Presenti n.2 Viaggio

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A cura di Stefano Paternoster

LICEO

SCIENT

IFICO L

EONAR

DO DA

VINCI,

TRENTO

IL VIAGGIO

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PRESENTI VIVERE

COMPRENDERE

TRASFORMARE



Presenti, perché per

VIVERE

l'oggi bisogna passare

attraverso gli sguardi e le storie degli altri, lasciandosi toccare da ognuna. Presenti, perché per

COMPRENDERE

l'oggi bisogna saperne cogliere

la molteplice complessità, senza la pretesa di risolverla mai definitivamente. Presenti, perché per

TRASFORMARE

l'oggi bisogna avere il coraggio di abbandonare

qualcosa di se stessi, per raccogliere quello che solo assieme si può realizzare.


PRESENTI VIVERE COMPRENDERE TRASFORMARE Direzione Redazione Liceo Scientifico Leonardo da Vinci via Cristoforo Madruzzo 24, Trento T. 0461 984099 / 0461 986257 www.liceodavinci.tn.it Curatori Alessandro Castelli, Alessandro Giovannini, Edoardo Oss, Elena Foradori, Elena Mazzalai, Eleonora Forti, Elisa Bianchini, Fabrizio Zanella, Federico Rovea, Fiorella Turri, Francesca Debiasi, Francesca Paris, Francesco Benanti, Giulia Casonato, Ilaria Segata, Irene Luce Parisi, Laura Gretter, Margherita Cozzio, Nicola Riz, Noa Ndimurwanko, Rama Kiblawi, Samuel Giacomelli, Serena Righetti, Vittoria Brolis Collaboratori Alessandra Artedia, Agnese Garbari, Alberto Marchi, Alice Merz, Andrea Capozzi, Anna Stenico, Antonio Arresta, Anxela Bllama, Arianna Bampi, Arianna Bertoni, Camilla Eccher, Camilla Zanoni, Caterina De Giovanelli, Chiara Mattei, Chiara Ceschini, Cristina Mazzalai, Roberta Dolce, Elena Bonvecchio, Elena Clappa, Elisa Marchetti, Elisa Molinari, Enrico Pruner, Fabiana Villotti, Federica Fellin, Fiammetta Caccavale, Gabriele Penasa, Giada Coabelli, Giorgia Valente, Giulia Ciola, Gloria Girardi, Irene Tasin, Liliana Panizza, Luana Di Piazza, Luca Antonioni, Luca Dalla Valle, Marco Viganò, Maria Nardone, Marialuisa Poier, Maria Giulia Zen, Marianna Angeli, Marika Ferrari, Martina Mottes, Nicole Lona, Noemi Tomasi, Roberta Lona, Ruan Barbacovi, Silvia Paoli, Sofia Agostini, Sonia Peratoner, Stefania Santarelli, Tommaso Tonini, Valeria Trevisan Docente referente Stefano Paternoster Grazie a Adriana Leonardi (Assessorato alla solidarietà internazionale e alla convivenza), Alessandro Scillitani, Anna Da Sacco, Arici Stefania (Area del fareassieme, Servizio di Salute Mentale, Trento), Bruna Pelizzoni (Emergency), Carmine Ragozzino, Cinformi, Damiano Modena, Daniele Lira, Elisa Bissacco (CUAMM), Ester Hueting (Edizioni E/O), Federico Zappini (Forum per la Pace), Giacomo Zandonini (Centro Astalli), Giorgia Guarinetti, Giovanni De Mauro (Internazionale), Giuska Ursini (Medici Senza Frontiere), Lia Giovanazzi Beltrami (Assessorato alla solidarietà internazionale e alla convivenza), Marco Benedetti (Trento Film Festival), Mario Cossali, Paola Colombo (Vicini/Lontano), Paolo Baldini (Corriere della Sera), Pino Loperfido (Trentino Book Festival), Riccardo Mazzeo (Edizioni Erickson), Sandro Schmid (ANPI, Trento), Sergio Damiani, Silvia Salomoni e Francesca Piconi (Turisti per Caso), Stefano Rubini, Tatiana Brusco (Centro Missionario Trento) Un ringraziamento particolare va al Dirigente dott. Alberto Tomasi, alla prof.ssa Cecilia Dalla Torre e al prof. Michele Dossi. Un ringraziamento inoltre va anche alle prof.sse Claudia Dinale, Federica Miori e Roberta Romanato, ai prof. Luca Gardumi, Massimo Pellegrini e Nicola D'Alessandro, oltre a tutti i colleghi che ci hanno supportato agevolando l'impegno degli studenti coinvolti. Illustrazione in copertina Palindromi di Mp5 www.facebook.com/MP5art Ideazione, progetto grafico e impaginazione Verba Volant, Trento


PRESENTI VIVERE

COMPRENDERE

TRASFORMARE

IL VIAGGIO

LICEO SCIENTIFICO LEONARDO DA VINCI, TRENTO



Chi avrà la bontà (ma anche la fortuna) di prendere in mano questo libro, converrà che le riflessioni più importanti sul lavoro fatto si trovano nelle appassionate righe che ha scritto il professor Stefano Paternoster nella pagina che segue. Faccio mia la sua testimonianza, ricordando che senza il suo impegno e il suo darsi da fare questo secondo numero di “presenti” non avrebbe visto la luce; credo che chi si prenderà la briga di leggere anche solo in parte le interviste raccolte dagli studenti nei loro numerosi incontri condividerà l'opinione che la nostra scuola, senza questa esperienza, avrebbe perso un poco di se stessa, soprattutto un poco di quella dimensione che ci permette di sentirci cittadini curiosi, solidali, pensanti e liberi. “Non di solo pane vive l'uomo” afferma un antico e popolare detto: calato nella nostra realtà ci spiega che la formazione dei nostri studenti non può limitarsi alla diligenza, pur necessaria ed insostituibile, degli apprendimenti previsti dal nostro curricolo. Le capacità e le autonomie di pensiero e operative di tutte le ragazze e i ragazzi che hanno partecipato all'avventura di “presenti” hanno trovato un'altra misura, trasformando le conoscenze e le abilità allenate nelle aule in competenze e attenzioni a tutto campo. Nel primo numero di “presenti”, dedicato alla voce libertà, si incontrano 25 interviste; in questo secondo numero, dove la voce viaggio si declina in tanti e affascinanti modi, sono 32 le interviste, accompagnate da un lungo reportage a L'Aquila e Onna, per vedere e capire le conseguenze, non solo materiali, del terremoto del 2009. Come già accaduto, i nomi noti si alternano a quelli meno conosciuti, fornendo un affresco di voci, di pareri, di esperienze, di vissuti, di responsabilità che regalano una disanima ricca e suggestiva delle tante interpretazioni a cui si presta un viaggio. La lettura dei materiali sono un viaggio nei viaggi e offrono l'occasione per affrontare l'attualità del quotidiano e il peso di ciò che è già stato ma non è finito; per scoprire verità scomode e per conoscere vite ammirevoli; per avvicinare mondi e per allontanarsene; per navigare e per scalare; per tornare a casa (sia che ci si sia mossi nello spazio, sia che ci si sia adoperati senza alzarsi dalla scrivania) cambiati, più sensibili, dopo aver compreso che ciascuno di noi vale di più se sa dialogare con gli altri, se è capace di vincere le proprie inerzie, se sa coltivare un'esperienza. Leggendo questa seconda prova di “presenti”, possiamo sentirci, a nostro piacere, nei panni di Omero (quando, nell'Odissea, per bocca di Alcinoo re dei Feaci, chiede: “Ma tu, dimmi ancora e parla sincero:/dove sei stato errando, a quali paesi sei giunto,/d'esseri umani; e dimmi di loro e dei borghi ben abitati,/ e quanti eran violenti, o selvaggi senza giustizia,/quanti ospitali e avevano mente pia verso i numi.” Possiamo, con meno lirismo, magari costretti dalle circostanze, viaggiare stando fermi, sulle orme di Emilio Salgari; possiamo tuffarci ne Il viaggiatore incantato di Nicolaj Leskov e scoprire che le avventure, sconcertanti o improbabili, talvolta ci capitano tra capo e collo, che girare per lungo e per largo vuol dire entrare e uscire da un teatro dove succedono storie e dove si vivono esistenze. Si costruisce un racconto fatto di memorie, di eventi, di luoghi, di sentimenti. E, come è successo con le interviste di “presenti”, possiamo far nostra un'espressione di Italo Calvino che recita: “La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade”. Domandare e mettere mano alle risposte costringe, in modo intelligente, a ripensare agli interrogativi posti e a saldarli 5


con la figura e la storia di chi ha condiviso le proprie vicende e scelte di vita con i nostri studenti. Questo libro è anche frutto di un'impresa collettiva, è un esempio di collaborazioni virtuose con il territorio. Ci hanno messo il becco, ci hanno dato una mano in tanti, prodighi di consigli e di appoggi, a cominciare dall'Ufficio delle Politiche Giovanili del Comune di Trento, passando per il Forum della Pace della P.A.T., arrivando alle disponibilità offerta dall'Associazione Astalli di Trento, e alle attenzioni che ci hanno offerto le Associazioni “Il Gioco degli Specchi” e Barycentro. Una sottolineatura particolare merita il tangibile sostegno che il Gruppo ITAS Assicurazioni ha garantito per la pubblicazione di “presenti”. Senza il generoso contributo della Compagnia avremmo dovuto rinviare ulteriormente la stampa del libro; senza il prezioso interessamento dei suoi agenti le nostre fatiche avrebbero rischiato di essere vane. Credo che questo intervento vada valorizzato perché va a consolidare precedenti esperienze condivise, a partire dal sostegno dato alla promozione della lettura fra gli studenti delle classi quinte per giungere agli stimoli e alle opportunità date al nostro liceo in occasione del Premio ITAS del Libro di Montagna e Montagnav(v)entura, con il laboratorio di scrittura creativa per gli studenti e i docenti; e vada valorizzato anche come esempio di uno sforzo reciproco di comprensione: da una parte c'è il riconoscimento dell'importanza dei processi formativi per la crescita di una cultura diffusa e di un'istruzione di buon livello; dall'altra il riconoscimento del peso che un'impresa può svolgere nel sostenere quella cultura e quell'istruzione per lo sviluppo della società. Sono poi un esercizio gradito i ringraziamenti a tutti coloro che si sono prestati alle domande dei nostri studenti; ai colleghi che, in modo o nell'altro, hanno dato una mano al prof. Paternoster (fra i quali ci piace ricordare la prof.ssa Barbara Mei per il viaggio a L'Aquila, il prof. Michele Dossi e la prof.ssa Cecilia Dalla Torre per l'assistenza nella revisione redazionale); allo studio Verba Volant (con l'impareggiabile Liliana Mattevi) per le azzeccate scelte grafiche e l'impaginazione. Un'introduzione presenta sempre qualche pericolo; la retorica e la ridondanza sono dietro l'angolo, i ringraziamenti abbondanti. In questo caso pensiamo di aver dato la giusta risonanza ad un percorso ricco di meriti e ad un risultato di qualità. Per essere conseguenti con questa valutazione, dobbiamo prenderci due impegni, due promesse a cui essere fedeli. Il primo impegno è quello di fare uno sforzo autentico per trasferire il senso dell'esperienza che è alla base del progetto di “presenti” nella pratica didattica quotidiana. Il secondo impegno è quello di non disperdere gli esiti di un lavoro coinvolgente, in cui la fatica è ampiamente riscattata dalla soddisfazione per le conquiste fatte, sia in termini di apprendimento, sia di crescita personale. Per questo la presidenza cercherà di conservare le condizioni necessarie perché “presenti” non muoia, ma continui a vivere dentro la scuola, magari in altra forma, ma fungendo da collettore di idee, di partecipazioni, di incontri, di sguardi sul mondo, di interesse non egoista e da palestra per coltivare competenze e saperi. Alberto Tomasi Dirigente scolastico 6


Questo contributo non può limitarsi ad affrontare i contenuti del volume che avete tra le mani, ma nella consapevolezza che con questa seconda uscita si conclude un percorso avviato nel 2010 vi è anche l'obbligo di dare uno sguardo più ampio, capace di fornire una prima lettura di questi anni di lavoro. «Presenti» è stato un laboratorio di giornalismo sociale portato avanti in orario extrascolastico da un gruppo di studenti provenienti da varie classi del nostro Istituto, aiutati e supportati da alcuni docenti. Si è trattato di un progetto che, pur nei suoi limiti, ha cercato di mostrare una delle doti migliori che la scuola possiede: il coraggio di puntare sui ragazzi, facendo emergere le loro diverse capacità e allenando la loro parte migliore, chiamandoli a confrontarsi con tematiche importanti, impegnative e che possono anche, in alcuni casi, turbare. In un contesto come quello attuale che potremmo definire di “ipermercato educativo”, dove numerose sono le iniziative proposte alla scuola finalizzate alla sensibilizzazione di diversificati e importanti tematiche come l'educazione alla pace, alla legalità, alla salute, all'intercultura o al giornalismo stesso, riteniamo che un progetto come «Presenti» abbia mostrato una propria specificità nell'aver saputo evitare di fermarsi ad una sola di queste voci, ma affrontando queste tematiche nel loro naturale intrecciarsi. Mantenendo sempre saldo il fine ultimo della scuola, che risiede nello stimolare lʼacquisizione di un pensiero critico, nel promuovere lʼautonomia degli studenti, aiutandoli a rendersi indipendenti e capaci di costruire un proprio percorso di apprendimento personalizzato e rispondente alle proprie capacità, talenti e aspirazioni. Per questo siamo convinti che un progetto come «Presenti» si sia basato prima di tutto sulle grandi potenzialità interne alla scuola, richiamando verso l'esterno l'attrazione e il rispetto che essa sa ancora suscitare in molte persone. In questo senso molte sono state le disponibilità raccolte e gli incontri realizzati, che non possono essere limitati alle più di settanta interviste realizzate o alle trasferte al Festival Internazionale di Ferrara e al Festival Vicino/Lontano di Udine, ma l'incontro più profondo è stato quello di potersi sentire parte di una comunità allargata, composta da persone che non si "girano dall'altra parte" di fronte alle difficoltà e ritengono piuttosto che si possa e si debba dare concretezza alle proprie aspirazioni. Questo ci ha fatto sentire partecipi di uno spirito contagioso, all'interno del quale anche i nostri personali progetti risultano più fattibili, in cui la nostra creatività appare meno limitata e in cui è possibile chiedere sempre qualcosa di più, prima di tutto a noi stessi. Questo è stato il nostro viaggio, proprio come il tema che abbiamo affrontato in questo volume dopo quello della libertà trattato nel precedente. Un viaggio che probabilmente si è concluso in modo prematuro, quando la nostra personale mappa prevedeva altri passaggi, quando la voglia ancora era forte, ma i viaggi non si compongono solamente di strade da percorrere e da viaggiatori con la zaino in spalla, è fatto di episodi fortunati come di imprevisti, di condizioni favorevoli e di momenti di bonaccia, e a quel punto un buon viaggiatore lo si misura anche quando sa comprendere che è arrivato il momento di abbandonare, di lasciare che la corrente lo riporti al punto di partenza, per scoprire che quel viaggio non è stato vano, che quel punto di partenza in realtà non è più lo stesso di quando era partito e che neppure lui è rimasto lo stesso, 7


quel viaggiare ormai è parte di lui e il suo tornare indietro era necessario per poter ripartire, magari con altri compagni, probabilmente per altre mete. Per questo siamo convinti che vi sono viaggi che non devono raggiungere una meta per acquisire un senso, perché la meta la si assapora mano a mano che il tragitto si dipana, ci affianca e ci accompagna lungo i nostri passi e in questo senso non esiste alcuna meta che possa riscattare un viaggio privo di significato. La meta, la nostra meta, era quella di portare dei ragazzi a conoscere, alimentare curiosità, creare interessi, fornire strumenti di lettura, di analisi e trasmettere la voglia e la capacità di saperli condividere. Ed in questo non ci sembra di aver fallito. Il grande ritorno in termini di autostima e di stimolo all'impegno e al sano protagonismo sociale che sembrano vivere e trasmettere molti dei nostri studenti ci appare come una conferma del nostro parziale contributo. Contributo che è stato possibile solo grazie a chi a questo viaggio ci ha creduto fino alla fine e a chi ha continuato a crederci anche quando la fine era già segnata. Grazie a loro abbiamo toccato con mano che è possibile interessarsi ed intervenire nei piccoli e nei grandi problemi, prendersi cura del bene comune, dare il proprio contributo mettendo a disposizione della comunità le proprie idee, esperienze, competenze, relazioni e sensibilità. Per questo non dovremmo mai smettere di far crescere la fiducia nei e tra i nostri ragazzi, pensare alla realizzazione di forme nuove di partecipazione alla vita pubblica, creando occasioni di incontro e di confronto. Proprio da qui prosegue il viaggio nostro e di tutti quelli che vi hanno preso parte, perché in fondo la meta sta sempre un passo oltre. Stefano Paternoster


IL VIAGGIO

SUSSEGUIRSI E SOVRAPPORSI NELLA TESTA SCOPPIA UN INFINITO OLA PAR STA QUE DI I ARS CRE O AL SOL LL'UOMO INCONTRATO LA STRETTA DI MANO FORTE DI QUE NO, CEA L'O DEL E DOR L'O I: ION SAZ DI SEN LA MITICA E SCONNESSA VERE SOLLEVATA DAL VENTO LUNGO POL LA , NDO MO DEL TE PAR A LTR DALL'A RA CHE NASCONDE NOSCIUTO, IL SUONO DI UNA CHITAR SCO TTO FRU L QUE DI ORE SAP IL 40, RUTA IL CREPITIO DEL FUOCO. SORPRESE. E, HA SAPORE DI ESPERIENZE E DI INIR DEF DA ILE FAC TO CET CON UN NON È UENTE: IL VIAGGIO È CIÒ CHE ICINA DI PIÙ ALLA REALTÀ È LA SEG AVV SI SE FOR CHE E ION INIZ DEF MA LA NE E DI SCOPRIRE A DI METTERE TUTTO IN DISCUSSIO SON PER UNA DI NE ISIO DEC LA DAL NASCE TRO L'ORIZZONTE. PERSONALMENTE COSA SI CELA DIE LA VOGLIA CURIOSITÀ DI FONDO, SE NON C'È UNA C'È NON SE O VON SER LA CAMMINARE, SPOSTARSI, A NUL SAPPIAMO TE PER UN MOMENTO TUTTO CIÒ CHE PAR DA DO TEN MET , ARE ENT RIM DI SPE SAPERE N ALTRO, CON LA VOGLIA INVECE DI PERCHÉ CI È STATO DETTO DA QUALCU . PERCHÉ LO ABBIAMO SCOPERTO NOI NDO CON MERAVIGLIA LCOSA SENZA SPOSTARSI, INDAGA QUA RE PRI SCO ER SAP HE ANC È O VIAGGI CONDANO. I LUOGHI E LE PERSONE CHE CI CIR SUN MOMENTO È SPRECATO. VIAGGIO È VIVERE SAPENDO CHE NES I. VIAGGIO È VIVERE SENTENDOSI VIV FABRIZIO ZANELLA 5A


VIAGGIO e LETTERATURA AMARA LAKHUS ERRI DE LUCA PAOLO RUMIZ MARCO AIME

PRESENTI VIAGGIO E LETTERATURA, LETTERATURA E VIAGGIO. DUE TEMI LEGATI INDISSOLUBILMENTE DA CHE L'UOMO HA COMINCIATO A SCRIVERE, UNA SIMBIOSI CHE CONTINUA A DURARE ANCHE AI GIORNI NOSTRI E CON CUI CI SIAMO VOLUTI CONFRONTARE. PER QUESTO MOTIVO ABBIAMO INCONTRATO SCRITTORI COME PAOLO RUMIZ, ERRI DE LUCA, MARCO AIME E AMARA LAKHOUS, QUATTRO NARRATORI, ASSAI DIVERSI L'UNO DALL'ALTRO MA COMPLEMENTARI. OGNUNO DI ESSI CI HA APERTO IL SUO MONDO, CONFRONTANDOSI CON NOI SUL SIGNIFICATO DEL VIAGGIO NELLA LORO VITA, DELL'APPORTO CHE QUESTA ESPERIENZA DONA ALLA SCRITTURA, DI QUEL QUALCOSA IN PIÙ CHE LO SCRIVERE AGGIUNGE AD OGNI VIAGGIO, MA ANCHE DELL'IMPORTANZA DELLA TESTIMONIANZA E DELLA CONDIVISIONE DEL VISSUTO CON GLI ALTRI. OGNUNO AVEVA UNA STORIA DIVERSA, ITINERARI DIVERSI, SENSAZIONI DIVERSE CHE HA DECISO DI CONDIVIDERE CON NOI MOSTRANDO LA PASSIONE E IL MISTO DI CONTROVERSE EMOZIONI CHE AVEVANO DESTATO IN LORO QUELLE ESPERIENZE. ANCHE NOI STUDENTI ABBIAMO VIAGGIATO PER POTERLI INCONTRARE E PORRE LORO DELLE DOMANDE, COME ABBIAMO VIAGGIATO LEGGENDO I LORO RACCONTI E I LORO SAGGI, GRAZIE AI QUALI ABBIAMO FORMULATO DEGLI INTERROGATIVI CHE ABBIAMO POTUTO PORRE AGLI AUTORI MEDESIMI. I TEMI TOCCATI SONO STATI MOLTI, MA TUTTI COLLEGATI DALLO STESSO FILO ROSSO, QUELLO DEL VIAGGIO E DELL'INCONTRO DI CULTURE DIVERSE. NE SIAMO USCITI ARRICCHITI DI ESPERIENZE MA SOPRATTUTTO DI IMMAGINI, QUELLE IMMAGINI VIVIDE CHE SA RENDERE CHI HA VISTO, E SA POI FARE ABILE USO 10


DELLA PAROLA PER RACCONTARE. È STATO INDISPENSABILE IL CONTRIBUTO DELLE CURIOSITÀ, DELLE CONOSCENZE E DELLA VOGLIA DI IMPARARE DI NOI STUDENTI, RIPAGATO DALLE STORIE CHE CI SONO STATE RACCONTATE, DALLE PREZIOSE IMPRESSIONI DI QUESTE PERSONE CHE CON IL LORO VISSUTO AIUTANO ANCHE NOI NELLA COSTRUZIONE DI UN'OPINIONE E IN ULTIMA ISTANZA NELLA FORMAZIONE DI UNA COSCIENZA CIVICA E INDIVIDUALE. TUTTO QUESTO È ANDATO A COSTITUIRE UN RICCO PANORAMA CHE CI HA PERMESSO DI CAPIRE LE VARIE SFUMATURE E SFACCETTATURE DI QUELLA STORIA D'AMORE CHE È IL RAPPORTO DEL VIAGGIO E DELLA SCRITTURA, DI COME QUESTO CONNUBIO ABBIA CARATTERIZZATO LA VITA DI QUESTI PERSONAGGI E LI ABBIA SEGNATI. SONO EMERSI ASPETTI MOLTO VARI E VISIONI DELLA VITA FORSE DIAMETRALMENTE OPPOSTE, IN QUANTO SE IN ALCUNI REGNAVA UNA SOTTILE IRONIA E UNA VENA DI INGUARIBILE OTTIMISMO, PER ALTRI SPICCAVA IL MALE DI VIVERE, LA DIFFICOLTÀ DI SOPRAVVIVERE E DI AFFRONTARE LE DIFFICOLTÀ CHE OGNI NUOVO GIORNO PONE DAVANTI. SIAMO CONSCI DELLA GRANDE OPPORTUNITÀ CHE ABBIAMO AVUTO E SIAMO PERALTRO CONVINTI DI AVERNE TRATTO UN'IMPORTANTE LEZIONE. LE CONVERSAZIONI QUI RIPORTATE SONO IL FRUTTO DI QUESTO LAVORO E SPERIAMO CHE RIESCANO A RENDERE QUESTO BELLISSIMO PANORAMA CHE SI È APERTO A NOI MEDESIMI E CHE ORA VI PROPONIAMO. Elena Mazzalai 11


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Foto di Luca Antonioni


INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI, ELENA MAZZALI, ELISA BIANCHINI, STEFANO PATERNOSTER

AMARA LAKHOUS

AMARA LAKHOUS (ALGERI, 1970), SCRITTORE E GIORNALISTA DI ORIGINE ALGERINA. LAUREATOSI IN FILOSOFIA ALL'UNIVERSITÀ DI ALGERI, INIZIA A COLLABORARE CON LA RADIO NAZIONALE, SUBENDO MINACCE CHE LO SPINGERANNO A LASCIARE IL PAESE. RAGGIUNGE NEL 1995 ROMA, CITTÀ DOVE VIVE E LAVORA TUTTORA. CONSEGUE LA SUA SECONDA LAUREA IN ANTROPOLOGIA CULTURALE PRESSO L'UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA. LAVORA COME MEDIATORE CULTURALE, INTERPRETE, TRADUTTORE E TRA IL 2003 E IL 2006 COME GIORNALISTA PROFESSIONISTA PRESSO L'AGENZIA DI STAMPA ADNKRONOS INTERNATIONAL. IN ITALIA PUBBLICA IL SUO PRIMO ROMANZO, “LE CIMICI E IL PIRATA”, NEL 1999 E DAL 2006 INIZIA IL SUO LEGAME CON LE EDIZIONI E/O PRESSO CUI ESCONO TRE LIBRI, IL PIÙ NOTO DEI QUALI “SCONTRO DI CIVILTÀ PER UN ASCENSORE A PIAZZA VITTORIO”, VINCE NEL 2006 IL PREMIO FLAIANO E IL RACALAMARELEONARDO SCIASCIA, POI NEL 2008 IL PIÙ IMPORTANTE PREMIO LETTERARIO ALGERINO. NEL 2010 NE ESCE ANCHE UNA VERSIONE CINEMATOGRAFICA REALIZZATA DALLA REGISTA ITALIANA ISOTTA TOSO. I SUOI LIBRI SONO TRADOTTI IN DIVERSE LINGUE TRA CUI L'ARABO, IL FRANCESE, L'INGLESE E IL TEDESCO. Vista la sua origine algerina, perché ha deciso di migrare in Italia e non in un paese come la Francia, dove sarebbe stato avvantaggiato con la lingua? Quando sono partito nel ʻ95, era molto difficile ottenere il visto, ma un amico italiano, un antropologo, mi ha invitato allʼUniversità di Roma a tenere un seminario, questa è stata la mia grande opportunità per lasciare lʼAlgeria. Quando sono arrivato, mi sono posto subito la domanda: “Rimango in Italia o vado in Francia?” In Francia avevo dei grandi vantaggi parlando il francese e invece mi sono detto: sono in Italia, vorrei imparare un'altra lingua e quindi è stata una sfida culturale rimanere in Italia. In Algeria avevo seguito per anni il cinema ita-

liano e quindi ero molto affascinato dal cinema degli anni 60: Fellini, la commedia all'italiana. Mi sono detto: sarebbe bello rimanere in Italia, imparare l'italiano e vedere finalmente Alberto Sordi recitare in italiano, in romanesco. È stata una bella sfida. Perché in Algeria vedeva i film di Sordi? Doppiati? Doppiati in francese. Se vai a vedere i “Soliti ignoti”, Gassman balbettava, invece in francese perde tutto il fascino. Oltre ad essere uno scrittore lavora come mediatore culturale, stando così a contatto con persone che tentano di migliorare la loro aspettativa di vita arrivando qui in Italia. Rispetto al suo arrivo

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politiche, la battaglia era sull'immigrazione clandestina, perché è più facile fare una cosa che si chiama reato di immigrazione clandestina, poi bocciato dalla corte costituzionale, che fare il federalismo fiscale o tagliare le spese della politica. In questi anni la questione dell'immigrazione si è inserita nell'agenda politica. Le elezioni si vincono battendo questo chiodo; Sarkozy ha vinto in Francia, in Italia la Lega ha ovviamente fatto la sua battaglia, l'estrema destra nei paesi nordici ha raggiunto un consenso incredibile: individuando negli immigrati i nemici che rubano il lavoro, che portano delinquenza... Si possono vincere le elezioni, ma i veri problemi non saranno mai risolti. Lo stiamo vedendo adesso. La crisi economica mondiale non l'hanno causata gli immigrati, l'hanno causata le banche. Ora vi racconto quello che è successo a me. Nel ʼ99 ricevo una telefonata, mi chiama la mia banca e mi dicono: “Signor Lakhous, può venir gentilmente?” La banca non mi aveva mai chiamato prima, così mi sono preoccupato e sono andato di corsa: “Cosa succede?” “Non si preoccupi, si sieda. Senta, vedo che nel suo conto ha dei soldi, è un peccato lasciarli così, deve investire”. Io però sono un vigliacco, le borse per me sono come il gioco d'azzardo,

Elena Mazzalai

una quindicina di anni fa cosa è cambiato nei migranti e nello Stato che almeno moralmente dovrebbe accoglierli? La situazione è molto peggiorata, ad esempio sul piano amministrativo. Quando sono arrivato in Italia per rinnovare il permesso di soggiorno andavo senza appuntamento al commissariato di zona, portavo le pratiche e, se mancava una foto, tornavo dopo una settimana. Oggi è una cosa incredibile, per rinnovare un permesso di soggiorno si deve presentare tutta la documentazione alle poste, le poste la mandano alla questura, poi dalla questura la mandano al commissariato di zona e dopo tutti questi passaggi ci sono immigrati che ricevono il permesso di soggiorno dopo quasi due anni. Ci sono dei casi in cui gli immigrati hanno ritirato dei permessi di soggiorno già scaduti. Questo è solo un esempio. Una questione ancora più importante l'ho affrontato nel mio romanzo “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”, in particolare nella figura della portiera napoletana. Avevo intuito che era in corso una guerra fra poveri: gli Italiani che si sentono impoveriti, in difficoltà, invece di affrontare la realtà e decidere di non votare più una classe dirigente incapace, se la prendono con gli ultimi arrivati. Nelle ultime elezioni

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SCONTRO DI CIVILTÀ PER UN ASCENSORE A PIAZZA VITTORIO (edizioni e/o, 2006, p. 192)

Ascensore di un palazzo affacciato su piazza Vittorio, Roma, Italia: un giovane ragazzo, chiamato "Il Gladiatore", viene trovato morto. Nel medesimo giorno il signor Amedeo, rispettabile condomino, sparisce. I due fatti appaiono subito chiaramente collegati: il signor Amedeo ha ucciso il Gladiatore, forse stufo della sua arroganza, della sua maleducazione, forse preso da un raptus inspiegabile. Ma no, non può essere, non il signor Amedeo, così perbene, gentile con tutti, condomino e cittadino modello. Attorno a questa vicenda si sviluppa il romanzo dell'autore algerino Amara Lakhous, che alterna le testimonianze degli abitanti del palazzo, provenienti da paesi diversi, ognuno con la sua storia, origini, tradizioni e luoghi comuni. Ognuno fornisce la sua versione, ci presenta la realtà dal suo punto di vista, rivelando il suo modo di pensare caratterizzato da profondi stereotipi. Ed è proprio su questo che l'autore ci vuol fare riflettere. Fin dalle prime pagine riesce a costruire e a rappresentare, con linguaggio semplice e lineare, la complessità del nostro mondo: un'amalgama di culture che si comprendono con difficoltà. Ognuno ha i suoi pregiudizi e le sue paure, diverse e opposte rispetto a quelle degli altri. Nessuno viene risparmiato da quest'analisi impietosa, tutti abbiamo un parte di colpa nella mancanza di integrazione. Lakhous fornisce la ricetta per vincere tutto questo. Che cosa può mai essere se non la cultura, la voglia di informarsi, interessarsi, approfondire, “dare libero sfogo” alla propria curiosità? La particolarità di questo libro è il tentativo, ben riuscito, di proporre argomenti seri non con il solito sermone pedante, ma utilizzando un linguaggio fresco e frizzante, vicino alla realtà, quasi scanzonato. Una lettura leggera che, come ogni buon lettore sa, può essere fatta a più livelli. A voi scegliere quale. Elena Mazzalai

ma loro: “No no no, non ci sono rischi assolutamente, abbiamo dei prodotti sicuri”. Io volevo il prodotto più sicuro e loro mi hanno detto: “Parmalat”. Poi abbiamo scoperto come stavano le cose. Il crack Parmalat, Tanzi... ma sono state le banche a convincere i piccoli risparmiatori come me, come gli anziani che hanno perso i risparmi di una vita e alla fine sono stati truffati. Nessuno però tocca le banche e quando stanno per fallire le salvano. Il suo romanzo “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio” è ricco di personaggi proveniente da diversi Paesi, ma sembra esserci una totale confusione da parte delle persone sulla loro vera origine. Troviamo svedesi considerati olandesi, iraniani e bengalesi come pakistani e anche quando i protagonisti dichiarano la propria nazionalità non vengono creduti. Alla fine gli stereotipi dominano anche sulla realtà?

Quello dellʼidentità è un tema che mi interessa moltissimo e l'immigrazione ti mette di fronte anche a questa realtà. La cosa che mi ha sempre interessato è pensare alla gente che guarda l'identità come ad una certezza. Io invece l'ho sempre guardata come un processo aperto. Se impari una nuova lingua certamente la tua identità d'origine cambia, perché la lingua cambia il pensiero. Se viaggi e vivi per un periodo lontano, non tornerai mai come prima, perché andando fuori ti rendi conto che c'è una cucina diversa dalla tua, c'è un'altra cultura, un'altra religione, ci sono modi diversi di vivere. Per cui la tua cultura, la tua religione, la tua cucina può essere bella, ma non è l'unica. È il concetto dell'unico che è problematico, che porta poi al fondamentalismo, all'intolleranza, al non accettare l'altro. Quello che ho raccontato nel mio romanzo è una riflessione sull'identità come gabbia, come

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Luca Antonioni

catene; lo dice anche Amedeo nel romanzo: “L'identità è come una catena”. Si attacca alla lingua, alla religione e non si apre. Questo non vuol dire negare le proprie origini, la propria cultura, assolutamente, anche perché noi siamo come alberi no? Gli alberi non li puoi prendere, togliere con le proprie radici e trapiantare dove ti pare. Io ho sempre pensato all'identità come al riconoscimento della propria origine, senza doverla difendere ad oltranza. Sul tema dell'identità si inseriscono però i pregiudizi che vengono poi considerati come delle spiegazioni, delle teorie. Pregiudizio vuol dire che non ci sono prove: se uno arriva e mi dice: “Tutti i musulmani sono terroristi”, mi deve portare le prove che sono tutti terroristi, oppure che “tutti gli Italiani sono mafiosi”, come si dice all'estero, o che “tutti i rom sono ladri”. Su questi aspetti nel mio romanzo ci sono delle intuizioni, un artista parte da intuizioni, non da certezze, un poʼ come seguire delle strade pensando di trovare qualcosa di interessante. Ritiene che il suo sia un approccio nuovo a questi temi? Quella che secondo me è una novità è lʼaf-

frontare questi temi con tanta ironia e autoironia, perché sull'immigrazione spesso si parla in chiave tragica. Il mio prossimo romanzo è una commedia nera, ci sono omicidi però si ride sulla realtà e sui mass media. Personalmente non vedo nessuna differenza fra un giornalista e la gente che frequenta i bar, le cose che sento al bar, le sento in televisione, le sento in radio. L'intellettuale riprende degli stereotipi e scrive libri che diventano best seller. Prendete “La rabbia e l'orgoglio” di Oriana Fallaci: io quelle cose le ho sentite per strada, a piazza Vittoria, al mercato, gente che non ha mai studiato. Quindi Oriana Fallaci ha copiato la mia “portiera napoletana”. Con i pregiudizi è più facile ragionare. È facile pensare che tutti i rom siano ladri, mentre è più difficile andare a parlare con i rom e capire cosa pensano. Una volta ho incontrato un rom che chiedeva l'elemosina e ha cominciato a dire: “Questo è il mio lavoro: io mi alzo la mattina come gli impiegati e passo così tutta la giornata, fa parte della mia cultura, del mio lavoro”. Per me non è un lavoro, ma chi mi garantisce che sia veramente così? Per tre anni ho abitato vicino alla stazione

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di Trastevere, quando uscivo la mattina incontravo sempre una signora di trent'anni, la vedevo fumare e prendere il caffè. Poi apriva la borsa e cominciava a bendarsi la gamba, si metteva il foulard, tirava fuori il bastone e cominciava a zoppicare. Questa persona è un'artista. Io l'ho seguita giorni per guardarla, è bravissima, sembra proprio una vecchia, poi quando le danno delle monete lei dice: “Grazie signora” e muove la faccia, fa unʼespressione, è fantastica. Quella non è forse una performance, non è un lavoro? Forse dovremmo seguire anche il suo punto di vista e vedere cosa ne viene fuori, non semplicemente accettarlo, ma confrontarsi. Quello che voglio dire è che dobbiamo coltivare i dubbi, sono le certezze che ci danneggiano. Questo è quello che cerco di fare con i miei libri. Come ha vissuto l’anno scorso i festeggiamenti dell'Unità d'Italia? Le sono sembrati un'altra occasione per discutere sull'argomento dell'unità nazionale o sulla mancanza di coesione all'interno del nostro stato? Il 17 marzo 2011 ero a Torino, la città che è stata la prima capitale del Regno d'Italia. Per me è stata unʼoccasione di riflessione: 150 anni d'unità dimostrano come l'Italia sia ancora uno stato da costruire. C'è una parte d'Italia che ancora disprezza e rifiuta il concetto di unità, la propria bandiera, addirittura all'interno del Governo. È un'unità fragile, molto fragile e rende sicuramente più difficile l'accoglienza ai “nuovi italiani”. Prima gli Italiani devono integrarsi fra di loro e solo poi chiedere agli immigrati di integrarsi. Dal libro emerge lʼidea che “i razzisti non sorridano”, affermazione che mi ha ricordato il pensiero di Amos Oz: “il fanatico non ha il senso dellʼumorismo”. Il saper ridere, soprattutto di se stessi, è lʼarma più forte e a portata di tutti per vivere meglio con se e con gli altri?

