al progresso umano, perché in perenne antagonismo contro ogni tendenza verso il meglio che si chiama, secondo le circostanze, spirito di libertà o spirito di progresso”. L'idea di cultura che faccia proprio uno spirito di libertà inteso come spirito di progresso, che contrasti la convenzionalità del costume dominante, è senza dubbio l'idea di “cultura libera” che ci viene sottolineata a più livelli dagli intervistati di questa sezione. Attività come la realizzazione di un film o di uno spettacolo teatrale, la scelta di un album musicale da produrre o di un libro da pubblicare, le storie che

libertà E CULTURA Stefano CeciliaPaternoster Dalla Torre

devono essere raccontare e diffuse ci vengono presentate come mezzi per opporsi al conformismo dominante e al puro consumismo, per aprire “nuove vie” che abbiano come scopo quello di fornire originali ed articolate prospettive di interpretazione della realtà e dell'uomo. Afferma, a questo proposito, l'editore indipendente Roberto Keller: “Il fare editoria è impresa libera, rappresentazione delle proprie idee, di nuove prospettive e nuovi sguardi sul mondo, anche se attraverso i romanzi”. Il teatro, la musica, il cinema, l'editoria, lo sport, la scrittura, l'insegnamento diventano quindi strumenti per fornire un contributo originale, ricco, profondo alla costruzione della società. Un contributo pertanto veramente libero. Buona lettura.

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Intervista a cura di Elena Mazzalai, Elisa Bianchini, Stefano Paternoster

Moni Ovadia Moni Ovadia (Plovdin, Bulgaria 1946), proviene da una famiglia ebraica di cultura yiddish. Studia a Milano e si laurea in Scienze Politiche. Comincia la sua attività artistica come cantante e musicista nel gruppo dell'Almanacco Popolare. Nel 1984 inizia l'attività teatrale con Franco Parenti. Nel 1990 crea la «Theater Orchestra» tramite cui impone al grande pubblico la sua proposta di un teatro musicale di forte ricerca espressiva. Successi teatrali sono: «Oylem Goylem», «Dubbuk», «Il caso Kafka», «La bella utopia». Nel 1996 inizia anche la carriera di scrittore con «Perché no? L'ebreo corrosivo», proseguita negli anni con numerose pubblicazioni di successo. Al suo attivo ha inoltre diverse collaborazioni televisive e cinematografiche. Vanta un'importante serie di premi nell'ambito del teatro, della cultura e per il suo impegno civile, oltre al riconoscimento di due lauree honoris causa in «Scienze della Comunicazione» (Università di Siena) e in «Lettere e Filosofia» (Università di Pavia).

Moni Ovadia, Il conto dell’ultima cena, Einaudi 2010

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caso che quello che è considerato universalmente il più grande esponente della storia dell'arte occidentale, William Shakespeare, fosse un teatrante. Il teatro è un mezzo non diretto nel senso che non è un comizio. Il teatro possiede la trasfigurazione artistica, ma è luogo di verità. Forse, il teatro è veramente uno dei pochissimi luoghi di verità. Il perché lo spiega molto bene con due versi di un suo sonetto in romanesco Gigi Proietti: “…viva il teatro: viva il teatro dove tutto è finto ma niente c'è de farso”. La pietas della finzione permette di dire le verità più spietate senza che queste offendano e distruggano. Le verità diventano distruttive, quando sono in mano ai tiranni che pretendono di avere verità assolute; il teatro no, proprio per questo è luogo di verità. Attraverso il meccanismo della finzione può esprimere le verità più spietate e l'ha fatto, infatti Shakespeare ha scritto da questo punto di vista cose

Moni Ovadia

Fotografia di Elisa Bianchini

Sul palcoscenico si sente libero, senza restrizioni? Sì, non mi sono mai posto dei limiti particolari se si tratta di aspetti su cui ho riflettuto: non ne ho fatto mai una questione di censura, ma di opportunità. I miei spettacoli non trattano temi politici in modo diretto, ma attraverso una trasfigurazione. Se decidessi però di fare uno spettacolo direttamente politico non mi porrei nessun tipo di problema. Ritengo di avere un rapporto con la libertà fondato sulla responsabilità, per esempio penso che la nostra libertà possa esistere solo là dove siamo responsabili dell'esercizio di essa, quindi mi assumo tutte le responsabilità di ciò che dico o faccio e cerco di comportarmi in modo libero senza pormi limiti o censure. Vede nel teatro un mezzo diretto o indiretto per comunicare con le persone? Credo che il teatro sia un modo formidabile di comunicare con le persone, non è un


definitive sulla natura del potere, sulla verità ultima dell'uomo, sui sentimenti. Il «Riccardo III» è da un certo punto di vista l'anticipazione dello stalinismo. Fatto però attraverso un'opera di fiction. Credo che il teatro da questo punto di vista sia un luogo di conoscenza ideale perché lavora sui sentimenti, le emozioni e non solo, sulla mente, sull'informazione, è un modo per accedere a tutti i registri dell'essere umano chiamandolo “a mettersi in gioco”. Crede che ci possano essere spazi di libertà per una persona come lei in ambito televisivo? Pochi, pochissimi, semplicemente perché la libertà di chi parla in modo chiaro viene censurata non invitandolo. Nessuno dirà Moni Ovadia non è libero di dire quello che vuole, ma non ti invitano a dirlo nel momento in cui lo puoi dire. Qualche spazio di libertà c'è, ma molto raro. La tv non dà più spazio come faceva anche in tempi più bui, ad esempio quando Pasolini, un intellettuale con idee molto radicali, parlava per ore in televisione: oggi questo non sarebbe più possibile. È anche difficile per esempio sentire un intellettuale radicale, ma che forse è il più grande pensatore e intellettuale vivente, che è Noam Chomsky. Siccome Noam Chomsky è anarchico e dice cose contro il potere senza mediazioni non lo mettono mai in televisione. Il linguaggio radicale è bandito, anche quando esprime cose vere. Paolini ha portato i suoi spettacoli su La7 o sulla Rai… Sì, ma La7 è una televisione che ha un'audience molto limitata. Paolini parla del Vajont eccetera, ma se devi andare a parlare di politica e di cose veramente dure, per esempio dire che George Bush e Tony Blair sono criminali di guerra e andrebbero processati all'Aja, perché hanno costruito una guerra che ha ammazzato decine di mi-

gliaia di cittadini innocenti sulla base di bugie e Blair l'ha recentemente confessato, non trovi nessuno disposto a dire: “Dillo che poi smentirò le tue affermazioni”. La libertà è che ognuno deve poter dire quello che vuole. Poi naturalmente non si può andare in televisione ad insultare a vanvera, questa non è libertà, questo è arbitrio. Ma se io fornisco argomentazioni, siccome quella guerra non era necessaria, era costruita su presupposti falsi, chi causa la morte di migliaia di civili innocenti su delle bugie è un criminale, lo è oggettivamente. Uno che l'ha ripetuto, detto fino alla nausea, è stato il grande drammaturgo inglese premio Nobel per la letteratura Harold Pinter. Harold Pinter non parlava più di nient'altro. Gli hanno dato il premio dell'Accademia dei Lincei a Firenze, lui si è seduto e ha detto: “Dunque, volevo dire, che George Bush e Tony Blair sono due criminali di guerra”. Così, ininterrottamente, in qualsiasi contesto; però al TG1 non glielo facevano dire... Non glielo fanno dire perché l'America e l'Inghilterra sono alleati o perché… …no, in America ci sono tanti che la pensano così. Noam Chomsky, che lo scrive e lo dice, è un cittadino degli Stati Uniti d'America. Supponiamo che io dica una calunnia? Mi citino in giudizio. La libertà è questa. Se sono colpevole, poi ne pagherò le conseguenze. Questo è garantito dal primo articolo della Costituzione degli Stati Uniti d'America. A nessuno può essere impedito di parlare, prima di aver parlato. Tu parli e poi se sei colpevole subisci le conseguenze. Ma non ti viene impedito prima di esprimerti. È una cosa molto bella. Ecco, libertà è: io devo poter parlare. Poi tu ambasciatore inglese mi senti e dici: “Ti denuncio per quello che hai detto”. Bene, andiamo in tribunale. Come mai nei suoi spettacoli ha deciso di

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Moni Ovadia

sono anche un popolo che si fa facilmente abbagliare da false promesse e da falsi miti. Oggi se lei vede Benito Mussolini con tutti i suoi gesti le fa ridere, eppure milioni e milioni di italiani non risero. Però diciamo che la cultura italiana popolare, prendiamo la commedia all'italiana o il grande cinema, ha saputo ridere dei vizi degli italiani. Ha mai pensato di dedicarsi al cinema? Il cinema è stata la mia prima grande passione, ho fatto piccole cose, ma la mia faccia e la mia storia non sono per il cinema italiano, perlomeno non per quello che si fa adesso. Vorrei molto fare dei film miei, ma il cinema che piace a me costa troppo e nessuno me lo farebbe fare, perché mi piacciono le storie dei popoli, delle genti, il cinema epico insomma. Ad esempio il film che ho più invidiato e che considero un capolavoro assoluto, è stato “Underground” di Kusturica. A lui ho detto: “Questo tuo film ha un insopportabile difetto”. E lui mi disse: “Beh, ne ha più di uno”. “No no no no, il film è un capolavoro; un difetto però, ce l'ha: hai fatto tu e non l'ho fatto io”. Naturalmente era una battuta, per spiegare il tipo di cinema che mi piacerebbe fare. Però sto preparando una storia che forse potrà diventare un film, è sulle genti, ma sono riuscito a ricondurla ad una storia individuale che riflette l'epopea. Ha curato la trasposizione italiana dei dialoghi di “Train de vie”. Anche quello è un cinema a cui si sente vicino? Radu Mihãileanu ha fatto un film garbato. Dal punto di vista della narrazione però con degli errori mostruosi. Non avrei dipinto il mondo della Yiddishkeit così. È stato fatto un po' “alla carlona”. Il film è stato importante, soprattutto per gli italiani che non sapevano niente di quel mondo. Li ha avvicinati. Ma è grossolano. Molto più bello “Concerto”. La descrizione degli ebrei

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usare l'ironia per raccontare il popolo ebraico e cosa ritiene vi sia di speciale nell'ironia? Dunque, più che di ironia per quanto riguarda la cultura ebraica, si tratta di umorismo. L'umorismo autodelatorio è un patrimonio specificamente ebraico, la capacità di ridere di se stessi, è un modo per capire il mondo, capire la verità, le storture, per combattere la violenza, è una grande forma di pensiero. Fa anche ridere, ma soprattutto fa pensare. È connaturato al pensiero ebraico, che nasce con questa caratteristica: usare l'umorismo, l'ironia come armi di smascheramento dei falsi idoli che si celano dietro certe argomentazioni. Faccio un esempio clamoroso: il versetto “occhio per occhio, dente per dente” non è scritto così nella Bibbia. In ebraico è scritto “occhio sotto occhio”. Cosa vuol dire? L'etica ebraica, che non ha mai avuto la legge del taglione, intendeva dire che se tu togli un occhio ad una persona, il risarcimento che gli devi dare, deve pesare quanto un occhio. Cioè se io volontariamente o involontariamente ti cavo un occhio, non è che ti do diecimila e siamo pari, no, mi devi dare un sacco di soldi per compensare ciò che mi hai tolto, perché molto valeva. Allora un maestro per fare capire quanto erano stupidi quelli che credevano al significato letterale, disse: “Se un guercio cava un occhio a uno che li ha tutti e due, come facciamo?”. Vede cos'è l'ironia? Come si smonta il falso idolo? Nasce proprio all'interno del processo di argomentazione del Talmud, che è il grande libro degli Ebrei che contiene discussioni di maestri, dove ad un certo punto prevale un'opinione, che chiunque però può riaprire e rimettere di nuovo in discussione, anche con l'ironia. Secondo lei gli italiani sono un popolo ironico e auto-ironico? Gli italiani sanno ridere di loro stessi, ma


russi, che Radu conosce molto bene essendo vissuto in Romania, è perfetta. Invece avrei avuto molto da dire su come ha descritto il mondo della Yiddishkeit. Io li ho conosciuti quegli ebrei. Avrei usato attori dell'Est Europa, non attori francesi non credibili. In francese il film era orribile sul piano del dialogo. Mi prendo il piccolissimo merito di aver fatto molto meglio nella versione italiana. Radu mi ha comunicato che tutti gli dicevano: “Ringrazia Moni Ovadia”. Io ho risposto: “Guarda che non ho fatto niente. Radu tu sei rumeno e non lo puoi capire, ma il francese è una lingua spaventosa, una lingua rigida, è una lingua pomposa. Lo Yiddish è ironico”. Forse solo Fernandelle è riuscito a fare del francese una lingua ironica, è difficile fare del francese una lingua ironica. Ridere è un segno di libertà? Ridere di se stessi è un segno di libertà, perché ci sono molti modi di ridere. I Romani dicevano: risus abundat in ore stultorum. Perché c'è per esempio il riso televisivo, quello così detto da cabaret, ridere becero, quel ridere da bagaglino, quel ridere facile, magari anche di bravi attori. Vi sono ovviamente delle eccezioni, come per esempio i fratelli Guzzanti che sono straordinari. Soprattutto io detesto chi irride e deride. Quello è un brutto ridere. Ridere delle miserie e delle debolezze degli altri è proprio brutto. A proposito del suo ultimo libro “Il conto dell'ultima cena”, lei parla della ricchezza e della fertilità degli errori che portano all'inaspettato. La paura di sbagliare spesso blocca le persone e forse in particolare proprio noi giovani. Vuole spiegarci dove si trova questa forza creatrice dell'errore? Ciò che si può generare di buono e di originale, non può che svilupparsi attraverso un processo di ricerca e di rischio. Se non

rischi di sbagliare, non rischierai mai di fare qualcosa di autenticamente bello, starai nella media. Quando Picasso dipinse Les Demoiselles d'Avignon, primo quadro cubista, lei non ha idea degli insulti di cui lo riempirono. Vai verso qualcosa che non volevi fare, hai sbagliato, però questo sbaglio ti apre una porta che non ti aspettavi. L'errore è l'apertura di una luce sull'inavvertito. Non tutti gli errori naturalmente. Però può esserlo. Per esempio io faccio un errore in un approccio di ricerca seguendo le formule che ho e quell'errore mi porta in un'altra dimensione. Orson Welles, quando a venticinque anni entrò in uno studio cinematografico per la prima volta nella sua vita per fare il famoso “Citizen Kane”, uno dei più grandi dieci film della storia, si mise a fare tutto ciò che nel cinema era considerato un errore e creò il cinema moderno. Era consapevole di sbagliare? Non si preoccupava di sbagliare. A me è capitato molte volte di voler andare in una direzione e di sbagliarmi. Nel fare un errore ho però scoperto che potevo fare qualcos'altro rispetto a quello che avevo pensato di fare originariamente. Bisogna essere aperti al procedere del pensiero e dell'esperienza, non bisogna predeterminarla. L'errore è ciò che si compie quando non si vuole ingabbiare la propria esperienza. Sempre nello stesso libro ha associato la libertà al mangiare, cioè alla scelta dell'alimentazione. Un'alimentazione consapevole è segno di libertà? Secondo me sì, perché noi veniamo educati a mangiare senza pensare. Per esempio non siamo consapevoli di quale gesto straordinario siano il mangiare e il bere. Mangiamo e beviamo così. Però noi specie umana abbiamo un registro ulteriore a quello del semplice nutrirci: abbiamo il gu-