DIVORZIO ALL’ISLAMICA A VIALE MARCONI (edizioni e/o, 2010, p. 192)

Non ha sicuramente scrupoli Amara Lakhous, quando descrive la situazione matrimoniale di Sofia da una parte e quella di Issa, spia dell'organo terroristico islamico “Al Qaeda”, dall'altra. E ciò è particolarmente apprezzabile. Inoltre, non è cosa banale riuscire a trovare un autore di origini algerine come Lakhous, che critica ironicamente, ma senza banalizzare, questioni delicate come sono quelle del fondamentalismo islamico e quella del ruolo femminile all'interno di alcune istituzioni, come ad esempio la famiglia o la società civile moderna. Il quadro che ci viene offerto è sicuramente alleggerito da uno stile scorrevole, privo di sequenze troppo complesse o pedanti. “Divorzio all’islamica a viale Marconi” è l'integrarsi di due storie apparentemente diverse, che coinvolgono due persone altrettanto differenti; di certo, ad Amara Lakhous non mancano l'immaginazione e la fantasia, qualità che riesce ad utilizzare all'interno della maggior parte dei suoi romanzi. Se dovessi consigliare questo libro lo farei ricordando ciò che ha catturato maggiormente la mia attenzione: la visione del matkub, del destino, giudice indiscutibile della nostra vita. In Occidente è quasi impensabile rassegnarsi davanti ad esso; l'uomo moderno, come può essere quello statunitense o quello europeo, per esempio, è forse implicitamente spinto a reagire, rivendicando una certa legittima “proprietà” della sua stessa vita. Il che è, nei limiti dell'accettabile, un'azione stimabile. Credo che Amara però cerchi di suggerirci una visione serena e senza rimpianti della vita, nella quale l'onere principale non consiste nell'ostinarsi a cambiare o modificare il nostro destino, ma di accettarlo ed apprezzarlo, essendo consapevoli di aver dato il massimo. Una sorta di fair play a lungo termine! Elena Foradori

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Certamente. Soprattutto l'autoironia. Una persona che si prende in giro, è una persona matura. Poi ci sono temi, secondo me, nei quali non serve la razionalità. Se uno per esempio, viene verso di me e dice “Tutti i Rom sono ladri”, io non posso fare altro che iniziare a ridere. È inutile discutere, inutile. La commedia o l'ironia è l'unico strumento per smontare e rendere ridicolo ciò che già lo è di per sé. Io l'ho fatto nei miei libri dove ho persino preso in giro le mie origini. Sophia in “Divorzio allʼislamica” prende in giro il marito musulmano e molte altre caratteristiche della sua cultura. È un metodo efficace perché leggero, un po' come la commedia all'italiana, che è riuscita più di altri generi ad affrontare la

realtà facendo sorridere il pubblico e spingendolo anche a riflettere. Mi viene in mente “Divorzio all'italiana”, “Sedotta e abbandonata” entrambi di Germi, nei quali si sollevano temi come l'importanza della verginità, i matrimoni riparatori. Qui ritroviamo ciò che c'era nei codici fino agli anni '60, cioè la donna stuprata che viene poi sposata dallo stesso stupratore per riparare al danno. Non parliamo di secoli fa, ma di qualche decennio. Nelle commedie all'italiana il divorzio è stato trattato con una leggerezza e allo stesso tempo unʼattenzione impressionante. Sempre in “Divorzio all'islamica”, si parla del “matkub”, il destino, una sorta di visione della vita alla “fair play”, cioè dare il massimo e accontentarsi del risultato come atto di fede. Vale anche per lei questo? Io credo nel destino e questo mi ricollega alla religione. Da filosofo penso che la religione sia importante nella vita. Una religione deve avere un obbiettivo: renderci più felici. Se non ci riesce, se al contrario ci rende tristi, non ne vale davvero la pena. Io cerco di interpretarla in questo senso positivo. Questioni come: “Perché viviamo o moriamo”, sono problemi ancora insoluti. Il maktub del mio romanzo cerca di aiutare ad accettare questi fatti apparentemente inspiegabili: Dio l'ha voluto, diamocene una ragione. “Un Pirata Piccolo Piccolo” parla di dittature, che esistono anche perché il popolo le ha permesse. Pensando al suo Paese, ritiene che il popolo algerino, come molti altri, non abbia reagito quando ha visto sorgere i primi sintomi di regime? Questo per un fatto di pigrizia o indifferenza? Se l'autoironia è un segnale per misurare la maturità di una persona, il vittimismo è un modo per misurare l'immaturità di ogni uomo; dare la colpa ad altri è immaturo e non porta mai lontano. Questo si ricollega

UN PIRATA PICCOLO PICCOLO (edizioni e/o, 2011, p. 176)

Hassinu rappresenta quella parte della società algerina - e non solo - in bilico tra la cultura dei propri padri e quella attuale, che ha timore di rivelarsi anche a se stessa. Il modo di porsi nei confronti della religione, della sessualità, della famiglia e della politica viene imposto da una democrazia fasulla che vuole controllare e sovrastare le decisioni di ogni singola persona. In questo contesto pesante e inquisitorio si svolge la vita del protagonista, un uomo fragile che si sente condannato da tutto e da tutti: il semplice fatto di essere ancora scapolo starebbe a significare che è posseduto dal diavolo, perché omosessuale. Tormentato dai giudizi dei suoi fratelli e vicini, Hassinu si rifugia nei programmi erotici della tv satellitare francese e tra le braccia di una prostituta disperata tanto quanto lui. Anche il suo rapporto con la religione è di gran lunga distante rispetto a ciò che tentano di inculcargli gli uomini dalla barba lunga e dallo sguardo accigliato. Le sue angosce, delusioni e tormenti sono accompagnate dall'affascinante musica rai, innovativa e di certo poco ortodossa. Elisa Bianchini

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alle vicende dei paesi arabi, che per anni hanno permesso alle dittature di restare lì. Crede che la primavera araba porterà a dei risultati positivi come l'instaurazione di veri governi democratici? Intanto hanno stroncato delle dittature. Il cambiamento c'è stato, ma per la democrazia serve tempo. Siamo in una difficile fase transitoria, ma ci sono i presupposti per sperare in un futuro migliore. Parlando del suo Paese, non crede che la donna venga privata della sua identità? Come Sophia in “Divorzio allʼislamica”, costretta a rinunciare al suo sogno per il marito. Certo, ci sono vari livelli di vita in questi paesi; vi è la dittatura che riguarda tutti e la doppia dittatura che vivono le donne: quella del Paese e quella dei mariti. Questa è una questione fondamentale, anche perché una società non può essere libera senza giustizia sociale e le donne vengono danneggiate da leggi e interpretazioni distorte della religione. Sul tema del viaggio, quale libro l'ha colpita maggiormente e ci consiglierebbe? I viaggi di Ibn Battuta, tradotto da Einaudi qualche anno fa. Lui ha vissuto nel XII secolo, è nato a Tangeri ed era un intellettuale vicino all'ambiente reale. Quando un giorno capisce di non andare più d'accordo con il re, vuole andarsene, ma il re glielo impedisce. Con il pretesto di fare il pellegrinaggio alla Mecca, che nessuno poteva impedire, ottiene il consenso dal re e per vent'anni gira per il mondo, dall'Italia all'India, raccontando viaggi straordinari. Come scrittore si sente apprezzato in Italia? Abbiamo letto delle critiche che ha ricevuto su Repubblica da parte del giornalista Marco Lodoli. Non credo che sia proprio una critica quella di Marco Lodoli. Ha scritto una recensione dove si complimenta per il titolo e in un secondo momento dice che, anche se il romanzo è stato comparato al “Pasticciac-

cio” di Gadda, secondo lui non gli arriva nemmeno alle ginocchia. Allora, se da una parte alcuni amici si sono lamentati, io l'ho ringraziato, dicendogli che mi ha fatto piacere il suo giudizio, poiché vuol dire che sono almeno riuscito ad arrivare ai piedi di quel romanzo straordinario. La infastidisce essere inserito nella categoria “scrittura migrante”? In Italia, nel mondo arabo e non solo, devo dire di essere abbastanza considerato e non è un problema se i miei libri sono catalogati come letteratura di migrazione, vorrà dire che facilito il lavoro ai librai che sanno dove mettere i miei libri e ai lettori che sanno dove trovarli. Apprezza qualche scrittore italiano in particolar modo? Mi piacciono molto Gadda e Sciascia. Sciascia come non tutti sanno è un nome arabo, significa cappello e anche il nome del suo paese natale è di origine araba: Racalmuto, villaggio morto.

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Fotografie di Massimo Pellegrini


INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI, ELENA MAZZALAI, ELEONORA FORTI, ELISA BIANCHINI, ELISA MOLINARI

ERRI DE LUCA

ERRI DE LUCA (NAPOLI, 1950). SCRITTORE, TRADUTTORE, POETA. A DICIOTTO ANNI, DOPO GLI STUDI LICEALI A NAPOLI, SI TRASFERISCA A ROMA, DOVE PARTECIPERÀ A LOTTA CONTINUA. SVOLGE LE PROFESSIONI PIÙ DISPARATE E STUDIA MOLTE LINGUE DA AUTODIDATTA. NEL 1989 PUBBLICA IL SUO PRIMO ROMANZO NON ORA, NON QUI, ACUI SEGUONO NUMEROSI TESTI CHE SONO GRANDI SUCCESSI EDITORIALI TRA CUI: ACETO ARCOBALENO, TRE CAVALLI, IL GIORNO PRIMA DELLE FELICITÀ. RARO ESEMPIO DI PROSATORE LIRICO, È STATO DEFINITO DAI CRITICI LO SCRITTORE DEL DECENNIO. Nei suoi racconti di viaggio è sempre presente un riferimento all'epico e al sacro. Quanto sono importanti per lei questi due elementi? Li ritroviamo nella vita di tutti i giorni? Il sacro c'è per quelli che lo avvertono, per quelli che vi sono sensibili, che hanno fede. Io riconosco epica la dimensione di viaggio dell'immigrazione, questa per me è la forma epica maggiore: persone che s'imbarcano su gommoni, persone che attraversano il deserto su delle carrette; persone che seguono un Nord Polare indicato solo dall'Orsa maggiore nel cielo. Gli arrivi e le storie singole di queste persone rientrano per me sotto la specie dell'epica. Manca forse un poeta epico che le racconti, ma la loro natura è ben chiara. Ne «Il giorno prima della felicità» scrive “I viaggi sono quelli per mare con le navi, non coi treni. L'orizzonte dev'essere vuoto e deve staccare il cielo dall'acqua ci dev'essere niente intorno e sopra deve pesare l'immenso, allora è viaggio”. Può spiegarci meglio cosa intende dire? Viaggio è una parola nobile, che non ha niente a che vedere, per esempio, con

quello che faccio io venendo qua (si riferisce alla sua presenza al "Book Festival" di Caldonazzo, Trento), prendendo un aereo per venire a fare due chiacchiere. Questo rientra sotto la specie di "spostamento". Sono preso come una merce imballata e consegnata a domicilio e poi rispedita indietro. E basta. Il viaggio inizia quando si va a piedi. Inizia per i pellegrini, per gli alpinisti, per gli scalatori. Anche decidere di andare a fare un viaggio in montagna... quello è un viaggio, perché c'è una destinazione e si procede a piedi. Con una premessa così, capite che il viaggio per me in mare è quello fatto a remi o in barca a vela come si faceva una volta. Che viaggio volete che sia una crociera? Se dovesse scegliere fra questi aggettivi per un viaggiatore: errante, ricercatore, turista, esploratore, amante, quale sceglierebbe e perché? Un viaggiatore è per me un viandante, uno che s'incammina e che fa tappa quando le energie del giorno finiscono. Viaggiatore è colui che misura il suo bagaglio in base alle sue forze. L'aggettivo per me è viandante. 21


Lei sostiene che fa viaggiare di più un libro che uno spostamento. La coinvolgono di più quindi i viaggi che compie con i suoi libri o quelli reali? E qual è il suo ideale di viaggio? Non ho un ideale di viaggio. In genere mi sposto mal volentieri, quindi non sono un esploratore. Il mondo è già stato esplorato. Mi aggiro qualche volte su delle pareti di montagna e le percorro a quattro zampe, che è il modo più lento di procedere che la nostra specie abbia inventato. Per rispondere alla prima domanda direi che quando scrivo sono fermo, non compio alcun viaggio. È invece quando leggo un buon libro che può nascere la possibilità di trasportarmi. Faccio questa differenza fra i libri che mi piacciono e quelli che non mi piacciono: i primi mi portano, i secondi li porto io. Se io devo essere anche portatore di quel libro, beh, quel libro mi cade di mano. Mentre invece se è il libro che si porta appresso tutte le mie quattro ossa, facendomi anche dimenticare il posto in cui mi trovo o facendomi perdere la fermata alla quale devo scendere, allora quel libro mi sta facendo viaggiare. Lei è un grande viaggiatore, ma allo stesso tempo è molto legato alla sua terra e a Napoli. Come si spiega questo binomio? Io non sono un grande viaggiatore. Sono uno che si è spostato per motivi di necessità, non per svago, a parte qualche gita sull'Himalaya, vista la mia passione per l'alpinismo, ma nulla più. Ma non rientro nella nobile specie del viaggiatore. Per quanto riguarda Napoli, mi sono staccato dalla mia terra a 18 anni. Provengo da lì ma non le appartengo più. Resta per me un luogo di provenienza. Non mi posso più dire uno “di quel posto” perché il genitivo me lo sono perso. Sono uno che viene “da quel posto”. Quella città non mi è stata madre, ma causa: io sono uno dei suoi effetti. C'è un luogo a cui è particolarmente legato? Io ho letto «Tre cavalli» e «Il gior-

no prima della felicità» e ho notato che era presente l'Argentina. C'è qualcosa che la lega a questo paese? L'Argentina è un posto dove nel '900 si sono trasferiti circa tre milioni di italiani. Dunque è un posto così pieno di italiani da far dire al poeta argentino Borges che l'Argentina è un paese di italiani che parlano spagnolo. Dunque non io, ma l'Italia, noi, questa nostra comunità ha molto a che spartire con l'Argentina, così come ha molto a che spartire con altri posti dove si è concentrata la nostra emigrazione. Ha molto a che vedere con città come New York o Toronto. In Brasile per esempio: San Paolo è la città italiana più grande del mondo e invece che stare in Italia si trova in Brasile. Dunque quei posti sono semplicemente dei luoghi dove la nostra comunità si è andata a installare, perché respinta dal suolo della madre patria. Se un giorno le venisse chiesto di scrivere un libro riguardo a due ragazzi e un viaggio, cos'è che non farebbe mancare alla sua narrazione? No, farei mancare tutta la narrazione. Io posso scrivere soltanto storie mie, non posso scrivere le storie di nessun altro. Con questo intende che è molto autobiografico? Certo. Assolutamente ed esclusivamente autobiografico. Ne «L'ultimo viaggio di Sinbad», nel corso del viaggio si crea una sorta di fratellanza fra gli emigranti e l'equipaggio della nave che all'inizio era molto ostile nei loro confronti. Questo genere di sentimento è l'ingrediente che manca al nostro Paese per poter andare avanti e ricostruire ciò che è stato distrutto? Non so che cosa intende per "distrutto". Secondo me rispetto a una volta siamo molto più individualisti. Sì, ma per pessimi che siamo, anche se ci inventassimo la pena di morte per gli immigrati, questo non fermerebbe i flussi mi-

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gratori. Quindi qualunque nostro atteggiamento di resistenza, ostilità, avversione, qualunque pessimo sentimento possiamo alimentare e sul quale organizzare anche delle forze politiche, non servirà a niente. Anche rispetto a noi, al popolo italiano, non solo rispetto agli immigrati. Noi, quando ci capita un guaio, ci comportiamo diversamente. Lo vediamo nei momenti del disastro, come ad esempio nel terremoto in Emilia: quando si è messi alle strette, viene fuori naturalmente la formula del mutuo soccorso. Ma non perché siamo buoni, perché è un'idea della natura, un'idea positiva della nostra natura. Abbiamo capito, sotto spinta naturale, che questo metodo rende più efficace la resistenza. Non si tratta di essere buoni, si tratta di essere pratici. Nelle emergenze la cosa più pratica è il mutuo soccorso. Come scrive i suoi romanzi? Scrive di getto oppure segue una riflessione? Siccome scrivo solo storie mie, l'innesco è un ricordo: quando improvvisamente mi ricordo di qualcuno e di qualcosa, allora mi

viene voglia di farlo durare quel ricordo e lo faccio durare scrivendo. Finché scrivo, quella persona, quelle circostanze stanno di nuovo con me. Io convoco quel passato e lo faccio stare presso di me finché dura la scrittura. Non lo so mai prima quanto dura la scrittura, una, due, tre pagine o un racconto intero. Però ecco, l'innesco è un ricordo e il mio gusto è quello di farlo durare. Il suo linguaggio, che è sempre così poetico, è frutto di una rielaborazione o le viene spontaneo? Non mi riconosco nessun linguaggio poetico. Io l'ho trovo così. Lei crea sempre immagini molto evocative... Molte immagini fisiche, sì. Perché quella è la mia esperienza, io non ho nessuna esperienza astratta, mentale. La testa non mi ha mai suggerito niente di nuovo. È sempre stato il capolinea dell'esperienza fisica, quella che poi ha potuto mettere per iscritto l'effetto di quell'esperienza fisica, piccola o grande che fosse. Quindi le mie

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immagini sono tutte materiali, fisiche. Io ignoro del tutto la scienza della psicologia e della psicanalisi. Gli unici filosofi che mi sono piaciuti, quando li ho studiati, erano quelli prima di Socrate. Quelli che non si occupavano di spiegare se stessi, non “conosci te stesso”, ma “conosci il mondo”. Quelli che volevano spiegare i fenomeni naturali, quelli che stabilivano che c'era il fuoco, l'aria, la terra e l'acqua come elementi principali. Ecco, quelli mi sono piaciuti, da Socrate in poi quella è un' indagine che non mi interessa affatto. Quando ha capito nella sua vita di voler intraprendere la carriera dello scrittore? No, io non avevo nessuna idea di intraprendere carriere. Mi sono tenuto compagnia con la scrittura fin da ragazzo. L'occasione della pubblicazione non è stato il traguardo di un corso di scrittura, ma è stato un incidente occasionale che è capitato intorno ai miei quarant'anni. E anche adesso, anche se da quella attività io estraggo il mio più che necessario, per me quello non è lavoro, è il contrario del lavoro, è un tempo festivo della giornata. Sente di lavorare quando? La parola lavoro per me è associata a quando facevo dei lavori manuali, quindi per una ventina d'anni, tra il '76 e il '96. Lei prima ha detto che i suoi racconti sono tutti prettamente autobiografici. A me ha colpito molto "Il peso della farfalla": cosa c'è di autobiografico in quel libro? Di autobiografico in quel libro c'è la mia osservazione naturale di quei posti e il mio ascolto delle storie dei bracconieri. Lei ha scritto che la voglia di viaggiare dell'uomo nasce dalla polvere con cui è stato creato Adamo, polvere portata dal vento. Mi ha colpito la lettura che dà della polvere, perché di solito la associamo alla noia, “lasciar lì le cose a prender polvere” suggerisce l'immobilità. Come le

nasce quest'associazione del viaggio e della polvere? Io ho stima della polvere, credo che quando la divinità dice che noi ritorneremo in polvere, vuol dire che non siamo annientati, ma viviamo in un'ultima consistenza, che era anche la prima consistenza, nella quale veniamo restituiti alla vita del mondo. Quel pulviscolo, quella granulometria minuscola del disfacimento rientra nella vita del resto del mondo, basta un poco d'acqua per rianimarla e per renderla concime. Un poeta, che scriveva in persiano, riconosceva nella manifattura del vasaio la polvere di cui erano fatti gli antenati, per il poeta il vasaio stava impastando il tempo delle vite precedenti. Curiosamente nella scrittura sacra il creatore viene spesso nominato come “yotzer”, cioè colui che fabbrica il vaso; Adamo è stato fatto con la polvere del suolo, questa qualità infinita della materia, non distrutta, non distruttibile, non riducibile a niente, è l'ultima consistenza della materia: Adamo è fatto di questa ultima consistenza della materia e dell'umidità del fiato della divinità, questo è quello che racconta il capitolo della creazione contenuto nel libro della Genesi. Quindi ho pensato che la polvere non era quella schifezza che noi giustamente togliamo dalle nostre case, ma era l'ultima resistenza della materia che non si fa annientare. Parla delle montagne che invecchiano e la cosa mi ha colpito perché le montagne sembrano impassibili di fronte al passare del tempo, come se fossero eterne. La montagna a che età dell'uomo le fa pensare? Le montagne, ma anche i continenti, sono a scadenza, perché il mondo si muove; c'è una continua creazione in corso e le manifestazioni di ciò che sta accadendo sono sotto i nostri occhi, per esempio i terremoti, che sono questo movimento delle zolle

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sottostanti che continuamente viaggiano, si muovono e si spostano. Dunque noi non abitiamo in un mondo fermo e fisso. Possiamo misurare le nostre rispettive durate, la Terra ha una durata, quando il nocciolo gigantesco di ferro comincerà a raffreddarsi la Terra sarà finita, le montagne hanno una durata: alcune crescono, alte decrescono, per esempio gli Urali sono in via di decrescita, mentre l'Himalaya è in crescita. La nostra durata è particolarmente insignificante, non solo la nostra individuale, ma come specie siamo recenti e abbiamo buone prospettive di sparire come tutte le altre specie. Da cosa deriva il suo amore per la montagna? Non è che lo puoi spiegare l'amore, altrimenti potremmo dire “me lo procuro pure io” e si va dal primo distributore a fare rifornimento. Magari c'è un episodio... C'è una trasmissione da parte di mio padre, che durante la Seconda guerra mondiale, nonostante fosse di Napoli, è stato un membro della fanteria alpina e la montagna gli ha salvato il tempo di quella maledetta guerra. È tornato da quella guerra con un sentimento di gratitudine nei confronti delle montagne e me lo ha trasmesso. Non vedo le montagne come degli sbarramenti, ma come dei rifugi; del resto poi l'alpinista è uno che non vede la montagna come un ostacolo, ma come un percorso. Le montagne non sono lì a dividere, anche se gli stati le usano come separazione tra di loro. L'alpinista irride il fatto che le montagne servano a dividere, anzi le sale da tutti i versanti, da uno all'altro... il Monte Bianco divide o unisce? Evidentemente per i confini e le amministrazioni statali divide, ma per un alpinista unisce, sali dai due versanti e ti ritrovi là sopra, in cima... L'alpinista è uno che calpesta e cancella i confini. Per questo mi è simpatica la montagna e la pratica dell'alpinismo.

Quindi questa passione non c'entra col fatto di essere nato al mare? No no. C'entra con mio padre e con il fatto che frequento la montagna fin da bambino. Ad un certo momento della mia vita ho cominciato a salirle, non solo a vederle, ma a metterci le mani addosso. Di suo padre dice: “Ho scritto i libri che non ha scritto, scalato le montagne che avrebbe voluto. Sono suo figlio perché ho ereditato i suoi desideri”. L'ereditare i desideri è una bella immagine del passaggio positivo tra le generazioni, allargando il discorso quale crede sia l'eredità che ha ricevuto dalla generazione di suo padre? Non si ereditano solo i desideri ma anche i rammarichi, le cose incompiute, i debiti. Si è più figli quando si ereditano i debiti, piuttosto che gli averi. I debiti sono un lascito che costringe a onorarli. Poi ci sono anche delle persone che possono rinunciare all'eredità. Per me invece quei debiti mi riguardavano. Dunque l'eredità di quella generazione è stata quella della guerra e del fascismo, quello che spettava a noi era di non ricadere in nessuna guerra e in nessun fascismo. È questo che lo ha spinto a far parte di Lotta Continua? Mi ha spinto a far parte dell'ultima generazione rivoluzionaria del '900 in Italia come altrove, non era semplicemente un'appartenenza ad un organismo locale. Era l'appartenere ad una generazione molto rivoluzionaria. Quest'anno è ricaduto il ventennale dall'assassinio di Calabresi, come ha visto e come vede tuttora questa vicenda? Io sono un testimone di parte, perché sono stato coinvolto, imputato in quel processo. Quindi la mia è una testimonianza di chi ha scelto di non farsi processare individualmente, ma collettivamente. Portiamo una responsabilità collettiva di quella e di tutte le altre azioni violente che la

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sinistra rivoluzionaria ha fatto in quegli anni, abbiamo una responsabilità collettiva e non la possiamo distribuire: quello è colpevole, gli altri no. Come italiani o come movimento? Come sinistra rivoluzionaria. Mi rifiuto di ragionare in colpevoli o innocenti, siamo tutti responsabili La sua generazione, quella che ha partecipato ad un certo tipo di antagonismo, è stata spesso definita "cattiva maestra". È una definizione... Insignificante, come chiamarli "anni di piombo", sono formulette che non spiegano niente, che non significano niente. Comunque stavamo scarsi a maestri. Abbiamo rinunciato in blocco ai maestri, abbiamo rinunciato in blocco a essere costola per esempio del partito comunista. Non eravamo affatto costola di quel partito, eravamo tutt'altro, una sinistra rivoluzionaria. Dunque maestri non ne abbiamo avuti, possiamo esser stati cattivi, ma senza maestri. Almeno io non ne ho riconosciuti da nessuna parte e anche quando mi sono messo a imparare le lingue, me le sono imparate da solo, non ho potuto avere a che fare con nessuno che facesse il detentore di un sapere, me lo sono procurato da me quello che potevo apprendere. Questo è capitato a me, è una questione di mia indisponibilità a farmi "docile", che vuol dire colui che è disposto a essere allievo. Dal verbo "docere" in latino, che è insegnare, il docile ("docibilis") è colui che è disposto a farsi insegnare, ecco io non sono docile. In «Il giorno prima della felicità» dice: “c’è una generosità civile nella scuola pubblica, gratuita, che permetteva ancora di imparare, c'ero cresciuto dentro e non mi accorgevo dello sforzo di una società per mettere in pratica il compito. L'istruzione dava importanza a noi poveri, perché i ricchi si sarebbero istruiti comunque. La scuola dava peso a chi non

ne aveva, faceva uguaglianza, non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari, il dispari cominciava fuori”. Oggi pare che invece la scuola pubblica sia un po' bistrattata. Il dispari è anche là dentro. Però lei ha appena detto che se l'è cavata da solo, allora come mai dà così tanta importanza alla scuola pubblica? La scuola pubblica per un Paese che era pieno di analfabeti era importantissima. Ragazzini, bambini che andavano a lavorare invece che andare a scuola. Quindi quell'istruzione era importantissima e faceva uguaglianza, permetteva a chi affrontando quei sacrifici riusciva ad andare a scuola, di avere un avvenire, un futuro. Fino ancora alla mia generazione i figli di operai potevano diventare altro, cambiare stato civile, non fare il mestiere dei padri, la quantità di questi era altissima, c'era una mobilità sociale che oggi non c'è. Mobilità sociale vuol dire che tu da un gradino basso della società puoi risalire la scala del ceto e dell'istruzione e dell'agiatezza. Ecco questo prima c'era, adesso non c'è più. Questo avveniva grazie a quella scuola dell'obbligo, a quella scuola ugualitaria che aveva questo puntiglio. Poi fuori eravamo tutti dispari, fuori il ceto valeva tantissimo, però lì dentro, quella scuola uguale per tutti permetteva anche agli strati poveri della popolazione di crescere, di istruirsi, quindi per me è stata importante. Però comunque questa scuola c'è ancora, come mai non è più motore di uguaglianza? Non lo so se c'è ancora, comunque so che in questo momento ci sono molti più figli di stranieri dentro le nostre scuole, che hanno molta più voglia di studiare magari dei figli dei nostri concittadini. Non ne so niente veramente, di scuola non ne so niente, una volta che me ne sono andato di lì non ci ho più rimesso piede e non avendo figli non mi sono impicciato di come proceda.

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Si è parlato di memoria, di memoria della generazione di suo padre, la memoria che può aver dato la sua di generazione, ma i giovani spesso vengono definiti una generazione "senza memoria". Andando per le scuole, incontrando i giovani, cosa pensa potranno lasciare in eredità un giorno i giovani di oggi? Non ne so niente. Ma non la incuriosisce il mondo dei ragazzi? Mi incuriosisce come uno che non ne capisce niente, non rispondo di questo. Mi incuriosisce come uno che sta a guardare, questa domanda va fatta a loro. Il giorno dell'apertura del Film Festival, quando lei stava presentando il suo nuovo libro, si è parlato delle nuove tecnologie (ebook) e della carta stampata che verrà un po’ a morire. Lei cosa ne pensa? È una cosa che influirà sul suo lavoro, sul suo scrivere? Sul mio no, non faccio più in tempo a modificare la mia andatura. Però io sono cresciuto in una stanza piena di libri di mio padre, che era la stanza più calda della casa, la più protetta e poi molti di quei libri venivano da un bombardamento, era l'unica cosa che si era salvata della casa distrutta di mio padre, quindi quei libri avevano resistito non solo ai bombardamenti, ma anche al successivo incendio, un po' bruciacchiati fuori, però dentro erano rimasti perfettamente integri. Ecco allora mi chiedo: se fossi cresciuto in una stanza con un solo EBook che conteneva tutta quella biblioteca, mi sarei ritrovato bene ugualmente? Intanto quell'EBook non avrebbe resistito al bombardamento né all'incendio, quindi mi sarei ritrovato senza libri. Io penso che comunque la materia prima della carta continuerà ad essere utile al libro. In una conferenza qui a Trento ha detto che l'umanità è obbligata a rischiare e il rischio feriale è quello che corrono i la-

voratori, mentre chi va in montagna accetta il rischio e ne è consapevole. È un bene o un male il fatto che ogni uomo sia costretto a rischiare anche non volendo per sopravvivere? Non è un bene per niente, dover uscire di casa sapendo che devi affrontare dei rischi per la tua integrità, per la tua vita, per la tua salute e tutto per portare a casa un po' di stipendio, non va bene per niente. È una strage che si produce regolarmente nei nostri posti di lavoro, più di mille morti all'anno, è un brutto segno del nostro vivere associati e invece la montagna è un rischio festivo che si affronta consapevolmente, per avere in cambio una giornata all'aria aperta, felice, riuscita. La montagna appartiene all'ambito del gioco, del tempo festivo, non del tempo coatto, obbligato, preso e venduto per salario. Il rischio della montagna quanto si lega al raggiungere la sua cima e quanto invece alla sua discesa. Credo che sia quasi più rischiosa la fase di rientro che la salita. Questo è staticamente dimostrato, la gran parte degli incidenti avviene sulla via di ritorno e non sulla via di salita. E questo è ovvio, perché il risultato è stato raggiunto, c'è uno svuotamento di tensione, di attenzione e anche di energie che sono state spese, quindi la discesa è piena di rischi. Ed è comunque la meta dell'alpinista, non la cima, ma il ritornare al punto di partenza. Quello è il traguardo dell'alpinista. La cima è semplicemente il punto intermedio oltre il quale non si può procedere, rispetto al quale bisogna invertire tutti i muscoli della salita, che diventano muscoli della discesa e sono altri. Proprio nel corpo sono altri, i muscoli che presiedono la discesa nelle gambe sono altri rispetto ai muscoli che presiedono la salita. E anche la testa cambia, nel salire o nello scendere? Personalmente quando scende vive la discesa in un modo diverso o

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riesce a mantenere la concentrazione? Io cerco di mantenere la concentrazione, come se stessi facendo una cosa difficile, perché la montagna non consente distrazioni. E già quando non hai distrazioni puoi essere sorpreso da circostanze imprevedibili. Quindi io conservo l'attenzione, per me e per quelli che sono con me in quel momento. Sempre nel suo precedente incontro qui a Trento diceva che quando sale, va più velocemente possibile e fa meno rumore possibile. Ma per esempio, quando vado in montagna, amo fermarmi, guardarmi intorno... Bene. Quando ti fermi, fermati. Quando ti vuoi guardare intorno, fermati. Sì, ma senza correre. Perché questo? Io non vado di corsa. Vado alla mia andatura. Ognuno va alla sua, ci sono quelli che vanno più svelti di me, altri che vanno più piano. Ognuno ha la sua andatura. Non

imporre agli altri la tua. Alla fine se stiamo insieme, se siamo tutti un bel gruppetto insieme, c'è chi arriva prima e chi arriva dopo e ci vediamo in cima. “Gli uomini sono animali dotati di parola, ma si trasmettono meglio con il silenzio”. Una strana affermazione per uno scrittore, che ha scritto tanto ed ha anche tradotto tanto. Forse la scrittura, la buona scrittura, è simbolo di un silenzio ben detto o piuttosto 'benedetto' nel senso che porta con sé qualcosa di sacro? No, la scrittura serve a tenere compagnia. Salvo casi di emergenza in cui può servire a più di questo. Per esempio, sotto una dittatura, la parola ha un valore di negazione del divieto, quindi è un valore aggiunto, anche la parola più semplice. Quando qualcuno ti dice: “Devi stare zitto” e tu parli, disobbedisci al tiranno che ti vuole far tacere. Ma salvo casi di emergenza come questi, la parola, il racconto, la letteratura

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serve a tenere compagnia. Io quando sto leggendo un libro, non sto per niente in silenzio, perché quello che sto leggendo si sta allestendo dentro di me. Io sto sentendo le voci, l'ambiente all'interno del quale lo scrittore mi ha portato, sono dentro una rappresentazione che avviene nella mia testa, ma che non ha niente a che vedere col silenzio. Il silenzio è una disposizione all'ascolto. Ti permette di ascoltare. Se ascolti musica, non ascolti ciò che è al di fuori della musica, perciò se la stai ad ascoltare come sottofondo per fare altre cose, non stai ascoltando. Non ti stai procurando la premessa dell'ascolto. Il silenzio è la premessa dell'ascolto. Che comincia quando io smetto di parlare. Nell'ultima pagina di «Tre cavalli», il protagonista afferma: “Se anch'io sono un altro è perché i libri più degli anni e dei viaggi spostano gli uomini”. Volevo chiederle un commento a questa frase. Le frasi che stanno dentro alle mie storie stanno bene là. Stanno bene in bocca a quella persona, in quel momento, in quel punto là. Tirarle fuori di lì e metterle fuori, su un muro, per me non ha senso, sono state messe fuori posto. Per me quella frase sta bene là, non una pagina prima e non in un altro contesto. Quindi non hanno un valore universale? Ma per niente! Hanno un valore molto particolare, molto specifico, in quel momento. Se mi metto a scrivere delle frasi universali, mi annoio. Non sono capace. Non sono efficaci le frasi universali. Secondo me hanno valore solo le frasi legate all'esperienza di una persona, che provengono dalla fatica, dalla vita, dai contrasti, dagli urti che una persona riceve. Quindi alla fine di quella storia stava bene quella frase, per quella persona, per quell'io narrante. Ci ha parlato di questo incontro-scontro con la scuola, ma a vedere una persona come lei, che scrive, traduce dall'ebraico, verrebbe da pensare che ama la cul-

tura. Come è avvenuto l'avvicinamento a questi studi che ha fatto per conto suo. Siccome sono stato costretto a studiare il latino e il greco, allora quello studio mi ha fornito involontariamente, cioè senza che io lo sapessi prima, la possibilità di andarmene per i fatti miei a studiare le altre lingue. Mi ha avviato in quel metodo di apprendimento delle lingue, l'alfabeto, la grammatica, il vocabolario e quindi mi è sembrato facile. È come piantare un albero, imparare una lingua. Non lo sai prima se quell'albero cresce. Lo metti lì, lo annaffi, vedi se il posto va bene e poi piano piano vedi se cresce, oppure se non cresce. Per esempio io ora studio il russo per conto mio, però vedo che non cresce, è un alberello stentato. Lo riesco a leggere, però... non viene. Non viene bene come altre lingue che ho studiato. Tutto parte da quella disavventura di aver imparato il latino e il greco. Ma le è tornata utile. Sì, ma se potessi oggi farei cambio, direi: al posto di tutte queste lingue fammi fare un’altra attività. Fammi fare il pescatore ad Ischia. Lei il lavoro manuale lo vede come un lavoro molto nobile? No, il lavoro manuale è una dannazione. Non ha niente di nobile. È una dannazione che devi fare per procurarti il salario. Poi ci sono quelli che hanno delle mani d'oro, che sono degli artigiani eccellenti e che quindi hanno anche soddisfazione in questo. La gran parte si procura da vivere con il lavoro manuale e comunque non vede l'ora di smetterlo e non desidera che i figli lo facciano. Quindi è un onore professare la carriera di scrittore? Più che un onore è una fortuna, che non ha quindi niente a che vedere con il merito. È indipendente. Non c'è un rapporto causa-effetto. È una fortuna e dal mio punto di vista un equivoco, ma non voglio approfondire.