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Moni Ovadia

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Fotografia di Pino Settanni

sto, la cultura del cibo e possiamo avere anche un'etica del cibo. Per esempio io trovo che sia una forma di tossicosi per l'anima e per la mente mangiare un cibo che derivi da violenze su esseri inermi. Lo trovo un abominio. La violenza ha una sola matrice, che sia contro gli animali o contro gli uomini non cambia. Noi non usciremo dalla violenza fin quando non bandiremo la violenza dal nostro orizzonte. È poi fondamentale concentrarsi su ciò che mangiamo, perché il cibo e l'acqua sono la fonte della vita. È straordinario, è un miracolo il fatto che noi mangiamo e il nostro corpo funzioni. Crediamo che sia una cosa meccanica, non è meccanica, è un evento straordinario. Io ho riportato nel libro la storia del monaco Bankei. Il monaco Bankei era un monaco Zen e aveva molti allievi. Una volta arrivò un altro maestro Zen molto invidioso che provocò Bankei dicendo: “Il mio Zen è così grande che io posso tracciare dei segni da una sponda del fiume ad un mio allievo che sta sull'altra sponda e li vede comparire sul suo foglio”. Bankei rispose: “Questi sono giochetti da volpe ammaestrata. Il mio Zen è che quando ho fame mangio e quando ho sete bevo”. Questo atto diventa piacere, diventa nutrimento, diventa comprensione di sé. Allora io penso che dovremmo dare al cibo più valore di quello che gli diamo. Non dovremmo gettare il cibo, non perché in India muoiono di fame, come dicevano a me, ma perché il cibo fa parte di un ciclo vitale e, se rispettiamo la vita, dobbiamo rispettarne tutti i cicli vitali. Allora perché secondo lei la gente è così restia nei confronti della dieta vegetariana? Perché le persone hanno un atteggiamento nei confronti della vita rapinoso. Non sanno che la vita e che il mondo, che gli animali, che tutto appartiene all'universali-


tà. Vede, ci sono uomini che per accumulare denaro possono veder morire centinaia di migliaia di esseri umani. Perché l'uomo è un essere fragile e una delle sue fragilità, che lo porta alla depravazione, è quella di credere che il possesso sia la chiave per essere al riparo dalla fragilità e dalla paura. La paura è l'istinto che più muove gli uomini e porta gli uomini all'enfatizzazione del proprio egoismo. L'egoismo è quindi una forma di fragilità e di debolezza non riconosciuta come tale. È l'egoismo per cui a me piace mangiare la carne e mi dà soddisfazione. È la spinta egoistica pervertita, tutti noi abbiamo un sano egoismo che ci protegge. Quando questo diventa però patologico per via della paura... allora l'uomo pensa: “Siccome lo voglio, lo desidero, mi piace, dev’essere mio”. E questo è patologico, deriva da un corto circuito nella relazione con l'altro. L'altro può essere l'altro sesso, può essere il bambino, può essere il vecchio, può essere l'animale. Il corto circuito del rapporto con l'altro nasce dalla paura. Per cui io devo circondare il mio territorio, inglobare tutto ciò che posso. Un uomo autenticamente forte non fa queste cose. La storia ebraica fin dai tempi biblici si muove lungo il confine tra oppressione e liberazione. Lei come vede questa relazione, questo binomio tra oppressione e liberazione? Molto interessante la domanda che ha fatto. Io ho una mia personale opinione. L'ebraismo è un pensiero rivoluzionario, è un pensiero di liberazione, ma come lei sa in tutti i grandi sistemi entrano i reazionari. Quando capiscono che non possono sconfiggerlo, cercano di pervertirlo dal di dentro. È successo all'Ebraismo, al Cristianesimo, all'Islam. Pensi a certi cristiani che hanno sterminato intere popolazioni come i popoli precolombiani. C'è una sola parola

nella predicazione di Cristo che dica questo? Come hanno fatto? Si entra nel sistema e lo si perverte. Le dico un verso importantissimo del Corano, è il 99 della decima Sura: “Se Allah avesse voluto fare di tutti gli uomini dei credenti ci avrebbe pensato lui.” Ma non l'ha fatto. E prosegue il versetto: “E chi sei tu per costringere un uomo con la forza a credere contro la sua volontà”. Come li spieghiamo gli integralisti allora? Vanno a cercare altre parti. Ci sono linee diverse di interpretazione da parte dei biblisti e dei coranisti, la linea profetica che è dirompente - rivoluzionaria e quella conservatrice. Non potendo contrastare un pensiero così straordinario hanno detto: facciamo in modo che sia al nostro servizio. Hanno fatto perfino diventare Gesù biondo con il Concilio di Nicea. Un ebreo nel Medio Oriente duemila anni fa. Come doveva essere Gesù? Glielo descrivo io: come Madre Teresa di Calcutta con la barba, così era probabilmente. Piccolo, magari anche con una gobba e illuminava per la grandezza della sua umiltà e del suo magistero spirituale. Mica un vichingo di due metri con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Gandhi, guardate Gandhi. Stava in piedi perché non tirava il vento. Ed è un uomo che ha cambiato in un certo modo la storia dell'umanità e del suo paese. La logica del potere è così. Karl Marx ha scritto secondo me la più grande lirica di liberazione laica dell'umanità. Marx è stato il più grande pensatore sociale di tutti i tempi. E guardi cosa ne ha fatto Stalin. È così, la stessa cosa vale per tutti i pensieri. I buddisti lo stesso. C'è un pensiero più sublime di pace e di armonia? Però ci sono buddisti che si sono scannati con altri, che sono diventati buddisti di potere, una contraddizione interna. È così. Perché gli uomini di potere, se perdono un'ideologia, ne assumono un'altra pervertendola. Questo è l'essere

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l'etica talmudica è molto severa in merito. Addirittura, se tu hai prestato soldi ad una persona indigente, devi evitare di incontrarlo per non metterlo in imbarazzo. Se hai preso in pegno una coperta da un povero, come si fa al monte di pietà, tu che l'hai presa, alla sera gliela devi riportare, perché lui si deve coprire. C'è invece una fede che ha un legame strettissimo e organico con il danaro, con il capitalismo ed è una fede cristiana: il Calvinismo. Guarda caso la Svizzera è il paese delle banche. Se io vi leggessi qualcosa di Calvino o dei calvinisti, il 90% della gente direbbe questo è un ebreo. Invece è un cristiano. Perché c'è questo pregiudizio sull'ebreo allora? È vero che l'ebreo in una fase della storia è stato il più grande banchiere europeo. Ma è stata una fase. Perché gli Ebrei hanno maturato un talento con il danaro? Perché per secoli e secoli non potevano fare altro, erano costretti a questo. E poi per una ragione che è molto semplice da capire: se tu sei un perseguitato e da un momento all'altro ti possono espellere dal paese, cosa fai? Compri terre e fabbriche? Metterai da parte denaro liquido, perché sai che garantirà la salvezza per te e per i tuoi figli. Quello del danaro è stato un pregiudizio costruito sulla tipica falsa coscienza dell'Europa. Però le grandi banche mondiali non sono ebraiche, ci sono anche banche ebraiche, ma le banche americane sono in mano a protestanti bianchi. Ci sono grandi banche cattoliche, se volessimo fare due conticini sullo IOR, la banca del Vaticano, le banche ebraiche impallidirebbero in confronto. Vogliamo parlare delle banche arabe? Faccio una provocazione: tra gli Ebrei e gli Arabi chi ha più soldi? Pensiamo ai soldi che hanno ricavato gli Arabi dal petrolio. Gli Ebrei sono riusciti ad avere il talento “di ficcarsi” nell'unico pezzettino di Medio Oriente dove non c'è

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umano, “un progetto aperto”. Adolf Hitler non è nato da mostri, ma è nato da un padre e da una madre. Era solo un essere umano. Magari con qualche patologia, con qualche turba, ma niente più che un essere umano. Pensi che era un incantevole pattinatore. L'ha mai visto pattinare? Era magnifico. Faceva l'angelo in una maniera impeccabile. Allora ecco noi dobbiamo capire che è l'educazione che ci forma. Cioè se sul momento del nascere quel genitore autoritario e punitivo fosse morto e Hitler avesse avuto un padre adottivo dolce e gentile, noi non avremmo avuto Adolf Hitler. Fa davvero impressione. Basta poco. Prendete della caratteristiche umane molto forti: la passionalità, quella cosa che ti brucia dentro. Se nasci in una famiglia come i Guevara-Lynch diventi Che Guevara, se nasci in una famiglia come i Gambino di Corleone diventi il padrino. Li animava la stessa passione, ma dentro due contesti educativi completamente diversi. Uno crea un grande rivoluzionario, un poeta della politica, vibrante, con una passione che l'ha portato a morire. Invece un altro nasce in una famiglia di delinquenti e diventa un criminale, un killer, ordina di mettere la gente nei piloni di cemento. Un caso folgorante è stato quello di Malcom X. Malcom X è stato un delinquente protettore di prostitute. Ma poi ha scoperto la via dell'Islam e la sua vita è cambiata, è diventato un grande leader. Molto radicale, ma un grande leader. Tornando agli Ebrei: il legame con il denaro è alla base di ogni stereotipo sulla persona ebrea. Si tratta di un elemento che appare spesso anche nei suoi racconti. Vorrebbe spiegarci meglio questa idea? Io ironizzo, ci gioco, fingo di accogliere il pregiudizio per mostrarne l'infondatezza. Ora, chiariamoci, non esiste alcun legame organico tra l'ebraismo e il danaro. Anzi,


una goccia di petrolio. Il resto galleggia su un mare di petrolio. Il petrolio è stata la materia strategica per tutto, per decenni e continua a esserlo. Immaginatevi i soldi degli sceicchi arabi. Fatevi un calcolo. Non c'è neanche paragone, il più lontano paragone possibile. Eppure questa cosa non crea pregiudizio. Chi ha inventato le banche? Lo sapete chi ha inventato le banche: i fiorentini. Avete mai sentito pregiudizi contro i fiorentini? Però era comodo scaricare sull'ebreo, perché spesso l'ebreo non potendo fare altri lavori era costretto a fare l'esattore dagli aristocratici polacchi. Da qui nasce l'odio per gli Ebrei da parte del contado. Era un odio che si capiva. Ma gli Ebrei o facevano questo o non potevano fare altro. E il danaro per lunghi periodi della storia ebraica è stato quello che ha permesso agli Ebrei di emanciparsi. Però l'eccellenza ebraica negli Stati Uniti non è il danaro, ma la cultura. Gli Ebrei sono il popolo del libro. La vera egemonia ebraica negli Stati Uniti è rappresentata dalla cultura. Il 42% dei premi Nobel nel Novecento sono ebrei. Hollywood l'han creata gli Ebrei. Tutti i primi produttori erano ebrei, nessuno escluso. Tutto il business dei libri, cinema, musicisti, musical.

Fotografia di Lia Pasqualino

Tutti i grandi autori di musical del periodo d'oro, tranne Cole Porter e Hoagy Carmichael, tutti erano ebrei. E se voi andate a vedere fra gli uomini di cultura degli Stati Uniti scoprirete ebrei. Il 75% degli americani famosi dall'economia alla politica, alla letteratura, alla scienza, eccetera hanno almeno un genitore ebreo. E gli ebrei sono solo il 3%. Quella è stata l'eccellenza ebraica. Adesso sta finendo. Adesso gli Ebrei si sono standardizzati. Il talento non era dato dal fatto che gli Ebrei sono più intelligenti, ma dal fatto che erano perseguitati, senza terra e che studiavano. Ogni ebreo studiava, perché lo doveva fare per legge. Non solo lo studioso di professione, ma anche il contadino, finito di lavorare, doveva andare a studiare. E lo facevano. Per questo gli Ebrei hanno avuto un'eccellenza intellettuale nel mondo. Se facciamo il nome degli intellettuali ebrei non c'è paragone possibile con nessuno; basta fare tre nomi: Einstein, Freud, Marx. Per fermarsi lì. E poi ancora oggi, lo dice il «New York Times», quello che è considerato il più grande intellettuale vivente è un ebreo, Noam Chomsky. Questo è avvenuto perché il vero specifico ebraico è stato lo studio.


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comportamenti di etica e di conoscenza. Ci sono ebrei ortodossi con tanto di barba e boccoli che si dichiarano atei. Questo in un'altra religione non sarebbe possibile. Perché l'ebraismo non è una religione, ve lo dirà qualsiasi rabbino. Anche se ci sono degli aspetti di religione, c'è una parte religiosa, ma non è l'essenza profonda dell'ebraismo. E io credo fortemente in questa cosa. Può spiegarci meglio questo concetto? La differenza tra ebraismo e religione ? L'ebraismo non è una religione, né un'etnia, perché all'ebraismo ci si può convertire. Gli ebrei non fanno proseliti. Però se tu vuoi sei il benvenuto. Alcuni dei più grandi maestri dell'ebraismo sono dei convertiti o figli di convertiti. Per esempio uno dei maestri più rispettati dell'ebraismo è un certo Onkelos che ha scritto una traduzione e parafrasi che è una fonte interpretativa della Torah. Lui fu mandato da Tito per reprimere gli ebrei che erano i più rivoltosi. Si innamorò dell'ebraismo e si convertì. Un generale romano. E diventò uno dei più rispettati maestri. Oggi c'è in Israele il figlio di uno dei più grandi gerarchi nazisti, il segretario di Hitler Martin Bormann, rabbino ortodosso con nove figli. Nessuno gli ha chiesto se lui era figlio di un nazista. Neanche ci hanno pensato. Inoltre ebreo è chi è di madre ebrea. Il padre può essere il qual si voglia. Questo vuol dire che, se una persona ha avuto una nonna ebrea, anche se si tratta di dieci generazioni prima, quella persona è ebrea, anche se in mezzo è entrato di tutto e di più. Turchi, nazisti, eschimesi, lei rimane ebrea. Se entra in una sinagoga e mostra questa prova, nessuno le può dire niente. Il che dimostra che non c'è niente di razziale. Vede, gli ebrei hanno inventato una cosa straordinaria che oggi rischiano di perdere. Hanno inventato un popolo non in-

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A proposito di pregiudizi, secondo lei Shakespeare era antisemita oppure riportava solo un sentimento del suo tempo? La seconda. Io credo che Shakespeare non fosse antisemita, troppo intelligente per esserlo. Quel monologo che mette in bocca a Shylock riflette il suo pensiero. La parte saliente di quel monologo è quando Shylock dice: “La malvagità che mi avete insegnato io la metterò in campo, sono solo il vostro allievo”. Cioè Shakespeare accusa il mondo cristiano di essere la vera fonte del male. Non solo, ma l'attacco al potere è spietato, nel monologo di Bassanio dice: “Quale bella fonte con una citazione non copre il peccato più schifoso e più infame”. Lui non era un religioso, ma uno scrittore autenticamente e definitivamente laico. Come tale io non credo che Shakespeare fosse antisemita. Anche perché c'è una ragione: Shakespeare non ha mai incontrato un ebreo in vita sua. Per la semplice ragione che gli ebrei sono stati espulsi nel 1290 dall'Inghilterra e riammessi da Oliver Cromwell nel 1665. Shakespeare era già nato, aveva scritto ed era morto. Senza aver visto un ebreo. Forse aveva incontrato qualche marrano, qualche cripto giudeo, ma questo è tutto. No, era troppo geniale per essere antisemita. Secondo me lo dimostra il monologo di Shylock. Lei definisce sua moglie come un'atea serenamente convinta. Ci sono mai stati problemi tra di voi per la questione religiosa? No, perché io sono un agnostico, non sono religioso. Contrariamente a quello che molti pensano di me, io non sono un credente. Non sono ateo, sono agnostico. Mi metto in una posizione di non pormi quel problema. Anche perché l'ebraismo non è una religione. Ha degli aspetti della religione, ma l'ebraismo è un'ortoprassi, un insieme di


torno ad una terra, ma intorno ad una patria mobile, la Torah. Intorno ad un insieme di etos, ius, etica, morale, comportamento il cui scopo è costruire la fratellanza universale. Quella è stata la grande intuizione ebraica. Perché erano un coacervo di schiavi e stranieri. Non c'è una genetica degli ebrei. Certo che c'erano gli israeliti discendenti di Giacobbe, ma in quel popolo che si chiama popolo ebraico c'erano mesopotami, accadi, ittiti, egizi e un sacco di delinquenti. Habiru si dice nel termine protosinaitico. Questa informazione si trova nel libro di uno dei più grandi rabbini del '900, Chaim Potok. E nella sua storia ebraica disse chi erano: una massa disordinata e piagnucolosa di asiatici che ebbero un'idea folgorante: mettere nel cielo un Dio che dice il mio popolo eletto sono gli schiavi e gli stranieri, cioè un'elezione dal basso. Questa è la grande potenza. E poi il Dio universale, perché non dice sono il Dio di una nazione, ma sono Dio dello schiavo e dello straniero. Il popolo ebraico è questo e per questo viene eletto, non perché sono più carini o intelligenti, anzi, sono il peggio del peggio, sono la schiuma della terra. E ancora oggi anche con i metodi della genetica più sofisticata lei non può rintracciare un'omogeneità etnica ebraica, semita o qualcosa del genere. È entrato di tutto. Greci, barbari, avari, unni, hasari. L'impero degli Hasari era un enorme impero caucasico, una grande potenza che si collocava a metà fra la potenza araba e la potenza bizantina. Ci sono i documenti che tutti i re e tutti i dignitari della corte degli Hasari, quattromila persone, si convertirono all'ebraismo. Perché erano premuti da due potenze che avevano religioni forti, l'Islam e il Cristianesimo. Si sono convertiti anche tutti gli altri hasari? Chi lo sa, forse sì. Ma secondo i nazisti nell'impero degli hasari c'era la più pura stirpe di ario. Adolf Hitler

dettando le sue memorie a Bormann, suo segretario, il suo testamento politico nel Bunker, dice: ”Sia chiaro che quando parliamo di razza ebraica usiamo una convenzione linguistica. Non esiste una razza ebraica. Si tratta di una comunità di spiriti”. L'ho scoperto di recente e sono rimasto sconvolto. Non è un caso che l'artista vivente più ammirato da Hitler era un ebreo, il regista dell'espressionismo tedesco Fritz Lang. La mamma di Fritz Lang era un'ebrea austriaca convertita al cattolicesimo, ma nata ebrea. E quando Lang fu chiamato dal dottor Goebbels per incaricarlo di edificare il cinema del reich millenario, esterrefatto Lang disse: “Ma, dottor Goebbels, lei si sente bene? Chiedete a me una cosa del genere? Ancorché convertita al cattolicesimo mia madre era ebrea. Dottor Goebbels, io sono ebreo”. E sapete cosa rispose Goebbels? “Non sia ingenuo signor Lang, oggi in Germania chi è ebreo e chi non è ebreo lo decidiamo noi.” Capite a che livello di follia è stato il nazismo? E di idiozia. Non esiste un popolo ebraico etnicamente omogeneo. Oggi c'è il libro di un israeliano molto interessante, che si chiama “L'invenzione del popolo ebraico”. Ed è vero, è un popolo inventato, ma questa è la sua grandezza: dimostra che si può essere popolo senza nazionalismo e senza patria. Quello che stanno facendo gli israeliani è distruggere tutto questo, se vanno avanti così. Conosce il caso trentino di S. Simoniono? Queste cose appartengono al pervertimento di una storia, a tutta la grande linea della falsa coscienza del pensiero occidentale cristiano. E mi spiace doverlo dire, ma questa linea continua ancora. In forme blande, ma il fatto che questo Papa abbia istituito una preghiera che sollecita gli Ebrei alla conversione, è una cosa molto pesante dopo quello che è successo. E anco-

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cattolici tedeschi durante lo sterminio nazista furono nel migliore dei casi indifferenti, più spesso complici. Il problema non è degli ebrei, ma dei cattolici. Perché i cattolici sono straordinari, alcuni dei miei migliori amici sono sacerdoti e sono un esempio per me su come si deve vivere. Questo reca danno ai cattolici, non agli ebrei. Forse li addolora, ma non gli fa un graffio. E naturalmente questo fa perdere credibilità alla chiesa e dà forza sempre di più ai protestanti. Visto che il tema della nostra inchiesta è la libertà e lei ha un grande repertorio di storie ebraiche, per concludere ne avrebbe una sulla libertà… Ora nello specifico non mi viene in mente una storiella sulla libertà, ma c'è una bella citazione da Zorba il greco. Zorba incontra al porto un inglese mezzo greco, che sta andando a Creta per riaprire una miniera e si offre di collaborare con lui. L'inglese alla fine accetta questo bizzarro individuo. Zorba ad un certo punto tira fuori un fagotto dove c'è un triangolo e l'inglese chiede: “Che cos'è?” “Questo è un sanduri”. “Sarà bello, lavoreremo di giorno e poi la sera tu suonerai il sanduri e canterai”. Allora Zorba diventa triste e dice: “Mister, se dici così non posso venire”. “Ma perché, cosa ho detto?” “Sul lavoro mister comandi tu. La musica è mia”. E allora l'inglese domanda:” Che cosa vuoi dire Zorba?” “Sono libero mister”.

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Fotografia di Lia Pasqualino

ra oggi c'è una difesa d'ufficio di Pio XII che è incomprensibile. Perché sicuramente Pio XII aprì i conventi, però io sono testimone di cosa ha fatto un cristiano e di cosa poteva fare il Papa e non lo fece deliberatamente. Io sono figlio morale, perché sono nato nel '46, del metropolita della chiesa cristiano-ortodossa bulgara Stefan. Stefan uscì nella Piazza Alexander Nevsky nel giorno più solenne per i Bulgari, la festa di San Cirillo e Metodio e davanti a 150.000 persone pronunciò un discorso che cominciava con: “Oggi è un giorno triste per la Bulgaria, perché i nostri cittadini ebrei non sono qui a festeggiare con noi. La Bulgaria è di tutti i bulgari e questa è la festa di tutti i bulgari, cristiani, ebrei, musulmani. Io avverto l'autorità tedesca: non osate alzare un dito sui nostri cittadini ebrei. Io vi avverto, non ci provate”. Li minacciò. Stefan fu messo agli arresti domiciliari. Rispose agli arresti domiciliari invitando il rabbino capo di Bulgaria a vivere a casa sua. E stava sulla porta e diceva al povero piantone: “Ditegli di venire a prenderlo qui se hanno il coraggio.” Questo l'ha fatto un cristiano. Questa è la prova di tutte le menzogne che vengono dette su Pio XII: aveva paura di parlare, faceva peggio… Ah si? Hitler faceva ammazzare ottantacinque milioni di cattolici tedeschi? I cattolici sono la metà della popolazione tedesca. Ma non lo dice Moni Ovadia questo, questa è la dichiarazione del sinodo dei vescovi cattolici tedeschi del 1995. I


Fotografia di Piergiorgio Cattani

Paolo de Benedetti Paolo De Bendetti (Asti, 1927) Teologo, biblista con laurea in Filosofia all'Università di Torino. Docente di Giudaismo alla Facoltà Teologica dell'Italia settentrionale di Milano e di Antico Testamento agli Istituti di Scienze Religiose delle Università di Urbino e Trento. Inizia giovanissimo a lavorare presso l'editore Garzanti, diventando negli anni curatore editoriale di numerose case editrici. Conosciuto anche grazie alla trasmissione di Rai Radio Tre, «Uomini e profeti», ha all'attivo numerose pubblicazioni. Nel 2006 la rivista «Humanitas» gli dedica un intero numero, dove tra i diversi omaggi si possono leggere quelli scritti da: Carlo Maria Martini, Umberto Eco, Sergio Natoli e Amos Luzzatto. Di lui Mario Bendiscioli ha detto: “Ne sa una più degli angeli”.

Paolo De Benedetti, Teologia degli animali, Morcelliana 2007 Piergiorgio Cattani, Dio sulle labbra dell'uomo, Il Margine 2006

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bertà sulle tavole”. Ossia i comandamenti, la volontà di Dio è fonte della nostra libertà. Esiste secondo lei una verità laica, capace di liberare? Beh, sì. Io non farei una distinzione, non vorrei una distinzione molto netta nei riguardi della verità laica. Pensiamo a quei grandi pensatori laici che sono stati maestri di vita, a partire dai filosofi greci e poi attraverso tutti i secoli, ci hanno insegnato tante cose. Quando Dio ha creato l'uomo gli ha dato la capacità di trovare la verità anche fuori dalla religione, nell'esperienza col creato, con gli animali. Naturalmente la verità laica non è in contrapposizione a una verità di un credente e sotto certi aspetti anche quest'ultimo professa una verità laica. Faccio un esempio: quando io dico 6x8=48 dico una cosa vera ma non è religiosa, ossia gli ambiti della verità sono vastissimi, includono quella verità come fedeltà e libertà, ma anche quella verità

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“La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Lei come traduce questa verità che libera? Io mi rifaccio al termine biblico ebraico, che descrive la verità non solo come un fatto conoscitivo ma come un fatto morale, come una fedeltà. La verità è un atto non solo intellettuale o intellettivo, ma coinvolge il nostro cuore, la nostra anima. La verità ci libera da quella quantità enorme di pregiudizi, di sospetti, di sentito dire, di dubbi. Poi nella domanda c'è una cosa molto importante: la verità che libera. Questo è fondamentale. Nella Bibbia, quando Dio dà le tavole della legge c'è scritto: “Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole” (Es 32,16). Ora in ebraico scolpita si dice charut, ma siccome in ebraico si scrivono solo le consonanti e non le vocali, i maestri d'Israele hanno detto, che si può leggere anche cherut che vuol dire libertà. Quindi il versetto si può anche intendere, “le parole erano opera di Dio, li-

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Intervista a cura di Francesco Benanti, Stefano Paternoster


che consiste nell'uso dell'intelligenza e della ragione. Nella sua vita ha conosciuto molte persone che ritiene esempi di libertà? Potrebbe parlarci di qualcuno di loro? Potrei fare un elenco: Don Milani, Alessandro Galante Garrone, un grande magistrato e maestro di vita di 30 anni fa. Penso anche ad un maestro di verità della prima metà del secolo scorso, quel pastore protestante tedesco impiccato da Hitler negli ultimi giorni della guerra, che si chiamava Dietrich Bonhoeffer. In italiano sono uscite le lettere dal carcere con il titolo: «Resistenza e Resa». Veramente Bonhoeffer è il maestro di verità per i credenti e per i non credenti è davvero unico. Ma potrei continuare ancora: Papa Giovanni XXIII, Adriana Zarri, Luigi Einaudi, Madre Giovanna Dore, una monaca sarda di cui sono state pubblicate dopo la sua morte le lettere. Per non essere troppo ristretto vorrei citare ancora una persona per me fondamentale, ma che voi ovviamente non conoscete: mio padre. Ci sono sempre delle persone che sono esempio di verità e di libertà, alcune note in tutto il mondo, altre conosciute solo in un piccolo ambito, ma sono ugualmente importanti. In quest'epoca, in cui sempre più spesso si sente la spinta a “liberarsi dalla religione”, perché vista come ostacolo per una vita più pacifica e libera. Lei come immagina un mondo senza religione? Bisogna vedere cosa pensiamo quando parliamo di religione, perché nella parola religione ci sta il bene e il male. Faccio un esempio: il fanatismo religioso islamico oppure la superstizione o la bigotteria, sono tutte forme di religione, ma non rappresentano di certo un aspetto positivo. Liberarsi dalla religione è un termine che si può leggere in modo positivo o negativo. Se io mi libero dalla religione come rinun-

cia della mia libertà e della mia ragione, come superstizione, come fanatismo, allora liberarsi da questa religione è in qualche modo volontà di Dio, ma quando invece liberarsi dalla religione si intende, come al tempo del comunismo sovietico, la negazione del divino e addirittura il divieto di professarlo, allora non ci sto. Potrei dire sintetizzando: io devo continuamente liberarmi da un certo tipo di religione, che può salvare un altro tipo di religione. La laicità intesa come opposizione alla religione non l'accetto, se non in opposizione alle religioni bigotte di cui parlavo prima, oppure come diceva Bonhoeffer, noi “dobbiamo agire al cospetto di Dio, come se Dio non ci fosse”. Una frase che potrebbe sembrare difficile, ma riflettendoci questo è un esempio religioso di laicità. Indubbiamente la religione può essere liberante, ma anche ridurre l'uomo schiavo della paura. Al di là dell'uso che ne può fare ogni singolo uomo, c'è qualcosa di specifico nella religione stessa, che può aprire la porta alla libertà o alla sua privazione? Nella storia delle religioni ci sono tutte due le cose, che in parte derivano da aspetti negativi di certe religioni come il fanatismo islamico, ma altre volte derivano dall'uso improprio che l'uomo fa della religione. Quando nel Medioevo i crociati partivano per attaccare, gridavano: “Dio lo vuole”. Ecco, questo è un uso improprio della religione. Non solo perché poi lo realizzavano massacrando, ma anche perché io non posso parlare a nome di Dio, se non quando riferisco quello che Dio ritengo mi abbia detto nella rivelazione, nella Bibbia, nella tradizione. Ogni religione segue una morale che ritiene certi comportamenti come leciti o meno leciti. In che modo questi limiti salvaguardano la libertà invece che limitarla?