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Fotografie di Alessandro Scillitani


INTERVISTA A CURA DI ELENA MAZZALAI, CRISTINA MAZZALAI

PAOLO RUMIZ

PAOLO RUMIZ (TRIESTE, 1947), GIORNALISTA, REPORTER E SCRITTORE PROLIFICO. INVIATO SPECIALE PER I QUOTIDIANI IL PICCOLO DI TRIESTE E LA REPUBBLICA, SI È OCCUPATO IN MODO PARTICOLARE DELL'AREA BALCANICA, SEGUENDO IL CONFLITTO E LA DISSOLUZIONE DELLA JUGOSLAVIA. NEL 2001 HA SEGUITO E DOCUMENTATO L'ATTACCO STATUNITENSE IN AFGHANISTAN. VINCITORE DI NUMEROSI PREMI E RICONOSCIMENTI SIA COME GIORNALISTA CHE COME NARRATORE. Lei è partito come inviato di Repubblica in qualità di esperto dei problemi dei Balcani. Come ha capito questa sua esigenza di narratore e testimone di storie? Fin dall'inizio del mio lavoro ho capito che la cronaca non bastava e che dovevo in qualche modo saper ascoltare le persone oltre a quelli che erano gli eventi quotidiani per capire anche le grandi tendenze, per capire dove andava il mondo, per capire che cosa ci riservava il futuro. Quindi non ho mai usato il mio mestiere soltanto per scrivere un pezzo giornalistico, l'ho sempre usato per un arricchimento personale di più lunga durata. E così è stato fin dall'inizio. Io abito sulla frontiera ed ero a contatto con tutta una serie di diversità etniche, linguistiche e politiche che mi sollecitavano, che mi sfidavano e che mi interessavano enormemente. Abitavo in un luogo molto particolare e questo è fondamentale per la mia formazione. Come mai viaggia sempre verso est, che lei chiama anche "Oriente" o "Aurora". In "Il bene ostinato" parla dell'oriente come la sua direzione maestra, perché questo richiamo? Abito sulla frontiera che guarda a oriente e

da oriente viene tanta buona parte della mia genealogia. Il grosso delle migrazioni vengono da oriente o da sud est, dalla parte più instabile del mondo, per questo la gente se ne va. E poiché questa frontiera così interessante era rivolta verso oriente io avevo questo desiderio di andare proprio in quella direzione. La frontiera era una specie di linea rossa che io detestavo perché era un elemento di separazione ma al contempo la amavo perché era un invito al viaggio. Il fatto che ci fosse un muro, il fatto che ci fosse una chiusura mi eccitava tremendamente la fantasia col desiderio di superare quel limite. Adesso è tutto più facile ma è anche un pochino meno interessante di quanto non fosse anni fa. Quindi alla fine le frontiere hanno un enorme valore propulsivo per chi ama viaggiare. Quando lei viaggia cerca storie, c'è una preparazione o sono i luoghi stessi dove basta fermarsi e ascoltare il vissuto della gente? Lei dice inoltre che gli italiani non sanno più viaggiare lentamente, che l'Italia la conoscono meglio i tedeschi. Non siamo più capaci di cogliere i segnali del nostro territorio? 31


Qui ci sono tante domande in una. Diciamo che uno può attraversare il territorio alla ricerca di qualcosa. La spinta di tutti i viaggi è il sogno di un luogo da raggiungere, o di un rebus da risolvere, o di una grande persona da incontrare. Però è anche vero che il vero viaggiatore durante il suo cammino deve arrendersi alle cose che il viaggio gli propone, anzi, arrendersi al viaggio in tutto e per tutto. Arrendersi al viaggio è un termine molto importante. E questo succede quando ad un certo punto si rinuncia a programmare. Sì, si ha una direzione maestra, però si ha anche la sensazione che questo è un pretesto in realtà per buttare una specie di rete a strascico sul mondo e farsi un po' pescatori di uomini, cioè quel che si trova si trova, si raccoglie e si mette da parte. La cosa più importante è che viaggiare ti permette di conoscere te stesso perché attraverso l'incontro con l'altro tu ti misuri. Tanto più è diversa da te la persona che incontri, tanto più forte è lo scossone che ricevono le tue certezze. Se una persona ti è non dico ostile, ma ti è completamente diversa, ti obbliga a riconsiderare tutta una serie di cose che tu pensavi acquisite. E da questo punto di vista è importante capire che il viaggio non è soltanto un riempirsi lo zaino di esperienze, cioè tornare con tante cose in più. Tante volte il viaggio è spogliarsi di certezze acquisite che poi si rivelano effimere e non reggono all'urto di una realtà più tosta. Tante volte si torna dai viaggi più "poveri", cioè con molte meno certezze, si torna più leggeri, si torna con molti meno luoghi comuni, si torna con una visione del mondo di grande complessità ma anche con tante sovrastrutture che crollano. Per tanti viaggi si parte per demolire i luoghi comuni. Io sono partito almeno due volte per un grande viaggio perché era infastidito dal termine "conflitto di civiltà", che mi sembrava una grande semplificazione di una realtà... come se esistesse solo il bian-

co e il nero e non tutte le tonalità intermedie. Il viaggio è proprio la scoperta di tutte queste tonalità intermedie. Per cui tu puoi sentirti a casa a 5000 chilometri dall'Italia e puoi sentirti uno straniero in conflitto col mondo a 500 metri da casa tua. C'è anche una sua riflessione sul fatto di ritornare in Italia, la fatica che ha fatto per tornare in un Paese in cui non si riconosce più. Lei oggi si sente in qualche modo straniero in questa Italia? Come se non si riconoscesse più all'interno della propria famiglia? O questa fatica di rientrare e non riconoscersi all'interno della propria famiglia, del proprio paese? È una situazione comune quella per cui appena vai via da casa tua ti senti uno straniero. Il vero viaggiatore è quello che si sente a casa sua un po' dappertutto. Ma, dice un vecchio detto ebraico: "Il vero uomo in realtà è quello che si sente straniero anche a casa propria." Mi dice l'amico Moni Ovadia: "Tenero dilettante è colui che si sente a casa propria in ogni luogo. Vero uomo è colui che si sente straniero anche in casa propria." Cioè questa condizione di estraneità per cui tu vedi delle cose e ti accorgi che la gente intorno a te non le intende e non le capisce è una condizione comune, penso, dell'uomo che sa guardare il mondo. Perché la maggioranza degli uomini non lo sanno guardare. Quindi è fatale: io sto bene in Russia ma è anche vero che quando torno a casa dopo la prima euforia del ritorno a casa, del ritrovare i miei paesaggi e tutto il resto, è anche vero che non riesco a comunicare con i miei conterranei perché ci sono delle cose che non sono comunicabili; c'è questo problema del ritorno di uno che ha tanto vissuto. Ulisse non viene creduto immediatamente quando rientra, quando lo ascoltano i Feaci, tant'è vero che lui non si svela fin dall'inizio. Penso che sia una cosa abbastanza normale. In "Maschere per un massacro" quello

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che colpisce e fa riflettere è il fatto che il bene è cieco mentre il male sa benissimo cosa vuole perseguire e raggiungere. Quando lei parla di rispolverare gli antichi miti... in fondo in Italia sta accadendo, rispolverare dei miti antichi che non hanno più nessun collegamento con la realtà odierna per fomentare divisioni fini a se stesse. Mi pare che i giornali italiani non l'abbiano mai messo in risalto, viene considerato una buffonata, mentre ha una portata spaventosa. È possibile che accada una cosa come nei Balcani? Davvero il bene è cieco e sciocco e lo stiamo vedendo: il mondo doveva cambiare dopo il 2008, Rampini scriveva che niente sarebbe stato più come prima, ma non è vero. Quello che sta accadendo è abbastanza chiaro. C'è una diminuzione delle risorse mondiali, la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi, sempre pochi predatori. Questi predatori hanno tutto l'interesse a tenerci in uno stato di confusione mentale, di cloroformizzazione della nostra vita attraverso la pubblicità, attraverso tutta una serie di cose per cui non ci fanno sentire la necessità di un soprassalto morale e la pesantezza stessa del rischio che stiamo correndo, perché devono completare l'operazione di esproprio. C'è una corsa ad accaparrarsi tutto: dalle spiagge, all'acqua, all'eolico, a mille cose. E loro hanno tutto l'interesse a far si che non si capisca di chi è la colpa. Allora che cosa fanno? Fanno quello che l'uomo fa sempre, Dividi et Impera, cioè ci mettono gli uni contro gli altri creando delle divisioni assurde e improbabili nord-sud, africani-non africani, cinesi, ecc... per trasformare un problema politico in un problema etnico. Così noi ci ammazziamo tra di noi e loro la fanno franca di nuovo. Perché è questo che è accaduto in Yugoslavia. Nei giovani d'oggi lei nota una maggiore sensibilità verso questi problemi, c'è una ripresa di interesse per la politica…

Ci sono dei segni di interesse sporadico più forte. Sicuramente sta crescendo dell'insofferenza, però non vedo grandi proposte sul cosa fare. Anche perché la classe insegnante è cacciata in un angolo. Non vedo una grande presa di coscienza, ma vedo l'aumento dell'insofferenza, questo sì. Chi vuole gridare il proprio malessere trova una quantità impressionante di megafoni, però le terapie ancora non sono chiare. Quando si viaggia ci si liberà da un fardello e si lasciano da parte tutti i surplus. Lei ha anche detto che il viaggio è un po' come prepararsi alla morte abbandonando tutte queste cose che non servono. Può precisare meglio questo concetto? Saranno quindici anni che viaggio seriamente. Ho cominciato tardino, e questi anni sono coincisi con un processo di progressivo alleggerimento del mio bagaglio. È un'operazione non soltanto logistica, ma anche mentale. L'abitudine che il meno è meglio, che il meno ti rende più leggero e in quanto più leggero sei più mobile e più capace di percepire la realtà. Sicuramente, poiché ogni partenza e ogni viaggio sono una metafora della vita, con le sue incognite, con la sua fase di preparazione... Il viaggio è un riassunto della vita: questa difficoltà a staccarsi dalle proprie abitudini, questa preoccupazione di chissà che lingua si parlerà dall'altra parte, sarò capace di farmi conoscere, quante cose mi devo portare... Alla fin fine questo alleggerimento portato al limite diventa partire senza niente. Il viaggio ideale è partire senza niente, verso un luogo di cui non si sa niente, per un tempo che non si sa. E non esiste niente di più simile a questo della morte. Per cui credo che uno che ha quest'abitudine a levare piuttosto che ad aggiungere arriva molto più preparato a questo momento che è il momento principale della vita, perché la vita acquista valore, spessore e gusto proprio perché c'è la ne-

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ra signora che ci aspetta. L'amore ha un valore dieci volte più forte se tu senti questa vicinanza accanto a te. Penso che arrivare ben preparati a questo momento sia la cosa più importante della nostra esistenza. Che non significa pensarci sempre. Significa tenerne conto e vivere ogni minuto e secondo sapendo che poi arriverà questo e bisogna arrivarci nel migliore dei modi. Lei ha usato l'espressione "viaggiare seriamente". Immagino che con viaggiare seriamente intenda come fa lei, cioè con tempi molto diversi dal viaggio del turista, e noi abbiamo una terra così bella che spesso non conosciamo. Come mai gli italiani hanno perso il gusto di conoscere la propria terra e viaggiare seriamente? Diciamo che un po' tutto il mondo sta perdendo il contatto col territorio, ma gli italiani in modo particolare. Noi abbiamo avuto un miracolo economico basato sull'automobile e quindi sul trasporto individuale, sul trasporto veloce, sulle grandi strade e sui grandi rettilinei per cui lentamente il territorio l'abbiamo perso di contatto. È un dato di fatto che gli italiani sanno pochissimo del loro territorio. Io ricordo che quando andai a vedere i disastri prodotti dal tunnel dell'alta velocità tra Firenze e Bologna, che aveva completamente disidratato e prosciugato i fiumi in superficie: alcuni dei sindaci dei paesi che erano stati più colpiti da tutto questo non si erano mai accorti che certi fiumi e certi torrenti erano scomparsi. Perché non erano più abituati a girare, non erano più abituati a battere il territorio. Quando una montagna non è più coltivata, quando i terrazzamenti sono lasciati andare, quando tu non sorvegli il territorio per la raccolta di funghi, o per la caccia a qualche animale, o per pescare eccetera eccetera, alla fine se non lo fai più ti lasci portare via tutto. Credo che ci sia proprio un disegno da questo punto di vista,

cioè ci vogliono far dimenticare il territorio per portarcelo via. Per cui oggi il viaggio lento è un'operazione rivoluzionaria, ossia riprendere il controllo del territorio, diventare una specie di guardia giurata di ciò che ci appartiene e al quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Quindi camminare soprattutto è un grande atto rivoluzionario che va insegnato fin da bambini. Oggi ci imbottiscono di viaggi virtuali, ci fanno navigare su internet, e tutto questo ha un grandissimo valore dal punto di vista della conoscenza, però se questo deve significare il non battere più i sentieri e le strade delle nostre città e delle nostre campagne e delle nostre montagne allora non ci sto. Temo che ci sia un collegamento tra tutte queste cose. Cioè diventa propedeutico ad un gigantesco scippo di ciò che ci rimane a livello di bene pubblico, delle cose che il buon Dio ci dà e che dovremmo avere gratuitamente. Ci ritroveremo tra qualche anno che per muoverci fuori città dovremo pagare, per respirare aria buona, per poter bere acqua buona. I mezzi che lei ha utilizzato, il treno, la bicicletta, sono delle scelte precise o casuali? Il mezzo di trasporto è fondamentale non solo dal punto di vista logistico, ma anche perché da una parte comporta delle operazioni di alleggerimento di cui abbiamo appena parlato, ma soprattutto perché con il modo che hai di viaggiare e quindi anche con il mezzo che scegli, tu comunichi qualcosa di te alle persone che ti incontrano ancora prima di parlare. Dici chi sei. Io arrivando con la Topolino mi dichiaravo chiaramente come un originale vagamente nostalgico di un'Italia perduta. Questo macchinino diventava una specie di esca perché le persone mi si avvicinassero e mi raccontassero le loro storie senza neanche bisogno che io facessi loro delle domande. Quando attraversavo in bicicletta i Balcani, appena usciti dall'ultimo atto della

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curiosità della gente - questo ovviamente funziona nei luoghi con poca popolazione - vedevo che la mia semplice andatura, il piccolo sacco che avevo sulle spalle, il bastone di ciliegio che avevo in mano, tutte queste cose qua lanciavano tutta una serie di segnali su chi era la persona che arrivava. Per cui già da lontano vedevi la curiosità che poi diventava, nel momento in cui ci si incontrava, pochi minuti dopo, una serie di domande e di scambio. Diciamo che la scelta del mezzo è anche una dichiarazione d'identità. Io sono questo, un uomo che cerca alcune cose che sono molto ben chiare. Non è necessario fare delle dichiarazioni e scrivere dei diari in cui ti palesi, ti metti delle sigle di appartenenza... Quello che conta è l'approccio al territorio che tu hai nel tuo modo di andare. Anche la scelta dei mezzi pubblici per esempio: se tu attraversi la Russia in automobile magari ti capita di essere rapinato o di essere taglieggiato dalle varie mafie che hanno invaso il Paese alla faccia di Putin. Se tu attraversi la Russia con i treni o con gli autobus non troverai nessuno che ti rapina, perché nessuno rapina uno che viaggia umilmente, ma soprattutto incontrerai una marea di gente che ti farà un sacco di domande, sarà curiosa di sapere da dove vieni, dove vai, e che automaticamente creerà con te un rapporto che aprirà la porta ad un incontro più profondo, a una cena, ad un pernottamento in casa di queste persone. Quindi è una dichiarazione d'identità e un grande facilitatore di incontri. Quindi gli incontri che fa lei non sono pianificati? Dipende. Quando io parto per un viaggio devo per forza pianificare alcune cose. Però siccome il viaggio non è qualcosa che puoi domare, il viaggio va per conto suo, vi dicevo prima che bisogna in qualche modo arrendersi al viaggio, tu comunque farai un sacco di incontri che non sono

guerra, quella del '99, i camionisti ci strombazzavano in segno di saluto, gridavano viva l'Italia, perché si erano passati la voce che c'erano tre matti che finalmente attraversavano il loro territorio in qualche modo sancendone il ritorno alla normalità. Il fatto che non avessimo paura di andare in un luogo che fino a pochi mesi prima era considerato malfamato, a loro faceva molto piacere. Quindi noi comunicavamo questo. Quando, poche settimane fa ho fatto da solo la traversata a piedi da casa mia alla punta meridionale dell'Istria, vedevo la

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pianificati e che spesso sono gli incontri più belli, perché l'incontro pianificato diventa alla fin fine una specie di intervista, quindi puzza di giornalismo, non è più intrigante dal punto di vista narrativo. Invece l'incontro casuale, che ne so, mi ricordo che una volta vedevo i battelli che passavano sul Rodano, ero alle chiuse di un posto vicino Lione, è arrivata una chiatta con un olandese a bordo con cui ho cominciato a chiacchierare. Lui mi ha chiesto: “Cosa stai facendo?” e gli ho detto: “Mah, sto facendo un giro alla ricerca da Annibale che passò da queste parti”e lui “Ah passò di qua, mi dica mi dica. Mi ricordo qualcosa che ho studiato quand'ero ragazzo...” Allora gli ho raccontato la storia e già le domande di quest'uomo erano estremamente interessanti. Recentemente si è diretto per la prima volta verso l'Africa. Qual è stata la sua impressione e l'impatto emotivo? L'Africa è un luogo che mediaticamente non vale niente, nessuno ha voglia di leggere di Africa, l'Africa non interessa quasi a nessuno. Forse perché non la si sa raccontare. Forse perché l'uomo di pelle nera ci è troppo alieno. Quindi noi di conseguenza tendiamo a vedere solo la parte negativa dell'Africa, come quando si parla della Sicilia, che tende a fare notizia quando c'è una strage di mafia e non per esempio quando c'è un grande evento, la scoperta di qualcosa, o quando un atto positivo emerge. Il sud fa notizia solo in ambito camorristico o malavitoso. Così è un po' l'Africa che tende a non fare notizia se non per le disgrazie. Questo me lo diceva anche Kapušcinski. Disse com'è pazzesco che i giornali non parlino della parte positiva dell'Africa, dei luoghi che a fatica sono usciti dalle guerre civili e stanno lentamente ricostruendosi. Non si danno grandi parole di speranza. È un paese che invece ha in se la capacità di ricrescere. In un viaggio africano torni con i valori un

po' rivisti. Da quando sono tornato dall'Africa io faccio un po' meno spesa rispetto a prima, ho il frigorifero meno pieno. Non perché penso alla fame nel mondo, ma perché penso che sia indispensabile nutrirsi meglio con poche cose più fresche, pensare alla quotidianità del pasto ma non ad accumulare per un mese. L'Africa ti insegna questo, perché in Africa tendono a consumare quello che hanno, poi quando finisce entrano in crisi di carestia e vanno a bussare alla tribù vicina. Quando io dicevo a queste tribù, ma come mai non coltivate più terre in modo da mettervi al sicuro dalla carestia, loro non capivano la domanda, perché era ovvio che quando il mangiare finiva presso la tribù A si andava dalla tribù B che era obbligata moralmente a dare una mano a quelli che non avevano. Il concetto "dacci oggi il nostro pane quotidiano" alla fin fine è questo. L'Africa per certi aspetti, e questo me l'hanno detto molti frati comboniani, anche quella più animista e meno cristiana ha dei valori di condivisione e solidarietà che sono assolutamente cristiani e più cristiani di quanto li applichiamo noi che dovremmo essere cristiani. Nella prefazione al libro "La sete di Ismaele" di padre Paolo Dall'Oglio, lei scrive che dopo il suo incontro con il priore del monastero di Mar Musa ha cominciato a cercare la sua fede nelle periferie o in Paesi lontani e marchiati come “canaglia”. Quanto il viaggio l'ha aiutata e può aiutare a riscoprire le proprie radici, anche quelle della fede, aspetto quest'ultimo molte volte trascurato o banalizzato? È un fatto che allontanandosi da Roma la percezione della forza del messaggio aumenta, proprio là dove il cristianesimo è minoritario e privo di tentazioni di potere. Un giorno in Etiopia ho visto una croce antica identica a quelle russe della profonda Siberia e ho avuto i brividi. La percezione della diffusione anche longitudinale di quel

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big bang vecchio di duemila anni è stata indimenticabile. Il suo riferirsi esplicitamente ai cosiddetti "stati canaglia" fa pensare che dietro all'immagine di Paesi attraversati da fanatismo e violenza si possa in realtà trovare la presenza di valori ben più profondi e positivi. È così? Quando ha scritto quelle parole a quali Paesi ed esperienze stava pensando? È la legge della gramigna al contrario. È un fatto che il bene alligna nel cuore del male, come per compensazione. La gente più bella della mia vita l'ho incontrata in Bosnia nel mezzo del massacro. Tornare nella mia Italia cloroformizzata dal consumo era sempre choccante dopo quelle trasferte. Ma anche in Italia è così. In posti malfamati come la Calabria ho fatto amicizia con anime straordinarie. Dai viaggi si torna cambiati, ma c'è qualche viaggio o qualche episodio particolare che l'ha toccata in modo concreto? Ci sono cose che non riesco più a fare o che al contrario ha iniziato a fare proprio dal ritorno di un suo viaggio? Non mi viene in mente in questo momento. Ogni viaggio tu ritocchi un po' il tuo equilibrio e il tuo modo di vita. Per esempio ho dovuto passare una settimana cercando di produrre meno anidride carbonica possibile. Ci sono riuscito molto bene, ho dovuto fare anche un trasferimento, un viaggio, quindi prendere un treno a basso consumo, caricarci sopra la bicicletta eccetera. Devo dire che è stato molto utile perché da allora la mia produzione di rifiuti è decisamente calata. Questo nasce anche dal fatto che come spiegavo prima tendo a fare spese minimali ma quotidiane, salvo situazioni di emergenza, o comunque a vuotare il frigo prima di aggiungerci altre cose, perché il mio frigo rischiava di diventare una tomba dei cibi, dove ogni tanto riemergevano delle cose dimenticate e andate a male. Non voglio che accada più.

Poi anche la capacità di ascolto che tu eserciti attraversando il mondo poi la applichi allo stesso modo sul pianerottolo, per la strada sotto casa, andando a fare la spesa o incontrando le persone lungo le strade del centro. Insomma, diciamo che nei viaggi tu ti alleni e un po' sperimenti stili di vita diversi che poi risultano utili nel momento in cui si torna. Ci hanno bombardato di necessità inutili. La cosa strana è che oggi si avrebbe la possibilità di viaggiare molto più leggeri di un tempo, perché intanto ci sono tessuti facilmente lavabili, per cui tu puoi anche partire con due sole camice, le lavi un giorno una e un giorno l'altra e a livello di abbigliamento puoi portare un quarto del peso che ti saresti portato prima. Hai dei sacchi a pelo che diventano piccoli come non dico un pugno ma poco manca, hai la possibilità di concentrare tutti i tuoi due o tre chili di libri e carte geografiche in uno schermino elettronico che pesa 200 grammi col quale puoi anche telefonare, puoi trovare il punto satellitare, puoi avere tutta una serie di informazioni sui luoghi dove vai senza portarti dietro libri, guide ecc. Oggi il viaggio potrebbe veramente essere pesante un decimo di quello che era un secolo fa, e invece questo non accade, perché da una parte ci danno questi strumenti e dall'altra però ci obbligano a portare le scarpe grosse all'ultima moda, a portare questo, quello e quell'altro, che sono in realtà totalmente inutili, anche perché non c'è niente che non si possa comprare lungo la strada. Io in anni di viaggi mi son reso conto che non è mai, ma mai, accaduto che non mi portassi qualcosa che mi sarebbe stato utile; ma sempre, anche quando partivo con 5-6 kg di roba per viaggi di un mese, sempre mi è capitato di dover dire: ecco, ho qualcosa di troppo. Quindi non porta souvenir. Gli unici souvenir possono essere qualche

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Paolo Rumiz

immagine, qualche disegno, qualche piccolissima cosa. Se c'è qualcosa che mi piace tremendamente e la devo portare, o la faccio spedire, oppure è talmente leggera che la posso tenere nel mio sacco, però a quel punto cerco di trasformarla in uno scambio. Cioè io prendo questa cosa ma ne regalo un'altra, di modo che alla fine lo spazio occupato nel sacco sia sempre uguale. C'è un processo di sostituzione che avviene all'interno del sacco, per cui alla fine hai sempre lo stesso peso ma hai cose diverse. Tornando al suo lavoro di reporter, ero rimasto colpito dal fatto che quando è stato in Romania durante la caduta di Ceausescu, lei è stato vittima della malainformazione. Ironizzava su se stesso ricordando che c'era un collega che faceva delle domande che le sembravano fuori luogo e di cui ha capito l'importanza solo in seguito. Di quell'esperienza ha detto di aver imparato a riconoscere l'odore delle bugie. Questo odore delle bugie è in qualche modo comunicabile?

Credo infatti che la disinformazione non sia diminuita, anzi se mai si è affinata, e forse serve un olfatto sempre più fino per poterla riconoscere. Diciamo che tutto il sistema informativo oggi è diventato spettacolo e quindi la negazione assoluta dell'approfondimento e della comprensione. Non è un tema che mi sento di approfondire, ma noi viviamo in una situazione di tale frastornamento sul piano emotivo, che potrebbero veramente darci da bere qualsiasi cosa. Noi oggi siamo imbrogliabili molto più facilmente e in modo molto più massiccio di quanto avremmo potuto esserlo trent'anni fa. Questo si può collegare in qualche modo al navigare e cioè a internet, che lei citava prima. Mi ha colpito di maschere per un massacro il sottotitolo, cioè quello che non abbiamo voluto, non abbiamo potuto, sapere. Oggi con internet si trova una quantità di informazione altissima. Ma queste nuove possibilità sono accompagnate anche da una rinnovata volontà di sapere?

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Sono quelle cose a doppio taglio. Io ho in mano un'infinità di strumenti che solo dieci anni fa erano impensabili, però è anche vero che tutta questa macchina informatica e informativa è altamente frastornante e abbiamo sempre bisogno di schiacciare il bottone cancella. Almeno un'ora della mia giornata è dedicata alla cancellazione di messaggi di posta elettronica e di sms che sono destinati esclusivamente a frastornarmi. Per cui arrivare all'essenziale in una simile abbondanza di notizie è molto più dura di una volta. Non è niente affatto detto che noi sappiamo di più. Io ho la sensazione che mia nonna avesse una percezione del mondo molto più acuta della mia. Lei aveva la vera sensazione di quanto fosse grande l'Europa, di quanto ci si mettesse ad andare dal punto A al punto B, di cosa c'era di mezzo; oggi sappiamo molto meno. È un tema complesso. Nel periodo che ha passato in Afghanistan come inviato di Repubblica, se non sbaglio lei era con Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera e ha fato forse la stessa strada su cui lei è stata uccisa. Dove si trova la forza e la volontà di rischiare la propria vita per andare a fondo nelle notizie, riportarle sui giornali, anche se poi alla fine la gran parte delle persone rimarrà legata a luoghi comuni. Ma per questo tanti giornalisti rischiano la vita. Dove si trova la motivazione? I due elementi non sono collegabili secondo me, cioè non è che uno più rischia e più capisce, anzi secondo me molto spesso chi rischia viene se mai frastornato da tutta una serie di elementi, non ultimo lo stress rende difficile capire le cose. È possibile che una persona che sia un po' più lontana dalla prima linea abbia una percezione degli eventi molto più lucida. Forse noi immaginiamo il lavoro del reporter come rischioso in sè… Assolutamente è rischioso. Per quanto mi riguarda io faccio fatica a sentire questo

rischio perché mi è andata sempre bene; io sento molto poco il pericolo, per una forma di stupida incoscienza che me l'ha sempre fatta fare franca. Quando partii per Kabul da Jalalabad, partii due giorni prima di Maria Grazia ed ero già salito in macchina con due colleghi, con un autista e con un interprete, ci eravamo fatti crescere le barbe per sembrare vagamente locali, e lei mi disse, quando arrivi a Kabul fammi sapere come è andata che prendiamo le nostre decisioni. Io quella sera molto tardi la chiamai verso mezzanotte, la svegliai e le dissi guarda, noi siamo arrivati senza alcun problema, viaggio interessante, secondo me puoi venire. Invece le ho dato il via libera per morire, perché son stato proprio io a dirle di partire. Probabilmente lo rifarei. Visto come mi è andata non agirei diversamente, non posso dire di essere stato imprudente, a me non è accaduto niente. Poi è successo quello che è successo. Ma non voglio entrare nei dettagli della morte di Maria Grazia che sono complessi. A me interessava capire, siccome parlava delle emozioni che vengono suscitate attraverso la scrittura e come su queste cose ci si possa anche giocare, quando uno nel narrare cerca di colpire l'emotività dei lettori. Lei sta attento quando scrive a questo aspetto, alle emozioni che può muovere? Perché penso sia qualcosa anche in questo caso a doppio taglio, perché può anche allontanare. Magari si gioca su un'emozione di un libro rimane quell'immagine e si perde il messaggio o l'approfondimento. Cioè la ricerca di non abbondare in effetti speciali? Sì, ma per lei è una cosa naturale lo scrivere o invece sta attento... Io naturalmente cerco di non abbondare in effetti speciali perché trovo che sia profondamente sleale. Cioè tu dai scariche di adrenalina ma non aiuti a capire. È impor-

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tante che tu cali gli eventi nel loro contesto e cerchi sempre di dare una spiegazione, magari attraverso un racconto controcorrente. Di fronte ad uno stereotipo vai per es. a cercare il suo contrario. Ricordo che quando entrai in un campo talebano abbandonato trovai un sacco di armi americane, chissà da quanto tempo, magari ancora dai tempi della presenza sovietica, ma queste casse piene di munizioni americane la dicevano lunga su cos'era accaduto e anche sull'ipocrisia di quella guerra. Qual è il viaggio più bello che ha fatto, il più brutto, e quello che vuole fare? Non so se riesco a fare delle graduatorie. Lasciamo stare gli incontri con le persone, perché gli incontri con le persone li fai ovunque, anche se ho la sensazione che nella parte orientale d'Europa gli incontri hanno una potenza emozionale molto più alta che in occidente. Lì c'è un'emozione dell'incontro, della condivisione del cibo, che è tutta un'altra cosa. Però di luoghi che mi hanno segnato, che mi hanno stregato, posso dirne alcuni: una è una regione di laghi e di fiumi della russia europea molto vicina alla Finlandia che si chiama carelia. Un territorio di una bellezza... io vorrei passare mesi in Carelia a camminare tra i laghi, i fiumi, queste basse montagne, pescando, muovendomi con una canoa canadese. Poi mi sono piaciuti moltissimo i fiumi dell'Ucraina, Dnepr e soprattutto il Dnester, sono luoghi di una potenza, ancora poco manipolati dall'uomo, con grandiose fortezze che li sovrastano. Poi mi ha molto colpito, nell'Europa orientale, i segni incredibili e onnipresenti e mai cancellati della presenza ebraica che ormai è quasi completamente scomparsa con l'olocausto e poi con l'emigrazione in Israele. Poi le coste atlantiche, dal mar d'Irlanda fino giù al Marocco e al Senegal, l'atlantico ha una potenza unica. Sono innamorato cotto della Turchia, l'altopiano anatolico... cominci a sentire la dimensione delle grandi

distese dell'Asia, senti l'Oriente, senti le carovane, senti il rumore del gong, senti strumenti musicali che non ti appartengono. Poi forse l'Appennino. Cioè l'Appennino è un mondo che ha una carica di mistero ancora potentissima e dove lo spopolamento ha creato degli spazi di avventura inimmaginabili cinquant'anni fa. È un luogo molto a rischio perché sempre meno abitato e l'uomo lo presidia di meno, però è anche vero che se tu oggi dovessi attraversare l'Appennino un po' all'avventura, sarebbe un'avventura tosta, molto tosta, perché dovresti tracciarti la tua strada, dovresti attraversare ostacoli, ti troveresti sicuramente di fronte ad animali non proprio raccomandabili come i cani abbandonati e inselvatichiti. Insomma ne hai di esperienze da fare nell'Italia di oggi. Quale tipo di spazio vitale è divenuto oggi la montagna? Cosa significa vivere in montagna per quanto lei ha potuto vedere nei suoi viaggi nelle Alpi e appunto negli Appennini? Vivere in montagna oggi, nei luoghi non filmati, significa essere lontani dalla politica, essere dimenticati, significa che da ottobre ad aprile tu vivi sei/sette mesi all'anno di solitudine, di tristezza e di buio. Sono luoghi che non vanno giudicati d'estate ma d'inverno, quando i turisti non ci sono più. Oggi la montagna è un mondo di vinti, un mondo subalterno che ha urgente bisogno di essere rappresentato. È fondamentale che la città offra il suo appoggio a questi territori anziché sfruttarli. Le città devono ritrovare il loro ruolo di leadership, così Trento nei confronti del Trentino o Biella nei confronti del Biellese, però non c'è mai perché in Italia viviamo in un antagonismo mai risolto tra i centri cittadini e il contado che li circonda. Il centro amministrativo viene spesso guardato come una fregatura, il luogo dell'imbroglio e della malversazione. Manca l'assunzione di un ruolo culturale di guida da parte delle città che han-

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no un territorio vasto e significativo. L'Italia deve segnare una riscossa del piccolo nei confronti del grande: il piccolo spesso è virtuoso, il grande è corrotto e malavitoso, politicamente ammanigliato con poteri occulti. Come per l'acqua: c'erano dei comuni che avevano dei sistemi idrici perfetti, virtuosi, a basso costo e sono costretti a consorziarsi con comuni che hanno acque avvelenate, sia dal punto di vista della qualità sia dal punto di vista politico. Ti tocca inquinarti.

ganizzazioni che lo intruppano, se lo prepara, se lo sogna, si cerca le carte giuste, si costruisce la sua piccola avventura, fatalmente comincerà un dialogo tra sé e il terreno che calpesta, parlerà alla terra, sentirà che le cose che ha nell'anima cominciano a girare dentro in un modo molto più vivace, come un bel fiume di montagna, ti spumeggia dentro una creatività e anche un modo di scrivere, una lingua diversa. La scrittura di chi cammina è molto più rotonda della scrittura di chi sta fermo.

L'Italia è divisa in due oggi: tra virtuosi e non, tra quelli che pagano le tasse e quelli che no. Speriamo che resistano i virtuosi e un domani abbiano il sopravvento. Bisogna mostrare degli esempi positivi, la politica deve farsi punto di riferimento dei migliori. Purtroppo fino ad ora non l'ha fatto. Magari questo governo qualcosa fa, spero. Speriamo. Noi saremo arrivati alla fine. Vorrei aggiungere che il viaggio è propedeutico alla scrittura, quindi chi affronta un viaggio senza rete, cioè senza grandi or-

Se tu vedi sorgere la luna dalle colline camminando o dopo aver camminato, alla fine di una lunga giornata di cammino, tu descriverai quel momento con una frase molto più nitida e più bella. Il cammino ci costringe a riacquistare il senso dei luoghi, il senso delle stelle, la luna, il sole, la notte, dei grilli, delle grandi cose importanti che ci aiutano a farci leggere dentro. Per cui noi, quando riacquistiamo questo rapporto, e non ci vuole mica tanto, riacquistiamo anche un rapporto con noi stessi, con le nostre memorie, con i nostri ricordi, dubitiamo meno di noi stessi.

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INTERVISTA A CURA DI IRENE LUCE PARISI, IRENE TASIN, TOMMASO TONINI

MARCO AIME

MARCO AIME (TORINO, 1956) ANTROPOLOGO E SCRITTORE, INSEGNA ANTROPOLOGIA CULTURALE PRESSO L'UNIVERSITÀ DI GENOVA. HA CONDOTTO RICERCHE IN AFRICA OCCIDENTALE (BENIN, BURKINA FASO, CAMERUM, MALI, TOGO) E SULLE ALPI. IL SUO PERCORSO PERSONALE APPARE DEL TUTTO PARTICOLARE, DIPLOMATOSI COME PERITO ELETTROTECNICO NEL 1975, LAVORA PER UNDICI ANNI PRESSO UNA GRANDE INDUSTRIA ITALIANA DELLA GOMMA E NEL FRATTEMPO INIZIA I PRIMI VIAGGI EXTRAEUROPEI. SI LAUREA NEL 1988 PRESSO LA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA DELL'UNIVERSITÀ DI TORINO E INIZIA L'ATTIVITÀ DI GIORNALISTA-FOTOGRAFO FREE-LANCE PER NUMEROSE TESTATE NAZIONALI (LA STAMPA, AIRONE, NIGRIZIA...) REALIZZANDO ANCHE LAVORI DI REPORTAGE E DOCUMENTARI. DAL 1993 INIZIA LA SUA ATTIVITÀ DI ESPERTO IN AMBITO ANTROPOLOGICO E INTERCULTURALE TENENDO INTERVENTI NELLE SCUOLE E COME DOCENTE IN CORSI DI FORMAZIONE PER EDUCATORI, DIPENDENTI COMUNALI E UNIVERSITÀ DELLA TERZA ETÀ. DAL 2001 DIVIENE DOCENTE PRESSO L'UNIVERSITÀ DI GENOVA, FACOLTÀ DI LETTERE. Quale legame c'è tra l'antropologia e il viaggio? L'antropologia si basa sul viaggio. Una delle definizioni più belle di antropologia l'ha data un antropologo americano che si chiamava Clyde Kluckhohn, per lui “l'antropologo è quella persona che per tornare a casa fa il giro più lungo” e questo perché andare in qualche angolo di mondo per incontrare gli altri ci aiuta a capire meglio noi stessi. Esiste un'antropologia senza il viaggio? L'antropologia non può esistere senza viaggio. Il viaggio non deve essere per forza lungo, può essere relativamente breve, però l'antropologia è fatta di spostamenti. La ricerca viene fatta in un contesto che è diverso da quello di appartenenza. Quindi le due cose sono inscindibili l'una dall'altra. Nelle prime pagine del suo libro: "Gli uc-

celli della solitudine", racconta come la gente rimane sorpresa nel vedere un antropologo che, invece di stare chiuso in un'università a leggere libri, viaggia molto. Può spiegarci come fa ad unire la parte del professore universitario a quella del viaggiatore? Se fai antropologia non puoi scrivere libri solo rimanendo a casa, se vuoi capire qualcosa del mondo devi girare. Sant'Agostino diceva che il mondo è come un libro e che chi resta a casa legge sempre e solo la stessa pagina. Ecco, se uno vuole provare a leggere qualche capitolo in più del libro del mondo, l'unico modo è quello di riuscire, quando è possibile, a spostarsi ed incontrare il diverso, l'altro. Cosa coglie in più o di diverso il viaggiatore-antropologo rispetto ai comuni viaggiatori?

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Spesso i comuni viaggiatori o turisti, si muovono molto e non rimangono a lungo in un posto. L'antropologo invece fa un viaggio ma poi rimane a lungo in un posto, ci rimane per dei mesi e a volte anche per un anno. La differenza è in questo, l'antropologo è uno che poi finisce per essere di casa fuori casa, quindi invece di spostarsi rimane perché deve stabilire dei legami con le persone per condurre le proprie ricerche. La cosa affascinante dei suoi viaggi è che invece di descrivere il paesaggio o di dare un giudizio esterno sulla vita degli abitanti del posto, lei si amalgama alla società e riesce perfettamente a dare una sensazione di appartenenza a quei Paesi. Come ci riesce? Ecco, questo fa un po' parte dell'attività dell'antropologo, il cercare di riuscire a cogliere un po' più in profondità il Paese in cui ci si trova, ma per quanto si possa convivere con delle persone non si arriva mai ad appartenere totalmente ad un'altra cultura, semmai dopo tanti anni si arriva a familiarizzare con una cultura. Il problema è il tempo, bisogna avere tempo, rimanere in un posto, avere pazienza e voglia di parlare con la gente, chiacchierare, ascoltare e cercare piano piano di capire in che modo loro pensano, in che modo loro leggono la realtà e il mondo che li circonda, ecco è un lavoro di costruzione e di pazienza fatto di piccoli passi. Nella mia esperienza ho notato come le cose viste e vissute durante un viaggio acquistino più importanza se raccontate al ritorno a casa; a volte si cerca di essere il più ricettivi possibile per ricordare e poi raccontare ma non per vivere sul momento l'esperienza. Anche nel suo libro "Timbuctu" viene presentato questo "processo" riferendolo agli esploratori occidentali del primo ottocento: "un luogo, un popolo esistono [...] nel momento in cui c'è un'interazione con chi poi li racconterà". Il triangolo tra esploratore, il

luogo visitato e il pubblico uditore. Come mai accade questo? Prima di tutto va detto che il viaggio già di per sé porta ad uscire dai nostri costumi e da ciò che facciamo tutti i giorni e proprio quando siamo fuori dalla nostra routine ab-biamo anche una diversa percezione della realtà e i nostri sensi sono molto più attenti. Siamo molto più attenti a cogliere voci, odori, sensazioni che non quando siamo invece nella nostra realtà quotidiana, dove ci abbandoniamo un po' alla normalità. L'esperienza del viaggio muta i nostri sensi e fa sì che poi cambi qualcosa in noi, se siamo dei viaggiatori attenti. In questo senso è normale essere più ricettivi e cogliere più facilmente l'aspetto della diversità. Non a caso infatti, anche in quanto antropologo, è più facile cogliere gli aspetti sociali, culturali di un altro popolo che non del proprio. Perché appunto è più facile vedere le diversità che le analogie. Tutto questo vale per l'antropologia, ma anche per la fotografia, la documentaristica o la letteratura di viaggio. È vero però che ognuno di noi legge il suo viaggio in modo non oggettivo ma soggettivo, per cui quel posto e quell'incontro, quelle popolazioni, quelle persone sono diverse forse a seconda di chi le racconta. Che importanza hanno le descrizioni in una narrativa di viaggio? Sono fondamentali, perché spesso molti di noi sognano di andar in un posto e magari ci vanno proprio partendo dalle descrizioni, quindi dal modo in cui quel posto ci è stato raccontato. Una volta arrivati può succedere di trovarlo assolutamente diverso da come è stato descritto, perché la descrizione è soggettiva, però sono le descrizioni, sono i racconti di viaggio, che in fondo ci fanno sognare e ci fanno venire voglia di andare in qualche posto. Nei suoi libri fa molte citazioni da altri libri, sono frutto di un'accurata ricerca o è qualcosa che lei ha nella memoria?