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Bisogna dire che nel mondo cristiano ci sono stati molti fraintendimenti, dovuti anche a certe espressioni malintese di San Paolo. I precetti sono la realizzazione di quello che un pensatore tedesco dei nostri tempi, aveva espresso con le parole: “Dio sta nel dettaglio”. Ossia non è che noi usiamo il rapporto con Dio andando in estasi, dimenticando il mondo e sognando, ma nella quotidianità. Dio ci ha dato tanti precetti, come quelli della kasherut, che non hanno nessun aspetto particolarmente religioso. La kasherut sono le regole alimentari, per cui certe cose non si possono mangiare assieme ad altre. Per esempio nella Bibbia c'è scritto: “Non cuocerai il capretto nel latte di sua madre”, che è un comando commovente. Bene gli ebrei per essere sicuri che questo non avvenga in nessun caso, hanno vietato nell'alimentazione ogni mescolanza di cibi provenienti dal latte e dalla carne. Ma ci sono anche dei precetti che non hanno alcun aspetto morale, per esempio lavarsi le mani prima di mangiare o nell'agricoltura. Il significato dei precetti nel mondo cristiano non è ancora molto compreso, ma è quello di farmi ricordare Dio nelle cose quotidiane e profane. Siccome i precetti, secondo la tradizione sono 613, nella mia giornata, dall'alzarmi all'andare a letto, incontro tanti precetti che non hanno nessun contenuto teologico, ma sono dei promemoria di Dio e quindi in un certo senso sono come i sacramenti cristiani. Un sacramento è una realtà materiale, ad esempio pane e vino, quindi non religiosa, in cui però c'è una presenza divina e i precetti sono comandi apparentemente profani in cui però, eseguendoli, mi incontro con Dio. Ecco perché l'esecuzione dei precetti significa che nella mia vita quotidiana anche se non prego, ma sono un

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Vorrei leggere un piccolo brano del libro biblico del Deuteronomio, quando Mosè scende dal monte Sinai, dove ha ricevuto le tavole della legge e dice: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare, perché tu dica: chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.” E poi termina con queste parole che sono forse il culmine di ogni vera religione: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme […] io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza”, sono parole di Mosè al popolo. Ecco, Dio ci pone di fronte ad una scelta, vuole che la nostra alleanza con Lui non sia una cosa istintiva, innata, ma sia una decisione, un nostro rispondere sì, quando avremmo anche la possibilità di rispondere no. Scegliere la vita è il venire incontro al fine per cui Dio ci ha creati, ci ha creati per la vita e, anche se attraverso il peccato è entrata la morte nel mondo, tuttavia Dio ha mantenuto per chi sceglie la vita la promessa che la morte non è l'ultima parola. La religione ebraica segue una precettistica molto ampia. Uno degli aspetti più conosciuti è legato alla regolamentazione alimentare, la kasherut. Dietro a questi precetti, c'è un significato più profondo, di quanto si possa pensare?


ebreo osservante, mi imbatto in Dio e incontro Dio in tutti i momenti. Parlando di lei, si cita la cosiddetta “teologia degli animali”, ci vorrebbe spiegare cosa si intende con questa espressione? Dio, dopo il diluvio fa un'alleanza. Il mondo è stato distrutto e Noè esce dall'arca con tutti gli esseri viventi: uomini e animali. Dio fa quest'alleanza con tutti gli uomini, gli animali e gli esseri viventi, ma l'alleanza con gli animali è stata ignorata dai cristiani, che solo adesso cominciano a riscoprirla. Pensate a questa cosa: la parola animale contiene la parola anima. Per Dio creare gli animali non è stato un capriccio e neppure un modo per popolare il mondo appena creato, ma ha voluto incarnare in tantissimi esseri la vita. In ebraico l'esistere e il vivere sono tutti concetti che hanno a che fare con l'anima. Nella Bibbia ci sono dei passi in cui si vede l'amore di Dio per gli animali, amore che noi cristiani ritroviamo per esempio in San Francesco d'Assisi o nei monaci del deserto. Il profeta Giona si arrabbia con Dio che aveva minacciato di distruggere Ninive per i suoi peccati, ma poi non lo fa, perché gli abitanti e gli animali avevano fatto penitenza. Dio allora dice a Giona: “Ma come tu avresti voluto che distruggessi questa grande città, dove ci sono migliaia di esseri che non sanno distinguere la destra dalla sinistra (cioè i bambini) e un numero enorme di animali?” L'amore di Dio per i bambini innocenti è paragonato all'amore di Dio per gli animali e in questo io credo fermamente. Nel mondo cristiano l'amore per gli animali, tranne nei casi che ho citato prima, è stato scarso e da certi ambienti religiosi c'è stato addirittura un disprezzo per chi ama gli animali. Io sostengo, con la pienezza della mia fede, la risurrezione finale degli animali e anche delle piante, perché, se Dio ha

creato tutti questi viventi e la morte li ha distrutti, se Dio non li facesse risorgere, bisognerebbe concludere che la morte è più potente di Dio e questo non si può accettare. Ma non solo, noi in un certo senso possiamo imparare dagli animali: la fedeltà del cane, il sacrificio… la stessa immagine commovente dell'agnello di Dio. Oppure l'aiuto che veniva dato ai contadini o anche le cose belle come il canto degli uccelli. Il mondo animale è quello in cui non è entrato il peccato, se non a opera degli uomini e oggi queste riflessioni cominciano di nuovo ad apparire. Io tempo fa avevo litigato con un vescovo che aveva preso in giro quelli che dicono che a Pasqua non bisogna mangiare gli agnelli e lui aveva detto di stare attenti a non diventare animali pure loro. Io avevo risposto che noi animali lo siamo già e la nostra fraternità con tutto ciò che è vita ci viene da Dio. Nella Bibbia, del resto, troviamo tanti comandi a favore degli animali, ad esempio: “Non devi man-giare se prima non hai dato da mangiare ai tuoi animali”. Per la sua formazione ebraica e per la sua fede cristiana, talvolta ama scherzosamente definirsi “marrano”, anche per aver raccolto in sé, senza negarle, queste due famiglie religiose. Partendo da questo presupposto, a suo avviso come andrebbe inteso il dialogo interreligioso? In Spagna, quando all'epoca di Cristoforo Colombo è iniziata la persecuzione, se gli ebrei non si convertivano venivano espulsi. I marrani erano quegli ebrei che si sono convertiti per finta e praticavano l'ebraismo di nascosto, ma se venivano scoperti erano messi al rogo. Poi il termine è diventato metaforico, per indicare qualcuno che in qualche modo conserva le fedeltà ebraiche. Io l'ho usato per scherzo naturalmente. La mia discendenza, da parte paterna, è ebraica e sono fedelissimo alla tradi-

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Paolo de Benedetti

ma di essere Papa era un diplomatico del Vaticano. I diplomatici sono tutto piuttosto che profeti. La prudenza di Pio XII, con i suoi silenzi, sono stati un aspetto non certamente positivo della sua opera. Era un personaggio in qualche modo autentico, ma di una “religiosità diplomatica” e quindi per non nuocere alla Chiesa non avrebbe mai scomunicato Hitler, anche se Hitler non so se fosse cattolico o protestante. Quindi Pio XII non è un immagine da tener presente nel dialogo di cui parlavamo un momento fa. Come avete detto voi, è una figura molta discussa, su cui non si potrà mai arrivare a un'assoluzione, si potrà arrivare ad una maggiore o minore sottolineatura delle sue assenze, ma a un'assoluzione no. Sempre in questa intervista con Moni Ovadia, si cita il ritorno della preghiera di conversione degli ebrei, deciso da Benedetto XVI. Vorrebbe chiarirci in cosa consiste questa preghiera? La preghiera per la conversione degli ebrei era pessima, nel suo passaggio: “Oremus et pro perfidis Judaeis”, era stata prima addolcita e poi abolita. Non si pregava per la conversione degli ebrei, anche perché la persistenza dell'ebraismo veniva considerata parte del disegno divino. Dio avrebbe potuto far svanire l'ebraismo con Gesù invece non l'ha fatto. La preghiera per la conversione resta, ma la intenderei così: “Preghiamo perché gli ebrei si convertano sempre di nuovo alla loro fede e i cristiani sempre di nuovo alla loro fede”. La conversione, tranne quella di Paolo che è caduto sulla via di Damasco, è un fatto quotidiano che ci coinvolge fino all'ultimo giorno della nostra vita. Comunque il fatto che Benedetto XVI abbia ripristinato questa preghiera lo giudico molto negativamente, anche perché era stata richiesta da certe correnti non molto “evolute” della Chiesa.

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zione che è venuta dai miei antenati ebrei. Pur essendo cattolico e studioso di teologia, celebro le feste ebraiche e considero l'ebraismo come una realtà che non è finita con l'arrivo di Gesù, ma esiste per desiderio di Dio, fino alla fine dei tempi. Venendo al dialogo, lo intendo non come due religioni o due tipi di fede che si mettono a discutere per stabilire quale sia la migliore o per convincere l'altro a convertirsi, questo non è dialogo. Poi ovviamente quando mi occupo di un'altra religione, devo essere rispettoso, quando parlo con un musulmano o un ebreo o un protestante ecc. non devo essere polemico, ma questo è secondario. Nel nostro caso, il vero dialogo deve essere con se stessi, del cristiano con se stesso davanti a Israele. È questo il dialogo: la presenza dell'ebraismo che non è stato abolito nei disegni di Dio e che rappresenta una continua esortazione al cristiano a ripensarsi nei confronti dell'ebraismo stesso. Quindi il dialogo interreligioso è prima di tutto un dialogo con se stessi al cospetto dell'altro e non con l'altro. Dopo il Vaticano II si sono fatti progressi enormi, anche se ci sono stati alcuni precursori. A questo proposito, vorrei citare un mio amico, era un vescovo che ha precorso lo stesso Vaticano II, era Monsignor Piero Rossano di Alba. È a lui che risale l'espressione, che poi è diventata comune nel mondo cattolico, che definisce gli ebrei come fratelli maggiori. In una nostra recente intervista, Moni Ovadia ha espresso un severo parere nei confronti di Pio XII. Confrontando il comportamento avuto dal Pontefice durante la II Guerra Mondiale con l'atteggiamento avuto dal metropolita della Chiesa cristianaortodossa bulgara Stefan. Può spiegarci le sue opinioni su Pio XII, figura ancora oggi molto discussa? Non dobbiamo dimenticare che Pio XII, pri-


Intervista a cura di Andrea Coali, Matteo Previdi, Tiziana Marino, Cecilia Dalla Torre

Eraldo Affinati Eraldo Affinati (Roma, 1956) Vive e lavora nella capitale. Insegna italiano ai minorenni non accompagnati della «Città dei Ragazzi». Collabora al «Corriere della Sera» e a «Famiglia Cristiana». La sua scrittura nasce spesso da un viaggio. Tra i suoi romanzi più famosi, editi da Mondadori, troviamo «Campo del sangue» (1997) e «La città dei ragazzi» (2008).

Eraldo Affinati, Peregrin d’amore, Mondadori 2010

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Eraldo Affinati

i ragazzi avranno l'esame come tutti. Ho comunque margini di libertà, in quanto devo cercare di capire i ragazzi che ho di fronte, spesso orfani, con famiglie difficili. Mi devo mettere a confronto e sento di dover lavorare su due poli: uno è il limite del diploma, che i ragazzi devono prendere e l'altro è il mio istinto che mi spinge a superare questo limite, ad andare oltre il mansionario, a cercare di far crescere i miei studenti, a fargli imparare l'italiano. Sono questi i miei obiettivi. Riguardo a questa idea di libertà: lei ha ragazzi che provengono da culture molto differenti tra loro. Qual è l'idea di libertà che riscontra in questi ragazzi? Qual è il loro senso del limite? Loro sono continuamente tesi a superare i limiti, come nella loro storia personale: hanno varcato frontiere, lasciato famiglie, superato difficoltà da soli. Quindi io devo incarnare anche il limite per loro, devo fargli capire che una libertà assoluta sareb-

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Volevamo chiederle se la scrittura è per lei un sinonimo di libertà, di ricerca di sé, di una maggiore consapevolezza della realtà che la circonda? Sì, la scrittura può essere considerata una forma di libertà in quanto espressione di se stessi: nel momento in cui io esprimo me stesso, è come se segnassi una presenza di me nel mondo. Ha una valenza anche politica e sociale, che nasce magari da un’esigenza interiore, ma che si può trasformare in un valore condiviso da altri. Nel momento in cui cerco di rendere universale la mia emozione, comunicandola ad un altro, diviene libertà. Nell'ambito dell'insegnamento, quanto si può considerare un insegnante libero? Insegno italiano e storia in una realtà particolare, che è la «Città dei Ragazzi», comunità dove vi sono ragazzi anche stranieri con problemi di integrazione. Diciamo che devo mantenere i linee legate al programma ministeriale, in quanto


be un delirio, quasi un vuoto. C'è sempre il momento in cui, se tu accetti il limite, diventi davvero libero. Sembra una contraddizione, ma è la verità: solo nel momento in cui capisci che devi disciplinare il tuo istinto, divieni padrone di te stesso. Quindi devo essere amico e maestro dei ragazzi: due modi diversi di stare insieme che devo far coesistere. E rispetto a noi ragazzi italiani, nota delle differenze comportamentali? Succede ad esempio che un ragazzo asiatico abbia un senso della gerarchia più forte di noi italiani, perché è come se fosse stato sin da piccolo addestrato al rispetto dell'adulto e dell'istituzione. C'è questa differenza, ma è una differenza che lo rende più maturo, in quanto poi si pone il problema del rapporto con l'altro. Molti miei studenti italiani sono invece “in frantumi” in quanto vengono da famiglie molto difficili, con problemi anche di tossicodipendenze o criminalità: lì devi fare anche un lavoro di ricostruzione della personalità. Lei insegna in classi con studenti che hanno personalità e culture spesso agli antipodi. Come fa a conciliare queste differenze? A proporre una lezione chiara per tutti? Se leggi L’infinito di Leopardi, si parla di temi che tutti possono riconoscere: basta superare l'ostacolo linguistico e si può spiegare. Ci sono temi come solitudine e fantasia, bisogno espressivo, crisi dell'essere umano, che appartengono a tutte le culture. Bisogna trovare questi terreni comuni su cui basarsi: ad esempio l'onestà, il bene, il male, sentimenti universali che vanno oltre le differenze linguistiche. Come la musica: passa tutte le frontiere, come gli uccelli. Devi riuscire ad individuare le sensazioni e i sentimenti comuni per poter parlare a tu per tu con loro. Dal punto di vista personale, c'è un autore

che ama maggiormente spiegare ai suoi ragazzi? Sì. Ci sono autori più facili, come il primo Ungaretti: il poeta delle trincee, della scrittura immediata e frammentata. I ragazzi lo apprendono bene. Oppure un certo Leopardi, quello del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, ha atmosfere che un ragazzo afghano può comprendere, forse meglio di noi, per il senso della natura sconfinata. Anche nei libri di avventura molti ragazzi si identificano, ad esempio nel testo di Jack London «Il richiamo della foresta», i ragazzi si immedesimano nella storia del cane rapito che viene portato in Alaska. Il cane ha infatti una storia simile alla loro, fatta di viaggi e sofferenze. In classi interculturali la convivenza è natu-rale o va costruita insieme? Bisogna creare un gruppo. Come scrivo nel mio libro «La città dei ragazzi», creando un gruppo comune si possono risolvere le tensioni che vengono a crearsi: sono inoltre avvantaggiato dal sistema di autogoverno presente in questa. Questi ragazzi si auto eleggono: c'è un sindaco, gli assessori, una moneta locale. È una città con una sua costituzione, le sue leggi. I ragazzi sono quindi protagonisti: tutti si riconoscono in questo sistema generale e nell'assemblea giornaliera ci si rende conto di come questa integrazione si sia realizzata. A 18 anni, quando escono, essi divengono dei cittadini formati, che conoscono il valore delle istituzioni. Lei è definito un professionista della parola, anche come insegnante. Oggi in Italia si discute sull'uso poco trasparente del linguaggio anche nell'informazione, lei che posizione ha al riguardo? Io penso che l'insegnate e lo scrittore siano i responsabili della parola, orale e scritta rispettivamente. Significa anche essere custodi della parola, che dovrebbe essere

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presente l'ostacolo della libertà, ma anche la bellezza della libertà. L'ostacolo è continuo: la tua libertà è continuamente minacciata da quella altrui e quindi c'è sempre un confronto, appassionato e rischioso. Arriva però anche il momento in cui invece si vedono delle cose belle: un esempio che posso fare è quello di un mio ragazzo. Un giorno entro in classe e trovo un ragazzo nuovo, molto difficile, che non accettava il confronto con la scuola, litigava con i professori ed era stato mandato via diverse volte. In quel caso sono riuscito a prenderlo da parte, a fare una passeggiata con lui e l'ho coinvolto in un mio progetto: gli ho chiesto di venire con me ad insegnare italiano agli stranieri, alla scuola fondata da me e mia moglie la Penny Wirton. Lui è venuto e viene tutt'ora ogni martedì ad insegnare il verbo essere e il verbo avere ai suoi coetanei del Togo e della Sierra Leone. Lì ho visto una grande vittoria mia, ma anche l'insufficienza del sistema scolastico tradizionale: lì era un corpo estraneo, ora in questa diversa e nuova situazione, si esprime, è contento, si è inserito. Ogni suo libro inizia con un viaggio: qual è la prossima meta? Nell'ultimo mio libro ho fatto tantissimi viaggi: è un libro sulla letteratura italiana a partire dai luoghi, dall'Umbria di San Francesco alla Roma di Pasolini. Esco da una serie sterminata di viaggi! Sono andato sul Monte Ventoso sulle tracce di Petrarca, nella Firenze di Collodi, nella Sicilia di Verga e Pirandello, nella Napoli di Leopardi. Ho viaggiato tantissimo: ora è meglio fermarsi un po'!

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frutto di un'esperienza. Se la parola non è frutto di una vera conoscenza, rischia di essere falsa e gratuita. La vera libertà è provare la nostra parola con un’esperienza, è come se la parola certificasse l'esperienza. La letteratura quindi per me è la certificazione dell'esperienza. Non credo di conseguenza in una letteratura d'evasione, ad esempio nella letteratura fantastica, sebbene sia giusto che esista. Io credo che la parola sia frutto di una vita, non solo di un'abilità. Esperienza dietro la scrittura: la scrittura deve far diventare l'esperienza universale, altrimenti lo scrittore sarebbe un giornalista. Ci può raccontare un immagine del suo libro, un'esperienza che considera simbolo di libertà? Devo essere autobiografico: la vera esperienza di libertà per me è la classe. Lì è


Roberto Keller Roberto Keller (Rovereto 1969) Laureato in Lettere moderne all'Università di Trento, ha negli anni lavorato come educatore sociale e panettiere. Attualmente si occupa di comunicazione, copywriting, uffici stampa ed editoria. Appassionato di montagna, di viaggi, da sempre coinvolto nella promozione culturale nella propria terra. Nel 2000 fonda l'associazione «Dissonanze Armoniche», con la quale porta in Trentino alcuni dei migliori nomi della musica d'autore, elettronica e di ricerca, della scena indipendente nazionale ed estera. Nel 2005 raccoglie i propri risparmi e dà vita alla Keller editore, piccola casa editrice attraverso la quale pubblica libri di qualità, caratterizzati da un attento lavoro di redazione, grafica e confezione. Nel 2009 diviene un caso editoriale, essendo l'unico editore, per giunta indipendente, ad aver pubblicato in italiano il premio nobel per la Letteratura Herta Müller. Nello stesso anno vince il «Premio città di Fiesole» come miglior esempio di imprenditoria culturale. Santiago Roncagliolo, di lui dice: “Credo fermamente che Roberto Keller per il suo infaticabile lavoro e il gusto delle sue edizioni è sulla via giusta per diventare un grande editore. Ma anche se non arrivasse ad esserlo nessuno gli toglierà la passione (o il sorriso)”. Herta Müller, Il re s'inchina e uccide, Keller editore 2011 Vosganian Varujan, Il libro dei Sussurri, Keller editore 2011

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miltà, perché le dimensioni da cui si partiva erano e sono minimali. Lo scopo era arrivare ad un pareggio di costi di produzione, questa era l'aspirazione iniziale, e permettere a chi lavorava in questa casa editrice, a me e a chi si avvicinava, di crescere e di trovare nell'editoria un piccolo laboratorio culturale, per scoprire nuove idee e per veicolarle. Che formazione aveva per affrontare questo lavoro? Mi sono formato attraverso dei corsi specifici: sul codice dell'editore e sul diritto d'autore, presso l'AIE (Associazione Italiana Editori). Poi ho seguito un corso presso l'editore milanese «Marcos y Marcos», dove poi mi sono fermato a lavorare per circa un anno. In seguito la scelta è diventata se rimanere a Milano o tornare in Trentino. Devo dire che è stata una scelta di qualità della vita, per chi abita in campagna vivere a lungo in una città così è molto difficile. Va detto che per l'editoria, Milano

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Perché ha deciso di fondare una nuova casa editrice? L'idea di lavorare nell'editoria c'è sempre stata e a un certo punto della vita devi decidere di fare delle scelte importanti. Quando ho visto che gli anni stavano passando, mi sono reso conto che il lavoro che mi piaceva, era quello di trovare nei libri un percorso di conoscenza e di interpretazione della realtà. L'idea di fondare la casa editrice è stata una conseguenza, che ha significato fondare in Trentino un qualcosa che prima non c'era. Una casa editrice indipendente, che si autofinanziasse con le vendite in libreria e soprattutto di stampo internazionale, che facesse cioè del Trentino il punto di partenza per andare a vedere che cosa succede di bello nella letteratura e nella saggistica non scientifica all'estero, soprattutto in Europa ma anche nel Nord e Sud America. Cercare infine di impiantare questa realtà qua, sempre e comunque con grande u-

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Intervista a cura di Matteo Tamborski


e Roma rappresentano due punti di riferimento, le possibilità di formazione che offrono queste due città sono impensabili per il resto d'Italia. La vera domanda è: “Perché scegliere la provincia?” Nel campo culturale la provincia è davvero provincia, nel senso che è periferia. Non bisogna dimenticare però che in certi momenti della storia, la provincia ha rappresentato la salvezza per le capitali, pensiamo alla Spagna per i Romani, da lì sono venuti gli sguardi più innovativi. Da una parte, quindi, c'è la speranza di fare un progetto editoriale in maniera più libera, dall'altra vuol dire fare una fatica immensa; però alla fine si può decidere di rischiare! In Trentino, con una popolazione molto risicata, si può contare su pochissime librerie e si deve per forza confrontarsi con un mercato più grande e per arrivare ai canali di informazione devi fare il doppio di fatica rispetto agli altri. Se lavori a Milano, in due settimane puoi conoscere personalmente i giornalisti dell'ambiente, mentre farlo da qui diventa molto più difficile. Tutti questi passi in salita ci hanno però aiutato a fare le scelte giuste, puntando soprattutto sulla qualità, perché solo così potevamo sperare di farci conoscere ed essere riconoscibili, individuando poi di conseguenza un progetto chiaro a livello editoriale. Ha scelto il Trentino per la maggiore libertà? No. Volevo fare una cosa che non c'era nei luoghi dove sono nato, che amo e dove penso passerò il resto della mia vita: questa è la cosa principale. Poi si possono fare delle riflessioni sui pro e sui contro di averla creata in Trentino. I pro sono che comunque è una realtà più libera, dove forse hai anche più piacere di costruire le cose per la prima volta. Questa può essere una cosa bella ed appagante. I contro sono che sei comunque in periferia rispetto ai

grandi centri della comunicazione editoriale e dell'informazione. I grandi nomi che possono aiutarti a veicolare i tuoi libri e i progetti che proponi, sono altrove; quindi per arrivare a quei nomi, a quegli organi di informazione, rispetto ad un editore romano, si fa molta più fatica; dall'altra parte è vero che l'editore romano ha molta più concorrenza, città come Roma e Milano messe assieme arrivano al 90% degli editori italiani, quindi siamo a più di settemila editori. Un aspetto per noi importante, legato al fatto di lavorare in Trentino, è la volontà di contribuire a formare figure professionali legate all'editoria, che possano restare sul territorio. Per es. il nostro ufficio stampa è qui a Trento, forse sarebbe più efficace affidare tutto ad un'agenzia di Milano, ma l'idea è di costruire qualcosa che rimanga e possa crescere anche da noi. Promuovete scrittori locali? No, abbiamo fatto solo due pubblicazioni con autori locali, l'attenzione principale della Keller è sulla narrativa straniera. Ma allo stesso tempo crediamo che una casa editrice debba far riflettere anche sui luoghi in cui si trova. Una domanda che era sorta a livello letterario, è stata: “Come mai in una regione che è attraversata da Nord a Sud dal secondo fiume d'Italia, l'Adige, non ha una produzione letteraria su questo fiume?” Noi abbiamo solo qualche poesia, mentre nella Pianura Padana, del Po si sono interessati grandi autori ma anche i grandi cantautori. Noi scriviamo di montagna, però abbiamo dimenticato una cosa essenziale: l'Adige. Così ho chiesto a quattro autori locali e a quattro autori che scrivono di fiumi in altre parti d'Italia, di scrivere un racconto dove il tema di ordine generale fosse il fiume, l'acqua; da lì è nato «Voci di fiume», il primo libro della Keller editore.

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Ogni anno muoiono tantissime case editrici, specialmente tra chi pubblica narrativa straniera, perché i costi sono alti e per ammortizzare gli investimenti devi vendere molte copie e non è facile A cosa porta l'accentramento del potere editoriale e del mercato nelle mani di poche grandi case editrici? L'editoria è industria, è impresa, quindi ragiona con gli stessi meccanismi con cui ragionano Fiat e i grandi gruppi di produzione di beni, solo che qui c'è di mezzo la cultura ed è diverso! Cosa porta questo accentramento? Porta ad un mercato che in realtà è dominato da pochi non solo nella produzione dei libri, ma anche nell'intera filiera che porta alla vendita. Viene naturale fare il discorso piccolo contro grande, buono contro cattivo, Davide contro Golia, ma probabilmente sbagliamo, perché sarebbe una battaglia persa in partenza. È come quando uno vuole porsi fuori dalla società, pensando che tutto quello che è dentro la società sia sbagliato e non riesce a trovare dei compromessi. Il problema grosso è che le librerie hanno spazi sempre minori per i piccoli editori di qualità, anche perché molte librerie a causa dello stesso meccanismo sono costrette a chiudere. Non è che i piccoli fanno cose di qualità e i grandi no, ma i grandi hanno anche altri bisogni, allora quello che spetta ai piccoli è avere buone idee e dei progetti molto chiari, visibili, riconoscibili e giocarsi tutto su questo. È ovvio che può essere difficile, perché se pensiamo che tre gruppi editoriali come Mondadori, Rizzoli, Gems e Feltrinelli, insieme producono circa l'80% dei libri in commercio, capite facilmente quali sono i rapporti di forza. In libreria diventa molto difficile conquistare degli spazi e per farlo bisogna mettere in pratica idee nuove. Gli editori devono puntare sulla qualità. Dire qualità vuol dire tutto e

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In un mondo editoriale, come quello della Provincia di Trento, dove la gran parte degli editori pubblica solo autori locali e vende solo a livello locale, la nascita di un editore come Keller che tipo di reazioni ha suscitato tra gli altri editori e tra chi veicola l'informazione culturale in Trentino? Non hai rischiato di essere considerato uno snob? Un progetto editoriale come il nostro era particolarmente rischioso, tanto che il commento più diffuso è stato: “È una scelta coraggiosa”. Diciamo che questo è un sinonimo per dire qualcos'altro... diciamo per sottolineare il rischio. Poi il Trentino mancava di una tradizione editoriale di questo tipo, anche se qualcosa era già cominciato con Nicolodi e, forse a causa del suo essere anomalo rispetto al contesto, non ha permesso al nostro progetto di essere compreso fino in fondo. Noi viviamo una sorta di strano strabismo. Abbiamo un fortissimo sistema bibliotecario, una media di lettori molto alta, una media d'istruzione buonissima, una serie di istituzioni e di Festival culturali straordinari per la loro capacità di guardare all'estero. Tutto questo permette alla realtà locale di vivere la cultura internazionale. Dal punto di vista editoriale questo non c'era e non c'è. Resto comunque dell'idea che ogni realtà editoriale vada rispettata, perché fare l'editore è un mestiere difficilissimo. Probabilmente quella che abbiamo voluto percorrere - una casa editrice specializzata sull'internazionale - è una strada nuova che ha stupito, ma che oggi con quello che è successo negli ultimi due anni, ma anche per il lavoro di altri editori come Zandonai, permette di pensare ad una realtà editoriale che sa guardare fuori dal Trentino in maniera qualitativamente buona. Detto questo, la perplessità, di cui abbiamo parlato, esprime anche una situazione reale.


niente, però un lettore, che ha tra le mani i libri della Keller, deve essere sicuro di non aver preso una fregatura. Poi bisogna lavorare sui lettori, anche se tutta la società sta andando in senso opposto. I lettori devono essere riportati a poter scegliere. I grandi editori sono molto forti perché lo sono in senso trasversale, non sono solo possessori di casa editrice, ma sono anche possessori di organi di informazione, quotidiani e magazine che fanno tendenza ed hanno maggiore possibilità di veicolare i lettori su libri di loro interesse. Bisogna puntare sui lettori, dai circoli di lettura alle biblioteche, perché resista quella che potremmo chiamare la “bilblio-diversità” e questo è anche lo scopo delle piccole case editrici. Certi libri, come quelli di Herta Müller, non sono interessanti per i grandi editori, mentre lo sono per un piccolo editore. Poi Herta Müller ha vinto il Nobel, quindi forse era un libro importante. Vale la pena che resistano questi editori che offrono la possibilità di scegliere ai lettori. Questa educazione deve essere fatta da più settori, la scuola deve formare bene, i lettori devono capire di poter scegliere, i librai devono permettere ai lettori di scegliere, anche se pure loro sono strozzati dall'andamento economico attuale. La differenza tra piccoli e grandi editori sta nel fatto che i piccoli puntano sulla qualità e i grandi sul puro ritorno economico? No, la qualità non c'entra. Grandi editori, come ad esempio Einaudi secondo marchio italiano in editoria, sono sinonimo di qualità, ricerca, curiosità e grande cultura. Tutti gli editori devono puntare sulla qualità, ma per i piccoli è ancora più necessario, perché hanno meno armi a loro disposizione. Tutti hanno lo stesso sogno: “Scoprire il best-seller da cento, duecento, un milione di copie”. Per i piccoli la possibilità di “accedere” ai best seller è molto inferiopresenti 198


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I piccoli editori nel contesto dell'oligopolio editoriale possono rappresentare in qualche modo la presenza di un indice di libertà? Più o meno. La libertà c'è perché in qualche maniera è tutelata dalla Costituzione. Puoi essere editore e pubblicare idee, ma poi devi anche farla vivere questa casa editrice. In effetti da questo punto di vista gli spazi, per i piccoli editori indipendenti, si stanno sempre più riducendo, perché stanno venendo meno le librerie indipendenti. Per fortuna non vengono meno gli editori e mi piace pensare che sia molto radicata la voglia di fare editoria come impresa libera, rappresentazione delle proprie idee, di nuove prospettive e nuovi sguardi sul mondo, anche se attraverso i romanzi. Penso che questa editoria rappresenti una parte sana della società, desiderosa di costruire un'impresa che sappia trasmettere idee e cultura. Poi sugli spazi economici bisogna fare dei compromessi, vivere di cultura è molto difficile. C'è chi magari ha la fortuna di affiliarsi ad un grande gruppo, c'è chi invece ha la fortuna o bravura di aver imboccato un filone editoriale importante. Io ho fatto altri lavori per pagare i miei libri, è ovvio che è stata una fatica e lo è ancora, ma rispetto ad una volta adesso alcuni libri si pagano. L'editore sa che deve fare anche lui dei compromessi e sa che all'interno del proprio progetto, dovrà scegliere dei libri a discapito di altri e magari, senza alterare troppo il progetto editoriale, inserire nel catalogo uno o due libri più spendibili rispetto al mercato (sempre che abbia la fortuna o la possibilità di trovarli e acquistarli). Detto questo, penso che ci sia ancora una nicchia si libertà, ma sulla possibilità che questo si trasformi in business, sono un po' più pessimista. Perciò il valore aggiunto dei piccoli editori?