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TA. IL TERMINE VIAGGIO È, IGNIFICANTE, POLISILLABICA E COR INS OLA PAR UNA TE MEN NTE ARE APP PUÒ ASSUMERE ALTRI VACANZA, SABBIA, SOLE E MARE. MA DI LLO QUE A ATO OCI ASS , NON E INCONSCIAMENTE : UN VIAGGIO ALLA O PUÒ AVVENIRE DENTRO TUTTI NOI GGI VIA IL DI. FON PRO PIÙ E ALI USU SIGNIFICATI, MENO NI DA VOLER , MODI DI FARE, PREGI E DIFETTI, SOG ERE ATT CAR E DIR L VUO CHE IL , SSI SCOPERTA DI NOI STE O LUNGO UNA VITA. REALIZZARE... INSOMMA UN VIAGGI

VIAGGIO.

ANXHELLA BLLAMA gioco i nostri sensi: la nostra mente cambia quando siamo in movimento, non quando siamo fermi. Oggi però con i mezzi di trasporto moderni, l'aereo soprattutto, spesso questa fase viene quasi annullata o ridotta a poco. Noi partiamo da un aeroporto e in due-tre ore ci troviamo improvvisamente in Africa, in Asia, in un'altra parte del mondo senza avere la percezione di quanta strada abbiamo fatto. Quel viaggio, che una volta richiedeva settimane o mesi, oggi avviene in due ore, in un aereo che atterra in un aeroporto uguale al primo, perdendo la percezione di quello che c'è in mezzo. In questo senso come posso capire se ciò che ho intrapreso è veramente un viaggio? È più facile definirlo al ritorno? Oggi, quando partiamo per un viaggio come turisti, come viaggiatori, abbiamo in testa già una certa idea di come sarà quel posto, perché in qualche modo quando scegliamo una meta l'abbiamo già vista in qualche documentario o in qualche rivista. Quindi il viaggio diventa sempre meno scoperta e sempre più verifica. Però poi, la realtà che incontriamo non sempre coincide con quello che immaginavamo prima di partire. Il viaggiatore attento è quello che si mette in gioco, che è anche disposto ad accettare le contraddizioni del suo immaginario e quindi a scoprire che ciò che pensava non

No, no, sono frutto di una ricerca. Da un lato c'è una ricerca sul campo, che uno fa in prima persona, però bisogna tener conto che anche altri hanno scritto e quindi va fatta una ricerca di tipo bibliografico sui testi già scritti sull'argomento. È sempre necessario informarsi o leggere quando si svolge un qualsiasi tipo di viaggio? Dipende qual è lo scopo. Se uno va in un posto solo per stare al mare o ammirare il paesaggio, forse non è così necessario informarsi. Se uno comunque, anche in un viaggio di piacere, vuole cercare di capire qualcosa del posto dove si troverà, leggere qualche libro, qualche guida, qualche articolo di giornale o guardare qualche sito internet sul posto, contribuisce a capire meglio la realtà in cui si troverà a fare il suo viaggio. Lei distingue in modo netto viaggiatore e turista: il primo si sposta ed è in movimento, l'altro invece scandisce il proprio viaggio sulla base di partenze e arrivi senza “transitare”. Può spiegare meglio? Sì, la parte di cui forse meno si parla, quando si parla di viaggi, è proprio ciò che sta in mezzo al partire e all'arrivare. In genere si parla di punti di partenza e di mete d'arrivo, ma è lo spazio che c'è tra l'uno e l'altro, il transito che più di tutto mette in

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è così come lui se l'immaginava. Ma è qui che la vera esperienza c'insegna qualcosa e allora al ritorno si può avere un'idea vera e concreta solo se si lascia a casa una parte del nostro immaginario. Esiste anche un turismo super lusso, come ad esempio alberghi costruiti sotto il livello del mare raggiungibili in ascensore come il “Poseidon resort” alle Isole Fiji. Cosa pensa di questo tipo di turismo? Quando magari si trova a camminare per ore nel deserto non ha mai la tentazione di fare cambio con una bella suite vista fondale marino? Ovviamente il turismo ha molte facce, tra cui anche quella del lusso che, confesso, è proprio quella che conosco poco o per nulla. Il problema però non è tanto il lusso in sé, è il lusso "dove": se facciamo un hotel di lusso in Sardegna o a Cortina d'Ampezzo, rientra in un'ottica bene o male già consolidata. Diverso, direi scandaloso, quando si vengono a creare delle isole di lusso sfrenato in un contesto in cui magari la gente vive in condizioni di disagio e di povertà. Questi grossi hotel stridono con la realtà che li circonda e spesso i turisti volutamente vengono tenuti chiusi in certi villaggi proprio per non incontrare la realtà del posto che potrebbe mettere in crisi l'immagine che si sono fatti. È qualcosa di comune a tutti i giovani, anche di diverse etnie, la voglia di affrontare viaggi senza molte risorse a disposizione proprio per vivere un’avventura? Sì e no, diciamo che quasi tutti i giovani hanno la tendenza a muoversi e a conoscere cose nuove. Quando si tratta di viaggi per raggiungere l'Occidente o l'Europa, come vediamo spesso nei nostri telegiornali per gli sbarchi a Lampedusa, è una spinta che deriva dall'immagine che viene trasmessa dall'Europa. Parlando dell'Africa, che è il continente che conosco meglio, in molti dei suoi Paesi la televisione tra-

smette continuamente immagini, pubblicità, quiz europei, quindi immaginatevi quando il tuo reddito è sui 250 Euro in un anno, cosa significhi vedere un quiz come i nostri (Gerry Scotti o simili) in cui una persona risponde a quattro domande e vince 25.000 Euro. Ovviamente ci si fa l'idea che l'Europa sia l'Eldorado, dove tutto è facile e questo innesca la voglia di tentare l'emigrazione verso l'Europa. Perché si ha l'abitudine di classificare il viaggio all'interno di gruppi, per esempio: viaggio mentale, di lavoro, di piacere, d'istruzione... non è possibile realizzarne uno che li comprenda tutti? Se si va in un posto ci si va per un motivo, se ci si va per lavoro, ci si potrà anche divertire, però non è il fine ultimo. Io non credo molto nel viaggio mentale, il viaggio mentale non mette in moto i sensi del corpo, il viaggio sì; il viaggio ti fa sentire il caldo, il freddo, gli odori, il sole, i suoni della terra, il viaggio mentale no, non si suda nel viaggio mentale, quindi quello lo metterei su un altro piano, per il resto dipende. Il viaggio ha tante forme, ma in genere se uno viaggia ha uno scopo principale, parte con una determinata idea, con una motivazione. Quando ci siamo trovati a riflettere sul significato di viaggio sono emerse varie parole usate per definire il viaggio: avventura, diverso, lontano, curiosità, scoperta, novità, ma anche libertà. Si può dire che la libertà sia uno stravolgimento della propria routine? Si, il viaggio è sicuramente un segno di libertà, anche se non è l'unico, una persona può essere libera anche all'interno della sua società, diciamo che quando il viaggio è fatto di propria scelta è un segno di rottura con la routine e la quotidianità. Il viaggio è l'uscita dal quotidiano, dal costume, dalle abitudini, dai ritmi, dai tempi e dai luoghi, che noi tutti i giorni conosciamo e frequentiamo ed è un'immersione in una realtà

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Stefano Paternoster

anche di percezione sensoriale totalmente diversa. Nessuno invece ha messo come caratteristica il saper ascoltare. Nel conoscere, nel capire, l'ascolto è essenziale. Oggi sarebbe facile dire che le persone faticano ad ascoltare... lei su questo è pessimista oppure ottimista? Io tendo sempre ad essere ottimista... Credo che ci siano ancora molte persone che abbiano voglia di ascoltare. Ascoltare è più faticoso di parlare, perché bisogna essere attenti; però è anche vero che le relazioni umane si basano sull'ascolto reciproco, se venisse meno questa dimensione finirebbero anche le relazioni umane, non solo tra noi e gli altri ma anche all'interno di una comunità. Oggi è più facile, ed economico, viaggiare e allontanarsi dalla propria zona d'origine; questo porterà a qualche problema, tralasciando quelli di tipo ecologico-ambientalistico? In realtà gli uomini si sono sempre spostati da quando esiste il mondo, nessuno è mai stato a casa propria. Semplicemente oggi tutto avviene più in fretta quindi cambia la velocità degli spostamenti ma di fatto non succede nulla che non sia già successo in tutta la storia dell'umanità. L'essere umano ha bisogno di muoversi? Perché ci sono popoli che dimostrano questo bisogno più di altri? Allora, i nomadi non sentono il bisogno di muoversi ma sono più che altro costretti a farlo, i popoli che praticano nomadismo in genere sono allevatori e si muovono alla ricerca di pascoli adatti per il loro bestiame, però è vero che il genere umano in qualche modo nasce in cammino, se non ci fossero stati desiderio e voglia di muoversi sin dai nostri primi antenati preistorici saremmo ancora tutti in Africa. La storia dell'umanità inizia con i piedi e grazie ai nostri piedi ci siamo spostati dall'Africa e abbiamo colonizzato tutto il mondo, quindi

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c'è una certa tradizione di nomadismo in tutti noi. Perché diffidiamo dei nomadi, che siano rom o tuareg? Perché la maggioranza del mondo è sedentaria e tutti i governi del mondo sono fatti da sedentari. Il nomade sfugge alla logica dello stato. Lo stato tende a controllare gli individui, vorrebbe quindi che fossero localizzabili, che avessero un indirizzo, una residenza, che fossero identificabili. I rom o i tuareg, i nomadi in generale, per loro natura sono senza casa, senza territorio e quindi difficilmente collocabili, più sfuggenti e questo fa sì che nasca questo senso un po' di diffidenza nei loro confronti. Lei ha viaggiato molto in Africa, quindi suppongo sia interessato a quel continente, ma il suo interesse è solo da un punto di vista antropologico in quanto culla dell'evoluzione dell'uomo o c'è un interesse più personale? Direi che io ho iniziato a viaggiare in Africa

prima di fare l'antropologo, quindi l'interesse e l'attrazione hanno avuto un motivo diverso, forse di contatto con le persone, con un certo modo di essere degli africani, dopo è nato l'interesse antropologico e lo studiare le culture africane. La scelta di privilegiare un angolo di mondo è dettata più da sensazioni di tipo emotivo che da scelte razionali, quindi un posto ti piace ma non sai quasi il perché, poi lo studi e cerchi di capirlo. Perché e con quanta facilità si tende a pensare a culture e Paesi generalizzando, dimenticandoci che essi sono composti da individui diversi l'uno dall'altro? Questa è un po' una tendenza che hanno sopratutto i media (la televisione prima di tutto, ma anche i giornali) che è quella della semplificazione, per cui questi individui vengono impacchettati in culture più facili da definire, con dei tratti essenziali molto semplici, che non tengono conto della complessità che ogni società dimostra di avere. È la differenza tra sentire una tra-

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smissione televisiva o leggersi un buon libro, che magari richiede più tempo però ci dà maggiormente l'idea di quanto siano articolate anche quelle stesse società. Quanto influiscono i pregiudizi, anche involontariamente, sul nostro pensiero? Moltissimo, perché spesso, anche a causa della cattiva stampa o della cattiva televisione, ci si basa sugli stereotipi. Per cui se uno si attiene a certe descrizioni e a certe definizioni, finisce per formarsi un'immagine preconfezionata, stereotipata che spesso non corrisponde affatto alla realtà. Su questo noi siamo molto condizionati da una visione che è di tipo etnocentrico, che pone noi stessi al centro e tutti gli altri all'esterno. È possibile evitarlo, cioè cercare di vedere soltanto con i propri occhi? Sì, non solo con i propri occhi ma anche leggendo, informandosi. Diciamo che è più faticoso, bisogna praticare l'arte del dubbio, dubitare sempre e mettersi in discussione è un buon modo per riuscire a superare gli stereotipi. Perché è nata questa moda di parlare sempre di multiculturalismo e civiltà cosmopolite, spesso a sproposito? Perché l'Italia è un Paese che ha conosciuto da due decenni l'immigrazione. È un Paese che storicamente ha sempre avuto degli emigrati, siamo sempre stati noi ad andare via. Adesso da 15-20 anni a questa parte ci troviamo in una situazione nuova che è quella del vedere arrivare da noi degli stranieri in cerca di lavoro e ancora in Italia non è stato elaborato un modello, non si è ancora affrontato il tema, quindi spesso si “buttano” delle parole come “multiculturalismo” per cercare di spiegare quale sarà la nuova società, non riuscendo invece a comprendere che tutte le società sono già multiculturali, indipendentemente dall'arrivo di stranieri Nei suoi libri ribadisce più volte come la diversità sia ricchezza e che non vada

giudicata, ma considerata come un fiore di un colore diverso all'interno di un prato. Rimanendo nella metafora del prato, oltre ai fiori si possono trovare ortiche e piante che possono mettere in pericolo la stessa esistenza dei diversi fiori. Esiste un limite oltre il quale alcune differenze debbano essere giudicate e anche combattute? Si, gli strumenti veri sono i diritti umani. Qualunque differenza può essere, deve essere accettata, purché non vada a violare quelli che sono i diritti fondamentali della persona. In un suo libro cita un proverbio senegalese: "Ogni anziano che muore è come una biblioteca che brucia". Oggi l'anziano viene spesso limitato in luoghi protetti, rappresenta un limite e non una risorsa, anche per la sua incapacità di adattarsi ai ritmi di una società alla perenne ricerca di crescita e sviluppo. Sembra guardare troppo al passato per poter entrare nel futuro. Che tipo di futuro può essere quello che non sa guardare al passato? Purtroppo sì, questo è un grosso problema per la nostra società fondata totalmente sull'utilitarismo: chi, come gli anziani, esce dal ciclo produttivo, viene considerato inutile e quindi diventa un peso, un problema per la nostra società. Questa è l'ottica mercantilistica, che guarda al mercato, che ha pervaso la nostra società che sta facendo dei danni spero non irrimediabili ma che oggi sono sotto gli occhi di tutti noi. Oggi stiamo cominciando a pagare il prezzo di questa società utilitarista che sta mettendo in crisi, in ginocchio, tutti. Invece in altre società o culture gli anziani hanno ancora un ruolo determinante e di riferimento? Sì, in moltissime culture sono un po' i depositari della storia, della tradizione e del sapere, quindi hanno dei ruoli importanti di consiglieri e l'esperienza la trasmettono alle generazioni successive.

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VIAGGIO e INFORMAZIONE BARBARA SERRA TONI CAPUOZZO JASON BURKE GIOVANNI PORZIO PINO CREANZA

PRESENTI VIAGGIARE PER FUGGIRE, PER SCOPRIRE, PER CURARSI, PER CRESCERE, PER STUDIARE, LA VITA COME VIAGGIO, L'AMORE COME VIAGGIO. PER NOI IL VIAGGIO È ESSENZIALMENTE CONOSCERE: NEL SENSO LATINO DEL TERMINE COGNOSCERE, OSSIA “APPRENDERE CON L'INTELLETTO LA VERA ESSENZA DELLE COSE”, MA ANCHE NEL SUO SENSO LATO DI SCOPRIRE, LASCIARSI CONQUISTARE, COINVOLGERE. LA PARTENZA È IL MOMENTO DELL'ATTIMO SOSPESO TRA IL NOTO E L'IGNOTO, TRA CIÒ CHE È STATO E CIÒ CHE SARÀ: PARTIRE SIGNIFICA LASCIARE TUTTO IN STAND-BY (AFFETTI-AMORILUOGHI CARI) PER INTRAPRENDERE UN'AVVENTURA VERSO UN QUALCOSA DI SEMPRE NUOVO, COLMI DI SPERANZE ED INCERTEZZE, DIBATTUTI TRA IL DESIDERIO FORTE DI METTERSI IN GIOCO E L'INSICUREZZA NEL FARLO. NELL'OTTICA DEL VIAGGIO COME RICERCA DI CONOSCENZA SI SITUA IL VIAGGIO DEL GIORNALISTA: IL GIORNALISTA, CON L'INTENTO DI INDAGARE LA REALTÀ SOCIALE-CULTURALE-ECONOMICA CHE LO CIRCONDA, INTRAPRENDE UN VIAGGIO LA CUI META È LA NOTIZIA, LA SCOPERTA DI INFORMAZIONI, LA CRONACA, E NON IL LUOGO CHE RAGGIUNGE, COME PER UN QUALSIASI TURISTA. IL LUOGO DIVENTA SOLO UN MEZZO PER RAGGIUNGERE LA VERA, METAFORICA, META. IL SUO SGUARDO È QUINDI MOLTO DIVERSO DA QUELLO DEL VIAGGIATORE OCCASIONALE IN VACANZA: IL SUO È UN OCCHIO CRITICO NEI 50


CONFRONTI DELL'INCHIESTA CHE STA CONDUCENDO, È PRONTO A COGLIERE IL PARTICOLARE CHE GLI VIENE SUSSURRATO LUNGO UN DISCORSO, GUARDA LA REALTÀ CON UNA SORTA DI BINOCOLO, PRONTO A RACCOGLIERE DATI E INFORMAZIONI IN OGNI ISTANTE. SI TRATTA DI OSSERVARE, ANALIZZARE, RACCOGLIERE IMPRESSIONI, ELABORARE PUNTI DI VISTA, SAPENDO METTERE IN GIOCO LE PROPRIE CONVINZIONI: LA STESSA MOGLIE DI TIZIANO TERZANI, INCONTRATA AD UDINE, CI HA RACCONTATO DEL CAMBIO RADICALE DI OPINIONE DEL MARITO, RIGUARDO AL SISTEMA COMUNISTA, DOPO L'ESPERIENZA DIRETTA VISSUTA IN CINA. OGNI VOLTA CHE SI INTRAPRENDE UN VIAGGIO, INEVITABILMENTE, SI LASCIA QUALCOSA E SI PORTA VIA QUALCOS'ALTRO: NOI STESSI LO ABBIAMO POTUTO SPERIMENTARE NELLA BREVE, MA INTENSA, ESPERIENZA DA GIOVANI REPORTER A L'AQUILA. NELL'ARCO DI TRE GIORNI ABBIAMO FATTO IL PIENO DI INTERVISTE, CI SIAMO TRASFORMATI DA QUINDICI PERSONE PER LO PIÙ SCONOSCIUTE TRA DI LORO, IN UN GRUPPO UNITO, E ABBIAMO AVUTO MODO DI CONOSCERE: CONOSCERE LA CITTÀ LE CUI CREPE NEGLI EDIFICI TESTIMONIANO FERITE NON ANCORA CURATE; CONOSCERE ALCUNI AQUILANI E I LORO SENTIMENTI TALVOLTA INDIGNATI, TALVOLTA ARRENDEVOLI. INFATTI IL GIORNALISTA-REPORTER ENTRA IN CONTATTO CON TANTE PERSONE, TANTE SITUAZIONI DIFFERENTI, SI LEGA CON ALCUNE, E SI DISTANZIA DA ALTRE. È IMPORTANTE NON DIMENTICARE CHE IL VIAGGIO DEL GIORNALISTA NON È SEMPRE “ROSE E FIORI”, MA SPESSO INCONTRA TRAPPOLE E INTOPPI: IL REPORTER È SOTTOPOSTO, SOPRATTUTTO NEGLI STATI IN GUERRA O CON GOVERNI AUTORITARI, AL RISCHIO DI ESSERE CENSURATO, DI ESSERE SCACCIATO DAL PAESE O ANCORA, NEI CASI PIÙ ESTREMI, METTE A RISCHIO LA SUA STESSA VITA. D'ALTRONDE LA VERITÀ, A VOLTE, È SCOMODA. UN RICORDO SPECIALE VA A TUTTI COLORO CHE, PORTANDO AVANTI LA LORO MISSIONE DI GIORNALISTI, PRESENTI SENZA MAI TIRARSI INDIETRO, SONO STATI USATI COME OSTAGGIO STRUMENTALE, TORTURATI, UCCISI. UN RICORDO SPECIALE VA A TUTTI I MARTIRI DELLA VERITÀ. Margherita Cozzio e Serena Righetti 51


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Elena Mazzalai


INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI

BARBARA SERRA

BARBARA SERRA (MILANO, 1974), GIORNALISTA E CONDUTTRICE DALLA REDAZIONE DI LONDRA DI AL JAZZERA ENGLISH. NATA IN ITALIA, ALL'ETÀ DI OTTO ANNI SI TRASFERISCE CON LA FAMIGLIA IN DANIMARCA A COPENAGHEN. IN SEGUITO SI TRASFERIRÀ IN INGHILTERRA DOVE SI LAUREA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI ALLA LONDON SCHOOL OF ECONOMICS. NEL 2000 INIZIA LA SUA COLLABORAZIONE CON LA BBC A LONDRA, NEL 2003 DIVIENE CORRISPONDENTE PER SKY NEWS E NEL 2005 DIVENTA LA PRIMA CONDUTTRICE, NON DI MADRE LINGUA INGLESE, DI UN TG SULLA TELEVISIONE BRITANNICA (CHANNEL 5). DAL 2006 CONDUCE IL TG DALLA SEDE DI LONDRA DI AL JAZEERA ENGLISH E REALIZZA NEGLI ANNI IMPORTANTI REPORTAGE DALL'EUROPA, L'AMERICA E IL MEDIO ORIENTE. COLLABORA SPESSO CON I MEDIA ITALIANI SIA TELEVISIVI - RAI E LA7 - CHE CARTACEI (CORRIERE DELLA SERA). DA MARZO 2011 AL GIUGNO 2012 HA CONDOTTO IL PROGRAMMA COSMO SU RAI 3. Come ci si sente a raccontare dell'Italia da italiana, inglese e danese come è lei? Si ha uno sguardo più spietato e distaccato? Non so se necessariamente si debba avere uno sguardo più spietato, anzi. Credo che guardando nel complesso, nonostante l'Italia abbia molti problemi come tutti i paesi, l'Italia sul piano globale rimanga un paese bello in cui vivere, in cui si cerca di essere giusti, in cui le persone sono trattate tutte in modo uguale. La democrazia che vanta non è da considerarsi scontata, se guardata sul panorama mondiale. Forse l'elemento spietato è che non ho mai visto una divergenza fra l'essere patriota e poterla criticare. Ho grandi aspettative per l'Italia e, essendo italiana, voglio sia sempre uno dei paesi migliori. Se penso alla situazione delle donne, la paragono alla Scandinavia, non al mondo arabo; se pen-

so alla disponibilità di lavoro, mi rifaccio ad Inghilterra e Stati Uniti; perciò, una persona è spietata nel momento in cui viaggia molto ed è in grado di fare paragoni con tutto ciò che il mondo ha da offrire. Certo, si è più obiettivi, se si conoscono diverse realtà. Quindi si sente fiera di essere italiana? Sicuramente. Più che fiera, trovo l'essere italiana una grande fortuna. Anche se sei nato nel più sperduto paesino della regione più povera, hai sempre vinto alla lotteria della vita. L'Italia si colloca bene all'interno del panorama occidentale. Forse diamo troppe cose per scontato e non ci accorgiamo della bellezza del Paese, della geografia, della cultura, delle persone. Non mi sono guadagnata di essere nata in Italia, non ho fatto nulla per meritarmelo, perciò non posso che sentirmi fiera e fortunata.

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Cosa significa per lei nazionalità? È più italiana o cittadina del mondo, vista la sua esperienza di vita? Se qualcuno mi chiede "Da dove vieni?" la risposta è e sarà sempre "Dall'Italia, sono Italiana!". Ho viaggiato da piccolina e ho lasciato l'Italia all'età di 8 anni, vivendo l'età della formazione fuori dal mio Stato d'origine, all'estero. Il fatto che i miei genitori siano italiani ha avuto una grande influenza. Il mio marchio è quello! Sono italiana all'80% e poi il resto è un po' un misto! Credo poi che essere italiana e cittadina del mondo siano due condizioni di cui l'una non deve per forza escludere l'altra! Una persona può sentirsi entrambi. Al Jazeera è senza dubbio la tv più seguito dal popolo arabo. È citata in vari libri, in vari film come punto di riferimento. Funge un po' da tramite fra la terra che "si è lasciato" e quella in cui ci si trova. È solo una mia percezione, oppure Al Jazeera rappresenta molto di più che una semplice televisione? Certo, come gli Italiani all'estero guardano il Tg1 o il Tg5, anche se vivono chissà dove da alcuni anni. Si è parlato molto di Al Jazeera dopo l'11 settembre, giorno del clash fra due civiltà ma essa rispecchia in sé tutta la cultura araba. Stanno emergendo altre tv strettamente legate al mondo arabo, ma per ora Al Jazeera mantiene il primato. Diciamo che io vedo Al Jazeera, soprattutto Al Jazeera English, come un ponte tra due culture il cui compito è quello di spiegare il Medio Oriente al mondo occidentale ma anche, molto spesso, il mondo occidentale a quello orientale! Come per noi molte volte Arabi ed Islamici sono gente pronta a farsi esplodere o donne velate, per loro invece l'occidentale è o un soldato che loro hanno nelle proprie terre o l'emblema dei film americani, uomo che tutti sappiamo essere un po' l'"eccesso" e non la verità. Al Jazeera permette di mantenere un legame che rimane con la propria

VIAGGIARE NON È UNA BELLA COSA, È

PER MASOCHISTI! INFATTI QUANDO SI ARRIVA AL CAPOLINEA DI UN NOSTRO VIAGGIO, QUANDO SI VEDE L'ENTRATA DELLA PROPRIA CASA, SUBITO TI PASSA LA VOGLIA DI CONTINUARE A VIAGGIARE. CHI CE LO FA FARE? CHI CI FA SOPPORTARE QUESTA TREMENDA NOSTALGIA DELLE COSE APPENA CONOSCIUTE, MA CHE NON SI VORREBBERO MAI DOVER ABBANDONARE? CHI CI FA SOPPORTARE L'IDEA DI DOVER RIABITUARSI ALLA ROUTINE MONOTONA E MICIDIALE DI TUTTI I GIORNI? SONO TUTTE COSE CHE PIAN PIANO CI PORTANO INEVITABILMENTE A RIPARTIRE... E AVANTI COSÌ, PER TUTTA LA VITA. LUNGO UNA VITA. ALESSANDRO CASTELLI 4SB

terra, in questo senso è qualcosa di più di una semplice televisione. Cosa cambia da Al Jazeera English a quella del Qatar? Trasmettete le stesse notizie? Al Jazeera per spiegarmi è un po' come Sky, una famiglia di canali. I canali "all news" sono due: uno in arabo e uno in inglese. Ma entrambi si rifanno al Qatar, anche se il mio telegiornale viene fatto a Londra. La differenza è quella che intercorre tra Sky Tg 24 e Sky News, cioè il fatto di essere in lingue diverse per un pubblico diverso. Cerchiamo di mantenere una stessa linea editoriale, ma a volte è difficile: per esempio, la Primavera Araba viene descritto da Al Jazeera con ogni minimo dettaglio perché giustamente, è la loro storia. Un po' come la Saga di Berlusconi per la tv italiana. Lingue diverse, audience diverse ma Al Jazeera rimane una grande famiglia di canali dall'ethos comune.

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Cosa dovrebbero imparare le televisioni italiane da Al Jazeera? Le televisioni italiane rimangono, come è giusto che sia, per un pubblico nazionale. Al Jazeera English invece, essendo per un popolo internazionale, ha un linguaggio forse più aperto; possiamo parlare a tutti. Il nostro motto è "L'opinione e l'altra opinione." Le varie e famose cassette di Bin Laden che noi mandavamo in onda sono proprio la prova e l'esempio di questo principio: volevamo mandare in onda tutte le opinioni, per quanto sgradevoli esse possano essere. In Italia forse, vige un po' il "predicare ai convertiti", perciò chi guarda il Tg3 è di sinistra, esistono i canali puramente berlusconiani... un po' funziona così. Sia come fautore di Tg che come consumatore per me la cosa più importante è mostrare sempre tutte le opinioni, qualcosa che vada a sfidare ciò che io penso. Non si tratta di una battaglia fra chi ha ragione e chi no, ma si tratta di guadagnare una visione più ampia del panorama. Si può quindi definire Al Jazeera un canale oggettivo? Sicuramente, certo. Non ci lavorerei se non lo fosse. Anche se la famosa parola obiettività è molto personale... In Medio Oriente molti sostengono che la CNN sia tutto fuorché obbiettiva: questo per farvi capire che la parola obiettività assume significati diversi in base a chi la definisce. Ma Al Jazeera English per me lo è. I vari premi che abbiamo vinto lo dimostrano, siamo molto rispettati, Hilary Clinton ci ha fatto i complimenti. Mi ha fatto molto piacere anche che l'Ambasciatore Italiano in Afghanistan guardasse Al Jazeera: anche lui ci ha fatto i complimenti. Queste cose contano. Ricordiamoci anche che è importante di cosa parli ma soprattutto come ne parli! Ha citato prima la trasmissione delle cassette di Bin Laden. Per questo Al Jazeera è stata anche accusata di essere strumento di propaganda di idee estre-

miste. Lei come giornalista si sentiva chiamata in causa? Dove sta la divisione fra diritto di cronaca e rischio di diffondere ideologie pericolose? Io sono entrata a far parte di Al Jazeera nel 2006 quindi dopo il grande scandalo. Ma sicuramente, anche se non ero coinvolta, ci ho pensato prima di decidere di venirci a lavorare. Le accuse, che posso testimoniare, sono quelle legate alla Primavera Araba: per esempio, se Al Jazeera è in piazza Tahrir al Cairo con i manifestanti fino a che punto è dalla loro parte? Cosa mostrare viene sempre deciso in redazione. Una volta che le cassette arrivavano (ed alcune erano lunghissime), alcuni nostri collaboratori sceglievano i pezzi che ritenevano utili a fini giornalistici: e quelli venivano poi mandati in onda. Quello che può rivendicare Al Jazeera è che poi quelle stesse immagini venivano trasmesse da tutte le altre televisioni. Anche voi in Italia non avete visto quei messaggi su Al Jazeera ma sui Tg più diffusi e seguiti (Tg3, Tg1 ecc.). Questo per dire che anche le televisioni italiane hanno ritenuto quel messaggio importante da far ascoltare. Se fosse quindi propaganda, nessuno avrebbe rimandato quelle immagini, invece ciò è avvenuto. Lei personalmente si è trovata spesso in difficoltà nel decidere se un servizio andava trasmesso o meno? Io sono una conduttrice perciò non prendo quelle decisioni. Ma vi faccio un esempio recente. La tragedia dell'assassino di Tolosa, quello che ha ucciso non solo dei soldati ma anche i bambini e gli insegnati della scuola ebraica, è arrivata ad Al Jazeera sotto forma di cassetta: l'assassino infatti aveva portato con sé una telecamera durante la strage... Quelle immagini Al Jazeera ha deciso di non mandarle in onda. Non tanto per la natura grafica delle immagini ma soprattutto perché non c'era nessuna ragione giornalistica per farlo.

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Fotografie di Stefano Paternoster


INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI E MARGHERITA COZZIO

TONI CAPUOZZO

TONI CAPUOZZO (PALMANOVA - UDINE, 1948) GIORNALISTA ITALIANO. LAUREATOSI ALL'UNIVERSITÀ DI SOCIOLOGIA A TRENTO, NEL 1979 INIZIA A SCRIVERE PER LOTTA CONTINUA, ORGANO UFFICIALE DELL'OMONIMO MOVIMENTO. IN SEGUITO SCRIVERÀ PER RIVISTE COME PANORAMA ED EPOCA. PASSA ALLA TELEVISIONE CON IL PROGRAMMA MIXER DI GIOVANNI MINOLI, IN SEGUITO COLLABORA CON MEDIASET FINO A DIVENIRE, NEL 2001, VICEDIRETTORE DEL TG5 E CURATORE E CONDUTTORE DI «TERRA!», SETTIMANALE IN SECONDA SERATA, PRIMA DEL TG5 E ORA SU RETE4. PER IL SUO LAVORO HA RICEVUTO DIVERSI RICONOSCIMENTI, TRA CUI IL PREMIO SAINT VINCENT, IL PREMIO SPECIALE ILARIA ALPI, IL PREMIO FLAIANO E IL PREMIO HEMINGWAY. Abbiamo letto che lei non ama essere definito un reporter, per quale motivo? Direi piuttosto che non amo essere definito inviato di guerra, per ragioni anche banali, se mi vedono in un posto dove c'è una crisi pensano subito che la guerra sia inevitabile, poi dà quasi l'idea di essere un mercante d'armi, di qualcuno che campa sulla guerra. Probabilmente tra quelli in attività sono tra coloro che hanno seguito più conflitti, ma non è una mia specializzazione. Rimango legato a quei luoghi, ma se vado in Afganistan per qualche giorno poi appena torno cerco argomenti normali di cui parlare, voglio evitare di essere una specie di reduce che considera normale una situazione di guerra. Sono un cronista che racconta la realtà, non si va in certi luoghi per vivere un'esperienza, ma per raccontare i fatti a un pubblico che vive la vita normale in Italia. Non nego la presenza di un'attrazione per posti dove è possibile tutto e il contrario di tutto, ma non ho mai

voluto fare solo quello, quindi sarebbe anche un po' riduttivo definirmi inviato di guerra. Prima di iniziare a viaggiare come giornalista lei aveva fatto un lungo viaggio in Nicaragua, cosa l'aveva spinta in quel Paese? Sono partito perché avevo finito il mio corso di studi, mi sono laureato a Trento, nel mezzo ho fatto il servizio militare, facevo lavoretti e militavo in politica. Dopo la laurea non sapevo bene cosa fare e sono partito con quei pochi soldi che avevo messo da parte. Mi è servito per chiudere con il passato e grazie ad una serie di coincidenze anche per iniziare a fare il giornalista. Mi piaceva scrivere e al momento giusto ho fatto le scelte giuste. Il mio sogno era andare in Brasile ma la via panamericana per arrivarci era chiusa a causa degli scontri in Nicaragua e quasi tutti prendevano l'aereo dal Guatemala fino alla Costa Rica per poi continuare con mezzi più eco-

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nomici dell'aereo. Avevo curiosità e sono andato a vedere una città che era stata bombardata e mi è sembrato che fosse importante testimoniare cosa avevo visto. Tutti i soldi che avevo li usai per tornare in Italia, sono andato a Repubblica dove un giornalista, Saverio Tutino, mi ha ricevuto e anche se ormai non poteva pubblicare il racconto perché erano passati alcuni giorni mi disse che scrivevo bene e che dovevo continuare a farlo. Io deluso ho ringraziato, poi ho preso e sono tornato a casa senza soldi e senza sapere cosa fare. Mesi dopo i Sandinisti hanno vinto e io ho mandato qualche scritto a Lotta Continua che lo ha pubblicato e poco dopo mi hanno chiesto di andare in Montenegro per il loro giornale a riportare di un terremoto. Non mi è stato chiesto come giornalista ma, diciamo, come si chiede ad un idraulico di parlare di un'alluvione e dato che ero stato

un terremotato del Friuli mi hanno chiesto di parlare di quel terremoto. Così ho cominciato da quello che di solito è un punto di arrivo, fare l'inviato all'estero, penso che se ora mi mettessi a leggere quello che ho scritto mi metterei a ridere. Al mio ritorno mi chiesero di andare a lavorare a Roma e così ho cominciato. In quegli anni era probabilmente un ragazzo ribelle e sognatore, oggi che viaggio consiglierebbe ad un ragazzo come è stato lei? Questa risposta probabilmente non saprei darla neppure ai miei figli, partissero come ho fatto io, mi preoccuperei. In un certo senso sono contento che, soprattutto il più piccolo, non mi assomigli in tutto e per tutto, perché io ho fatto penare i miei genitori. Per quelli del mio tempo già arrivare in centro città poteva essere pericoloso, il mondo era più piccolo. Ora con internet e i

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telefonini è tutto più raggiungibile e gran parte del mio lavoro l'ho fatto proprio al telefono, come il conflitto nelle Falkland. Al telefono dettavo il pezzo che veniva registrato e poi sbobinato. Nel libro «La guerra spiegata ai ragazzi»... Il mio libro più bello è «Il giorno dopo la guerra», sono dei racconti dai Balcani e l'ho scritto proprio per liberarmi dei fantasmi, è un libro abbastanza forte. Lei conoscerà sicuramente Paolo Rumiz, anche lui ha raccontato... Paolo è un amico, mi piace la sua passione per il viaggio, ma con lui non siamo mai stati d'accordo riguardo ai Balcani. Lui è un razionalista e ritiene che tutto si possa spiegare con la ragione, ma per questo tende sempre a vedere nelle guerre i sotterfugi dei potenti e trascura che c'è un istinto nell'uomo che lo porta a fare la guerra; se lasci un gioco a due bambini si meneranno per averlo... convivenza pacifica e tolleranza sono tutte conquiste faticose e non durano per sempre. Pensate al razzismo, io sono cresciuto in una famiglia dove mi hanno insegnato a non esserlo. Una volta avevo dato dell'ebreo a uno, nel senso che era avaro, e mia madre mi diede una sberla e mi portò alla sinagoga di Trieste. Mi ricordo che avevo un amico nero ed allora era piuttosto raro. Quando ci sono i conflitti è più difficile non essere razzisti, bisogna farsi forza e fare ricorso a tutte le tue energie positive per non esserlo. Non capisci mai i conflitti se pensi che siano solo colpa dei mercanti d'armi o dei potenti. La Jugoslavia era un paese molto tollerante dove vivano etnie diverse e poi si sono fatti la guerra. Nel giornalismo moderno ritrova la giusta trasparenza e veridicità in grado di spiegare i conflitti? Diffido sempre a parlare di vero e falso, lo stesso fatto può essere raccontato in diversi modi. Il compito del cronista è rac-

contare con onestà ciò che crede di aver capito. Io scelgo di andare in un posto, in un quartiere piuttosto che in un altro, e già in questo c'è molta soggettività. Anche in tv cerco di non avere pregiudizi ma esprimo forte soggettività e a me interessa che il telespettatore capisca che c'è dietro onestà e anche se sbaglio lo faccio in buona fede. Diffido di chi dice: “Ora ti dico io come stanno le cose”. Molti momenti storici sono difficili da capire anche a distanza di anni, figuriamoci in contemporanea. Noi non sappiamo come andrà a finire e questo influenza molto il nostro lavoro e la lettura di ciò che è stato. Trovo che sia arrogante dire di aver capito tutto. C'è una barzelletta di un giornalista che va un giorno in un posto e scrive un bellissimo pezzo, si ferma una settimana e scrive una brillante inchiesta, si ferma un mese e scrive un libro, si ferma un anno e sta zitto, perché ha capito che la situazione è molto più complicata. È una parabola che spiega abbastanza bene come si debba diffidare dalle interpretazioni. Io lo chiamo il giochino del 15, dove in una scacchiera con un solo buchino devi mettere in ordine i numeri. Ci sono momenti nella storia in cui non ti riesce tutto, ma in quei momenti avere degli schemi dove sai chi è il buono e chi è il cattivo, può essere confortante. Apprezzo il giornalismo militante, l'ho fatto anch'io, però non mi appartiene più, è facile quando sai già che il mondo è così, hai uno schemino mentale che ti fa da bussola. Io non ce l'ho ed è questo che mi piace, che mi appassiona, mi dà curiosità e mi sorprende, non sai come finisce. Rimangono i principi molto generali: essere dalla parte delle vittime e degli innocenti. Non è un caso che l'unico giornale che si è dato la libertà di chiamarsi “Verità” già dal titolo era la Pravda, che non è esattamente una pietra miliare del giornalismo veritiero. Così come non credo che la verità giudiziaria sia la verità, così non credo ne-

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anche che il giornalismo possa essere un veicolo di verità, è nel migliore dei casi un veicolo di onesta testimonianza. Leggete più giornali possibili, è brutto insegnare diffidenza ma mantenete senso critico. Forse questi primi viaggi in Sud America sono serviti molto per rivedere alcune sicurezze, alcuni schemi, per cui il viaggio aiuta effettivamente? Guarda le ideologie sono una brutta bestia: la prova dei fatti è costantemente accantonata. L'ideologia ti fa piegare i fatti in modo da essere confermata. Due che sono sposati e litigano sempre ad un certo punto si separano, delle ideologie è più difficile liberarsi perché forniscono una chiave interpretativa del mondo che può essere di aiuto. Parlando della fede, non sono un gran credente, però certe volte ho una specie di invidia verso persone che hanno una fede semplice, tipo mio padre e quelle frasi del tipo “lo rivedrò in paradiso”. Ho nostalgia di quando ero bambino, di quando dopo esserti confessato ti sentivi leggero, avevi l'ingenuità e la vita era più semplice. Quello che non si dice dell'Islam è che ha moltissimi insegnamenti, questo è giusto e questo è sbagliato. Il Cristianesimo lascia molta più libertà nella vita quotidiana, l'individuo può scegliere. Io a volte capisco che sia più semplice vivere con molte restrizioni, come quando facevo il servizio militare. Le ideologie aiutano con luoghi comuni a capire il mondo, per me non è stato facile anche se ero molto libertario. In gioventù lei ha lottato contro il sistema, mentre ora lavora a Mediaset. Pensa che si tratti di una vittoria, di aver portato i suoi ideali all'interno del sistema o piuttosto di una sconfitta ed è stato il sistema ad assorbire lei? Penso di essere rimasto quello di allora nei comportamenti, mi capita di parlarne con quelli della mia età che conosco da quei tempi, non sono uno che tratterebbe a pedate una persona che ha bisogno, non so-

no uno che giudica le persone dal ceto sociale. Penso di essere rimasto abbastanza simile a quello che ero, anche se credo di avere detto anche molte stupidaggini. Da un certo punto di vista vivo in un mondo molto migliore rispetto a quello di quarant'anni fa, se si pensa alla comunicazione, al benessere materiale, alle strutture del vivere sociale e anche se non si può dire che abbia nostalgia, da altri punti di vista però era meglio un tempo, c'era molta più speranza, i contatti umani erano più facili. Però se potessi cancellare le cose del passato cancellerei solo gli anni del terrorismo, perché hanno contribuito a spegnere e incattivire un po' la società italiana... e forse anche gli anni della Milano “da bere”, del consumismo sfrenato, ma è andata così, e personalmente mi sento molto coerente con quello che sono stato. Quindi è stata una vittoria alla fine? Si, però individuale. Credo che uno che mi conosceva allora vedendomi oggi mi riconoscerebbe. C'è anche chi pensa “ah prende i soldi da Berlusconi”, ma non si ragiona così. È triste dirlo ma col tempo uno finisce per dare ragione ai genitori: mi ricordo che mio padre diceva “contano le persone, non le bandiere”. Con gli anni tendo a dargli ragione. Conosco tante persone che a mio avviso hanno un minor filo di coerenza rispetto a quello che sono oggi e rispetto a quello che erano allora, anche se magari sbandierano delle idee ancora molto simili. Visto che si diceva dei luoghi comuni e di come invece i fatti possano essere diversi, possiamo dire con tranquillità che un luogo comune molto diffuso è che l'informazione Mediaset non sia un'informazione libera. Lei che è dentro, come risponderebbe con i fatti? È un giudizio molto superficiale, quasi infondato. Io non ho mai avuto delle limitazioni, però mi occupo di esteri, non del parlamento. Non ho mai avuto il senso di un controllo di tipo politico o un incoraggia-

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mento a fare una cosa piuttosto che un'altra. Quello che ho avuto, che paradossalmente per me è stato uno scudo, è il problema degli ascolti. Il vantaggio della televisione commerciale è che deve fare soldi, deve fare profitto. Gli ascolti sono una vera tirannia e un programma come quello che faccio io non andrà mai in prima serata, perché Canale 5 deve fare ascolti. Ma io preferisco così, perché il fatto che la cosa più importante sia il profitto è esplicito ma forse è anche giusto. Se si facesse una televisione con funzione educativa, chi stabilirebbe quale è l'educazione giusta... Berlusconi? Il Vaticano? Le cooperative? Così c'è questa legge brutale: devi vendere. Certo non è che il numero incoraggi la qualità. È più facile fare un fast food che

un ristorante slow food. Però non me lo ha ordinato il medico di lavorare alla televisione commerciale, potrei scrivere libri o lavorare in qualche rivista. Ma quando accetti la sfida di cercare di non essere superficiale, parlando di grandi numeri, riesci ancora a stupirti. Mi chiedo come sia possibile che tanta gente stia sveglia fino a tardi per seguirmi, mi sorprende ancora adesso. Quindi questo per quanto riguarda me. Per quanto riguarda il resto io lo trovo un luogo comune, ed è un luogo comune perfino ottimista, nel senso che quasi tutta l'informazione politica oggi è fortemente orientata, non c'è più quello schema di lettura facile che c'era una volta: tg1 democristiano, tg2 socialista e tg3 comunista. Non è

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più così. Le carte si sono rimescolate, oggi contano i direttori e le loro carriere. È raro trovare un direttore che era inviato di guerra. Tutte carriere costruite a tavolino. Trovo che sia un mezzo miracolo che un'azienda vocata a fare programmi come «Drive in» o «Scherzi a Parte», mi abbia riservato una nicchia. Adesso (maggio 2012 ndr) vorrei chiudere «Terra», mentre l'azienda vorrebbe proseguire, perché alla pubblicità piace il mio programma, perché chi segue un programma con rapporti di fiducia forte solitamente filtra questa fiducia anche dentro alla pubblicità, quindi per il pubblicitario conta molto la fidelizzazione. Come se tu andassi sempre ad un certo cineforum e anche se una sera c'è un film che non ti piace continuerai ad andarci; quindi è il pubblicitario che comanda. Pensate che mi ha telefonato il sindacato dicendo: “Bisogna fare una manifestazione per «Terra», non lo possono chiudere”. Io gli ho riposto di non fare nulla. In definitiva qual è la situazione dell'informazione italiana, tra giornali, tv e internet? Per l'informazione in Italia non c'è una situazione bellissima, ma oggi ci sono molte cose, quando ero ragazzo il giornale locale era l'organo della confindustria, della curia, del partito del governo. Non penso che ci siano notizie che non appaiano, ma adesso c'è tutto e il contrario di tutto. Quello che manca forse è un po' la qualità, però c'è di tutto, anche grazie a internet. Internet ha cambiato molte cose, come la webtv. Magari per qualcuno non hanno un grande peso, ma tu sai che ci sono, puoi andarle a vedere. Dopo il discorso qualità è un altro. Io son convinto che l'informazione oggi sia guidata da criteri merceologici, viene trattata come se fosse un computer o una macchina fotografica. Dovrebbe essere trattata come qualcosa di delicato. Dico però che la televisione assomiglia a

chi la guarda, in particolare nel tempo degli ascolti. Se io vado in Armenia e ho un'ora di tempo prima del lavoro, accendo la televisione e la guardo, la televisione ti dice qualcosa sugli armeni. Se tu guardi la televisione francese ti dice qualcosa sui francesi e se guardi quella tedesca ti dice qualcosa sui tedeschi anche se non la fa il popolo tedesco per intero. Però è “model-

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lata su misura”, è come guardare in uno specchio un po' vecchio che riflette un'immagine. Allora uno dice “Ah, ma i programmi interessanti li mandano tardi”. Hai mai provato ad andare in autostrada o in spiaggia? Se vedi come è la gente capisci. «Grande Fratello» per esempio, qualche volta me lo sono guardato per capire cosa piaceva a chi lo guardava. Come quando c'è uno che comunica con i morti al tavolo, al trepiede, a volte vado a vedere perché sono curioso di capire come funziona, anche se non ci credo e non mi interessa. A volte guardo il telegiornale e c'è un meccanismo di serializzazione delle notizie. Quando vedi un pitbull che aggredisce una persona, poi per tre giorni in Italia ci sono pitbull che aggrediscono persone, semplicemente perché quello dice “anche da noi è successo”. In questi giorni si parla dei suicidi tra gli imprenditori, io penso che sia perfino uno stimolo questo fatto di parlarne in continuazione. Così come ci sono storie che sono interessanti e che poi invece spariscono e non sai più come sono andate a finire. Ma è la gente che inizia a parlarne o è la tv che continua a focalizzarsi su quello? È come se fosse una gigantesca fiction. La Siria annoia dopo che leggi quindici morti oggi, trenta morti oggi, quaranta morti oggi, soprattutto se non racconti da vicino, cioè se non racconti chi sono quelle persone, diventa come un serial televisivo che annoia, insomma ci vuole un colpo di scena, lui che fa le corna a lei, le telenovela sono fatte così. Se alla fine tutto è uguale, annoia. Però penso che siamo anche noi un po' così, perché ognuno di noi può fare altre cose: chiudere la televisione, andare al cinema, leggere un libro, fare altro. Un fenomeno degli ultimi anni è che un po', ma non di molto, son calati gli ascolti delle tv generaliste. Molta gente piuttosto va a vedersi i documentari naturalistici della BBC, o i cartoni animati con il satellite.

Poi per esempio Paolini quando va in tv fa ascolti molto alti, trovo che sia un miracolo che tutte queste persone lo abbiano seguito. A me piacerebbe che ci fosse più gente che guarda Paolini piuttosto che Sanremo. Il mondo è fatto così, lo dico senza razzismo, la televisione non è un'aula da accademia. Uno che ha una fortissima passione, un musicista, un attore, non perde tempo a guardare la televisione. Riguardo il titolo del suo libro “Adios. Il mio viaggio attraverso i sogni perduti di una generazione”, ci ha ricordato Gaber quando parlava di una generazione che ha perso. Io non mi sento sconfitto. Molti dei sogni che ho avuto da giovane erano anche illusioni e se non si sono realizzate era appunto perché erano illusioni. Sognavo un mondo più giusto, più equo, più bello. Nello stesso tempo ho anche detto tante fesserie: pensavo che la rivoluzione culturale fosse bellissima perché era culturale, aveva questa parolina magica, poi a distanza di anni capisci che non era così. Abbiamo detto tante stupidaggini, ma grossomodo come generazione abbiamo sperato in un mondo migliore, quindi non è una cosa di cui vergognarsi. Il mondo è diventato migliore? In molte cose no, non posso dire di essere entusiasta di come è evoluto. Però è fuori dubbio che molte cose, non grazie ai politici o ai giornalisti, sono cambiate. Se penso a quando ero giovane io, il terzo mondo era terzo mondo e c'era sempre questo eufemismo dei paesi in via di sviluppo. Poi oggi vedi che ci sono paesi come il Brasile e l'India che corrono a ritmi che ci fanno sembrare un ospizio di gente anziana che non è più capace di fare niente. Ci sono stati dei cambiamenti, alcuni positivi, come il fatto che alcuni paesi non sono cresciuti nel paternalismo grazie agli aiuti, ma hanno trovato delle loro vie. Perso?! Ma no dai, abbiamo pareggiato.

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Fotografie di Stefano Paternoster


INTERVISTA A CURA DI ELENA MAZZALAI, ELISA BIANCHINI

JASON BURKE

JASON BURKE (1970) È GIORNALISTA E CAPOREPORTER DEL SETTIMANE LONDINESE THE OBSERVER. A VENTUN ANNI SI ARRUOLA TRA I COMBATTENTI DEL KURDISTAN IRACHENO E NEL 1991 DIVIENE REPORTER FREELANCE E POI INVIATO DELL'OBSERVER IN PAKISTAN E IN AFGANISTAN, DOVE RISIEDE E VIVE A LUNGO. COME INVIATO È STATO NEL 2000 NELLA STRISCIA DI GAZA DURANTE LA SECONDA INTIFADA,IN PAKISTAN ED AFGANISTAN SUBITO DOPO L'11 SETTEMBRE 2001, IN IRAQ ALLO SCOPPIO DELLA GUERRA DEL 2003. HA AVUTO MODO DI INTERVISTARE E INCONTRARE MOLTI DEI PROTAGONISTI DELLE VICENDE DA LUI RACCONTATE, COME IL GENERALE MASSUD. IL SUO LIBRO «AL-QAEDA», LA VERA STORIA” È STATO DEFINITO DA NOAM CHOMSKY COME IL MIGLIOR LIBRO SU AL-QAEDA. Per la maggior parte delle persone viaggiare è un segno di divertimento e vacanza ma per altre persone è un lavoro. Specialmente per lei è un lavoro particolare e pericoloso. È probabilmente meno pericoloso di quanto voi pensiate... Leggendo però le prime pagine di «Sulla strada per Kandahar» è impressionante vedere quanto fosse improvvisato il suo viaggio e il suo arruolamento tra i guerriglieri curdi durante la guerra in Iraq. Vuole raccontarci quella sua prima esperienza e con quali motivazioni era partito? Sì. Ero giovane, avevo solo 21 anni. È stata un'esperienza piena di avventure, una cosa veramente scellerata da fare. Ma ce l'ho fatta e mi sono divertito. Non avevo molto per impressionare le ragazze e volevo delle storie avvincenti da raccontare alla gente quando sarei tornato a casa. Mi ha dato la voglia di fare ciò che sto facendo

ora che è, quando funziona, non soltanto un viaggio verso qualcosa di interessante ma è un viaggio per testimoniare eventi storici. Qualcosa in sé di molto affascinante. Il suo approccio al lavoro è diverso dall'inizio? Adesso sì, certamente. Io sto facendo questo lavoro da quindici anni. All'inizio ero molto più interessato a fare cose pericolose, a prendermi dei rischi, a fare cose piuttosto estreme. Adesso sono molto più interessato alla politica, alla società, alla cultura, al perché determinate cose stanno accadendo, a come poterle raccontare. Adesso sono interessato alle vicende umane più che al giornalismo come sport estremo. Come si sente all'inizio dei suoi viaggi? Dipende dal viaggio. La maggior parte delle volte non sono preoccupato per un particolare pericolo, ma ciò di cui in realtà mi preoccupo sono cose come trovare l'attrezzatura adatta, un buon traduttore, tutti

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gli elementi logistici e cose simili. Il 90% di ciò che faccio come giornalista e corrispondente dall'estero è lavoro logistico, in particolare io sono un reporter per un giornale, non è come avere un grande team di produzione come una spedizione Tv. Quando stai lavorando in una zona di guerra, se ti trovi in Iraq o in Libia, la maggior parte del lavoro è trovare un posto dove stare, un traduttore, una macchina, benzina, questo genere di cose. Quindi in realtà la maggior parte delle cose a cui penso prima di partire è come fare per organizzare queste cose pratiche. Come ha vissuto il dopo 11 settembre dall'Afganistan e dal Pakistan? Noi abbiamo visto in televisione tanta gente che festeggiava. Ci può raccontare com'era la situazione reale e come si sentiva lei? Sono arrivato in Pakistan immediatamente dopo l'11 settembre e non ho mai visto gente festeggiare. C'erano immagini di gente che festeggiava ma come succede sempre con i media e con la Tv in particolare, hanno inquadrato solo un piccolo

gruppo di persone che stavano di fronte alla macchina a festeggiare e queste sono le immagini che sono andate in tutto il mondo. Ho potuto vedere di persona che l'unica immagine che, per esempio, inquadra una violenza e fa il giro del mondo, è ben lontana dalla situazione reale. Quindi a parte dei rari festeggiamenti, c'era una sensazione diffusa che l'America ha avuto ciò che si meritava. Io di certo non ho assistito a grandi festeggiamenti, la gente più che altro era preoccupata per ciò che sarebbe successo nei loro Paesi. Come si ponevano le persone nei suoi confronti quando scoprivano che lei era inglese? Questo è qualcosa che è realmente cambiato. Quando Blair si è avvicinato alle posizioni di Bush e l'Inghilterra ha preso parte alle azioni in Afganistan e in Iraq essere inglese divenne improvvisamente una cosa negativa, mentre prima era una cosa abbastanza positiva. Questo è un vero esempio del costo della guerra e del coinvolgimento dell'Inghilterra nel conflitto, in termini diplomatici. L'altra cosa cosa è che

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gli inglesi e i giornalisti erano diventati un obiettivo, mentre prima non lo erano mai stati. Quindi essere un giornalista inglese è stata una sorta di esperienza scomoda. Durante gli attacchi terroristici a Londra lei era lì. Cosa ha provato? Era molto strano, avevo assistito ad attacchi in altre parti del mondo ed in molte altre occasione, ma vederne uno nella propria città natale... me l'aspettavo quasi, ma è stata una sensazione molto forte ed emozionante. Ciò che mi ha maggiormente colpito è stata la tolleranza e l'apertura della mia città. Vivono un gran numero di comunità diverse, con pochi problemi tra le varie minoranze, basta guardare alla lista dei nomi delle persone che morirono per vedere quanto siano diversi i londinesi. Ricordo due cose molto forti: un'intervista a una delle vittime a cui veniva chiesto come si sentiva nei confronti delle persone che avevano fatto questo, e lei diceva: "Non sono nemmeno arrabbiato, sono solamente indignato." Ero molto orgoglioso della calma che c'era. Era tutto molto inglese. Nessuno era esaltato, nessuno preso dal panico, tutti sono andati al pub, tutto era molto tranquillo. L'altra cosa che mi aveva colpito fu un post su di un blog che era stato pubblicato immediatamente dopo, a proposito di come si sentiva la gente, e diceva: "Guardate, noi siamo inglesi, il 90% delle persone in questa città non è d'accordo con la guerra in Iraq, il 90% pensa che Blair sia un idiota e Bush è anche peggio, ma abbiamo il nostro personale modo di farlo vedere che non prevede far esplodere i treni". Penso che lo spirito della mia città sia: tu puoi contestare, litigare, puoi dire che una cosa è sbagliata, ed è stato fatto, ci sono state delle grandi manifestazioni contro la guerra in Iraq a Londra. Le più grandi manifestazioni mai viste a Londra da duecento anni, centinaia di migliaia di persone per le strade, magari un milione in alcuni casi. Ma ciò

che non facciamo è andare in giro a fare saltare per aria le cose. Mi sono sentito molto vicino alla mia comunità e alla mia città, non avrei voluto essere da nessun'altra parte. Un'ultima domanda a proposito delle donne in Pakistan. Lei ha detto che la cosa più insopportabile è la violenza sulle donne. Può raccontarci qualcosa su questa situazione? Il Pakistan è un luogo estremamente violento, la violenza è dappertutto, è un mezzo del potere. E in Pakistan le donne sono deboli. Hanno un trattamento alienante. Non sempre, ma molto spesso. La cosa peggiore è che le violenze perpetrate sulle donne non vengono sufficientemente documentate. Penso ai casi in cui le famiglie non sono abbastanza ricche per pagare la dote della figlia e viene gettata loro addosso acqua bollente, vengono bruciate vive o brutalmente sfigurate. Violenze gratuite, inutili in qualsiasi società. La polizia poi non è interessata a questi casi e molto spesso le persone che compiono queste violenze la fanno franca. È davvero un grande problema in Pakistan. Così come lo sono le violenze domestiche, un problema che sussiste ovunque ma che in Pakistan è particolarmente grave.

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Francesco Zizola, 2004, Sudan: Famiglie in fuga da un villaggio


INTERVISTA A CURA DI LAURA GRETTER, ILARIA SEGATA, SAMUEL GIACOMELLI

GIOVANNI PORZIO

GIOVANNI PORZIO (MILANO, 1951), INIZIA A FOTOGRAFE NEGLI ANNI SETTANTA CON UNA LEICA REGALATAGLI DAL PADRE. IN QUEGLI ANNI FREQUENTA SCIENZE POLITICHE ALL'UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO, FOTOGRAFA I CORTEI STUDENTESCHI E VIAGGIA IL PIÙ POSSIBILE, IN AUTOSTOP IN AMERICA, MAROCCO E INDIA. DOPO LA LAUREA VIVE UN ANNO IN ALGERIA PER IMPARARE L'ARABO E INIZIA A COLLABORARE COME GIORNALISTA FREE-LANCE A VARIE TESTATE GIORNALISTICHE. RIENTRATO IN ITALIA NEL 1979 ENTRA NELLA REDAZIONE ESTERI DI PANORAMA DOVE SI OCCUPERÀ DEI CONFLITTI IN MEDIO ORIENTE, AFRICA, SUDEST ASIATICO, AMERICA CENTRALE; DIVENENDO UN “INVIATO DI GUERRA”. HA REALIZZATO REPORTAGE DA PIÙ DI CENTRO PAESI, RICEVENDO NUMEROSI PREMI GIORNALISTICI. NEL 2010 L'UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA, IN COLLABORAZIONE CON L'ARCHIVIO FOTOGRAFICO TOSCANO E CON LA SOCIETÀ ITALIANA PER LO STUDIO DELLA FOTOGRAFIA, HANNO CONCLUSO IL LAVORO DI DIGITALIZZAZIONE DEL SUO ARCHIVIO FOTOGRAFICO: OLTRE 30 MILA IMMAGINI REALIZZATE IN QUARANT'ANNI DI LAVORO. Per quale motivo ha scelto la professione di fotoreporter? Per viaggiare, informare o ci sono altri motivi? Ho cominciato a viaggiare fin da quando ero al liceo, ma soprattutto negli anni in cui ero all'università. Di solito viaggiavo in autostop, si poteva viaggiare in sicurezza e mi sono fatto viaggi verso l'India, gli Stati Uniti, il Messico e altri posti. La grande passione del viaggio è sempre stata accompagnata da quella di documentare in qualche modo i posti in cui andavo, sia attraverso degli scritti, tenevo sempre un diario con me, giorno per giorno, sia attraverso la fotografia, giravo con una vecchia macchina fotografica e così ho iniziato a scrivere e a viaggiare. Poi ho capito che la professione di giornalista mi avrebbe consentito di fare ciò che mi piaceva, cioè viaggiare e scrivere, in più anche pagato, quindi quella era la scelta

che dovevo fare. Inoltre non era così difficile entrare nei giornali, non era facilissimo ma c'erano sicuramente più possibilità di oggi e così ho cominciato. Secondo lei c'è differenza fra fotografo e fotoreporter? Ho iniziato facendo il giornalista, le fotografie sono arrivate dopo. Ai tempi dell'università, per potermi permettere i viaggi e guadagnare qualche soldo, andavo a fare l'assistente di un fotografo a Milano. Ho imparato a usare la macchina fotografica ancora prima di iniziare a fare il giornalista, però quando ho iniziato a viaggiare e lavorare come giornalista, per alcuni anni non mi sono occupato di fotografia, ero già abbastanza occupato a scrivere i miei pezzi. Poi ho cominciato a portare la macchina fotografica e a fare delle foto diciamo per me, personali, per documentare i posti in cui andavo; fin-

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ché non mi è capitato di arrivare in posti in cui era un po' difficile andare e di essere l'unico ad avere la documentazione fotografica di questi luoghi. Allora il giornale ha cominciato a chiedermi se avevo delle immagini e ha iniziato a pubblicarle. A quel punto ho cominciato a fare le due cose assieme, cioè giornalista e fotografo, cosa che adesso è normalissima, ma allora non era molto diffusa, tutti giornalisti se lavoravano per un settimanale o per un giornale che aveva bisogno di immagini andavano in giro con un fotografo al seguito. Io in genere preferisco viaggiare da solo perché mi sento più libero e autonomo, anche questo è un motivo per cui ho cominciato a fare fotografie da solo. Tra fotoreporter e fotografo c'è una differenza fondamentale: il fotoreporter è un giornalista e quindi si occupa di fare una fotografia che serve per informare; il fotografo può essere di natura, di sport, di architettura oppure un fotografo artistico e non necessariamente deve saper informare. Quindi lei ha cominciato a fotografare per

se stesso, lo trova diverso dal fotografare per un giornale? Diciamo che all'inizio mi sono impegnato a fare fotografie pensando a quello che sarebbero servite, ad esempio lavorando per un settimanale come «Panorama» sapevo che serviva un certo tipo di foto, un po' standardizzata, non particolarmente artistica, poi col passare degli anni ho cominciato ad acquistare maggior fiducia nei miei mezzi tecnici e quindi a proporre al giornale delle foto un po' meno “di routine”. Adesso fotografo un po' quello che mi pare e come mi pare, poi se un giornale lo vuole bene. Oggi, usando il digitale, si possono fare molte foto di vario tipo e poi utilizzarle in base al mezzo su cui dovrebbero essere pubblicate. Prima di fotografare preferisce creare un legame con i soggetti o rimanere osservatore in disparte, per lasciare il momento più naturale? Dipende dalle situazioni, se ti trovi in una situazione di conflitto armato, io mi occupo

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que rischia la vita. Cosa la spinta a seguire questa strada? La professione di inviato di guerra è venuta fuori un po' naturalmente, non è che io avessi deciso di diventare giornalista per andare nelle zone di guerra. Per viaggiare bisogna occuparsi di paesi al di fuori dell'Italia e quindi mi sono specializzato nella politica internazionale; ho studiato l'arabo, perché all'epoca, quando facevo l'università, nella seconda metà degli anni '70, c'era stato il primo grande shock petrolifero e i paesi arabi erano sulle prime pagine dei giornali. Mi sembrava importante occuparmi di quella zona del mondo che poi mi interessava e affascinava particolarmente, paesi che avevo già visitato nei miei viaggi più giovanili, il Nord africa e il Medio Oriente. Quindi all'università mi sono laureato con una tesi sulla storia dei paesi arabi, ho imparato la lingua e poi quando ho iniziato a collaborare con dei giornali, mi hanno utilizzato per coprire le questioni medio orientali. Purtroppo nel Medio Oriente, sia allora come oggi, si tro-

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soprattutto di conflitti armati, non è che hai il tempo di entrare in confidenza e in empatia con la persona che fotografi, cerchi semplicemente di fare le foto e di salvarti la pelle. Poi in generale si può dire che se uno fa delle foto a dei soggetti animati, delle persone, la cosa migliore è entrare in rapporto con le persone che fotografi. Non mi piace arrivare nei posti e fotografare dall'esterno quasi rubando l'immagine, preferisco entrare in contatto e conquistarmi se non l'amicizia, almeno la simpatia e la fiducia delle persone che devo fotografare. È un processo lungo che richiede più tempo, ma le foto migliori si fanno in questo modo. Le foto “rubate” fotografano l'istante, fotografano una situazione, ma sono spesso molto meno espressive, mentre se riesci ad entrare in confidenza con il soggetto e a stare un po' di tempo insieme, allora vengono fuori delle belle foto. Lei è partito con il desiderio di fotografare durante i suoi viaggi ed ora è arrivato a fotografare in zone di guerra dove comun-

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vano paesi spesso sull'orlo di una guerra o paesi in conflitto e quindi ho cominciato a seguire il conflitto arabo-israeliano, poi la guerra civile in Libano e piano piano ho acquisito un'esperienza di lavoro in zone di guerra e di conflitto che non è da tutti, non ci sono tanti giornalisti, soprattutto in Italia, che sanno muoversi agevolmente in territori di quel tipo, conoscendo la lingua, ecc. Quindi quasi naturalmente ho cominciato a fare servizi su Egitto, Libano, Israele, Palestina, Iraq e in questi paesi c'era spesso la guerra ed è così che sono diventato un reporter di guerra. Che cosa mi spinge ad andare continuamente in questi posti? Intanto, se non ci occupassimo noi giornalisti di guerra, le informazioni verrebbero lasciate gestire dagli uffici stampa degli eserciti e dei governi in conflitto e questo non sarebbe un buon servizio all'informazione, poi sono realmente interessato ad andare a registrare, a vedere ciò che succede in zone che sono difficili da raggiungere. Sempre più spesso purtroppo ci si limita a seguire le notizie attraverso i computer, attraverso internet e si perde un po' il senso di quello che è il racconto e di quello che è la notizia, perché le informazioni che arrivano sul web spesso non sono controllate o verificate e questo è un rischio per la veridicità dell'informazione. L'ultimo punto è che nelle zone di guerra si vivono delle situazioni estreme dove si mettono a nudo quelli che sono gli istinti, le passioni, l'animo umano nella più nuda e cruda essenza e questo mi interessa molto, molto più che occuparmi di paesi sviluppati dove moto spesso è più l'apparenza che non la sostanza. Quando ci si trova in situazioni dove la posta in gioco non è il posto in parlamento o il posto in una squadra di calcio, ma è la vita o la morte, o la sopravvivenza dei propri figli, della famiglia, della casa si arriva un po' all'essenza del senso della vita; questo mi interessa enormemente di più di tutto il resto. Qual è stato l'incontro che più l'ha colpita durante i suoi reportage?

In più di trent'anni di questo lavoro ho conosciuto migliaia di persone di tutti i tipi e ogni volta che incontri una persona è comunque un'esperienza che ti lascia qualcosa, che sia una persona comune o importante, normale o speciale. Comunque sono incontri sempre emozionanti, però ci sono state delle situazioni emotivamente molto coinvolgenti che ricordo ancora con grande nitidezza, me ne vengono in mente tante. Nel 2003, durante la guerra in Iraq io mi trovavo a Bagdad, quando un missile americano cadde in un quartiere povero della città, causando la morte di una dozzina di ragazzini che stavano giocando a pallone nella piazza del mercato. Era l'imbrunire e venni informato immediatamente dal mio interprete e nonostante ci fosse il coprifuoco decisi di uscire dall'albergo per andare a vedere cosa stava succedendo. Quando arrivai i corpi erano già stati messi nelle bare all'interno della moschea sciita del quartiere ed io ero l'unico straniero all'interno della moschea, avevo con me la macchina fotografica che però non stavo usando perché la situazione era molto tesa, potete immaginare, c'erano le famiglie, le madri in lacrime, si sentiva la disperazione, i pianti, le urla, le grida... casualmente mi trovavo accanto ad un uomo di una certa età che era in piedi davanti a una bara non molto grande e mi trovavo spalla a spalla con lui in silenzio, in raccoglimento ad aspettare cosa sarebbe successo. Quest'uomo ad un certo punto si gira verso di me e in italiano mi chiede se fossi italiano, ero stupito e gli risposi di sì che ero italiano e gli chiesi come faceva a saperlo. Lui rispose che aveva visto che ero straniero e che l'unica lingua che conosceva oltre alla sua era l'italiano e quindi aveva provato a rivolgersi a me in italiano, mi raccontò che durante la guerra tra Iran e Iraq, negli anni '80, la nave militare su cui si era imbarcato era rimasta bloccata per cinque anni nel porto di La Spezia e così aveva imparato un po' di Italiano. Alla fine di questa conversazione si gira verso la bara e mi

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dice che era suo figlio di nove anni e si chiamava Carrar. A quel punto si aprì una piccola porta sul lato della moschea e lui mi dice che era il suo turno, io non mi stavo rendendo conto che si stesse svolgendo il rituale del lavaggio del corpo del defunto. Perché il rituale funebre musulmano prevede che il corpo del defunto, dopo essere lavato e quindi purificato, venga interrato il giorno stesso della morte. Era il turno di quest'uomo e lui mi propose di andare con lui, rimasi molto colpito da questa proposta perché è una cerimonia molto intima in più io evidentemente non ero musulmano, però lui mi disse che voleva che il mondo sapesse cosa stava accadendo e cosa stavano facendo ai loro figli, quindi entrai con lui e assistetti a tutta questa operazione. Nel momento in cui tolsero il coperchio, soltanto appoggiato, a questa povera bara di legno che sarebbe poi stata riutilizzata perché nei paesi musulmani il corpo si seppellisce nella nuda terra, senza cassa, sollevarono questo bambino morto e per me è stata un

emozione fortissima, perché sembrava mio figlio, mio figlio a quell'epoca aveva ottonove anni e questo bambino iracheno era vestito esattamente come poteva essere vestito mio figlio, aveva dei jeans, un giubbotto di jeans, una t-shirt, delle scarpe alte addosso ai piedi ed era biondo con i boccoli. Rimasi talmente colpito da questa scena che fino a quel momento non scattai nemmeno una fotografia. Lo tolsero dalla cassa e lo appoggiarono su un piano di marmo e cominciarono a lavarlo e solo a quel punto iniziai a scattare alcune foto, ma erano foto prese con rispetto. Questa scena mi è rimasta dentro. Fotografando si troverà in situazioni di paura, nelle quali le emozioni provate sono forti, non le è mai venuto il pensiero di non riuscire a trasmettere agli altri quello che lei provava? Per me, l'approccio alla fotografia deve essere sempre molto rispettoso e mai aggressivo. D'altra parte io sono consapevole di essere lì per fare il mio lavoro, che è quello

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ché le foto che scatto non sono scandalistiche e non hanno lo scopo di suscitare scalpore, ma servono a documentare quello che vedo con i miei occhi davanti a me. La realtà è incontestabile. Ci sono stati alcuni episodi in cui magari il contesto in cui la foto è stata scattata era troppo crudo, ma sono sempre stato attento a non pubblicare foto troppo violente, perché si cerca sempre di dare un messaggio che non sia di dolore anche quando si parla di cose drammatiche. Più spesso può capitare che magari in un mio articolo ci siano delle persone che si sentono offese o tirate in mezzo a sproposito. Ho ricevuto anche alcune querele, ho avuto dei problemi per alcuni articoli, però l'ho sempre avuta vinta io; mi riferisco per esempio alla storia delle torture che dei soldati italiani avrebbero compiuto su alcuni somali in Somalia nel '90. In quel caso io feci uno scoop, perché pubblicai l'intervista di un sergente dell'esercito italiano che denunciava questi fatti con in più del materiale fotografico; l'esercito italiano insorse, ma

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di documentare e testimoniare, quindi raramente rinuncio a fotografare, perché è mio dovere farlo, io faccio il giornalista per testimoniare. Per quanto riguarda la violazione dell'intimità dipende molto dalle circostanze, perché la guerra distrugge completamente l'intimità delle persone, è un problema che non si pone in queste situazioni. La guerra è una cosa terribile non solo perché distrugge le cose materiali, quello che la guerra distrugge nel profondo è l'identità delle persone, i legami tra le persone, il senso di appartenenza ad una comunità, soprattutto quando si tratta di guerre civili, che sono le più diffuse al giorno d'oggi, tra fazioni religiose, guerre dove la gente si ammazza tra vicini di casa. Questo è molto più lungo da guarire, da ricostruire che non i danni strutturali. Le è mai capitato che una sua foto venisse mal interpretata, sia da chi l'ha vista che da chi è stato fotografato? No, non mi è mai capitato di ricevere né appunti né proteste riguardo alle mie foto, per-


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poi la cosa si sgonfio, perché il mio operato era incontestabile, il tribunale militare condanno alcuni ufficiali e sotto ufficiali e la cosa finì così. Poi ci sono le proteste dei governi, come ad esempio il governo israeliano, che è molto attento riguardo a queste cose, spesso protesta per affermazioni contenute in articoli o semplicemente per la terminologia utilizzata nella stesura degli articoli. Io ad esempio continuo indefessamente a rivolgermi al governo di Tel Aviv e non al governo di Gerusalemme, perché la città è stata occupata nel '67 dal governo israeliano, ma non è riconosciuta come sua capitale. Oppure non posso fare riferimento al termine muro, quello costruito dagli israeliani in territorio palestinese, perché loro la definiscono barriera difensiva. Stanno a fare il punto anche sulle parole, perché effettivamente sono delle parole che hanno una valenza e un significato politico ben preciso e quando si parla di politica che sia italiana o internazionale si può suscitare polemica o comunque dispiaceri. Secondo lei, prendendo in considerazione la situazione dei media al giorno d'oggi, c'è libertà di informazione? In Italia c'è una assoluta libertà di informa-

zione, perché non esiste la censura, vi è però una forma di controllo indiretto che si esercita in vari modi. I giornali ad esempio sono di proprietà di un editore e quando questo editore, come nel caso di Berlusconi, fa politica, ovviamente usa i suoi giornali come strumenti di propaganda. Non è che ci sia una censura, ma le persone che hanno un certo orientamento politico vengono man mano emarginate e vengono assunti nuovi giornalisti più in linea con le ideologie del giornale. Purtroppo in Italia giornali completamente indipendenti non ce ne sono o se ce ne sono si contano sulle dita di una mano e l'informazione è molto strumentale e molto politicizzata, quindi o stai da una parte o stai dall'altra. Io invece ritengo che il dovere di un giornalista sia quello di essere il più possibilmente imparziale. Da noi questo si è un po' perso negli ultimi anni e purtroppo fa perdere molta credibilità ai giornali. Per noi giovani quale può essere il modo migliore per informarsi? Il mio consiglio è quello di leggere giornali stranieri. L'importante per informarsi su internet è sapere la fonte, ad esempio recarsi sui siti web dei giornali e non su blog privati.