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re, perché la capacità economica non c'è e per questo la loro dev'essere un'editoria di progetto. Quando un lettore prende un libro Keller sa che prende un libro di qualità, che non costa troppo, che non avrà troppi errori nel testo, che la traduzione sarà affidabile e che l'oggetto è anche molto bello. Poi ci vuole tempo, dopo cinque o sei anni anche noi incominciamo ad avere una serie di lettori affezionati; i lettori o i giornalisti ci dicono che il nostro progetto ha in sé un filone riconoscibile, mentre all'inizio non era così visibile. Questo vuol dire che una casa editrice richiede una grande fatica per essere fondata e una fatica forse maggiore per essere portata avanti, facendola vivere e conoscere in questo modo. Poi detto questo ogni editore delle nostre dimensioni naviga a vista e sa che la chiusura è sempre dietro l'angolo. Uscirei dal discorso del confronto tra piccolo e grande, perché sarebbe deleterio per il piccolo. Ma dobbiamo avere chiaro che ci sono delle cose da difendere. Non solo la qualità, ma anche il prezzo del libro. Un grande gruppo che pubblica 1500 titoli all'anno e vende 12 milioni di copie, può permettersi di fare dei prezzi molto concorrenziali. Fino a poco tempo fa, chi possedeva anche delle catene libraie poteva permettersi di fare degli sconti molto importanti, questo comportava che il lettore medio comprasse il tascabile del grande editore piuttosto che il libro del piccolo editore. Su questo aspetto è stato necessario intervenire. Adesso si guarda quanto sta accadendo all'estero, a leggi internazionali, che esistono per esempio in Francia o Germania sul prezzo del libro, in base a cui non si possono fare sconti oltre una certa percentuale. Questo tutela anche le librerie, perché, se io ad esempio apro una libreria a fianco di una grande catena che può permettersi il 20% di sconto, chiudo nel giro di sei mesi.


L'esistenza dei piccoli editori è essenziale per la biblio-diversità. Dal '400, da quando è stata prodotta la prima Bibbia e la prima stampa a caratteri mobili, non c'è stata nessun’idea che non sia stata veicolata attraverso un libro. Nessun progresso scientifico, culturale di nessun tipo può prescindere dai libri, vuol dire che in sei secoli tutto ha avuto un passaggio attraverso un prodotto editoriale. In questo senso, l'esistenza dei piccoli editori in sé garantisce la ricchezza di punti di vista. Per questo esistono delle regole, che adesso andrebbero rafforzate, per garantire l'esistenza dei piccoli editori. Quest'anno c'è stata la battaglia sul prezzo del libro, che ha messo insieme piccoli e medi editori e che è arrivata fino al Parlamento. Si è arrivati a una proposta di legge che, seppur debba seguire ancora il suo iter, rappresenta una sorta di compromesso, stabilendo un numero limitato di promozioni e uno sconto massimo del 15%. Si tratta di un primo passo verso il mantenimento di un pluralismo di voci di cui abbiamo bisogno. Anche perché, come esistono giornali di destra di sinistra e indipendenti, così esistono editori di ogni tipo e forma, questa è la palestra in cui il lettore e il cittadino si forma, trova le idee in cui si specchia, ma anche le idee che lo fanno spaventare e le idee che odia. Adesso spesso tutto viene sostituito dal mezzo televisivo, però penso che ancora non si possa fare a meno della “stampa”, è troppo importante. Lei ha avuto la fortuna di pubblicare un Nobel. Ma cosa deve fare un editore per poter sopravvivere nel mercato? Beh, se lo avessi saputo, non avrei avuto bisogno di Herta Müller… no, scherzi a parte, devo dire che per noi Herta è stata davvero “il giro di boa”, perché ci ha garantito di sopravvivere con tranquillità per un anno, anche se adesso è tutto da rivedere. Al

di là della disponibilità finanziaria, che ci ha permesso alcune acquisizioni di diritti di autori sui nostri target, il Nobel è stato importante, perché ha acceso i riflettori sulla Keller editore e su di un progetto che era sconosciuto ai più, perché siamo in provincia, perché siamo piccoli, perché il nostro modo di fare le cose e le possibilità finanziarie erano quelle di qualsiasi persona che lavora e fa trenta lavori per pagare un libro e arrivare alla fine del mese. Ora non siamo più un editore, tra virgolette, “qualsiasi”, ma un editore che ha una sua piccola storia, un suo catalogo e che ha avuto finalmente la possibilità di farsi conoscere. Ovviamente da adesso la strada è ritornata in salita, perché i pareggi sui libri sono diventati durissimi da raggiungere. Per sopravvivere l'editore deve avere un progetto editoriale chiaro e sapere che non si fa questo mestiere per arricchirsi, perché tutti quelli che l'hanno fatto non si sono arricchiti; anzi... molti hanno chiuso e impegnato i propri beni. Ci sono editori storici che vivono di poco e sono indebitati, perché questo è un mestiere che si fa per passione. Le cose che si fanno per passione richiedono sofferenza, non a caso noi usiamo per qualsiasi casa editrice il nome di impresa editoriale e l'impresa non è solo quella dei cavalieri del '500, azioni sovrumani che si dovevano compiere per raggiungere l'amore della fanciulla amata... l'impresa è questa: una creazione che si realizza con grandissima fatica. Il fatto che in Italia il Nobel della letteratura del 2009, provenisse da un piccolo editore, che tipo di reazione ha avuto nel pubblico, nella critica e negli altri editori? Beh, il caso Herta Müller è un caso penso mai accaduto prima, perché se non ci fosse stato il libro pubblicato dalla Keller editore, per la prima volta nella storia dell'editoria italiana, non ci sarebbe stato in ven-

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Roberto Keller

la ristampa di decine di migliaia di copie, trovando i soldi per farlo, andando a chiedere prestiti ad amici e parenti, perché erano veramente molti soldi! La gioia c'era, ma era già coperta da tutto questo, poi per fortuna ci sono state tante persone vicine! In ogni caso nonostante tutti questi problemi sono voluto andare alla fiera, perché questo premio rappresentava un premio di categoria, cioè della categoria dei piccoli e medi editori a cui noi apparteniamo e questo ci è stato riconosciuto da tutti. Si è poi instaurato un grande legame con tantissimi altri piccoli medi editori e penso che questo mio gesto sia stato sentito da me in primis e poi dagli altri. Ma la reazione dei grandi editori, che si sono lasciati sfuggire un Nobel? Racconto questo episodio. Quando Herta è passata ad un grande editore come Feltrinelli, un giornalista del «Riformista» mi ha chiesto cosa ne pensavo. Ho risposto che “un grande autore ha bisogno di un grande editore” che lo protegga e che lo promuova. Io ero felice della cosa perché il mio compito in questo momento è quello di scoprire. Dopo qualche settimana, Carlo Feltrinelli mi ha chiamato per ringraziarmi di questa dichiarazione. È stato un gesto di grande eleganza e umanità. Come hai reagito alla notizia del Nobel? Come detto ero in furgone che stavo andando a Pisa, avevo il telefono spento e quando l'ho acceso mi è subito arrivata una telefona da parte di Fabio De Santis, giornalista de «l'Adige» e mio carissimo amico, che mi dice di tornare in dietro perché una mia autrice ha vinto il Nobel. L'ho mandato a quel paese, perché la casa editrice era in un momento difficile, e anche le motivazioni erano sempre meno. Quando mi sono reso conto che la notizia era vera, mi sono sciolto in un pianto di gioia, ma anche di rabbia. Rabbia per la fatica e i

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dita nemmeno un libro scritto dal premio Nobel vincitore dell'anno. Nei lettori ha suscitato un grandissimo effetto simpatia, tant'è che le vendite di Herta Müller sono maggiori per il nostro libro, rispetto a quelli pubblicati dai grandi editori italiani. Penso che almeno una buona parte delle vendite della Keller editore di Herta Müller sia stato dovuto ad un effetto simpatia nei confronti della nostra casa editrice ed essendo il nostro l'unico libro del premio nobel in commercio, l'hanno subito abbinato alla casa editrice. Nei critici la reazione è stata abbastanza diversificata, non tanto verso la Keller, ma verso la Müller perché alcuni critici sostenevano che era un premio Nobel di tipo politico e non aveva un grande valore letterario, perché magari non era nell'elenco dei cinquecento scrittori più importanti che loro conoscevano. A me questo non tocca affatto. Herta Müller ha sempre avuto una propria visione politica, ha dato voce agli ultimi, ai diseredati, agli espatriati. Comunque c'era chi diceva che non lo meritasse, anche se secondo me questa è miopia, perché Herta era un'autrice tradotta in quindici lingue e molto conosciuta ancora prima del Nobel. Moltissimi critici hanno però avuto verso la Keller tantissima simpatia per il suo modo semplice e umile di fare le cose, andando avanti per la propria strada. Forse un modo che potremmo definire trentino. La cosa che forse più ci ha colpito è stato proprio questo forte affetto trasversale verso la casa editrice. Gli altri editori? Quando è arrivata la notizia del Nobel, stavo andando a Pisa alla fiera della piccolamedia editoria, che rappresenta per noi editori indipendenti una delle fiere di riferimento. Devo dire che quei due giorni sono stati per me un inferno: ero cercato da tutti, in Italia e all'estero, dovevo organizzare



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Roberto Keller

problemi che stavo affrontando come editore. Tante emozioni contrastanti, una reazione molto umana, anche di fragilità. Del Nobel io ricordo questo e l'etichettatura dei libri. Dovevamo etichettare venti mila copie in due giorni, e per farlo si sono presentati molti amici ma anche persone che non conoscevo. Devo dire grazie a tutte le persone comuni, che dopo il loro lavoro sono venute a dare una mano, per me è stato un gesto di una generosità e di un'umanità che non dimenticherò mai. In questi giorni ho visto editori indipendenti nati con me, costretti a chiudere. Quando questo accade, ricordi con molto realismo l'estrema difficoltà di tenere in piedi una casa editrice indipendente. Nella mia mente, come nel cuore, è sempre presente questa doppia faccia della medaglia.


Enrico Molteni Enrico Molteni (Ferrara, 1976) musicista, discografico e da sempre ascoltatore innamorato della musica. Bassista nei Fargo, gruppo malinconico di scuola statunitense, e nei Tre Allegri Ragazzi Morti, gruppo tra i più conosciuti nell'ambito del rock-italiano. Nel 2000 dà vita alla casa discografica indipendente «La Tempesta Dischi», definita dallo stesso Molteni come “collettivo d'artisti”. In undici anni di presenza e in piena crisi del mercato discografico, il numero di pubblicazioni ha ormai raggiunto quota 45, contando alcuni dei nomi più conosciuti e rappresentativi del panorama nazionale: Il Teatro degli Orrori, Massimo Volume, Le Luci della Centrale Elettrica. Nel 2010 nasce La Tempesta International, sigla con la quale la casa discografica si apre verso l'estero, cercando di divenire un ponte per esportare la musica italiana e importare quella straniera.

www.latempesta.org

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Intervista a cura di Giuseppe Radente, Filippo De Vigili

Enrico Molteni

Tra gli artisti da voi promossi ce n'è uno che ha riscosso particolare successo? Ha avuto particolare successo il primo disco de “Il Teatro degli Orrori” che, nonostante il suo sound d'impatto, ha venduto parecchio; da ricordare c'è anche “Le Luci della Centrale Elettrica” che ha avuto un promettente esordio, vincendo persino il premio Luigi Tenco. Cosa ne pensi della musica italiana di oggi? Ultimamente c'è parecchia musica che vale la pena ascoltare; mi ricordo che da bambino non era così, si era molto più attratti dalla musica straniera, come quella inglese o americana. Sinceramente, non so se questo mio parere derivi dal mio mestiere o se effettivamente sia così. Bisogna comunque dire che oggi un gruppo ha le possibilità di farsi conoscere grazie a internet o anche a strette cerchie di club che valorizzano la musica live. Un fatto divertente è che si dica che, durante i periodi di crisi, viene prodotta di solito musica di qualità: quindi, questo potrebbe essere un momento molto favorevole. Quali sono secondo te le caratteristiche che definiscono la musica libera? È difficile definire il concetto di libertà in campo musicale; nel caso del mio gruppo abbiamo sempre fatto quello che volevamo, come suonare con le maschere o comporre canzoni strampalate e a volte sconnesse. In ogni caso penso che mai delle persone, anche dotate di piena libertà, comporrebbero mai della musica totalmente incomprensibile.