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INTERVISTA A CURA DI IRENE LUCE PARISI, MARCO VIGANÒ

PINO CREANZA

PINO CREANZA (ALTAMURA 1958) INGEGNERE DI PROFESSIONE CON LA PASSIONE PER IL FUMETTO, LE ILLUSTRAZIONI E LA SCRITTURA. NEGLI ANNI '90 INIZIA LE SUE PRIME COLLABORAZIONI CON LA RIVISTA CULTO FRIGIDAIRE, SI TRATTA DI STRISCE UMORISTICHE A CUI SEGUIRANNO LE COLLABORAZIONI CON IL MANIFESTO, LA REPUBBLICA XL, ANIMALS OLTRE A VARI BLOG E SITI WEB. NEL 2008 PUBBLICA IL RACCONTO PER RAGAZZI MICHELINO E IL TESORO DEI BRIGANTI SEGUITO NEL 2011 DA UN ALTRO LIBRO PER RAGAZZI L'ULIVO SCOMPARSO. NEL 2012 ESCE IL SUO PRIMO LIBRO DI GRAPHIC REPORTAGE, CAIRO BLUES, DI CUI È IN USCITA UN'EDIZIONE ARABA PER IL MERCATO EGIZIANO. Da quando fa fumetti? Come ha iniziato? Ho iniziato negli anni novanta pubblicando strisce umoristiche su una rivista che si chiamava «Frigidaire» e che esce tutt'ora in edicola. All'epoca era una rivista abbastanza di tendenza e di contro-tendenza, in cui avevano pubblicato Andrea Pazienza, Stefano Tamburini, Filippo Scozzari. Ho iniziato dopo aver frequentato una scuola di fumetti fondata da Giuseppe Palumbo, un fumettista che adesso disegna Diabolik ma che ha fatto anche cose molto più underground. Cos'è un graphic reportage e in cosa si distingue nel mondo dei comics? Dunque, devo un po' improvvisare, nel senso che non faccio parte di una scuola di graphic reportage, mi sono un po' inventato un modulo espressivo che corrispondeva a quello che volevo fare. Certo, ho letto tante altre cose, cose molto più importanti delle mie, per esempio i lavori di Joe Sacco sulla Palestina e sulla Bosnia. Penso che il graphic reportage sia nato un po' sull'onda lun-

ga di quello che va di moda chiamare graphic novel ma che poi alla fine si tratta semplicemente di una storia a fumetti per un pubblico maturo, una storia che non è per forza una storia di supereroi o di pura evasione. Si tratta di storie che si collocano in maniera indipendente dal genere, quindi può essere un racconto intimo o drammatico, storico ma anche di cronaca. Il graphic reportage è figlio di una maturazione del linguaggio del fumetto che da essere un linguaggio confinato solo in alcuni generi (il noir, il giallo, il comico...), ritenuto come una sorta di letteratura di serie B, o di serie Z, per ragazzi o per adulti rimasti un po' fanciulli, in questi ultimi 10-20 anni è stato sdoganato grazie al lavoro di autori-artisti che hanno permesso al fumetto di oltrepassare quella linea di separazione tra la cultura e la sottocultura e oggi può essere considerata la nona arte. Come con il cinema tu puoi fare un documentario, puoi raccontare una storia d'amore, oppure puoi fare un fantasy e anche col fumetto puoi fare un po' di tutto. Ha dei padri ispiratori? Anche nell'ambi-

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to del viaggio, del graphic-reportage? Il mio padre ispiratore più che il fumetto è stata la letteratura di viaggio, autori come Bruce Chatwin, Terzani e tanti altri. Quando ho letto Joe Sacco l'ho fatto come se stessi leggendo un altro libro di viaggio, era a fumetti ma poteva benissimo essere un libro scritto. Non credo di avere proprio dei padri spirituali. Ho visto delle cose su «Internazionale» e questo mi ha stimolato, mi piacevano quelle due pagine di fumetti, un modo sintetico di raccontare una situazione e ho provato. La prima cosa che ho fatto l'ho proposta proprio a loro, poi non è andata bene ma è stata pubblicata su di un'altra rivista e quindi ho continuato. È nato un po' per caso e non perché io sia un grande viaggiatore, tutt'altro, io viaggio per lavoro, mi capita e mi è capitato di andare

Al Cairo più volte, ma non sono uno che ha la possibilità, per la vita che fa, di girare il mondo, non sono un giornalista, per cui quello che ho fatto l'ho fatto anche rielaborando materiale non mio. Quali autori consiglierebbe ai ragazzi che volessero avvicinarsi alle graphic novel? L'autore che mi piace di più da questo punto di vista è sicuramente Joe Sacco perché è uno che ha fatto veramente il giornalista, ha viaggiato ed ha fatto un lavoro di gran spessore; molto interessante è anche «Maus» di Art Spiegelman che non è un graphic reportage, ma è un graphic novel storico fatto da un autore che non sa disegnare nel senso classico del termine ma che rappresenta una rottura davvero potente nel mondo del fumetto. Poi bisogna farsi ispirare da ciò che attira, farsi un giro

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in libreria, a me piacciono molto anche i giapponesi tipo Taniguchi, ci sono tanti nomi interessanti in giro. Direi che i due punti di partenza possono essere Joe Sacco per il graphic reportage e Art Spiegelman per le graphic novel. Le hanno mai detto che il fumetto è un modo poco serio per trattare temi importanti? No, non mi è mai capitato. Lei cosa ne pensa? Penso sia una stupidata, una sciocchezza. Anzi credo che il fumetto abbia dei pregi particolari che uniscono quelli della scrittura a quelli dell'immagine, perché una fotografia può dire tantissimo ti può dare un'emozione molto forte, però corre sempre il rischio di distorcere la realtà in qualche modo. Tutti distorcono la realtà, interpretano la realtà perché isolano un'immagine da un contesto molto più vasto a cui è difficile risalire. La scrittura soffre meno di questo problema perché può raccontare, può descrivere, può costruire il contesto, può aiutare a penetrare anche sfumature psicologiche che magari una singola foto non riesce a dare. Il fumetto può unire tutte e due queste caratteristiche associando anche i pregi di tutti e due i linguaggi: l'efficacia dell'immagine ma anche la possibilità di usare la parola per completare, per arricchire. C'è sempre questa attenzione dinamica tra il testo e l'immagine. Siamo stati al festival del fumetto di Bologna «BilBolBul» dove si vedono molti libri che non sembrano fumetti ma piuttosto delle vere opere d'arte. Che relazioni ha con questo tipo di fumetto? Scarse, perché poi alla fine io non sono un professionista del fumetto, ho il mio lavoro. Guardando dove vi trovate riconosco che si tratta di un laboratorio di fisica perché sono un ingegnere (l'intervista viene realizzata via skype da un laboratorio di fisica della scuola ndr), quindi ho un'altra formazione. Per me il fumetto è un hobby, è una

cosa che mi piace fare, ho sempre letto fumetti, ma non sono un artista che frequenta le gallerie o fa libri d'arte, faccio delle cose che mi divertono. Detto questo c'è spazio per tutti. Il fumetto è Diabolik, è Tex, è anche il libro un po' a sé stante che ha la pretesa, o anche il merito, di essere un lavoro più artistico e creativo. Oggi quelli che magari hanno quarant'anni o cinquant'anni e che vent'anni fa leggevano Linus e sono cresciuti con una cultura del fumetto un pochino più sofisticata se hanno il portafoglio pieno possono permettersi di spendere 20-25 euro per un bel libro di fumetti (patinato, rilegato bene). Ma non è più fumetto di quanto non lo sia un giornalino di Diabolik o di Tex, per me non c'è una scala di valori. In Francia il fumetto è considerato letteratura. Per voi è difficile lavorare in Italia? Sì, la Francia è la Mecca per gli autori di fumetti e molti italiani si sono trasferiti e vivono in Francia perché lì hanno più opportunità, non solo di mercato ma anche per la possibilità di accedere a sistemi di finanziamento pubblico. In Francia lo sdoganamento del fumetto è avvenuto prima, mentre da noi il fumetto è la minore delle arti minori insieme al cinema e alla musica, mentre la letteratura, la poesia e la pittura rappresentano veramente l'arte. In Francia è andato diversamente, il fumetto si usa molto nella pubblicità, si possono vedere pubblicità importanti affidate al tratto di un disegnatore di fumetti, in Italia è molto più difficile. Quindi questo spiega un po' perché da noi ci sia più polarizzazione, c'è il fumetto di massa e poi c'è questo fumetto per pochi, più d'élite, più difficile anche magari da leggere. In Francia c'è più continuità, c'è tutta una zona di fumetto di alta qualità però per un grande pubblico. In Italia non c'è un mercato molto ampio, c'è l'edicola o c'è il piccolo settore di nicchia nelle librerie. A me ha sempre impressionato in Francia o in Belgio andare nelle

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librerie e vedere settori di fumetti enormi in cui per ogni titolo ci sono 15-20 copie, mentre in Italia trovi due o tre copie. In Italia l'attenzione però è cresciuta, oggi in libreria si trovano anche fumetti, qualche anno fa era molto più difficile. La situazione è migliorata. In Italia, fino a qualche anno fa, il fumetto era diviso in due, quello per il grande pubblico come Tex e Diabolick che è sempre andato bene e poi c'era il fumetto un po' di nicchia che compariva sulle riviste spesso più underground o satiriche. In quegli anni il fumetto sembrava morto, come se la tv ed il cinema avessero completamente soppiantato una forma tutto sommato antiquata. Il merito della graphic-novel è stato quello di riaprire le porte al fumetto di qualità e d'autore. Lo spazio lo trova chi riesce a confezionare un prodotto che vada bene per quel mercato, dove vengono richiesti libri con un minimo di pagine e che assomiglino un po' più ad un romanzo, ma chi invece ha un modulo espressivo diverso, basato su storie brevi e magari umoristiche continuerà ad avere le difficoltà che aveva prima. L'autore di strisce è in profonda crisi perché i quotidiani italiani non le pubblicano, c'è lo spazio solo per poche vignette, fatte poi sempre dai soliti. Per esempio non capisco perché settimanali come «Panorama» e «L'Espresso» non dedichino uno spazio fisso al fumetto, c'e tanto materiale, tanti autori bravi che potrebbero fare la differenza e rendere più interessanti queste riviste ma è una cosa che fatica a farsi strada. Una rivista come XL con cui lei collabora, si è dimostrata coraggiosa e innovativa per quanto riguarda il fumetto. È un caso abbastanza unico nel quale si riconosce un pregio, non solo pubblica delle strisce o delle storie a fumetti create appositamente per la testata, ma pubblica anche recensioni o estratti di libri a fumetti contribuendo a far conoscere autori ed a

stimolare un pubblico abbastanza giovanile, ma bisognerebbe fare di più. È interessante il fatto che lei non sia un fumettista a tempo pieno. Riguardo al viaggio si può essere viaggiatori a tempo pieno, ha mai provato ad esserlo o crede che la bellezza di un viaggio sia la brevità e forse anche la possibilità di ripeterlo? Come diceva quell'attore televisivo: “la seconda che hai detto” (ride). Un viaggiatore per professione... Sai il limite di fare le cose per professione è quello che tu lo devi fare per guadagnarci dei soldi e quindi lo devi fare con un ritmo che è dettato più dal portafoglio che dall'ispirazione. A me ha colpito, quando ho letto i libri di Terzani, scoprire che lui aveva accettato la sua malattia, il tumore che aveva scoperto di avere, come una liberazione dall'obbligo di viaggiare per fare i reportage e di poter iniziare a viaggiare per la voglia e la libertà e così ha fatto le scoperte, forse per lui, più interessanti. Questa premessa per dire che io sono contento di non essere un professionista del

LA COSA PIÙ BELLA DEL VIAGGIO È CONOSCLOERE

E SO QUALCUNO DI NUOVO, ANCH NA. C'È PER PASSARCI UNA SETTIMA EA UN UNA SORTA DI MAGIA CHE CR SE SIA IL LEGAME SPECIALE: NON SO A DA CONFRONTO O LA LONTANANZ I CASA, MA PROPRIO DAI VIAGG PENDE. NASCONO DELLE AMICIZIE STU

SERENA RIGHETTI (5H)

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fumetto perché alla fine se non mi pubblicano le cose rimango male ma non mi crea un grossissimo problema, posso anche giocarci su. Quindi no, non mi piacerebbe fare il viaggiatore per professione. È bello farlo e tornare nei posti, rompere la routine, la vita quotidiana, anche perché quando viaggi più raramente diventi un po' come una spugna, sei assetato di stimoli e quando vai nei posti puoi assorbire di più; se sei già zuppo, assorbi poco e non fai attenzione a quello che ti capita. Com'è una sua giornata tipo? La mia giornata tipo è molto semplice: metto la sveglia alle sei, faccio una colazione abbondante e vado a lavorare, esco alle 14.30, arrivo a casa, cucino e poi inizio a lavorare su qualche fumetto, poi verso le 17.30-18.00 faccio un po' di attività fisica e la sera se c'è ancora un po' di tempo disegnare. Riesco a farlo perché lavoro parttime, è una scelta che ho fatto quattro-cinque anni fa proprio per ricavarmi un po' di tempo libero. Quali sono le difficoltà più grandi per poter continuare la sua attività di fumettista? Il non poter viaggiare abbastanza. Perché, per quanto riguarda il graphic reportage, per esempio mi sarebbe piaciuto tornare al Cairo, starci un periodo, però non era proprio fattibile, quindi questo limita anche le cose che tu puoi raccontare. Alla fine però l'unico problema per i fumetti è il tempo, se avessi più tempo potrei pensare a dei progetti un po' più ambiziosi, un po' più lunghi. Rimangono sempre le strisce umoristiche, quattro battute, una vignetta, in due ore viene su. Progetti più ambiziosi... ha in mente qualcosa di preciso? Di preciso no. Devo dire la verità: sono un tipo un po'... mi distraggo in tanti progetti, quindi a parte i fumetti scrivo anche libri per ragazzi. Fra l'altro mi piacerebbe avere un po' di tempo da dedicare a questo pro-

getto che ho in testa: scrivere un racconto sulla provincia italiana, magari in coppia con un giornalista che mi desse una mano a racco-gliere le interviste, a fare dei lavori fotografici, quindi poi insieme costruire un racconto. Cosa significa per lei poter disegnare e dare voce ai suoi fumetti? Cosa prova quando finisce una striscia? Se parliamo delle strisce umoristiche ho dei personaggi che ormai seguo da tanti anni, forse da vent'anni. Sono dei piccoli personaggini, tipo il «Prof Knox», «Tom» e «Ponsi»... ognuno ha il suo caratterino e sono come delle personcine in miniatura che ti frullano per la testa e ogni tanto riprendi le loro piccole vite, gli fai fare qualcosa, per me è una cosa molto divertente. A volte mi sembra di non avere più idee, poi mi siedo, mi metto a scarabocchiare e mi vengono. È un meccanismo ormai, non dico automatico, ma collaudato. "Cairo blues", la sua opera più interessante per noi che ci occupiamo di viaggio, vuole raccontarci come è nata? Avevo realizzato una storia a due pagine per «Internazionale» nata da un viaggio ad Istanbul. Un viaggio brevissimo, di una giornata e mezzo, fatto dopo dieci anni dall'ultima volta che ci era stato. Avevo fatto molte fotografie e stavo pensando a come utilizzarli per esprimere l'emozione della visita di una città che sembrava la stessa di dieci anni prima ma che allo stesso tempo era cambiata. Potevo aggiungere degli appunti alle foto, ma poi ho avuto l'idea di “disegnare le immagini” e metterci delle didascalie. Ho fatto questo tentativo di due pagine e l'ho mandato a «Internazionale». Qualcosa non è andato per il verso giusto e alla fine non me l'hanno accettato. Era da poco uscita questa rivista «Animals» e così insieme alle strisce comiche ho mandato questa storia di due paginette, poi diventate tre. Loro mi hanno subito risposto che gli piaceva molto e che

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l'avrebbero pubblicata. Allora mi sono posto il problema: “Okay, me la pubblicano, probabilmente posso realizzare altro perché Animals è mensile e non voglio che tutto finisca con questa storia”. Il materiale che avevo più in abbondanza era su Il Cairo, perché avevo anche scritto un piccolo libro di viaggio sul Cairo, ci ero stato un po' di anni prima e avevo continuato a seguire un po' gli eventi. Ho deciso di realizzare una o due storie brevi e queste sono piaciute ancor più di quella su Istanbul e me le hanno pubblicate. Allora ho detto “Devo andare avanti”. Pensavo di averne per tre-quattro storie e invece ho scoperto che, scavando, documentandomi, usando molto internet, leggendo, guardando le foto in rete e il mio materiale fotografico, potevo produrre di più e così è andata passo a passo. Non c'era nulla di pronto. È nato tutto un po' a ridosso della rivista. Poi la rivista ha chiuso, io continuo a produrre materiale perché mi piacerebbe assemblarlo in un libro e dargli una veste di unitarietà che in realtà non ha, perché sono tutti flash abbastanza indipendenti uno dall'altro. Quindi verrà pubblicato? Questo non lo so, sono arrivate delle richieste, ma qualcuno vorrebbe una storia più narrativa, con un personaggio, un antagonista, in modo che il lettore si possa immedesimare. Io ho continuato a fare ritratti, come se fossero tanti punti di vista su di una città ed il libro che ho in testa è la contrapposizione di queste microstorie in modo che possano risultare coerenti tra di loro, ma non ho idea di chi possa pubblicarlo, perché è un libro un po' strano, non è la graphic-novel di centocinquanta pagine che può interessare ad un grosso editore, sono una settantina di pagine... non lo so, devo ancora proporla in realtà, sto ancora lavorando alla sua prima stesura e poi la manderò un po' in giro agli editori che conosco e vedremo.

Quindi nella scelta del Cairo non c'entra la primavera araba, lei parla di viaggi fatti ancora prima? Infatti è davvero una cosa strana, io ero stato al Cairo intorno al 2000 e già in quegli anni si coglievano tantissime contraddizioni. Potevi sentirti molto rilassato, poi il frastuono ed il caos della città poteva essere molto stimolante per i sensi e l'intelletto ma vi erano livelli di povertà e di disparità sociale molto forti e c'erano tutte le condizioni perché prima o poi qualcosa succedesse ma nessuno immaginava, tanto meno io, che fosse imminente qualcosa del genere. La cosa più interessante per me è stata che dovendomi documentare mi sono avvicinato ad una serie di blog e di giornalisti di cui ho usato le foto e che poi sono stati protagonisti della rivoluzione egiziana. Quando ho iniziato non pensavo che mi sarei occupato di qualcosa che sarebbe poi diventato di grande attualità. Ho iniziato raccontando di come si viveva sotto Mubarak e il suo regime che sembrava dovesse durare per sempre, ora mi ritrovo con un libro che comincia con Mubarak e finisce senza di lui. Come ha fatto a visitare e conoscere le varie sfaccettature del Cairo, tra le sue tavole ci sono episodi riguardo gli alberghi di lusso, le crociere, le abitazione nei cimiteri... non solo posti turistici, quindi lei aveva già degli appoggi e dei legami? Io ho avuto la fortuna di andare al Cairo prima della rivoluzione, sono andato con l'università, con una organizzazione egiziana con cui collaboravo e andavo per incontrare dei consulenti egiziani con i quali visitavo delle fabbriche per dare una valutazione sul livello tecnologico dell'industria egiziana. Poi nel tempo libero ho girato un po' per la città perché sono molto curioso e mi piace l'architettura della città, ho girato molto la parte islamica visitando le moschee, i cimiteri e andavo in giro con una ragazzo egiziano che non conosceva

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Con quale criterio ha deciso il suo stile per il suo graphic reportage e perché ha optato per un disegno più realistico rispetto al suo stile comico? Ho fatto di necessità virtù, perché io non so disegnare, non ho frequentato un corso tecnico o un'accademia quindi per me realizzare un disegno è cercare una sceneggiatura e su quella documentarmi per gli sfondi, l'ambientazione e disegnare i personaggi sarebbe stato uno sforzo immane, quindi dovevo trovare una scorciatoia e questa è stata utilizzare la fotografia, alcune fotografie erano mie altre me le sono procurate, quindi tante di quelle storie sono partite da un photobook fotografico, un po' come se stessi facendo un fotoromanzo e poi ho modificato le foto, le ho mischiate tra loro, ho fatto un po' di collage. In pratica prima ho fatto una specie di fotoromanzo e poi con Photoshop e una tavoletta grafica ho utilizzato questo fotoromanzo come uno sfondo sul quale ho disegnato a mano libera con una tavoletta grafica. In questo modo ho ottenuto il risultato che volevo, perché comunque c'è qualcosa di personale, ossia il tratto della mia mano e poi mi sono liberato di tutti i problemi di prospettiva e costruzioni, di bozze di matite, sono andato a realizzare direttamente il definitivo partendo da una base fotografica. Dietro c'è anche un mio limite che poi ha limitato anche le storie che volevo raccontare perché non potevo prendere un personaggio e fargli fare tutto quello che volevo, perché dovevo partire da immagini che avevo e che ero riuscito a comporre. Se riesci ad accettare i vincoli che ogni stile comporta allora può anche diventare qualcosa di personale ed espressivo. Abbiamo notato che sulle sue tavole a volte c'è la firma con la data ed altre volte no, c'è un motivo? No, mi dimentico di firmarle.

quei posti e mi chiedeva come facesse a conoscerli. Semplicemente avevo letto, mi ero documentato e un po' per interessi miei un po' per lavoro ho avuto l'occasione di vedere prospettive diverse della situazione, parlando con imprenditori che mi raccontavano della corruzione, delle difficoltà di gestire un azienda dove non c'è una concorrenza libera e dove devi corrompere un po' tutti per poter vendere il tuo prodotto. Ho avuto questa opportunità e l'ho colta. In diverse tavole ci sono dialoghi in inglese, a quale target aveva pensato? In effetti è vero, poi ci sono altri passaggi in cui i dialoghi sono in italiano, ma li c'era un inglese che a me piaceva molto perché era un inglese pronunciato dagli arabi, dagli egiziani in particolare, che ha un suono molto particolare. Per me riportare i discorsi in inglese era riportare un ambiente, una situazione e mi sono chiesto: “Lo traduco o non lo traduco?” Ma oggi bene o male tutti conoscono l'inglese e poi sono poche frasi molto elementari, poi non so magari le future possibili case editrici mi diranno togli e traduci in italiano o metti tutto in inglese o non ne ho idea, però mi piace mettere un po' di arabo, un po' di italiano ed un po' di inglese nelle tavole. Ho notato che ogni capitolo ha un diverso colore, questo è collegato al sentimento che ha provato quando ha scritto o quando ha trascorso quel momento in Egitto? All'inizio ho usato vari colori perché mi facevo trasportare dalle sensazioni e dalle emozioni, in realtà, ora che sto facendo qualcosa di più unitario sto usando un colore unico, il colore sabbia un po' polverosa, che per me è il colore del Cairo quindi ho un po' riformato; ma sugli episodi pubblicati su «Animals» in effetti ho usato per esempio il colore rosso cupo per la storia dell'omicidio della cantante libanese perché rendeva l'atmosfera del racconto.

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VIAGGIO e MIGRANTI FABRIZIO GATTI ANDREA SEGRE GABRIELE DEL GRANDE MARSHALE, SOULEYMANE, ADIL

RIFUGIATI E MIGRANTI FORZATI

PRESENTI "...E PERMETTETEMI - VISTO CHE QUESTO È STATO FINO AD OGGI IL MIO IMPEGNO - UN PENSIERO PER I MOLTI, TROPPI MORTI SENZA NOME CHE IL NOSTRO MEDITERRANEO CUSTODISCE. UN MARE CHE DOVRÀ SEMPRE PIÙ DIVENTARE UN PONTE VERSO ALTRI LUOGHI, ALTRE CULTURE, ALTRE RELIGIONI". É COSÌ CHE L'ATTUALE PRESIDENTE DELLA CAMERA, LAURA BOLDRINI, RICORDA NEL SUO DISCORSO D'INSEDIAMENTO LE MIGLIAIA DI VITTIME CHE I CONFINI IMMAGINARI DEL NOSTRO MARE CELANO SOTTO LE ONDE. L'INVITO DI QUESTA PERSONA CI FA RIFLETTERE, PERCHÉ NON VUOLE ESSERE UN'IMPOSIZIONE, MA UNO STIMOLO A LOTTARE CON LEI, CHE HA DEDICATO TUTTA LA VITA A QUESTA TEMATICA, COSÌ IMPORTANTE NEL NOSTRO PAESE. E COME LEI FANNO MOLTISSIME ALTRE PERSONE, ALCUNE DELLE QUALI ABBIAMO AVUTO LA FORTUNA DI CONOSCERE E INTERVISTARE. “VIVERE-COMPRENDERE-TRASFORMARE” È LA FRASE BASE DEL PROGETTO “PRESENTI”, ED È FORSE ANCHE IL MESSAGGIO CHE GLI INTERVISTATI CI VOGLIONO TRASMETTERE: CERCARE SEMPRE DI 86


SCAVARE A FONDO, DI NON LASCIARE CHE SIANO GLI ALTRI A CAMBIARE IL MONDO, MA AGIRE NOI STESSI. E FORSE IL VIAGGIO È UNO DEI MODI MIGLIORI PER FARLO. VIAGGIARE, INFATTI, COME SOSTENGONO ANCHE LORO, CI PERMETTE DI VEDERE LE COSE SOTTO UN'ALTRA LUCE E RENDE NOI GLI STRANIERI. CI FA CAPIRE, PARLANDO DI IMMIGRAZIONE, CHE QUELLE TANTE FACCE SUI BARCONI IN REALTÀ SONO PERSONE, CHE UN NOME CE L'HANNO E CHE IL NOSTRO CHIUDERE GLI OCCHI PER NON VEDERE LI FA SPARIRE SOLAMENTE PER UN ISTANTE. PERCHÉ SONO UOMINI, DONNE, BAMBINI CHE HANNO AVUTO CORAGGIO E CHE HANNO RIPOSTO FIDUCIA IN UN'ITALIA, CHE NEI LORO OCCHI ERA UNA NUOVA SPERANZA. DOVREMMO IMPARARE DA LORO CHE AFFRONTANO UN VIAGGIO PER CERCARE UN'ALTERNATIVA, E VIAGGIARE ANCHE NOI PER IMPARARE, PER CAPIRE E PER POI TORNARE, E TRASFORMARE QUESTA NOSTRA ITALIA NELLA LORO ALTERNATIVA. LASCIATECI ORA CONCLUDERE ANCORA CON UNA FRASE DEL NOSTRO PRESIDENTE DELLA CAMERA, CHE CI INVITA CON LE SUE PAROLE A PASSARE ALL'AZIONE: “STIAMO INIZIANDO UN VIAGGIO, OGGI INIZIAMO UN VIAGGIO.” Giulia Casonato e Vittoria Brolis 87


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Fotografie di Fabrizio Gatti - L'espresso


INTERVISTA A CURA DI ANNA STENICO, CHIARA MATTEI, GIULIA CASONATO, IRENE TASIN, SONIA PERATONER, STEFANIA SANTARELLI, VITTORIA BROLIS, ALICE MERZ

FABRIZIO GATTI

FABRIZIO GATTI (COMO, 1966) GIORNALISTA E SCRITTORE ITALIANO. HA LAVORATO PER IL «CORRIERE DELLA SERA» E DAL 2004 È INVIATO PER IL SETTIMANALE «L'ESPRESSO». SI OCCUPA DI CRIMINALITÀ ITALIANA E INTERNAZIONALE. NASCOSTO DIETRO FALSE IDENTITÀ HA RIPERCORSO IN PRIMA PERSONA I VIAGGI DELLA PROSTITUZIONE, DELL'IMMIGRAZIONE CLANDESTINA, DEL LAVORO NERO, DELLA MARGINALITÀ, DEL MALAFFARE E DEGLI SPERPERI PUBBLICI ITALIANI. NEL 1998 HA VISSUTO PER UN PERIODO IN UNA BARACCOPOLI ALLA PERIFERIA DI MILANO: NEL 2000 SI È FATTO RINCHIUDERE, CON IL FALSO NOME DI ROMAN LADU, NEL CENTRO DI DETENZIONE PER STRANIERI A MILANO: NEL 2005 FINGENDOSI UN IMMIGRATO CLANDESTINO HA PASSATO UNA SETTIMANA NEL CPT DI LAMPEDUSA: NEL 2006 SI È MISCHIATO TRA I POLACCHI CHE RACCOGLIEVANO POMODORI IN PUGLIA: NEL 2007 SI È FINTO ADDETTO DELLE PULIZIE AL POLICLINICO UMBERTO I DI ROMA ECC. IL SUO LAVORO L'HA RESO UNO DEI GIORNALISTI D'INDAGINE PIÙ APPREZZATI IN ITALIA E NON SOLO. NEGLI ANNI HA RACCOLTO PREMI PRESTIGIOSI COME LA «COLOMBA D'ORO PER LA PACE», IL PREMIO LETTERARIO «TIZIANO TERZANI» E IL PREMIO GIORNALISTICO DELL'UNIONE EUROPEA «JOURNALIST AWARS». IL SUO ULTIMO LIBRO INCHIESTA, «GLI ANNI DELLA PESTE», INDAGA LA MAFIA E LA SUA PENETRAZIONE NELLA POLITICA, NELL'ECONOMIA E NELLA VITA DI TUTTI I GIORNI. Cosa lʼha portata a diventare giornalista ed in particolare reporter? A dieci anni, quarta elementare, la maestra diede a ciascuno di noi un compito a casa: scrivere un articolo per il giornale di classe. Il giornale di classe era un cartellone bianco appeso al muro su cui si incollavano gli articoli scritti su fogli staccati dal quaderno. Non esistevano i computer e questo era il modo più economico di produrre un giornale di classe. La scelta degli argomenti era libera. Di solito si copiavano i testi dall'enciclopedia o dagli atlanti fotografici. Ma era un giorno di novembre tiepi-

do. Così decisi che la mia ricerca l'avrei fatta fuori di casa. Due settimana prima era straripato un fiume dalle mie parti, in provincia di Milano. Presi la bicicletta e andai in riva al fiume. Vidi che la macelleria era stata riaperta. Posai la bici e chiesi al macellaio, che abitava sopra al negozio, di raccontarmi quello che era successo durante l'alluvione. A casa trascrissi il suo racconto con le mie domande. La mattina dopo a scuola la maestra ci fece leggere i nostri articoli. Ascoltò il mio e mi disse: “Hai fatto il lavoro del giornalista”. Era praticamente un'intervista, anche se allora non

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avevo proprio idea di cosa fosse un'intervista e nemmeno cosa fosse il lavoro di un giornalista. Scoprii insomma che qualcuno per lavoro andava in giro, cercava storie, incontrava persone e poi scriveva i loro racconti. Un bel pretesto per viaggiare e conoscere. A 14 anni cominciai a collaborare con un giornalino locale. A 20 trasformai l'hobby in lavoro a tempo pieno per un quotidiano. E da allora, non ho mai smesso. Come sceglie i soggetti dei suoi reportage? È qualcosa di soggettivo oppure dipende da qualche fattore particolare? Dipende prima di tutto dall'interesse pubblico. Poi il fatto che si tratti di una notizia inedita o in grado di anticipare e spiegare un fenomeno o un insieme di notizie. Oppure che racconti i retroscena di un argomento che è sotto gli occhi di tutti. Come nel caso dell'immigrazione. Tutti ne parlavano. Ma nessuno l'aveva mai raccontata dal di dentro.

Come fa ad affrontare ogni volta nuove situazioni, così difficili e diverse, a non scoraggiarsi in momenti di vera disperazione? Ha normalmente questo sangue freddo oppure lo ha “sviluppato” con il tempo e con lʼesperienza? La curiosità aiuta sicuramente. È il motore essenziale per andare e cercare. L'esperienza anche. Aiuta a capire quanto spingersi avanti e quando tirarsi indietro. Sopra tutto però c'è la mente. Bisogna farla funzionare continuamente, chiedersi sempre il perché delle cose. Bisogna imparare a osservare, ascoltare e decifrare ogni segno che si manifesta intorno a noi. Il “sangue freddo” non so bene cos'altro sia, se non questo: porre il ragionamento sopra tutto ciò che accade. Anche alla paura. Nelle sue diverse indagini quando ha sentito maggiormente a rischio la sua dignità umana? Ogni volta che qualsiasi forma di potere o di autorità pretendeva di nascondere ciò

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che stavo cercando. A volte anche attraverso la minaccia fisica, personale. È successo anche in Italia, purtroppo. Ho sempre trovato la forza di rispondere con fermezza. Per esercitare innanzitutto la mia dignità umana attraverso il diritto e la libertà di conoscere e, visto il lavoro che faccio, far conoscere. Dove trova la forza per non rispondere alle ingiustizie viste e subite? Cosa intendete per “non rispondere”? Ho risposto, eccome. Attraverso le parole. Le parole sono la ricchezza fondamentale della civiltà umana. Ciò che ci separa dalla bestialità umana. Che alternative avevo? Imbracciare un fucile o impugnare una pistola? Reagire con la violenza? Sì, ho reagito con violenza. La violenza delle parole che descrivono fatti drammatici, disumani. La violenza della cronaca, della descrizione degli avvenimenti, che è il supporto necessario per ogni successivo giudizio da parte mia o da parte dei lettori. Come ci si sente al ritorno da esperienze così toccanti? Non si torna più. Ritorna il corpo, ma non la mente. Mi ha aiutato la nascita del mio bimbo. L'impegno a crescerlo, il dovere di garantirgli la necessaria serenità. Aiuta un poco anche la consapevolezza di aver fatto il possibile e anche un pizzico di impossibile per far conoscere ciò che accade. E aiuta la rassegnazione di sapere che da soli non si cambia nulla. Bisogna essere in tanti. Ecco il senso di scrivere un reportage o un libro o tutti e due. Non credo sia utile buttare la società che abbiamo costruito. La democrazia resta la miglior forma di governo della società. È utile però sapere che ogni democrazia ha un prezzo umano. E soprattutto che la democrazia, a differenza della dittatura o dell'oligarchia, può essere migliorata se ciascuno di noi vi partecipa. Prima di tutto con la conoscenza. Poi magari con l'azione diretta. Lei è un giornalista professionista, ma

solitamente quante differenze ci sono tra le informazioni scritte sui giornali e la realtà di queste situazioni? La prima differenza è imposta dal punto di osservazione. Se guardo a Sud o a Nord, in alto o in basso, già condiziono il mio resoconto. Ma dobbiamo essere modesti nel pensare che non possiamo farne a meno. Nemmeno nella fisica della materia è possibile separare il fenomeno dall'osservatore. Per questo a volte ho scelto il lavoro sotto copertura. Perché avrei visto il fenomeno nel suo scorrere naturale e non con la presenza di un giornalista al suo interno. È un metodo di indagine sfruttato nell'antropologia, di cui il giornalismo è un parente povero (povero in termini di conoscenza). Forse la vostra domanda riguarda la quantità e la qualità delle manipolazioni, volontarie e involontarie, che avvengono tra il fatto oggettivo, la narrazione del fatto e la lettura del fatto. Ecco perché è importante dare una descrizione precisa del fatto, che nel giornalismo è il compito della cronaca. Lo stesso processo che nella ricerca scientifica si identifica nella necessaria definizione del fenomeno: che cosa, chi, dove, quando, come, perché causale, perché finale. Ciò che gli anglosassoni chiamano le 5 W, che sono la regola base della narrazione giornalistica e dell'esposizione scientifica. La manipolazione avviene nella scelta degli argomenti e nel giudizio sugli stessi argomenti attraverso gli editoriali. E in questo possono entrare in gioco gli eventuali interessi dell'editore o del giornalista. Ecco perché è importante sapere chi sia il proprietario del giornale o della tv o del sito Internet dai quali attingiamo la nostra informazione. In questo ha un peso determinante anche il gusto personale del lettore. Gusto ideologico, storico, estetico. Queste barriere nascono dalla necessità economica che un'azienda editoriale ha per finanziare il lavoro dei giornalisti attraverso le vendite o le inserzioni

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pubblicitarie. La libertà di informazione come concetto assoluto non esiste. La libertà esiste soltanto se viene esercitata giorno per giorno. E anche il lettore ha il suo compito fondamentale. Ad esempio nel superare queste barriere editoriali leggendo più giornali, guardando più telegiornali, consultando più siti Internet. Non necessariamente in contemporanea. L'importante però è informarsi, osservare e chiedersi sempre il perché di come sono state date le notizie. La libertà assoluta come concetto astratto è una categoria della dittatura. L'informazione statale dell'Unione Sovietica riteneva di aver risolto la questione imponendo un'unica fonte di informazione. È stato uno dei periodi più osceni dell'umanità in Europa, con il fascismo e il nazismo. Pensando al libro “Bilal” qual è il motivo principale che l'ha spinta a intraprendere questo viaggio? Le faccio questa domanda perché temo che molte volte si facciano alcune cose, anche molto importanti come la sua, solo per sentirci in un certo modo con la coscienza a posto, facciamo queste cose per noi, per non sentirci colpevoli di essere nati in luoghi più fortunati. Certamente abbiamo il bisogno di cambiare il mondo, ma non so se è meglio fare qualcosa per noi stessi o non farla proprio. Lei si pone mai queste domande? L'ho fatto per ragioni molto più pratiche. Come giornalista: poiché mi stavo occupando di immigrazione, era inevitabile andare a raccontare ciò che nessuno al mondo aveva mai raccontato dal di dentro. Come cittadino italiano: poiché era stata inventata la categoria sociale di clandestino, come cittadino-giornalista era doveroso andare a restituire attraverso la narrazione una dimensione umana a quanto noi avevamo spersonalizzato con il termine di clandestino: cioè restituire loro il nome, l'età, la famiglia, le ambizioni personale, i sogni, i progetti tanto che quando affonda-

va e affonda una barca si dice “sono morti 200 clandestini”, nemmeno si dice sono morte 200 persone. Come figlio della mia famiglia: la famiglia di mia madre è una famiglia di emigranti friulani, con il viaggio di Bilal ho rivisto il loro viaggio, soprattutto le loro partenze e i loro arrivi. Come io: pagare un prezzo personale alla mia necessità di conoscenza, come giornalista chiedevo ai migranti di raccontare il loro viaggio, chiedevo il peggio del loro viaggio perché immaginavo e volevo denunciare quello che accadeva, ma facendo questo commettevo io stesso un abuso, diventavo una specie di guardone del dolore umano, perché chi subisce abusi e violenze raramente ama raccontarle, quindi mi sono convinto che io stesso dovessi diventare testimone del viaggio. In ultimo una piccola sfida personale: portare in prima pagina sul Corriere della Sera e in copertina su L'Espresso i migranti come vittime silenziose della nostra epoca. Ma se l'avessi fatto con una intervista, come avevo sperimentato in molte occasioni al Corsera, non avrei conquistato la copertina. C'era un limite soprattutto giuridico: come fai a raccontare di abusi e violenze anche da parte dell'autorità italiana, se chi te lo racconta non è in grado di fornire una singola prova? Era necessaria la testimonianza diretta. Sicuramente non l'ho fatto con l'intento di migliorare il mondo. Questo è compito dell'insieme dei suoi abitanti, non di un singolo giornalista. Non l'ho fatto per sentirmi meno colpevole, perché mi sento molto più colpevole dal momento che so e che ho visto. Volevo conoscere e poi, magari, far conoscere. Per questo sono partito. E parto ancora. Come giornalista il suo obbiettivo è logicamente quello di scoprire la verità, pensa che il giornalismo “d'infiltrazione” sia il metodo migliore per raggiungere questo obiettivo? La correggo. Il mio compito non è scoprire

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la verità. Sarebbe velleitario e pericoloso. II mio compito è testimoniare una versione dei fatti che essendo la sintesi e/o il confronto di più testimonianze diventa la "verità sostanziale" dei fatti. E lavorando come giornalista, rispondo a una certa tecnica di raccolta delle informazioni e di narrazione. Se il mio compito fosse raccontare la verità, cambierei mestiere. I venditori di verità mi fanno paura. Quando pubblico un reportage mi fa piacere se qualcuno mi contesta e cerca di smontare ciò che ho visto. Mette alla prova il mio metodo di indagine. E se ci riesce, mi dà la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo. In particolare, sul metodo sotto copertura, sarebbe stato impossibile entrare come giornalista in certi ambienti. Nel Sahara mi avrebbero ucciso, probabilmente. A Lampedusa non mi avrebbero fatto entrare. In Puglia mi avrebbero tenuto alla larga. Non ha mai pensato di interrompere il suo viaggio da clandestino e tornare? No. Interrompere il viaggio è un'onta per un migrante. Ma anche per un giornalista che torna con il taccuino vuoto. Perché considera quello di “Bilal” il viaggio della sua vita? Questa espressione l'ho usata soltanto una volta a Tourayatte. Era un modo per giustificare la mia presenza in un luogo dove non mi sarei dovuto trovare. Per i miei compagni di viaggio era il viaggio della loro vita. Per me no. Sapevo da dove partivo. E soprattutto dove sarei tornato. Il viaggio della mia vita è quello che sto facendo giorno per giorno come persona. Non c'è solo Bilal, anche se questa esperienza ha avuto un ruolo drammatico nella mia formazione. E mi ritengo fortunato per averla fatta. A febbraio 2012 lʼItalia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dellʼUomo per i respingimenti in Libia. Lei già in Bilal aveva parlato di tradimento da parte dellʼItalia e dellʼUnione Europea. Non le sembra che la reazione a tutto questo, da

parte degli italiani ma anche dalle istituzioni, sia stata piuttosto superficiale? L'Italia è un Paese che dal 1994 maneggia la democrazia ma non ne conosce i doveri. Sì, la maggioranza degli italiani ha subito un processo di anestesia del pensiero. Crede che anche il suo lavoro di denuncia abbia contribuito a trovare le prove per arrivare alla condanna dellʼItalia? Questo processo davanti alla Corte di Strasburgo parte da una denuncia precisa su un fatto preciso. La Corte però non partiva da zero. L'Italia era già finita sotto processo su altri casi. Questo anche grazie a Bilal e a due miei reportage per L'Espresso che hanno portato a mozioni di condanna votate dalla maggioranza del Parlamento europeo. Come quella dell'aprile 2005, dopo la mia inchiesta sulle espulsioni dall'Italia alla Libia, che obbligò il governo italiano a sospendere i rimpatri a Tripoli. Ormai anche la Corte sapeva che il governo italiano sul rispetto dei diritti umani fosse recidivo e questa volta è stato giustamente condannato. Segue e partecipa ai suoi reportage nello stesso modo o cʼè qualche servizio, negli anni, a cui si è appassionato maggiormente? Ce la metto sempre tutta. L'esperienza raccontata in Bilal per ora è insostituibile. Al secondo posto se posso fare una classifica delle emozioni, c'è una settimana trascorsa nel 1993 a tu per tu con Nelson Mandela. Forse senza quella settimana, senza i miei stage in Sudafrica, non ci sarebbe stato nemmeno Bilal. Rispetto alla persone incontrate durante i suoi reportage sono più le persone che vogliono vivere o sopravvivere? Chi vuole sopravvivere, fa qualsiasi cosa per riuscirci, si vende, distrugge i suoi ideali mentre chi vuole vivere è disposto a impiegare più tempo e più fatica per raggiungere qualcosa pur di mantenere integra la propria dignità e non tradire se stessi.

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Tutti vogliono vivere. Sopravvivere diventa una necessità. Dipende dalla capacità di ciascuno a sopportare il dolore. La fame è la prima forma di dolore che si incontra. Noi forse non ci pensiamo mai. Ma la fame è un dolore insostenibile. In che modo lʼItalia potrebbe avere un ruolo nel sostenere il rinnovamento culturale, economico e sociale nel continente africano? Crede sia più efficace e lungimirante una buona politica di accoglienza od un sistema organizzato di aiuti sul posto? L'Italia ha un ruolo marginale nel continente africano. I Paesi che maggiormente condizionano e favoriscono la povertà africana sono la Francia, ora la Cina, oltre al clima spesso ostile e al sistema tribale che caratterizza molti Paesi. Un sistema che è andato in crisi quando l'Europa ha imposto gli attuali confini artificiali, costringendo popoli a vivere sottomessi ad altri popoli. Pensate che il Niger fornisce l'uranio con cui la Francia produce il 75 per cento della sua energia elettrica. Eppure il Niger, Paese con l'elettricità razionata, occupa i vertici delle classifiche di povertà. Non è in Africa che va combattuta la povertà africana. Ma in Francia per esempio. O in Italia e in Germania per il loro sostegno alla dittatura sanguinaria in Eritrea, causa nel 2008 del 30 per cento degli sbarchi a Lampedusa, che erano appunto esuli eritrei. Pensate che l'Unione Europea impedisce ai presidenti di alcuni Paesi africani di farsi eleggere per più di due volte, nonostante la classe dirigente in quei Paesi sia molto ridotta con parlamentari addirittura analfabeti. Ma se un presidente si fa rieleggere, l'Ue toglie gli aiuti finanziari o alimentari. Perché? Le regole restrittive del Fondo monetario internazionale impediscono a molti governi africani di aumentare gli stipendi agli insegnanti, fermi al 1997. Il risultato è che molti insegnanti hanno smesso di insegnare. Il risultato è questo: la set-

ta wahabita dell'Arabia Saudita sta finanziando invece scuole coraniche, moschee e imam fondamentalisti. C'è un'arabizzazione spaventosa del Sahel. E il risultato già lo si vede. Da marzo 2012 metà del Mali è nelle mani di Al Qaeda, che governa su Timbuctu e Gao, di cui si parla tra l'altro in Bilal. Che cosa rappresenta per lei il viaggio? Sia dal suo punto di vista che da quello delle persone che incontra. Il viaggio per me è conoscenza. Nel senso di errare. Cioè vagare-sbagliare, riprovare, sapere. Secondo lei, è facile partire, abbandonare la propria terra ed incominciare una nuova vita in un paese diverso? Che cosa porta molte persone a farlo? No, non è una scelta facile. Emigrare è una rottura con i propri affetti, la propria storia familiare, il proprio futuro nel luogo in cui si è nati e cresciuti. Le ragioni che spin-gono a emigrare sono personali e sono tante quanti sono gli emigranti. Possono essere riassunte in tre classi principali: miglioramento delle condizioni economiche proprie o dei propri familiari; sicurezza personale da regimi dittatoriali o situazioni di guerra; ricerca di maggiore libertà come concetto che include tutto l'orizzonte dell'agire umano. Il miglioramento economico proprio e dei propri familiari spesso non coincide: esistono migranti che vivono in condizioni di indigenza per inviare i propri guadagni ai familiari rimasti nei luoghi di origine. In Bilal ho indagato quale fosse il momento esatto della rottura e quale ne fossero le ragioni. Emergono così due dimensioni del processo migratorio: l'emigrazione mentale e quella corporea. L'emigrazione mentale è costituita dal ragionamento o dalla reazione emotiva che porta una persona a stabilire che il luogo in cui è nata e cresciuta non contiene più il suo futuro. Il processo che ne segue è una lunga ricerca di motivazioni che possano giustifi-

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care la partenza e il dolore affettivo ed emotivo che partire comporta. L'emigrazione corporea è costituita dallo spostamento del proprio corpo nello spazio. Si manifesta nel momento in cui si raccolgono sufficienti risorse economiche e, durante il viaggio, alimentari per intraprendere il percorso e mantenere il proprio corpo in movimento verso la meta dettata dall'emigrazione mentale. Quando le circostanze o la mente non sono in grado di fornire risorse per finanziare il viaggio, emigrazione mentale e corporea entrano in conflitto

Nei suoi viaggi ha incontrato tante persone diverse, quanto influisce la cultura e lʼistruzione sullʼidea del viaggio e del partire? Secondo la sua esperienza, il tema del viaggio o della partenza viene concepito in maniera diversa nella mentalità dei vari popoli? Qualunque sia la cultura, il viaggio è sempre una separazione ma anche un'attesa. Del ritorno. Forse la risposta più efficace è una storia che coinvolge un grande scrittore contemporaneo. Tiziano Terzani. Un giorno un vicedirettore del Corriere della

causando un profondo senso di frustrazione. Ho incontrato migranti il cui analgesico contro questa frustrazione erano l'abuso di alcol o l'uso di droghe o l'adesione a movimenti terroristici. Sia prima della partenza, sia durante il viaggio, sia dopo l'arrivo a destinazione. L'arrivare in Europa con il corpo non significa aver dato soddisfazione ai bisogni della mente. E anche in questo caso la distanza tra progetto e realtà può essere causa di profondi conflitti con se stessi o con l'ambiente o con la società che riceve il processo migratorio.

Sera scoprì che non sarebbe mai diventato direttore. Per consolarlo, Terzani lo invitò con la moglie a visitare l'Asia per il Natale successivo. Terzani come guida in Asia, un'occasione grandiosa. Poche settimane prima di partire il vicedirettore viene nominato direttore in un altro quotidiano. Quindi scrive a Terzani dicendogli che, con il nuovo incarico, avrebbe rinunciato al viaggio. La risposta di Terzani fu di poche righe: i direttori passano, i viaggi restano. La penso così.

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INTERVISTA A CURA DI ILARIA SEGATA, LAURA GRETTER, GIULIA CASONATO, VITTORIA BROLIS, FRANCESCA DEBIASI

ANDREA SEGRE

ANDREA SEGRE (DOLO - VE, 1976) REGISTA E DOCENTE DI SOCIOLOGIA PRESSO L'UNIVERSITÀ DI BOLOGNA. ESPERTO DOCUMENTARISTA, RACCONTA E APPROFONDISCE ATTRAVERSO I PROPRI LAVORI LA VITA E LE PROBLEMATICHE DEI MIGRANTI. I SUOI LAVORI - TRA CUI RICORDIAMO «MARE CHIUSO» E «IL SANGUE VERDE» - SONO STATI SELEZIONATI DAI PIÙ IMPORTANTI FESTIVAL NAZIONALI ED INTERNAZIONALI, RACCOGLIENDO NUMEROSE MENZIONI E PREMI. NEL 2011 È USCITO IL SUO PRIMO FILM, «IO SONO LÌ» PRESENTATO NELLO STESSO ANNO ALLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA. Perché ha scelto l'argomento dell'immigrazione su cui incentrare il suo lavoro? È legato a qualche incontro personale che ha fatto? Io sono cresciuto in Italia, a Padova, negli anni '90 ero al liceo e in quel periodo l'Italia si stava trasformando da paese di migrazione a paese di immigrazione. C'erano stati i primi grandi sbarchi degli Albanesi, le navi che arrivavano dall'Albania strapiene di gente e che venivano portate allo stadio di Bari, immagini ancora oggi utilizzate mediaticamente e politicamente per drammatizzare la situazione. La storia dell'invasione, del mondo che arriva da noi, tutti i vari messaggi tendenzialmente xenofobi che si legano a questa idea, immagini che a quel tempo non mi convincevano tanto, non mi piacevano, ma che volevo capire meglio. Così ho pensato a fine anni '90, non so neanche se l'ho pensato ho iniziato semplicemente a farlo, di viaggiare in direzione contraria, cioè andare nei luoghi da dove arrivavano i migranti, in Albania, in ex-Yugoslavia, Kosovo, Macedonia, Bal-

cani, Romania, Moldavia, perché volevo conoscere che cosa pensassero, chi fossero le persone che decidevano di lasciare il proprio paese per provare ad arrivare nel nostro. Mi sono portato dietro la telecamera per iniziare a raccontare quello che incontravo e per portare in Italia i loro racconti; questo è stato un percorso umano più che professionale, per me è stato molto utile per relativizzare il nostro punto di vista. Quello che stava succedendo era legato, certo, a dinamiche economiche, alla ricerca di lavoro, di nuove possibilità, però era anche legato ad uno squilibrio rispetto al quale il nostro mondo aveva deciso di chiudersi a riccio e di costruire quella che oggi si chiama la “fortezza Europa”, qui dentro stanno quelli che hanno avuto la fortuna di nascerci, quelli che stanno fuori, hanno avuto la sfortuna di nascere fuori e vanno tenuti fuori. Se voi foste nati fuori da questa fortezza il vostro passaporto non varrebbe nulla, non vi darebbe il diritto di viaggiare. Io ho iniziato a conoscere ragazzi che non

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potevano viaggiare e la battuta più bella, che secondo me sintetizza bene tutto ciò, me l'ha fatta un amico albanese all'epoca dei viaggi coi gommoni degli scafisti e lui diceva: “Il gommone è il mio Erasmus”. Perché ha deciso di raccontare “le sue storie” attraverso i documentari? Io non ho studiato cinema, la mia idea non era quella di diventare regista e il mio rapporto con il cinema è nato proprio durante i viaggi, per cercare di portare in Italia quei racconti. Il documentario è stato il linguaggio più diretto, più immediato, le storie che incontravo le comunicavo come testimonianze importanti; poi piano piano ho iniziato a conoscere la “grammatica” dell'immagine, ho iniziato a capire che si poteva raccontare in un modo o in un altro, ho iniziato a pormi il problema del “come”, di quale punto di vista scegliere, quale telecamera, quale luce... ho iniziato a formare meglio la mia grammatica e la mia capacità di raccontare. Nel periodo in cui ho iniziato a farlo, in Italia stava rinascendo il cinema documentario, che è cosa ben diversa dal documentario televisivo, perché il documentario televisivo è legato al reportage, all'idea di giornalismo, se pensate alle puntate di «Report» o «Presa Diretta» c'è sempre un giornalista che con una presenza evidente fa un'inchiesta sulla realtà e la sua voce, la sua presenza sono necessarie per costruire tutto il racconto. Il cinema documentario cerca di raccontare la realtà come se fosse un film, lasciando spazio al flusso dei pensieri, delle parole, dei fatti, senza collocare una figura giornalistica che guidi il prodotto. Questo cinema documentario ha avuto una scuola importantissima in Italia nel secondo dopoguerra, tra il '50 e il '70, i più grandi registi di quegli anni, registi conosciuti in tutto il mondo e studiati in tutto il mondo come Pasolini, Zavattini, Antonioni, Rossellini sono autori che hanno fatto tantissimo cinema documentario. Poi ci sono degli au-

tori che hanno fatto solo cinema documentario e che sono stimatissimi in tutto il mondo, ma in Italia sono un po' meno conosciuti, come De Seta, Mangini, Bizzarri che fanno parte delle cineteche di tutto il mondo. Questa tradizione di cinema documentario, che andava pari passo con il cinema neo realista di quegli anni, poi negli anni '80/90 si era un po' fermata. Invece, a fine anni '90 - primi anni 2000, è ricominciata e si è creata una nuova scuola di cinema documentario che negli ultimi dieci anni ha ottenuto un grandissimo successo con presenze a festival internazionali, distribuzioni all'estero, premi, riconoscimenti di critica; incontrando però nello stesso tempo difficoltà di distribuzione in Italia, perché si stava imponendo il modello berlusconiano della commedia commerciale che ha occupato spazi commerciali molto forti, ha imposto un altro tipo di narrazione cinematografica che non ha nessun tipo di successo internazionale. I vari Checco Zalone, «Soliti Idioti» o cose del genere all'estero non trovano alcun tipo di interesse, si tratta di operazioni commerciali italiane guidate da un sistema distributivo che gli appoggia e che blocca il resto. Film d'autori come Pietro Marcello, Alice Lorvacher, Michelangelo Frammartino, Leonardo di Costanzo sono nomi che magari voi non avete mai sentito e che invece hanno vinto premi al festival di Berlino, al Tribeca, a New York e che sono distribuiti in tutto il mondo, li trovi sulle riviste internazionali, nei libri internazionali, sono studiati nelle università americane, inglesi o francesi... questa scuola di cinema documentario è stata un po' la mia palestra di conoscenza del linguaggio, mentre il viaggio è stata la mia palestra di vita e conoscenza. Come è cambiata la sua opinione nei confronti dell'immigrazione, dopo aver avuto contatti con persone che avevano vissuto tale esperienza in prima persona?

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La cosa più importante che ho imparato è che chi affronta la scelta di immigrazione, nella gran parte dei casi non è il povero disperato che fugge dalla guerra come ci viene raccontato, ci sono casi di gente che scappa, ma la gran parte dei casi sono ragazzi giovani che hanno voglia di conoscere il mondo, hanno voglia di muoversi e hanno voglia di cercare altre possibilità di vita, sono esattamente noi, se non avessimo il nostro passaporto. Mentre quell'immagine del poveretto, “Oh, poveretto, che dramma, che tragedia”, in realtà è l'immagine speculare a quella dell'invasore, un'immagine che ci permette di mantenere la distanza, di non trovare spazi di immedesimazione, di comprensione reale. Invece se noi riuscissimo a capire che prima di tutto c'è una necessità umana, una voglia di conoscere altri luoghi, di trovare anche possibilità di guadagnare, ma più in generale di crescere, allora capimmo che sono persone esattamente come noi, che però non possono prendere un aereo e devono attraversare il deserto in camion o viaggiare nei gommoni in mezzo al mare o nascondersi sotto ad un tir, e lo devono fare, non perché lo scelgono, non perché sono degli eroi o perché sono dei poveretti disperati, lo devono fare perché non hanno alternativa perché a loro è stato detto “tu non puoi viaggiare”. Se voi volete andare ad Adis Abeba in Etiopia, vi svegliate la mattina, andate in aeroporto, vi comprate un biglietto da 600/700 euro e partite. Un vostro coetaneo che magari studia al liceo di Adis Abeba, che ha una formazione medio alta e che ha voglia di venire a Trento, se va in aeroporto e prova a partire gli chiedono se ha il visto per entrare in Italia, lui dice di no, allora lo mandano all'ambasciata taliana, se riesce ad avere un appuntamento, nella gran parte dei casi il visto non lo riceve. Allora cosa deve fare? Deve partire a piedi, attraversare le montagne dell'Etiopia, il deserto del Sudan, attra-

versare la Libia, prendere la barca e arrivare in Sicilia, questo se gli va bene; in realtà per fare tutto ciò deve pagare qualcuno e rischiare la vita in mezzo al deserto, poi deve corrompere la polizia, viene arrestato, detenuto, deportato, violentato, torturato, quindi ci mette mesi, mesi e mesi e non gli costa 700 euro, ma gli costa 4-5-6 mila euro. E una persona fa tutto questo per viaggiare? Lo fa perché non ha altre possibilità, prova a pensare alla tua vita a Trento, tu sei a Trento, cresci a Trento e a 15/16 anni inizia a dire, ma io ho visto su internet che c'è Monaco di Baviera che è un posto bello, vorrei andarci perché mi hanno detto che lì ci si diverte, perché mi hanno detto che lì si studia meglio, si trova un lavoro migliore, poi c'è un mio amico che ci è andato... Vai in stazione per prendere il treno e ti dicono: “Hai il visto per andare a Monaco?” “No”, allora devi andarlo a chiedere in ambasciata a Roma. Tu arrivi all'ambasciata, scopri che non si riesce ad entrare oppure scopri che il visto non te lo danno, perché non sei amica di nessun deputato o perché non hai i soldi per corrompere la persona giusta e così il visto non ce l'hai. Allora torni a Trento, chiami il tuo amico a Monaco e dici: “Guarda non riesco a venire”. Però dopo dieci giorni il tuo amico a Monaco ti dice: “Guarda che qui è una figata, è bellissimo!”, ti manda le foto, tu vedi questo posto che è molto più bello di Trento, poi nel frattempo a Trento c'è una crisi economica, i tuoi non lavorano più e allora dici: “Beh, vorrei andarci in sta' cavolo di Monaco Di Baviera!”. E allora un giorno ti ferma uno e ti dice: “Guarda c'è un altro modo, se vuoi ti porto io in macchina fino a Bolzano, poi da lì sali a piedi fino in montagna, a un certo punto arrivi in una malga, lì ti mettono su un asino, poi quando arrivi alla frontiera ti devi nascondere sotto un camion, poi appena attraversata

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la frontiera entri in un'altra casa, se non ti becca la polizia trovi un altro a cui devi 3.000 euro, che poi ti porta a piedi fino in mezzo ad un altro bosco” e tu dici: “Oh, sei matto? Io non posso rischiare la vita per andare a Monaco di Baviera!”, “No, vabbè, fai come vuoi, non ti preoccupare!”. Passano altri due mesi e nel frattempo tuo padre è sempre più oppresso, perché non ha un lavoro e dopo un po' dici: “Che faccio? Sto qua, mentre il mondo fuori è bellissimo?”. Allora ad un certo punto ritorni a quella stazione e dici: “Vabbè, ci proviamo!”. Non ci dicono però che è questo il problema, ci dicono che loro vogliono venire qua anche se non possono e allora fanno i clandestini. Hanno girato la frittata e l'hanno girata per proteggerci, perché noi abbiamo la parte fortunata, no? Tu probabilmente hai una bella casa, una famiglia tranquilla e soprattutto hai la possibilità di andare dove vuoi e quando vuoi. Quindi questo problema non ti si pone nella vita e fai fatica a capire perché uno viaggi attraverso il deserto e il mare per venire qua.

Dici: “Ma chi te lo fa fare?”. Il problema è che devi provare a capire questa cosa e soltanto quando li incontri, lo capisci. Capisci che quello che ci hanno raccontato a noi è “il rovescio della frittata”. Ci raccontato che il problema è l'immigrazione, se invece ci avessero raccontato che il problema è l'ingiustizia di qualcuno che non può viaggiare bisognerebbe poi risolverla quest'ingiustizia, ma quest'ingiustizia non la vogliamo risolvere perché noi dobbiamo proteggerci e per farlo spendiamo soldi, ma tanti soldi, per difendere la fortezza, no? Per cui facciamo i blocchi alle frontiere, mandiamo i pattugliamenti in mezzo al mare, costruiamo i centri di detenzione, costruiamo i viaggi di espulsione, tutte cose che costano tantissimo e che servono a fermare quelli che si sono “arrogati il diritto di provare a venire qua”. Però il piccolo problema è che a loro il diritto glielo abbiamo tolto noi, arbitrariamente. Di fronte al “ribaltamento della frittata” si sente impotente? No, se mi sentissi impotente non avrei fat-

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to questo lavoro. Credo molto nel fatto che chi gestisce tutti questi temi in questo modo lo faccia diciamo, perché ha una rendita di posizione, cioè nel momento in cui un politico dice “Bisogna fermarli!” guadagna voti, in fondo ci piace proteggere il nostro privilegio, no? Implicitamente si dice: “Oh, vabbè, son nato nella parte giusta, beato me” ed in più aggiungi anche il fatto che quelli che arrivano ad invaderci sono negri, mussulmani, induisti, mangiano soltanto la carne di un tipo o hanno una tradizione diversa dalla nostra, aggiungi insomma la naturale diffidenza nei confronti dell'altro... Il problema è che la crescita delle civiltà avviene quando ci si pone il problema di superare le diffidenze, perché altrimenti non si cresce, saremmo rimasti chiusi nei singoli paesini e non saremmo andati da nessuna parte. Questa separazione a blocchi è naturale nel momento in cui si affida tutto all' istinto di diffidenza verso il diverso, ma la classe politica di un Paese dovrebbe servire proprio a superare queste diffidenze. Se invece questa classe politica applica il razzismo, lo fa perché sa che funziona, rafforza la paura nella gente, promettendo di non metterla in contatto con ciò che causa la paura stessa. Per prendersi i voti non propone nessuno strumento per crescere in una direzione di apertura, ma spingendo verso la chiusura, non fa altro che alimentare e rafforzare il bisogno che qualcuno risolva quella paura. Proteggere il privilegio e alimentare la paura sono due linee che funzionano perfettamente, però distruggono la società, non le danno nessuno sviluppo. Quindi chi alimenta la paura e sostiene il privilegio fa del male a tutti noi! Per questo è importante contrastarli. Il vero problema è che negli ultimi quindici anni, in questo Paese, non soltanto Maroni ha fatto il furbo, sapendo di fare il furbo, perché guadagnava voti, ma gli altri non hanno avuto il coraggio di opporsi, perché avevano pa-

ura di perdere voti, portando ad uno stallo molto grave. Quando ci siamo resi conto di questo abbiamo detto: “Noi utilizziamo lo strumento dei racconti delle persone che possono portare in evidenza l'altro punto di vista e che possono far ragionare le persone”. Non lo faccio per difendere gli immigrati, lo faccio perché sono assolutamente convinto che lo sviluppo di questo Paese passi attraverso la capacità di interagire con questa novità. Perché se rimaniamo chiusi, non andiamo da nessuna parte. Rimanere chiusi, poi, è impossibile. Se tra i miei compagni di liceo il più esotico era di Rovigo, ora mia figlia ha compagni di scuola di tutto il mondo, allora muniamoci di strumenti, perché la nostra società possa crescere in maniera più civile e più umana. Le è mai capitato di presentare i suoi documentari o il suo lavoro a qualcuno, aspettandosi una reazione positiva e raccogliendo invece indifferenza? Diciamo che è il muro contro cui ci scontriamo costantemente. Quando nel 2008 ho fatto «Come un uomo sulla terra» abbiamo cercato di dire alla classe politica di questo Paese, non mi interessa di destra o di sinistra, che quello che stavamo facendo era gravissimo. La risposta dalla politica è stata timida, mentre ampia è stata la risposta da parte della società civile, che ci ha appoggiato tantissimo, ma siamo comunque arrivati ad essere condannati dalla Corte Europea che per i respingimenti ha detto che abbiamo fatto una cosa disumana, non sbagliata, proprio disumana. Quindi la frustrazione c'è, ma d'altronde è un'operazione culturale che ripeto, non è un'operazione sull'immigrazione, è un'operazione sul futuro di questo Paese, perché, se interpretiamo tutto questo lavoro come il “difendere i diritti dei poveretti”, siamo sempre là, non andiamo oltre, invece è la costruzione di un futuro migliore che è in ballo. Allora rispetto a questo è chiaro che devi essere pronto ad affrontare molte fru-

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strazioni, molte non-risposte, però è normale perché c'è una tale potenza di fuoco che arriva ancora dai primi anni Novanta in questa direzione, per cui anche le persone più aperte, più progressiste parlano comunque del “problema immigrazione” e già solo questo termine ha già attuato quel giramento di frittata, no? Mentre girava i suoi documentari, in che modo interagiva con gli immigrati? Gran parte dei miei documentari sono prodotti da un'associazione che si chiama Zalab, che ho fondato insieme a degli amici con cui abbiamo iniziato quest'esperienza produttiva e che nasce dall'idea del video partecipativo, che essenzialmente non significa fare racconti sulle persone, ma con le persone. Se io vengo a casa tua, perché penso che tu abbia una storia interessante non voglio metterti in un angolo e farti le domande che io ho preparato punto e fine, ma prima ti racconto qual è la mia idea, del perché secondo me è importante la tua storia e del perché gli altri dovrebbero conoscerla, poi ti do lo spazio e il tempo per riflettere e soprattutto ti chiedo: “Questa è solo la mia idea, può darsi che ci sia qualcos'altro che io non so di te, o un altro punto di vista, un altro modo di raccontarlo, che può essere ancora più importante se tu mi aiuti a capirlo e a tirarlo fuori”. In questo modo inizia un percorso di partecipazione e posso anche insegnarti a usare la telecamera e lo puoi anche fare tu, ma se non vuoi la telecamera, che cosa raccontare lo decidiamo assieme. Inizia un processo, può durare una giornata, come un mese, come tre mesi, a seconda del percorso che stiamo facendo e del tempo che abbiamo a disposizione. Quello che ho sempre cercato di fare con i migranti con cui ho lavorato è di far capire loro che si apriva uno spazio per poter raccontare ciò che avevano vissuto e che lo potevano fare dirigendo questo racconto insieme a me, garantendo loro, che quando quel rac-

conto era finito i primi a vederlo sarebbero stati loro. Sono loro che mi dicono: "Okay, ora puoi mostrarlo al mondo". Passando al suo film «Io sono Li», l'ispirazione è nata da incontri con persone reali? Sì, la storia di «Io sono Li» nasce in quella osteria dove abbiamo girato il film, che si trova a 50m dalla casa dove è cresciuta mia madre, la casa dei miei nonni, dei miei zii di Chioggia. In quel bar lì, che è un bar tradizionalmente di pescatori, cinque anni fa è arrivata una cinese dietro al bancone. Io ho conosciuto quella ragazza cinese, ho iniziato a conoscere la sua storia, che è diversa da quella di Li e poi è diventato un gioco in parte di fantasia, in parte di ricerca su quello che riguarda la vita di alcune donne cinesi e di altre donne immigrate. Il rapporto con il figlio è in parte il rapporto che la vera Shun Li mi aveva raccontato, perché lei comunque aveva il figlio lontano, anche se non ha vissuto una situazione di controllo così pesante come quella raccontata nel film. In generale avevo la voglia di dedicare un racconto alle madri immigranti, che è la parte in assoluto più eroica, più forte dell'immigrazione. Perché se per una madre lo scopo principale della vita è far crescere e dare un futuro al proprio figlio, pensare di farlo dall'altra parte del mondo senza contatto, dovendo farlo anche in maniera illegale, è una cosa di una potenza veramente incredibile. E sono tantissime le madri che lasciano il figlio a casa e gli dicono: "Io per darti un futuro vado dall'altra parte del mondo a rischiare la vita e vivere con fatica e dolore l'assenza di mio figlio, ma lo faccio per te". Ha dei modelli cinematografici particolari? Modelli no, però ho dei registi che mi piacciono molto e che sanno attraversare il percorso di rapporto tra realtà e finzione in modo più intenso possibile. La laguna in «Io sono Li» è come se fosse un perso-

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NESSUNO HA IL SANGUE VERDE “SIAMO TUTTI ESSERI UMANI. DEVI CAPIRE CHE COME TU PROVI DOLORE, PROVO DOLORE ANCH'IO. TUTTI GLI ESSERI UMANI HANNO UN SOLO SANGUE, ROSSO. NESSUNO HA IL SANGUE VERDE.”

Con queste parole, uno dei protagonisti africani, la cui testimonianza è stata riportata da Andrea Segre nel documentario “Il Sangue Verde”, denuncia le ingiustizie che gli immigrati sono costretti ad affrontare al loro arrivo in Italia. Una frase così semplice, quasi scontata e che nessuno potrebbe mai smentire, nasconde un significato molto profondo, quello della libertà e dell'uguaglianza. Sin dalle prime scene del documentario, vedendo la situazione degli immigrati nel 2010 a Rosarno, in Calabria, ci sembra impossibile che nel nostro Paese possano aver luogo delle ingiustizie simili. Ci piace pensare che l'Italia sia un Paese in cui i diritti di ogni uomo sono rispettati; che una persona possa venire qui per lavorare, crearsi una famiglia o mantenere quella che ha lasciato a casa; che possa venire in Italia con la prospettiva di una vita diversa, magari migliore. Quello che sconvolge è che noi crediamo realmente che l'Italia, nonostante la mafia, la corruzione, l'evasione fiscale sia un luogo dove, se lavori e contribuisci alla ricchezza dello Stato, puoi aspettarti di ricevere un riconoscimento dei tuoi sacrifici non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello umano. Quando, in questo documentario, vediamo degli uomini costretti a sopravvivere e non a vivere, raccogliendo arance per pochi euro, in condizioni inaccettabili, stremati fisicamente, dovendo tornare la sera in una baracca che non assomiglia di certo ad una casa, ci stupiamo che siano così vicini a noi. Condizioni disumane, che vengono trascurate da tante persone che ne sono a conoscenza, politici, forze dell'ordine, ma soprattutto i cittadini italiani, che ignorano consapevolmente l'esistenza di queste ingiustizie, abituati a considerare l'immigrazione il problema di qualcun altro, lontano da noi e gli immigrati degli estranei che non hanno nulla a che spartire con noi, tranne forse il ruolo di capro espiatorio, quando ne abbiamo bisogno. Così i cartelli “CHIUSO PER PAURA” durante una manifestazione avvenuta a Rosarno nel 2010, diventano quasi ridicoli: paura giustificata per degli immigrati che si ribellano e protestano con violenza, ma nessuna paura del vicino di casa mafioso. Quella di Segre ci sembra una ricerca su quello che sta avvenendo realmente negli ultimi anni per quanto riguarda l'immigrazione dall'Africa. Nel suo documentario “Come Un Uomo Sulla Terra” descrive con le parole dei protagonisti il percorso intrapreso da uomini e donne dal Corno D'Africa e dagli Stati subsahariani fino alla Libia, per poi imbarcarsi verso l'Italia. Il tragitto fino alla Libia, attraversando il deserto nei container, la prigione di Kufra, i barconi, l'Italia. Per alcuni, questo viaggio è durato mesi, per altri anni, venendo venduti, scambiati e trasportati dai contrabbandieri e dalle forze armate libiche, talvolta tornando da dove si era partiti. Ascoltando i racconti di questo viaggio sembra impossibile crederci e ancora più incredibile sembra che riescano a raccontarlo. Un viaggio di dolore e una crudeltà che non riusciamo a riportare, ma che ci ricorda quello che è successo in certi luoghi durante la II Guerra Mondiale; sembra impossibile che di nuovo l'umanità delle persone venga calpestata in questo modo. Probabilmente, arrivati a questo punto viene

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naturale pensare che tutto ciò sia stato causato dal governo libico, da una dittatura, dalla situazione generale dell'Africa, ma non è così: “Nel 2003 il governo Berlusconi avvia in segreto gli accordi con la Libia per contrastare l'immigrazione clandestina. Roma spedisce in Libia gommoni, fuoristrada, pullman, mute da sub, 12000 coperte di lana, 6000 materassi e 1000 sacchi per cadaveri. Per fornire alla Libia e ad altri Paesi di transito “assistenza in materia di flussi migratori” la finanziaria del 2004 stanzia 23 milioni di euro per il 2005 e 20 milioni per il 2006. Il 16 ottobre 2007 ENI e NOC, la società petrolifera dello stato libico siglano un accordo per lo sviluppo della produzione del gas in Libia per 28 miliardi di dollari in dieci anni. Il 29 dicembre 2007 il governo Prodi rilancia gli accordi con la Libia e stanzia oltre 6 milioni di euro.” Questo è il quadro generale, in sintesi, di quello che stava succedendo; le nostre autorità, consapevoli di ciò, continuavano a preoccuparsi dei rapporti petroliferi con la Libia, continuando a ignorare e nascondere quello che loro stessi stavano realmente finanziando. Lo stesso comportamento lo hanno avuto alcune autorità internazionali come Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea), che ha condotto una missione in Libia anche nella prigione di Kufra; il rapporto finale, confermato dal direttore Ilkka Laitinen è stato: “Come risultato della visita nelle regioni desertiche della Libia meridionale, i membri della missione, hanno potuto apprezzare tanto la grandezza quanto la varietà del deserto, che non ha paragoni con nessuna area geografica dell'Unione Europea.” Anche dopo aver ascoltato il racconto di alcuni prigionieri richiedenti asilo politico, le nostre autorità e gli organi di informazione hanno ritenuto opportuno ignorare le atrocità e così uno degli intervistati non esita ad affermare: “I giornalisti sono indipendenti no? I giornalisti italiani avrebbero dovuto far sapere alla gente ciò che succede dopo sole 24 ore.” Nonostante tutto, molti degli immigrati raggiungono l'Italia attraversando il mare su imbarcazioni fatiscenti e correndo tutti i rischi che questo viaggio comporta; altri vengono respinti senza verificarne i diritti di asilo come viene raccontato nell'ultimo documentario di Segre “Mare Chiuso”. Per quanto riguarda l'Italia la situazione di gran parte degli immigrati africani non migliora: violenze razziali come quelle di Rosarno che si consumano anche con colpi di pistola, indifferenza e rifiuto. Ecco alcuni dati che appaiono in “Sangue Verde”: “Nel 2009 sono stati più di 55000 i lavoratori stranieri con o senza permesso di soggiorno sfruttati dall'agricoltura italiana. Nello stesso anno l'Italia ha speso 350 milioni di euro per contrastare l'immigrazione clandestina e meno di 150 milioni per politiche di accoglienza e integrazione.” Ma allora perché ci ostiniamo, anche inconsciamente, a creare delle distinzioni e ad allontanare, quando in realtà il confronto potrebbe solo arricchirci? In un mondo così globalizzato dove, specialmente in questo periodo, abbiamo potuto notare la ricchezza che abbiamo grazie alla possibilità di metterci in contatto con il resto del mondo, non possiamo di certo far finta che parte di esso non esista o che non vada ascoltato. Ilaria Segata e Laura Gretter

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naggio, quando fa l'acqua alta ha un significato, quando fa la nebbia ne ha un altro, quando fa lo stravedo, quel fenomeno quando si vedono le montagne, ha un significato. Il cinema che riesce ad interagire con il reale e a far passare la verità attraverso l'interpretazione è un cinema che mi interessa, è il neoralismo italiano, ma anche francese e indiano. I film di Kaurismäki, l'ultimo film si intitola «Miracolo a Le Havre», incrociano la realtà con il surreale in maniera molto sofisticata, molto intelligente. Un altro che lavora in questa direzione è Jim Jarmusch, c'è un film bellissimo che si chiama «Ghost Dog» che racconta di un killer afroamericano che vive in una piccionaia ed è bellissimo perché è il racconto del reale, il racconto di una realtà che diventa metafora, e un po' anche «Io sono Li» parte da una osteria vera a Chioggia, ma poi tramite la poesia, tramite le candele e tutto il resto, diventa metafora di altro. È passato dal documentario al film per il fatto di avere più libertà? In parte è vero, ad un certo punto ho sentito la necessità di fare un racconto in qualche modo legato alle tematiche e ai contenuti che mi hanno sempre appassionato, che però fosse svincolato dalla necessità di fare informazione, sento molto il peso e lo scopo etico dei miei lavori e quindi quando faccio un film, lo faccio anche per fare informazione su una storia, su un evento. Avevo voglia di farlo in maniera più approfondita e anche con più mezzi su un tema non strettamente di attualità. Dall'altra parte lavorare in un set cinematografico con 50 persone di troupe, un budget elevato, ti toglie in parte libertà, perché sei meno leggero nella realizzazione del film, hai una responsabilità sulle spalle più grossa e devi stare più attento ad alcune cose. Però in fondo credo che la libertà sia quella che tu conquisti nel confronto con gli altri.