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Da cosa nasce l'idea di creare una casa discografica indipendente? Nasce nel 2000 per legalizzare tutta l'attività live del nostro gruppo, i “Tre Allegri Ragazzi Morti”; il nome dell'etichetta (“La Tempesta”) è il titolo di una delle nostre prime canzoni. Successivamente ci siamo accorti di avere una struttura di contatti che ci permettevano di essere sul mercato come una vera e propria casa discografica. Cosa significa essere indipendenti? Indipendenti vuol dire poter fare ciò che si vuole quando si vuole, scegliere testi e video, insomma, poter giostrare la propria musica senza essere vincolati dai limiti imposti dalle multinazionali. Come scegliete la musica che producete? Inizialmente non prendevamo in considerazione le demo che ci arrivavano da gruppi che non conoscevamo, per questo ci definiamo un collettivo di artisti; infatti, solitamente produciamo all'interno della nostra cerchia di amicizie. Abbiamo fatto un'eccezione per il disco dei “Pan del Diavolo”, che ci è stato dato dal cantante, ci è piaciuto e che abbiamo pubblicato prima ancora di conoscere bene i musicisti. L'unico requisito che richiediamo è che il testo sia in italiano e che abbia un certo impegno al suo interno, perché noi, alla fine, non produciamo musica leggera. Che spazio ha la musica indipendente in Italia? La musica che produciamo sta incominciando ad avere un suo spazio in Italia grazie a buoni canali di produzione, come ad esempio la Rai e vari canali radio, anche notturni. Comunque questo tipo di musica non è rivolto a tutti, in quanto è di difficile ascolto e comprensione, quindi difficilmente avrà lo stesso spazio di quella prodotta dalle grandi multinazionali.


Daniele Gaglianone Daniele Gaglianone (Ancona, 1966) Laurea in Storia e Critica del Cinema all'Università di Torino. Regista italiano, ha iniziato a realizzare i suoi primi cortometraggi all'età di 23 anni. Nel 1998 collabora alla stesura della sceneggiatura del film «Così Ridevano» diretto da Gianni Amelio e vincitore del Leone d'oro alla Mostra di Venezia. In questi anni ha realizzato documentari, lungometraggi, ha lavorato come regista teatrale ed è docente al Politecnico di Torino. I suoi film hanno partecipato ai più importanti festival internazionali come Cannes, Venezia, Locarno... suscitando forte interesse e riconoscimenti: vincitore del Jerusalem Film Festival 2001 con «I nostri anni»(2000) e “Premio Arca Cinema Giovani” come miglior film italiano a Venezia per il suo secondo film «Nemmeno il destino» (2004). Il suo ultimo documentario «Rata nece biti, (La guerra non ci sarà)» (2008), sulle conseguenze del conflitto bosniaco, è stato vincitore del Premio Speciale della Giuria al 26° Torino Film Festival e ai David di Donatello come miglior documentario di lungometraggio. Il suo ultimo film è «Pietro» del 2010.

Daniele Gaglianone, Gianluca Arcopinto, Pietro, dvd+libro, Derive Approdi 2010


uscito in dvd e inaugura la collana di “Derive e Approdi” che si chiama: Cinema autonomo. Il concetto di cinema autonomo è come dire un concetto più radicale rispetto al cinema indipendente. Il cinema indipendente è una definizione di cinema che unisce un po' di tutto; ci sono anche delle esperienze che di indipendente hanno molto poco. È molto difficile essere indipendenti in Italia, perché non esiste un mercato vero. Di fatto il mercato esiste solo come concetto, quando devono trovare una giustificazione per non darti soldi e ti dicono che non hai mercato, ma poi il mercato in realtà non c'è. L'unico produttore veramente indipendente è De Laurentis che fa i cinepanettoni e se li produce. Poi non è indipendente neanche lui, perché c'è un meccanismo assurdo del finanziamento statale per cui chi supera un certo incasso riceve anche dei soldi. Però le sue produzioni sono indipendenti, perché non sono prodotte né da Medusa, né da Rai Ci-

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Si parla di lei come di un regista che si muove tra cinema indipendente e grandi produzioni. Cosa significa per lei l'espressione “cinema indipendente”? Praticamente passo da progetti a cui la stessa definizione di indipendente va forse un po' stretta, a delle produzioni che potremmo chiamare semplicemente produzioni consuete. Non ho mai fatto film con grandissimi budget, anche quest'ultimo che ho girato in autunno ed è prodotto sia da Gianluca Arcopinto che da Domenico Procacci è un film con un budget medio basso, di un milione e mezzo di euro. Quanto? Beh tu dici: “Ammazza, un milione e mezzo”, ma in realtà sono pochissimi. Poi dipende sempre da cosa devi fare e per questo film non sono tanti. Invece per un'esperienza come quella di «Pietro» e in parte anche quella di «Rata nece biti» girato in Bosnia nel 2008, la stessa definizione di indipendente va un po' stretta. «Pietro» è

Daniele Gaglianone

Intervista a cura di Elisa Bianchini, Stefano Paternoster


nema né dallo Stato, ma da lui. Il termine cinema indipendente, dopo l'esempio che ti ho fatto, dovrebbe essere usato forse in modo più parsimonioso. Comunque è una parola che secondo me ha fatto anche un po' il suo tempo. Forse la definizione di cinema autonomo è più calzante per quel mondo che si occupa del cinema e che in qualche modo cerca di farlo fuori dagli schemi consueti, fuori dalle vie normalmente battute. «Pietro» è un film che abbiamo prodotto noi, col nostro lavoro, anche col lavoro del produttore, perché Francesco Arcopinto è riuscito a trovare i soldi. Un regista imbocca la “via dell'indipendenza” per una scelta personale o perché, a causa di contenuti scomodi, non riesce a trovare i fondi per girare? Un po' tutti e due, nel senso che è sicuramente un'attitudine caratteriale, però è anche vero che tornando all'esempio di «Pietro», si trattava di un film che nessuno voleva fare. Appena parlavamo di questo film con qualcuno, non si arrivava alla seconda frase dell'esposizione del soggetto, tutti ci fermavano prima. Certamente c'è anche un meccanismo di autocensura, il panorama degli interlocutori è così deprimente che spesso tu abortisci delle idee che hai avuto e che poi non porti avanti, perché tanto dici: “'Sta roba qua non potrò mai svilupparla”, quindi non la fai. Però nessuno ti ha censurato, sei tu che rinunci. L'autocensura non è legata solo a tematiche politiche, ma anche sociali, come appunto nel caso di «Pietro». Beh, sicuramente è anche un discorso non solo di tematiche, è anche un discorso proprio di linguaggio. Io sono della scuola che la forma e il contenuto coincidono quasi sempre. Non credo ai film che parlano di cose interessanti, ma che sono fatti male. «Pietro» è un film, dove il tema non può es-

sere slegato dal modo in cui viene affrontato, utilizzando un linguaggio in qualche modo inaccettabile per gli standard. Inaccettabile anche per quel tipo di cinema che fa dell'anticonformismo un altro modo di essere omologato. È veramente un film che salta agli occhi, poi può anche non piacere, da quanto è anomalo. È un film d'opposizione, che però non ha nulla a che fare con i film che vengono percepiti tali. Non c'è nessun riferimento all'attualità, almeno per come ci viene mediaticamente raccontata, però è un film che racconta qual è la ricaduta surreale di tutto quello che sta succedendo su alcune categorie di persone. È anche un film sul mondo del lavoro e dico anche, perché è un aspetto del film, come dire che sta in secondo piano. Però è un film che dice delle cose molto precise; anche in modo molto rude, sgradevole. Quando il capo di Pietro dice: “C'è gente che fa la fila per questo lavoro, lo vuoi sì o no?” è molto semplice e molto chiaro che cosa voglia dire. Il film racconta qual è la ricaduta delle politiche di cui sentiamo sempre parlare e dibattere, la ricaduta sul reale, sulla vita delle persone, è tutto questo, senza parlare di temi di attualità. È piuttosto comune pensare che rispetto al passato glorioso del cinema italiano, del neorealismo o comunque del lavoro di registi conosciuti in tutto il mondo, oggi l'Italia non riesca più a proporre un cinema capace di farsi apprezzare a livello internazionale. Lei condivide questa affermazione? Quali sono le cause? Rispetto a questo discorso, al di là di alcune polemiche stupide e provinciali che ci sono state al Festival di Venezia l'ultimo anno, dove la figura da provinciali l'hanno fatta un po' tutti, sia i registi italiani in giuria, sia quelli che si sono sentiti offesi, se penso ai registi della mia generazione, il fatto che i film di Garrone e di Sorrentino

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Madonna e un gruppo, che ne so, meno commerciale: dovrebbe esserci lo spazio sia per Checco Zalone sia per «Pietro». Il problema è che loro dicono che «Pietro» non interessa, però alla fine non è vero. Non puoi pretendere che faccia gli stessi numeri, ci sono film che costano quattro, cinque milioni di euro che non sono né carne né pesce, che sono fatti da registi che si sentono autori, ma che strizzano l'occhio ad un pubblico che poi magari non trovano, e che alla fine magari incassano tre milioni di euro spendendone però cinque. A quel punto paradossalmente è un'operazione economicamente più sensata fare «Pietro» perché nel lungo periodo i quattro soldi usati per farlo li recupereremo, mentre gli altri non li recupereranno mai. Però, ripeto, se la gente vuole andare a vedere «Immaturi» o «Manuale d'Amore», questo mi sembra l'ultimo dei problemi. Una cosa che posso dire è che questi film potrebbero essere fatti un po' meglio, la gente li andrebbe a vedere, forse, lo stesso e chi li realizza potrebbe anche cercare di essere un po' più raffinato. Non è che se uno fa una commedia, allora le commedie si fanno alla “cazzo di cane”. La storia del cinema è piena di commedie che sono dei capolavori. Io vorrei evitare di andare a vedere un film dove c'è la voce fuoricampo che mi spiega quello che sto vedendo. C'è un altro discorso da fare: spesso in molti film vedo, in nome del pubblico, un disprezzo pazzesco del pubblico. In questi 15-20 anni è passata l'idea che la gente non capisca mai niente e quindi si debba spiegare tutto contemporaneamente. Ecco, molte cose fatte per il pubblico, sono un insulto all'intelligenza del pubblico. Lei ha partecipato ai più importanti festival internazionali: Cannes, Venezia, Locarno... ottenendo anche riconoscimenti importanti. Per un giovane regista com'è

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abbiano avuto in questi anni degli importanti riconoscimenti, non è una cosa che succede tutti i giorni e non ci sono tanti paesi in cui questo succede. Per esempio non mi vengono in mente registi inglesi o tedeschi che in questi ultimi anni abbiano ricevuto riconoscimenti così forti, come il Festival di Cannes. Voglio dire che il panorama è molto più vivo del sistema che sta dietro a questo panorama. Il cinema italiano soffre di una sclerotarizzazione e autoreferenzialità, che è uno dei motivi per cui non riesce a parlare fuori dal Paese, ma non riesce a parlare neppure dentro al Paese. Ci sono troppi film che pretendono di dire, di partecipare ad un dibattito che comunque è sempre sfasato rispetto al film. A mio avviso il problema è che il cinema italiano è spesso un mondo assolutamente slegato alla realtà. Quando dico che Pietro l'ho girato sotto casa mia, non è solo una cosa metaforica. È proprio così, l'ho girato sotto casa mia; se voi vedete molti film italiani sotto il profilo dell'ambientazione sono tutti girati in posti che sembrano artificiosi, hanno sempre qualcosa di “precotto”. Però non è vero che il cinema italiano, dal punto di vista dell'energia è messo male, è vero invece che non è molto aiutato. Ultimamente i cinepanettoni ed altre pellicole simili ottengono un audience strepitoso. Questo è dovuto al fatto che le persone snobbano argomenti “impegnati”? Non mi scandalizzo se la gente va a vedere Checco Zalone, non mi scandalizzo per niente, anzi lo trovo anche simpatico. È abbastanza sterile mettersi a discutere perché la gente va a vedere Checco Zalone o va a vedere un'altra roba; se vuole andare a vedere Checco Zalone vada a vederlo. Io credo che vengano messi a confronto dei mondi che non sono confrontabili. È come mettere sullo stesso piano


possibile farsi notare da questi grandi eventi? Cercando di fare un percorso il più autentico possibile. Con i suoi film riesce a trasmettere al pubblico ciò che si era proposto di comunicare? Fino adesso sì. Tramite il suo lavoro cerca di informare o sensibilizzare le persone? È un problema che per fortuna, prima e mentre faccio le cose, non mi pongo assolutamente. Se le persone trovano nel film una qualche corrispondenza con la loro vita, va bene, sono contento. Però non faccio finta che il film voglia sensibilizzare. Penso che le persone che si vogliono sensibilizzare la possibilità ce l'abbiano senza aspettare me. Io sono abbastanza cinico su questo, non credo che le persone siano manipolate. Le persone scelgono di farsi manipolare, le persone scelgono di abdicare alla propria intelligenza. Lo scelgono loro. Sono le opinioni che fanno i fatti e non i fatti che fanno le opinioni, perché al-

Daniele Gaglianone in Bosnia durante le riprese di «Rata nece biti»

trimenti certe cose inspiegabili non si spiegherebbero, certe cose evidenti... è una barzelletta il fatto che la gente è rincoglionita perché guarda la televisione: sono tutte cazzate. Uno non è “rimbambito” perché guarda la televisione, guarda la televisione perché sceglie di “rimbambirsi”. E le cause che spingono la gente a rimbambirsi quali sono? La solitudine. La solitudine e la paura di trovarsi di fronte alla realtà delle cose. Secondo me, di fronte a delle situazioni che sono sempre più complesse, la risposta più comoda è quella di trovare delle semplificazioni, delle cose semplici. Questa è un'analisi mia, necessariamente generica, approssimativa. Però secondo me le cose stanno abbastanza così. Conosco delle persone che hanno sulla carta pochi strumenti culturali e che guardano tutte le trasmissioni televisive di bassissimo livello, ma che su delle cose fondamentali sanno benissimo come pensarla e da che parte stare. Ci sono altre persone che guardano le stesse cose, e fanno le stesse cose e


Daniele Gaglianone

Per mezzo del cinema, si riescono a riscattare situazioni di degrado sociale, ancora oggi dei tabù, come quella di «Pietro»? Io potrei rispondere di sì, però non so se è vero. Sicuramente è sempre meglio riuscire a parlarne che non farlo, però da qui a dire che può influenzare positivamente una situazione, cercare di migliorarla. Non lo so, mi piacerebbe che potesse essere così, ma non lo so. Ho letto che «Pietro» è rimasto nelle sale per poco tempo, meno di quanto era stato programmato. Si è dato una spiegazione? Spesso la distribuzione del film è in mano a persone che, in nome del mercato, adottano delle politiche che poi non risultano neppure remunerative. Ad esempio la persona che gestisce le sale a Roma, «Circuito 5» ha deciso di togliere il film, che era uscito il 20 agosto, senza valutare che nei giorni feriali stava registrando una crescita, ma basandosi solo sul fatto che nel weekend a Roma a fine agosto faceva meno numeri. Chissà come mai? Perché la gente se ne andava al mare. E invece di conside-

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che invece... questi sono degli esempi terra terra, quotidiani. Ma è un'idea un po' ottocentesca pensare che la gente sia il risultato di un'equazione. Altrimenti basterebbe cambiare le condizioni dell'equazione. In realtà le cose sono molto più complicate e molto più disperanti. È chiaro che è un processo lento e scegliendo di abdicare al mio senso critico ci sono delle conseguenze che vanno a modificarmi, però se uno oggi si vuole informare, dato che c'è questo dibattito sull'informazione, può farlo senza nessun problema. Se tu vuoi vedere Emilio Fede lo puoi guardare e hai deciso che non vuoi sentire altre cose, ma lo hai deciso tu. All'interno del mondo che circonda il “cinema indipendente” riscontra, da parte del pubblico, una partecipazione più attiva rispetto alle normali produzioni? Per esperienza dico di sì. Quando ho l'opportunità di dialogare con il pubblico trovo sempre delle grandi risposte, puoi trovare delle occasioni di dibattito, vedere cose diverse.


rare il dato dei giorni feriali, che stavano crescendo, ha considerato l'ultimo weekend. Se l'avesse tenuto il film sarebbe piaciuto sicuramente. Il problema è che c'è un sacco di gente che fa un mestiere che non sa fare. Comunque devo dire: “Meno male che è uscito”, altrimenti l'alternativa era non uscire. Prima diceva che «Pietro», sul lungo termine, riuscirà a coprire le spese. Ma rimanendo nelle sale poco tempo, senza poi magari essere trasmesso in TV, quali sono gli altri canali commerciali per un film così? Speriamo che venga venduto all'estero. Poi il film sta avendo una vita molto forte, nel circuito parallelo alle sale ufficiali. In molte zone del Paese non esistono più i cinema, così le persone che vogliono vedere il film, si organizzano in un circuito come quello dei cineclub, associazioni eccetera. Dieci anni fa quando ho cominciato a girare con i film, questo circuito era molto più comodo, oggi è più debole anche per colpa di chi avrebbe potuto fare una politica diversa. Non sto parlando dello Stato, ma sto parlando delle case di distribuzione più illuminate, come la Fandango e la Lucky Red. Questi non sono abituati a lavorare con queste realtà, per loro quel film va consumato in sala e poi, se te lo chiedono 100 cineclub, glielo devi dare per 50-100 Euro. Non costa nulla, ma per loro quello è un mercato che non esiste. Infatti la Lucky Red si è stupita e ha dovuto fare due copie in più, perché dopo che il film è uscito in sala ha cominciato ad essere più richiesto di prima e loro sono rimasti stupiti. Ma dove sei stato questi vent’anni? Se me ne sono accorto io, che non faccio il distributore di mestiere, c'è qualcosa che non va. In quest'ultimo periodo si fa un gran par-

lare dei tagli alla cultura da parte dello Stato. Questi tagli vanno a toccare sostanzialmente i potenti, magari chi già occupa posizioni consolidate, o va a colpire le realtà più piccole, più coraggiose? Va a colpire solo ed esclusivamente le ultime. Se io potessi con una magia avere in mano per un anno il cinema italiano, ci sarebbe un sacco di gente che se ne andrebbe a casa. È chiaro che sono dei tagli insensati, che derivano da una visione del mondo dove la cultura è un lusso. In un Paese, appunto, che come ci ricorda il nostro magico Presidente del Consiglio nel già mitico spot che imperversa nelle nostre Tv da qualche giorno, l'Italia detiene il 55% del patrimonio culturale dell'Unesco e in un paese del genere, della cultura non gliene importa niente a nessuno. Lei ha detto che molte persone devono andarsene a casa, ma questi tagli li faranno andare a casa, o manderanno a casa invece quelli che meritano? No assolutamente! Questi ci saranno sempre. Le quattordici, quindici persone che decidono chi deve fare il cinema in Italia e chi no, questi non se ne andranno mai. Non voglio neanche sapere quanto prendono di stipendio... non vorrei fare la fine di Pietro.

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Daniele Gaglianone

libertĂ E CULTURA


Angelo Giovanetti Angelo Giovanetti (Trento, 1956). Maestro di sci dal 1998. Istruttore nazionale, guida alpina e alpinista molto esperto. Amante delle culture asiatiche. Ha scalato con successo molti 8000.

www.angelogiovanetti.it

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tante, ho fatto gli esami di guida (1983). Mi piaceva l'idea di lavorare all'aperto, non all'interno di un edificio. A 40 anni ho fatto gli esami di maestro di sci. Ho raggiunto il mio obiettivo. Quali sono le spedizioni che hai fatto che ritieni più importanti per te? E perché? Una spedizione importante dal punto di vista alpinistico è stato il Makalu, 5a montagna più alta del mondo, quasi 8.500 metri sul livello del mare. È molto impegnativa, sia per l'altezza, sia perché non ci sono gruppi di spedizione numerosi. Nel 1996/ 97 ho fatto delle spedizioni con Oscar Piazza, usando una tecnica di risalita differente da quella solitamente usata dagli alpinisti italiani. Che cosa hai provato la prima volta che hai scalato? Quando si arriva in cima l'emozione è grande, è come raggiungere un obiettivo prefissato. Anche se la cima è più bassa degli 8.000 metri e ci hai messo meno tempo,

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Come e quando ti sei avvicinato alla montagna e hai deciso di diventare guida alpina? Chi ti ha trasmesso questa passione? Mi sono avvicinato alla montagna ancora da bambino, non dal punto di vista alpinistico, ma naturalistico. I miei genitori mi portavano spesso la domenica in cerca di funghi. Quando tornavo a casa da scuola, invece di studiare, andavo a camminare nei boschi per esplorare l'ambiente naturale: dai nidi negli uccelli ai serpenti e a molto altro. Ancora oggi mi è rimasta questa passione per la natura. Ho iniziato ad arrampicare dopo aver provato altri sport, ma nessuno mi piaceva quanto la montagna. Hai dovuto fare tanti sacrifici per raggiungere il tuo sogno? All'inizio non c'era l'obbiettivo di diventare guida alpina, prima si andava a scalare tra amici. Con il passare degli anni, poi, dopo essermi fatto un bagaglio tecnico impor-

Angelo Giovanetti

Intervista a cura di Edoardo Oss, Francesca Debiasi


non importa, quello che cogli a livello di emozioni è uguale. Cosa si prova quando si è così in alto? Ti senti più libero? Credi che la parola “montagna” sia sinonimo di “libertà”? Non cerco la libertà salendo a 8.000 metri, mi basta entrare in un bosco, lontano dalla confusione cittadina. Quale consiglio/segreto vorresti rivelare per trasmettere l'amore per la montagna, in particolare ai giovani che vogliono diventare guide alpine? Ai giovani che vogliono diventare guide alpine vorrei dire che ci vuole passione per la montagna e per la scalata. La voglia di fare della passione un lavoro, una ragione di vita. Avere un obiettivo semplice, come amare la natura e lavorare a contatto con essa, è molto importante. Quali sono i tuoi “miti” e punti di riferimento? Chi prendevi come esempio da ragazzo? I miti dal punto di vista alpinistico sono stati Reinhold Meissner e Hans Kammerlander, con cui nel '98 sono andato sul K2; ho avuto la fortuna di conoscere Hans: è un bravissimo alpinista, ma è anche una persona molto semplice. Messner ha avuto la capacità di fare le cose alla perfezione; penso sia uno dei pochissimi alpinisti ad essere riuscito a guadagnare con la sua passione. Io mi ritrovo molto in Sergio Martini, bravissimo alpinista; quando lavoravo in fabbrica e non avevo ancora trovato la mia passione, è stato lui a farmi capire che dovevo mollare tutto per seguire il mio sogno. Hai mai avuto momenti di sconforto in cui credevi di non potercela fare? Ma no, in montagna? Parliamo sempre di montagna vero?! No! Nel senso che, anche se è successo qualche incidente, come al Shisha Pagma con la valanga a 8.000 m, la sensazione però è diversa:

quando “succede” la valanga, entri dentro ad una favola. È come quando fai un incidente in macchina, poi non ti ricordi quasi più niente di quello che è successo prima di brutto, ma solo che tutto alla fine è andato bene. Non mi sono mai trovato in situazioni critiche, perché non ero capace di salire o di andare avanti, anche quando andavamo a scalare sulle Dolomiti, sulle vie di misto delle Alpi. Mi sono sempre preparato bene, una cosa fondamentale, mi sono sempre allenato bene e sapevo che, dal punto di vista tecnico, ero sempre a posto. Non mi è mai successo di dover tornare indietro, perché non ce la facevo a salire. Sono sempre stato abbastanza convinto, quando partivo, di percorrere una determinata via, senza tentennamenti e non mi sono mai trovato al limite delle mie possibilità, perché come principio mi son sempre allenato al massimo. Del destino cosa pensi? Preghi qualche volta? Credi che scalare e salire sempre più in alto avvicini a Dio? Mmm… andiamo su un tasto un po' dolente! No, non sono credente. Ho avuto un'educazione cristiana, sono stato battezzato, però alla fine, non prego, non prego mai e anche quando arrivo in cima non penso mai di arrivare vicino a Dio. Il mio Dio non è “una cosa” che non vedo: il mio dio è la natura, l'ambiente, la montagna e i miei genitori che mi hanno messo al mondo. E del destino cosa ci dici? Il destino… non ho paura di morire. Io credo nel destino nel senso che quando tocca di morire, tocca di morire. Molti mi dicono: “Hai avuto un bel fondello, perché sei tornato a casa nonostante la montagna, nonostante che potesse andare peggio, però non era la tua ora”. Può darsi. Io alla fine non ci penso. Quando ti tocca, tocca. Non ascolto quando mi dicono: “Adesso hai la

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Angelo Giovanetti

pre fatto quello che mi piaceva e avevo le possibilità di fare naturalmente, perché andare in Himalaya costa e ho sempre fatto quello che potevo fare. Non sono mai diventato matto per trovare sponsorizzazioni, perché ho un carattere abbastanza schivo. I sogni che avevo li ho avverati quasi tutti. Alcune volte riprovo a fare l'Everest. L'Everest mi sarebbe sempre piaciuto farlo, non come prestazione, ma per arrivare in cima sulla montagna più alta del mondo e vedere il panorama che si può godere da quella cima. Sarebbe eccezionale, anche se l'Everest è una montagna abbastanza brutta al giorno d'oggi. È un caos, c'è tantissima gente e ne vedi di tutti i colori. Arrivano sulla cima tante persone, che non sono alpinisti e non fanno alpinismo a “casa”. Pagano, hanno gli sherpa che gli portano su la roba e alla fine non sono neanche capaci di mettersi il discensore nella corda, hanno gli sherpa che gli fanno tutto, gli portano su l'ossigeno. È una montagna abbastanza denigrata. Queste spedizioni commerciali, l'hanno rovinata. Portano lavoro sicuramente alle persone del posto, perché là in primavera al campo base dell'Everest ci sono mille persone fra alpinisti e sherpa. L'Everest si fa solo e sempre in primavera, da aprile a fine maggio. E in cima ci arrivano dalle 250 alle 400 persone. Sono stato lì anche nel 2008 per farlo, con Roberto Mani, un mio amico, sono dovuto tornare di ritorno proprio gli ultimi giorni, quando era l'ora di scalare la cima, dopo l'acclimatazione, causa disturbi, ho dovuto fare marcia indietro. Lui è arrivato in cima. Mi dispiace, perché il sacrificio di rimanere là per due mesi, lo fai lo stesso. Spendi sempre uguale, il sacrificio è uguale, però non raggiungi l'obiettivo.

libertà E CULTURA

bambina, la famiglia, non ti viene paura di andare e che possa succedere qualcosa?” Sì! E allora cosa vuol dire?! Cosa devo fare? Devo stare a casa? “Tirare i remi in barca”? Però alla fine quando sono a casa, passo dei bei momenti con mia figlia e cerco di trasmetterle quello che vivo: la spedizione in fondo permette di trasmettere qualche cosa ai propri figli. Dopo se può succedere che non ritorni a casa, un domani, quando sarà grande, lei capirà. Si vuole vivere 200 anni?! Meglio togliersi le proprie soddisfazioni, viverle e dopo basta. Tanto quando è la tua ora, è la tua ora. Posso vivere fino a 80 anni come fino a 56 e morire l'anno prossimo! La montagna d'inverno o d'estate. Che differenti emozioni provi? Mah, ho sempre allargato l'attività a 360°, mi piace la montagna in tutte le sue vesti. L'inverno, perché si va a sciare; mi è sempre piaciuto lo sci, facevo tanto sci alpinismo fuori pista dove c'è ancora più spirito di libertà. Anche la primavera è una stagione meravigliosa, quando c'è il cambio, i risvegli. Iniziano i primi caldi, il sole che batte sulle piante, il sotto bosco, i profumi. È eccezionale la primavera, è il risveglio della natura. L'estate uguale. Perché in ogni stagione mi dedico ad attività diverse, che mi danno sempre soddisfazione. In primavera ed estate a scalare, alta montagna sicuramente. Mi piace tantissimo l'alta montagna, il ghiacciaio, l'arrivare sulla cima più alta. Il sogno che avevi nel cassetto da giovane? Lo hai raggiunto? Ora ne hai un altro? Sì. Sogni nel cassetto ce ne sono sempre. Quando ero giovane, il sogno era quello di andare a scalare, di andare in Himalaya, di andare a fare le montagne di 8.000 metri; ci sono arrivato. Dopo con le montagne di 8.000 m non è che mi pongo il problema di farne 4-5-6-10-14 quello che è, ho sem-


Fotografia di Anna Da Sacco “Ex Italcementi” - 2010



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libertà E INFORMAZIONE Milena Gabanelli Riccardo Iacona Pino Rea Giovanni de Mauro Eric Jozsef Steve Scherer

libertà E MARGINI Alessandra Cipollone - NUOVI ORIZZONTI Fiammetta Bampi e Angelo Poletti - PUNTO D’INCONTRO Nadia Brandalise - UNITÀ DI STRADA Antonio Rapanà - TAVOLO ACCOGLIENZA È SICUREZZA Fabio Tognotti - APAS -

libertà E ISTITUZIONI Antonella Forgione Giorgio Iacobone Giuseppe Ayala Don Ciotti Lorenzo Dellai Giacomo Santini Giorgio Tonini

libertà E CULTURA Moni Ovadia Paolo de Benedetti Eraldo Affinati Roberto Keller Enrico Molteni Daniele Gaglianone Angelo Giovanetti


Fotografia di Stefano Rubini “La Città Ombra - Ex Sloi” - 2008



presenti Finito di Stampare nel mese di GIUGNO 2011 da GRAFICHE DALPIAZ Ravina, Trento



libertà

presenti Milena Gabanelli Riccardo Iacona Pino Rea Giovanni de Mauro Eric Jozsef Steve Scherer Alessandra Cipollone - NUOVI ORIZZONTI -

Fiammetta Bampi e Angelo Poletti - PUNTO D'INCONTRO -

Nadia Brandalise - UNITÀ DI STRADA -

Antonio Rapanà - TAVOLO ACCOGLIENZA È SICUREZZA -

Fabio Tognotti - APAS -

Antonella Forgione Giorgio Iacobone Giuseppe Ayala Don Ciotti Lorenzo Dellai Giacomo Santini Giorgio Tonini Moni Ovadia Paolo de Benedetti Eraldo Affinati Roberto Keller Enrico Molteni Daniele Gaglianone Angelo Giovanetti


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