Era anche per avere un maggior riscontro mediatico? No, non l'ho fatto per questo. Io ho fatto questa cosa, perché avevo voglia di farla, dopodiché è vero che se in questo Paese fai il film con attori, allora hai uno spazio di visibilità in più. Era molto divertente quando a Venezia incontravo i critici che già mi conoscevano e mi dicevano: "Ma questo è un film film o è un film documentario?", non sapevano cosa fosse. Spero di riuscire a creare sempre più confusione tra queste due cose al punto che non sapranno più bene cosa dire. Quello che fa, oltre ad essere una testimonianza, la aiuta a sentirsi meno colpevole di essere nato in un luogo più fortunato? Boh, bisognerebbe chiederlo al mio psicoanalista. Però non ce l'ho, perciò... Dunque, io non mi sento colpevole di essere nato in un luogo più fortunato, io sento molta rabbia quando sento qualcuno che sfrutta questa cosa per interessi personali e allora mi viene voglia di attaccarlo. Lo faccio per questo. Io lo faccio perché conoscendo le storie da dentro, sapendo cosa significano quelle vite e sapendo qual è il mio ruolo rispetto a quelle storie, quando sento qualcuno che fa il furbo per interessi politico economici non riesco a stare zitto, ho voglia di attaccarlo. Quindi lo faccio più per far sentire colpevole lui. Si è stupito di trovare certe situazioni di ingiustizia in Italia? Non mi sono stupito, perché l'Italia è un paese storicamente denso di capacità di produzione di ingiustizia, forse uno dei più densi in assoluto. Vi faccio un esempio, spesso alle proiezioni di «Io sono Li» mi chiedono: "Ma allora è vero che esiste la mafia cinese?" e la mia risposta è: "Sapete qual è il Paese dove è stata inventata la parola mafia?” Noi abbiano questa grande capacità di esternalizzare i problemi, sembra sempre che sia colpa degli altri. Siamo

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bravi, molto bravi in questo. E in realtà tutto il mondo conosce l'Italia come il Paese in grado di generare criminalità di vario tipo. Che noi molto spesso le chiamiamo furbizie e abbiamo avuto anche diversi presidenti del consiglio, uno più famoso di altri, che hanno stimolato questa furbizia. Hanno detto esplicitamente che se fai in quel modo, fai prima e diventi più potente. Quindi stupirmi di trovare ingiustizie in Italia sarebbe un po' ipocrita. Nonostante questo è fiero di essere italiano? Fiero di essere italiano non lo sono mai stato, ma non perché ho qualcosa contro l'essere italiano, ma perché non riesco ad identificare la mia vita con una nazionalità. È una cosa che mi sta molto stretta. Sono molto contento di essere vivo, ma non fiero di essere italiano. La sua sensibilità sociale è stata influenzata da qualcuno o qualcosa in particolare? Posso raccontarvi degli episodi che mi ricordo: una volta avevo 18 anni, ero seduto sul divano di casa e mio padre si è seduto a fianco a me e mi ha detto: “Cosa ci fai ancora qui?” e io “Che ti ho fatto di male?”. Non mi sembrava di aver fatto nulla, andava tutto bene e lui mi rispose: “No, non mi hai fatto niente di male però basta, questa è la casa quando vuoi ritornare, ma il mondo è fuori. Organizzati, vattene e cerca di arrangiarti. Se hai bisogno io ci sono sempre, se riesci a non aver bisogno meglio”. Mio padre è sempre stato super disponibile e presente, però mi ha voluto dire che per migliorare la mia vita è meglio fare a meno di papà e mamma, sia a livello di luogo che a livello di fondi e, se ci riesci, la tua vita sarà migliore, se non ci riesci e hai bisogno io ci sono comunque. Quello è stato un insegnamento di vita molto importante. Un'altra cosa che mi ricordo è stata una lezione bellissima sul canto dell'Inferno di Dante, quello che fa: “fatti non foste a

viver come bruti”. Una lezione bellissima del mio professore del liceo, dopo la quale, io mi ricordo, rimanemmo tutti veramente a bocca aperta sul significato di quel canto. In quale modo secondo lei si può rimediare agli sbagli politici commessi? Prima di tutto non possiamo permetterci di fare nessun tipo di politica migratoria senza tenere al centro il rispetto dell'essere umano, se noi togliamo questo, le derive sono pericolosissime e nella storia è già accaduto. Se noi abdichiamo alla necessità di rispettare la dignità e il diritto dell'essere umano, di qualsiasi nazionalità esso sia, se noi abdichiamo a questo principio rischiamo derive pericolosissime per noi, non per gli altri, per noi. E questa cosa l'ha detta anche una sentenza della corte europea e in generale è ciò a cui ci hanno portato gli ultimi nostri governanti. Certo comporterebbe maggiori complessità, sistemi più complicati, ma non si può risolvere la cosa dicendo: “li fermiamo e li mandiamo via”, è qualcosa che non è coniugabile con una democrazia civile. Bisognerebbe imparare a livello europeo e non a livello italiano a capire che il vero modo per ridurre l'immigrazione irregolare è dare delle possibilità di immigrazione regolare. È complicato, ma anche fermarli è complicato, oltre ad essere inefficiente e costoso. Se riuscissimo a costruire dei percorsi virtuosi che permettano di partire in maniera regolare, toglieremmo una grande fetta dei finanziamenti che arriva a quelle organizzazioni criminali, che invece i nostri politici dicono di combattere. In questo modo potremmo liberare delle somme da investire nel Paese in cui si arriva, per costruire un percorso più virtuoso e ci costerebbe anche meno a livello di accoglienza. Qusto non viene fatto, non perché non abbia senso economico, ma perché è molto più difficile da comunicare, se io cerco di dirlo in un talk show e a fianco a me c'è il Maroni di

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dotata e che prevede il coinvolgimento di Confindustria, Confartigianato, Conferenza delle Regioni, Ministero degli Interni e Ministero dello Sviluppo Economico, ha chiesto 150mila lavoratori per l'economia italiana. Perché, il contadino, il pescatore, il pastore, l'allevatore, il metalmeccanico, l'operaio edile chi lo fa? Lo fate voi? Lo faccio io? No. Lo fanno i rumeni, i bengalesi, i cinesi, lo fanno loro. Non ci hanno detto che noi avevamo bisogno di 150 mila persone e che all'invasione di Lampedusa erano 30 mila. Dobbiamo iniziare a dire queste cose, dobbiamo affrontare questa cosa, che è complessa, ma se partiamo da dei punti di vista che sono completamente alterati da esigenze di demagogia politica, non la affronteremo mai in maniera efficiente e tanto meno in maniera umana. Le ambasciate italiane nei paesi in via di sviluppo dovrebbero fare questo, invece sono dei luoghi terrificanti, io li ho visti, sono dei luoghi in cui delle persone stanno lì a guadagnare l'ira di dio, a fare gli ambasciatori, i consoli, ad essere molti spesso amici di una classe politica corrotta e a garantire gli interessi dell'Italia in quei luoghi. Se diventassero invece delle agenzie decenti, con magari dei ragazzi che studiano, che hanno studiato cooperazione internazionale nelle università, nei master internazionali, che vengono mandati per costruire dei progetti per selezionare l'immigrazione regolare in accordo con la conferenza nazionale sull'immigrazione, certamente sarebbe un percorso difficile, ma sarebbe anche un percorso virtuoso, per costruire e non soltanto una politica di accoglienza migliore. Impedirebbe a delle persone di rischiare la vita e salvare delle vite umane secondo me è ancora una cosa interessante da fare. La scuola è in grado di sensibilizzare i ragazzi a questa tematica? Non posso rispondere a questa domanda, perché non conosco tutta la scuola italiana, so che negli ultimi anni ci hanno invita-

I VIAGGI POSSONUNO ESVESERORE

A FISICI O INTERIORI, M E TI PORTA IN UN VIAGGIO È QUELLO CH RDERAI PER POSTO DI CUI TI RICO N CONSERVERAI I SEMPRE. E FORSE NO RCHÉ SARANNO DETTAGLI O I NOMI, PE AGGIO, UNA L'ATMOSFERA, IL PAES PER SEMPRE: PERSONA A COLPIRTI IN SÉ. FORSE IL VIAGGIARE

A)

GIULIA CASONATO (2

turno che dice che bisogna fermarli, vince lui. Questo è il vero problema. Il nostro lavoro è quello di seguire un percorso che passa da città in città per costruire questo messaggio, quando troveremo una parola d'ordine anche per questo tipo di messaggio, allora ci saranno anche le persone capaci di comprenderlo. Ma farli partire in maniera regolare vuol dire fare delle selezioni. Delle selezioni di che genere? Per l'istruzione? Stai iniziando a porti il problema. Ma ci sono già di questo genere di selezioni. Dove? Nelle ambasciate italiane in Burkina Faso o in Etiopia? Ci sono già delle selezioni di questo tipo. Sono pochissime. Allora, quanti immigrati sono sbarcati sulle coste italiane nell'anno in cui ne sono arrivati di più, cioè nel 2008? Centomila? Settantamila? Non ne avete idea giusto? Trentamila, l'anno in cui ne sono arrivati di più. Nello stesso anno l'economia italiana ha chiesto, ufficialmente, tramite una cosa che si chiama Conferenza Nazionale sull'Immigrazione, che è uno strumento di cui l'economia italiana si è

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to in molte scuole e che l'incontro con gli studenti è sempre stato molto forte, perché quando racconto questa cosa di provare a mettersi nei panni di un ragazzo etiope e capire cosa vuol dire nella propria vita, sento che gli studenti percepiscono la differenza tra ciò che gli viene raccontato e quello che accade davvero alle vite delle

la gestisci come vuoi. L'obnubilamento delle coscienze è uno strumento essenziale per chi vuole costruire il proprio potere sulla base di demagogie facili e su messaggi mediatici. Invece un paese che ha voglia di crescere davvero, investe sulla conoscenza, come su percorsi complicati, ma che portano ad un frutto e guarda-

persone. Ho trovato nelle scuole italiane molti professori che sono interessati ad affrontare queste tematiche. Poi la scuola è una di quelle cose in cui lo stato ha deciso di investire di meno per evitare che le persone pensino, nel momento in cui tu crei una società di persone che non pensano,

te che quello che nella storia ha portato i frutti sono i percorsi complicati. I percorsi complessi, quelli che trasformano la società in un miglioramento profondo, sono quelli che devono affrontare la potenza di fuoco di un potere che invece preferisce conservare quella situazione, perché è

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una situazione di privilegio, di rendita di posizione. Non lo fanno perché sono cattivi di principio, ma perché quando tu hai un potere, cerchi di conservarlo. Il problema è che quando questo potere produce delle ingiustizie sociali sulla maggioranza, ci vuole qualcuno che si renda conto di questa cosa e che cerchi di portare un cambiamento, perché quella maggioranza ha diritto di stare meglio. È difficile, è lungo, è complesso però vale la pena, salvare una vita umana vale ancora la pena. Ci sono state delle ripercussioni positive o negative nelle sulle persone di cui a parlato nei suoi lavori? Una cosa divertente e che è successa almeno 5-6 volte è che, dopo aver partecipato a un documentario, i protagonisti poco dopo sono diventati padri e gli è cambiata la vita. Sarà un caso, ma quando succede diverse volte inizi a chiederti se è normale. Secondo me nel momento in cui hai la possibilità di raccontare un'ingiustizia, un'emarginazione che ha pesato sul tuo vivere, prima davanti a una persona estranea che è questo regista, poi davanti a una telecamera, poi il tuo racconto arriva agli altri, ti rendi conto che diventa pubblico, cambi il tuo rapporto con quella sofferenza, non la subisci più soltanto, ma crei uno spazio di rielaborazione di quel racconto e di quel dolore. E quindi scateni delle energie nuove, ti riposizioni nel mondo, non sei più il “poveretto immigrato sfigato” o il “poveretto perché gli è capitata così e deve stare là a viversela”, ma inizi a essere qualcuno che può reagire a quella cosa e proprio perché tu hai reagito, altri possono capire di essere responsabili della tua ingiustizia e ti vengono a cercare, a conoscere. Questo genera un'energia nuova, che si può tradurre per esempio nel diventare padri o madri o in tante altre cose. Poi invece ci sono tanti esempi di persone che nonostante questo, la loro vita non è particolarmente cambiata, perché poi comunque le condizioni mate-

riali e i percorsi di vita sono ben più complessi di un film. Non ho mai pensato che i miei film possano cambiare il mondo, se io pensassi questo oltre ad essere megalomane probabilmente a un certo punto perderei il senso di quello che faccio. Io penso che il raccontare e il raccontarsi serva appunto a generare riflessioni, incontri ed energie che possono diventare utili a cambiare il mondo, però non è il film che cambia il mondo direttamente, non ha nessun potere taumaturgico. Se lei si fosse trovato nelle condizioni delle persone con cui ha lavorato, quindi magari a non avere il permesso di viaggiare, ma dover rischiare la vita per farlo, lo avrebbe fatto comunque? Non ho nessun dubbio. Sicuramente. Prima o poi l'avrei fatto, avrei cercato un modo di viaggiare. Ad ottobre Gabriele Del Grande ci ha detto che secondo lui la soluzione per il problema migratorio è l'apertura delle frontiere. Lei cosa ne pensa? Sì, Gabriele è un provocatore. Sono d'accordo con lui dentro di me, però il punto è che se noi contrapponiamo alla parola d'ordine “bisogna fermarli”, la parola d'ordine “apriamo tutte le frontiere” perdiamo, non possiamo contrapporre immediatamente quella cosa; dopo di che noi possiamo essere convinti che questa sia la cosa migliore, però bisogna arrivare a quella cosa con un percorso molto più adeguato e graduale. La cosa in cui credo di più è che, se noi investissimo sull'immigrazione regolare ridurremmo fortemente quella irregolare e avremmo una maggiore disponibilità economica per gestire meglio le accoglienze. Se invece continuiamo a insistere sul bloccare, consegniamo quelle economie esattamente a quelle organizzazioni criminali o a quelle polizie corrotte che in teoria vorremmo bloccare. Al che mi viene il dubbio che forse non le vogliamo davvero bloccare.

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INTERVISTA A CURA DI FABRIZIO ZANELLA E RAMA KIBLAWI

GABRIELE DEL GRANDE

GABRIELE DEL GRANDE (LUCCA, 1982) GIORNALISTA, SCRITTORE E VIAGGIATORE. SI È LAUREATO A BOLOGNA IN STUDI ORIENTALI. NEL 2006 FONDA FORTRESS EUROPE (WWW.FORTRESSEUROPE.BLOGSPOT.COM), L'OSSERVATORIO MEDIATICO SULLE VITTIME DELL'EMIGRAZIONE. HA SEGUITO LE ROTTE DEI MIGRANTI IN ITALIA, MALTA, GRECIA, CIPRO, TURCHIA, ISRAELE, EGITTO, LIBIA, TUNISIA, MAROCCO, SAHARA OCCIDENTALE, MAURITANIA, MALI, SENEGAL, BURKINA FASO E NIGER. I SUOI ARTICOLI E REPORTAGE SONO STATI PUBBLICATI SU L'UNITÀ, E - IL MENSILE, REDATTORE SOCIALE E PEACE REPORTER. HA SCRITTO MAMADOU VA A MORIRE (INFINITO EDIZIONI, 2007), ROMA SENZA FISSA DIMORA (INFINITO EDIZIONI, 2009) E IL MARE DI MEZZO (INFINITO EDIZIONI, 2010). HA COLLABORATO AL QUARTO TACCUINO DEL PREMIO ILARIA ALPI AFRICA E MEDIA (EGA 2009) E AL DOCUMENTARIO COME UN UOMO SULLA TERRA DEI REGISTI ANDREA SEGRE, RICCARDO BIADENE E DAGMAWI YIMER. Il «Mare di mezzo» inizia con una data, quella del tuo viaggio in Algeria il 12 novembre 2009. Vogliamo sapere se era la prima volta che andavi in Algeria e quanto questi tuoi primi viaggi abbiano influenzato la tua idea di dell'immigrazione. Quanto ti abbiano fatto cambiare opinione rispetto a quello che ci trasmettono i mass media e l'informazione italiana su questo tema. Il primo viaggio è stato quello in Marocco di cui parlo nell'altro libro «Mamadou va a morire», quindi nel 2006. Se ho cambiato idea? Più che l'idea dell'immigrazione, il viaggio ti cambia perché ti sprovincializza, è l'esperienza che ti cambia. Non è tanto il racconto, la testimonianza. L'importante è che tu fai un viaggio in un Paese e fai un'esperienza di quel Paese. Oggi se incontro

per la strada un algerino lo saluto perché ho qualcosa da dirgli, ho qualcosa in comune, ho un'esperienza, ho un racconto da fargli, che è anche un mio racconto perché io sono stato in Algeria, a An-naba, a Costantina ad Algeri, ho studiato un po' la storia di quel Paese, ho letto dei libri, ho visto dei film, ho incontrato delle persone. E quello è l'elemento comune; il primo problema è proprio sprovincializzare secondo me queste questioni. Tu non vedi più l'immigrato, vedi Fuhad che è di Algeri dove sei stato anche tu, conosci il suo quartiere, hai degli elementi in comune. Si può formare una relazione: dare un nome alle persone e alle cose. Una domanda sulla tua attività di giornalista non spalleggiato da un giornale fisso. Sappiamo che hai pubblicato qual-

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che articolo sul «L'Unità» e sul mensile di «Emergency» e volevamo capire per quale motivo non hai un giornale che “ti spalleggia”: cosa manca a te e cosa ai giornali italiani? Beh, a me mancano dei parenti, visto che mio padre fa il cameriere e mia mamma la casalinga. Al giornalismo italiano manca la meritocrazia, semplicemente, e manca il rinnovo. I giornali italiani sono pieni di vecchi, l'età media è 65 anni, gente che a 80 anni continua a scrivere gli editoriali anziché andare in pensione e godersi i nipotini. Inoltre molta gente sta dentro non per merito, ma per altri motivi. Poi in tutto questo ci sono tantissimi bravi giornalisti, molti di loro sono indipendenti, fanno più o meno quello che faccio io, cioè fanno i freelance, quindi scrivono e vendono pezzi, sia in Italia che all'estero, ma senza avere alcuna prospettiva di lavoro a lungo termine. Altri, ce ne sono alcuni che sono dentro il sistema, che lavorano nei settimanali o nei quotidiani, sono bravi, non voglio generalizzare. Il giornalismo soffre degli stessi problemi di cui soffre il mercato del lavoro italiano, cioè soffre di vecchiaia e soffre di “antimeritocrazia”, diciamo così, cioè se tu guardi quello che succede nell'università è abbastanza simile, se tu guardi quello che succede in tanti altri contesti è molto simile. Allo stesso tempo c'è un'alternativa, la possibilità, come faccio io, di far uscire comunque i contenuti su un mezzo alternativo, che in questo caso è la rete, Internet. Quindi c'è una rete di soggetti in Italia che fa comunque circolare certi lavori, che siano libri, che siano documentari, che sia organizzare incontri con le scuole o con la piazza. Il libro «Mare di mezzo» adesso è alla terza ristampa, è appena uscita la traduzione in tedesco, «Mamadou va a morire» è stato tradotto in tedesco ed in spagnolo, sono stati tutti e due presentati almeno in quattrocento città. Hanno avuto quindi una grande diffusione, che anche

nomi grossi del giornalismo italiano non sono riusciti ad ottenere con titoli magari più “sexy” secondo i guru della comunicazione e appoggiati dalle maggiori case editrici. Da un lato c'è un sistema che non ti promuove, dall'altra ci sono comunque modalità alternative. Ci ha colpito quello che hai scritto nella conclusione del libro, riguardo ad articoli che ti hanno chiesto dei quotidiani nazionali che poi non ti sono mai stati pagati, o all'utilizzo di alcune foto scattate da te che non avevi autorizzato... Questa è un'altra cosa ancora se vuoi, da un lato la mancanza di professionalità, dall'altro la mancanza di rispetto, che c'è in Italia nel mondo del lavoro in generale. Molto di più, paradossalmente, nei contesti più professionali. Quanti ragazzi con lauree, master, dottorati che vanno avanti con gli stage gratuiti, con i tirocini gratuiti, uno dopo l'altro, quanta gente viene sfruttata: il lavoro intellettuale non è rispettato minimamente. Io ho fatto tanti lavori nella vita; nessuno quando facevo il cameriere, il magazziniere, il giardiniere, nessuno si è mai permesso di non pagarmi o di pagarmi una cifra diversa da quella che avevamo pattuito, che in alcuni casi può essere bassa, perché è normale, se tu hai appena iniziato un lavoro, non hai esperienza, è normale che ti paghino di meno. Poi non è che son tutti così eh, intendiamoci, però nella carta stampata c'è uno sfruttamento enorme in Italia soprattutto di tutti i freelance. C'è una campagna in questo momento dei giornalisti freelance, si chiama “Io non lavoro per meno di 50 euro”. Dei freelance che fanno una campagna nazionale per dire: “Noi non lavoriamo per meno di 50 euro alla giornata”, sembra di sentire le battaglie dei raccoglitori di pomodori a Foggia, no? Che hanno degli slogan molto simili. Con la differenza che un giornalista di questo genere non lavora dalla scrivania: tu prendi, parti, viaggi, hai dei costi vi-

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vi, delle spese, non è che il giornale ti paga le spese e in più ti paga il pezzo. Tu vai in Libia, costa l'aereo, il soggiorno, questo lo paghi tu. E poi vendi il pezzo a 50 euro. Questa è l'Italia. All'estero funziona un po' diversamente, quantomeno rispetto ai pagamenti e rispetto alla dignità del lavoro; la prima cosa che si stabilisce è quanto costa il lavoro; in Italia in tanti ambienti, soprattutto l'ambiente dei giornali di sinistra che mescolano il lavoro alla militanza, ti chiedono di lavorare gratis per la causa. Giornali che poi sono finanziati dalla Stato per milioni di euro, che spendono centinaia di migliaia di euro l'anno in fesserie. Poi si tratta secondo me di avere fantasia, di trovare, visto che ci sono delle strade chiuse, delle altre di aperte. Collaborare con l'estero, collaborare con le televisioni, vendere libri, il sistema si trova, basta cercarlo. Per entrare più nel merito del tuo libro, abbiamo notato, soprattutto nella prima parte, il doppio tipo di viaggi che descrivi, il viaggio di figli che partono verso le coste italiane e magari finiscono dispersi e il viaggio dei padri alla ricerca di questi figli. Un viaggio verso la libertà ed un viaggio verso la speranza di poter scoprire che il proprio figlio è ancora vivo e sta bene. Volevamo capire com'è trovarsi a contatto con queste esperienze. In realtà, forse questa è stata una delle cose più dure. Se senti un racconto, per quanto doloroso, di uno che ne è uscito, non è così difficile dal punto di vista umano. Ti racconta quello che gli è successo in Libia, nelle carceri, orribile, ma è passato. Quando ti trovi con un genitore che ha perso il figlio è una delle cose più dure secondo me, ti rendi conto di quanto è grave quello che sta accadendo. Poi ci si immedesima, perché quando ho incontrato per esempio Camel, il papà di un ragazzo disperso, avevo 27 anni ed il figlio è nato nello stesso anno in cui sono nato io. Hai da-

vanti un uomo che potrebbe essere tuo padre e lui vede in te un ragazzo che potrebbe essere suo figlio. Con quella frontiera in mezzo la differenza è che tu vai e torni quando vuoi, il passaporto ti apre tutte le porte del mondo e solo perché sei nato in un fazzoletto di terra dove c'è piantata una bandiera che, in questo momento, sta dalla parte del potere. Perché io sì e lui no? Perché io vado giù con l'aereo e lui viene su in barca e va a morire? Il mare di mezzo... tra l'altro l'idea del viaggio di questi ragazzi è molto semplice: per esempio il figlio di Camel era uno a cui non mancava niente, aveva un lavoro, la macchina, quello che un ragazzo dell'età sua in Algeria sogna d'avere, però voleva dell'altro. Voleva semplicemente la stessa cosa che cerco io se vado là: vedere il mondo e fare delle esperienze, andare a vedere la Francia, vedere l'Europa. Questo è anche è un problema: noi sempre cerchiamo di ricostruire dei racconti di disperazione, come se la disperazione fosse l'unica eccezione che autorizza lo spostamento dell'altro. La fortezza Europa non si discute, però se sei un disperato ti diamo l'asilo politico e puoi venire. Se sei uno che vuol venire a farsi un giro perché sei curioso, no. Ricordo commenti di amici che lavoravano in organizzazioni internazionali in Sardegna, ad accogliere le persone che sbarcavano e mi dicevano: “Gabriele, mi insospettiscono questi algerini, perché arrivano con il sorriso, arrivano vestiti bene, arrivano vestiti eleganti e non mi sembrano dei disperati, c'è qualcosa dietro”. Erano ragazzi felici, che erano finalmente arrivati in Europa. L'avevano sognato per tanti anni e finalmente c'erano arrivati. Ovvio che non erano disperati. Però proprio questo ci dovrebbe mettere in crisi: siamo la stessa generazione. Perché io posso girare il mondo e loro no perché sono nati al di là del mare? A proposito di questo viaggio verso la

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novità, verso qualcosa che magari hai sempre sognato, c'era una testimonianza di uno dei ragazzi nel tuo libro che si chiedeva perché li hanno salvati da in mezzo al mare per poi metterli nel “l'inferno dei campi di identificazione e di espulsione”. Quindi mi chiedevo, quante volte, per la tua esperienza, questo viaggio verso un sogno, verso la possibilità di vedere il mondo si trasforma in un biglietto per l'inferno, come dice lui, o in un biglietto per il dimenticatoio, dove sparisci e non puoi dare più notizie alla tua famiglia... A volte sì a volte no. C'è di tutto. In un Paese come l'Italia forse dipende dalla fortuna. Se ottieni l'asilo politico, già è un po' più facile, ma se arrivi da un Paese come il Marocco, l'Algeria, la Tunisia non ti daranno mai nessun tipo di documento. Così, il rischio che il sogno diventi un incubo c'è. Prima erano sei mesi, adesso sono diciotto mesi rinchiusi in una gabbia, in questi Cde, Centri di Espulsione, il rischio di trovarsi per strada, il rischio di perdersi, di non trovare quella solidarietà che ti aspettavi, dagli amici, dai cugini. Magari in Tunisia sono tutti fratelli, qui la vita è dura quindi magari il cugino del cugino che ti ha detto al telefono: “Stai tranquillo, ci penso io”, arrivi qua e non ti aiuta, perché non ce la fa, non ha le condizioni materiali per aiutarti. Scopri che non era il paradiso. Eppure c'è qualcuno che ce la fa lo stesso. E chi parte lo sa. Chi parte lo sa che c'è chi ce la fa e chi non ce la fa. Anche perché i quartieri da dove partono, sono contesti popolari, in cui si sa tutto di tutti. Per cui si sa che tizio è ritornato tossicodipendente, che si è rovinato la vita a star qua in Italia, che è tornato dopo vent'anni irriconoscibile, che è un ragazzo devastato. Però si sa anche che quell'altro invece è ritornato col Mercedes. È partito che era come te, uno che non aveva né arte né parte, ed è tornato che si è fatto una casa, una macchi-

na, ha aiutato i parenti, i figli studiano, s'è riscattato no? E tu dici: “Ce l'ha fatta lui, perché non ce la posso fare io? È vero che a qualcuno è andata male, è vero che qualcuno è morto in mare, ma io ce la farò”. Ci devi credere, perché è il tuo sogno. Si prendono il rischio quelli che partono, poi, parentesi, in ogni Paese del mondo la maggior parte della popolazione è sedentaria. Non è che trentacinque milioni di marocchini pensano di venire in Europa. Però tra quelli che pensano e decidono di venire, tra sogno e incubo prevale sempre il sogno. Poi sappiamo appunto come dicevi tu prima che non tutti quelli che vengono partono per disperazione, ma appunto anche per raggiungere questo sogno, però comunque vediamo che tra la gente prevale l'impressione che loro siano criminali, che cerchino il modo, la via più breve per arrivare in Europa. Cosa favorisce questa impressione, sono i mass media a fomentare questa idea o sono soltanto le credenze popolari? Mah, sono tanti fattori. Se vuoi, banalmente, la legge più antica del mondo dice che a fare i crimini sono i poveri. La legge più antica del mondo dice che in una società le persone più emarginate, più nel bisogno, sono quelle che poi vanno a delinquere. Se tu vai a Milano e guardi storicamente chi una volta faceva il piccolo crimine, spaccio e queste cose qua, erano i meridionali. Non perché i meridionali delinquano, ma perché erano quelli più al margine della società. Il piccolo crimine nasce sempre da contesti di povertà, di discriminazione. In America, le carceri sono piene di afroamericani, non perché geneticamente siano dei delinquenti, ma vivono ai margini. Oggi sono i tunisini o i marocchini In Italia, che sono quelli a cui sono state chiuse tutte le porte in faccia. Ricordo delle conversazioni con un ragazzo marocchino, una persona anche di cultura, uno che si era laureato a

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Casablanca e che era arrivato in Italia con un visto per poi scoprire che si trattava di una truffa. Lui ha pagato cinquemila euro per avere un contratto, quindi l'ambasciata gli ha fatto il documento, è arrivato qua con il visto in regola, si è presentato dal signore che doveva fargli il contratto e il signore non si è fatto trovare, è sparito, per otto giorni, il tempo necessario per registrarsi in questura, dopodiché lui è diventato clandestino. Per cui vive da clandestino a Torino. All'inizio aveva una rete di parenti che gli davano una mano, piano piano la rete si è esaurita e questa persona si è ritrovata in mezzo alla strada. E dopo un giorno, due giorni, tre giorni, lui che non aveva mai conosciuto la strada, la miseria, che aveva sempre avuto una vita normale, tranquilla a Casablanca, classe media, mi diceva disperato un giorno: “Che devo fare, non ho un centesimo in tasca, è da cinque giorni

che giro con la coperta per strada a dormire sotto un ponte, tutte le porte chiuse, nessuno mi aiuta, che devo fare? Devo andare a spacciare come gli altri?” C'è una società che esclude e che ti esclude ancora di più se non hai un documento. Naturalmente in Italia ci sono più di quattro milioni di immigrati che fanno una vita normale. Non ci si accorge che esistono perché si alzano la mattina, vanno a lavorare, tornano a casa la sera, mettono a letto i bimbi, dormono, si alzano la mattina dopo e fanno la loro vita. Non te ne accorgi. Quello che però vedi, che è più visibile, magari è il giro che ci può essere intorno ad una stazione o che so io, la prostituzione, sono dei fenomeni che ci sono, sono dei fenomeni che quando tu tagli fuori la gente dalla possibilità di farsi una vita, emergono e questa è l'unica cosa che la gente vede. La stampa racconta solo que-

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sto, unisci questo all'ignoranza dell'italiano medio, che non è mai stato in Tunisia, in Marocco o in Africa in generale, per cui pensa che di là ci siano i barbari, fai questo cocktail ed esce il razzismo all'italiana. Cioè l'italiano che non ha nessun tipo di relazione con nessuno di questi nuovi arrivati nel nostro Paese; l'unica cosa che vede coi suoi occhi sono le situazioni degradate quando passa davanti a una stazione o in un quartiere periferico, oppure alla televisione, perché è l'unica cosa che raccontano, quello è l'unico racconto che lui ha. Che non è un racconto dell'immigrazione, è un racconto della miseria. Se tu vai in un Paese e non hai una rete di solidarietà, non hai una famiglia, non hai nessuno, il rischio di finire sulla strada esiste. In termini statistici non è rilevante, perché su quattro milioni di persone, saranno diecimila quelli che sono in questo contesto, quindi niente in totale no? Però è quello che si vede e che viene proposto. Gli altri non li vede nessuno, perché lavorano, vanno a casa, vanno a pregare, che sia alla chiesa ortodossa o che sia alla moschea, fanno la loro vita normale, nessuno li vede. Tu vedi il degrado, la stampa racconta solo quello, perché va di moda la cronaca nera, vanno di moda queste cose. Non credi che, per alcune persone, queste tue affermazioni potrebbero sembrare come un tentativo buonista di giustificare chi delinque? Io in realtà non difendo nessuno, racconto semplicemente le cose. In Italia ci sono i buonisti e i “cattivisti”, c'è chi dice: “Sono tutti delinquenti, bisogna sparare alle navi con i cannoni”, ci sono altri che dicono: “Ma poverini, ma sono tutti quanti angioletti”. Sono due stupidate, tutte e due, sono due generalizzazioni, due stereotipi. Quello che ci manca, di qua e di là, è il racconto, raccontare la verità, le storie di queste persone, con tute le problematicità e con tutte quante le contraddizioni. L'elemento che

manca in Italia è il racconto, cioè ognuno ha le sue idee preconfezioniate, che ha sentito alla televisione da Tizio e da Caio, le ripete a vanvera, ma nessuno sa di cosa sta parlando. L'antidoto vero contro il razzismo è l'incontro, conoscere il tuo vicino di casa, la sua storia. È quello che provo a fare con il mio sito web. Anche il dato con cui ho cominciato il sito, il numero delle vittime delle traversate; non è un discorso di essere buonisti, è matematica: cioè, tu fai i conti e guardi quanti sono i naufragi e dici: “Signori, qua ci sono almeno 20.000 morti nel Mediterraneo, negli ultimi vent'anni”. Probabilmente sono dieci volte tanto, ma questo è quello che è sicuro, 20.000 morti, che ci vogliamo fare? Vogliamo fare finta di niente, vogliamo chiudere gli occhi, oppure ci vogliamo porre il problema? Se ci si pone il problema, si deve trovare una soluzione, però poniamocelo il problema. Quello è un dato reale, che viene dalle storie delle persone, non si tratta di essere buonisti o cattivisti, si tratta di decidere se quei morti hanno lo stesso valore dei nostri morti, perché sembra di no. Cioè se muore un italiano in Algeria non è la stessa cosa che se muoiono 500 algerini alle porte della Sardegna: non gliene frega niente a nessuno. La situazione deve essere raccontata, bisogna cominciare a porsi il problema anche di diritto: c'è un discorso umano, umanitario ma c'è un discorso anche di diritto, di leggi. Perché se fermano me, non mi possono tener più di ventiquattro in un commissariato, mentre una persona senza documenti può rimanere anche diciotto mesi? Nella Costituzione c'è scritto che la libertà è un diritto inviolabile. Tu non hai documenti, non hai commesso mai nessun reato nella tua vita, hai solo un permesso di soggiorno, che è scaduto il giorno prima, ti fermano per un controllo di identità e ti fai diciotto mesi di detenzione, in un Paese, dove nella Costituzione c'è scritto: “La libertà è un diritto inviolabile”.

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Stando così le cose, lo Stato di diritto va piano piano “a farsi benedire” In «Il Mare di mezzo» si parla di giovani che “bruciano la frontiera” per arrivare in Europa e scappare da una situazione che sembra bruciare la loro gioventù. Questa sensazione di sentirsi “scippati” dal proprio futuro è sempre più diffusa anche in Europa. Cosa unisce e cosa divida i giovani italiani e quelli tunisini o algerini? Secondo me ci sono tante analogie, gli elementi in comune sono tanti. Se tu guardi, confronti la frustrazione del venticinquenne medio tunisino, che in Tunisia non riesce ad essere quello che lui vuole essere, con la frustrazione del venticinque, trentenne medio italiano, la frustrazione di non riuscire ad essere quello che lui vuole essere è identica. È diverso lo stato sociale, nel senso che magari in Tunisia è il pizzaiolo frustrato perché, non so, vuole aprire un locale, vuole avere dei soldi per farsi la casa, qui magari invece è il dottorando, che vuole farsi il dottorato e nessuno gli dà la borsa di studio, nessuno lo finanzia; la nostra è soprattutto un'emigrazione di cervelli. Però il dato è lo stesso, cioè il fatto di sentirti frustrato, di sentirti scippato, di dire: “Questa non è la mia vita, io sono qui in questo Paese, ho delle potenzialità, ho dei meriti, ma non vengono riconosciuti. Questo è un Paese dove io non farò mai niente”. Vedi passare il tempo e dici: “Ho trent’anni, non ho fatto niente nella mia vita”. Non hai fatto niente, perché? Dici: “Cosa faccio?” L'italiano dice: “Vado a Barcellona, Berlino, New York, Londra” e ci va. Quasi tutti i miei amici sono andati via. Poi una volta andati via hanno messo in moto delle energie tali, che hanno fatto delle grandi cose, che avrebbero potuto fare anche in Italia, ma non ne avevano la possibilità. Hanno dovuto mettersi in gioco e andare fuori. Per il tunisino è lo stesso. Il tunisino dice: ”No, qua in questo Paese non

si può fare niente, io è da una vita che lavoro e non combino niente”. E si sentono frustrati, “che ci faccio in questo paese? Non ho possibilità, non ho prospettive, non ho voglia di lavorare fino a 40 anni precario, alla giornata, senza poi avere niente di concreto. Voglio riscattarmi”. È la modernità alla fine, cioè il fatto di volere cambiare il proprio destino, di dire: ”Io da grande voglio fare questo”. Una volta non “si diceva”; una volta nascevi così e morivi così. La modernità è dire: ”Io da grande voglio fare questo, io voglio diventare qualche cosa, voglio trasformarmi, voglio cambiare”. È la stessa aspirazione, cioè un tunisino che viene qua vuole cambiare, vuole riscattarsi. Poi naturalmente ci sono delle differenze, che sono soprattutto differenze di classi sociali: l'italiano che va all'estero non deve riscattare i genitori, aiutare i genitori. Quello è un problema di status sociale, se provieni della classe media o da una classe popolare. Però questa dimensione del sogno, di crederci, di combattere fino a che non raggiungi quell'obiettivo è in comune, che poi è in comune alla gioventù, è cioè la caratteristica dei giovani. Anzi, su questo noi italiani avremmo delle cose da imparare, sulla tenacia con cui tu insegui un sogno, rischiando di morire in mare. Poi, lascia stare che quel sogno non esiste, è chiaro a tutti che l'Europa non è il paradiso, è ovvio. Però è ovvio quando ci sei; finché non ci sei, non è ovvio. Europa è nella tua testa, è un nome che dai a un sogno. Il sogno è quello di arrivare in una terra, dove hai delle opportunità. Tu puoi diventare qualcuno, tu puoi tornare indietro e dire: “Io sono qualcuno, io sono questo, ho fatto quest'altro”. Ti sembra che il tuo Paese non ti offra questa possibilità. Alcuni la cercano qua, alti cercano da altre parti. Noi siamo ancora eurocentrici, e quindi pensiamo ancora che il mondo intero vuole venire qua. Non è così.

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Fotografie di Daniele Lira


INTERVISTA A CURA DI FEDERICO ROVEA, FRANCESCO BENANTI, ILARIA SEGATA, LAURA GRETTER, SAMUEL GIACOMELLI, GIADA COABELLI E MARIA GIULIA ZEN

MARSHALE SOULEYMANE RIFUGIATI E MIGRANTI FORZATI ADIL

MARSHALE, SOULEYMANE E ADIL SONO TRE DEI 200 RIFUGIATI ARRIVATI IN PROVINCIA DI TRENTO NEL 2011 IN SEGUITO ALLA GUERRA IN LIBIA E ALLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI NEI LORO PAESI. L'ASSOCIAZIONE CENTRO ASTALLI, INSIEME AD ALTRE REALTÀ, LI HA SOSTENUTI NELL'INSERIMENTO SOCIALE NEL TERRITORIO TRENTINO E NELL'OTTENIMENTO DI TITOLI DI SOGGIORNO CHE GARANTISCANO UNA PROTEZIONE ADEGUATA. UN LAVORO CHE L'ASSOCIAZIONE FA DA 30 ANNI IN TUTTA ITALIA, IN TRENTINO DAL 2006, TUTELANDO I DIRITTI DI CHI CERCA RIFUGIO DA PERSECUZIONI, GUERRE, VIOLENZA E TORTURA. ALL'ACCOGLIENZA MATERIALE È FONDAMENTALE AFFIANCARE PERCORSI CULTURALI CHE RACCONTINO LE SOFFERENZE DEI RIFUGIATI ACCANTO ALLE RISORSE CHE POSSONO PORTARE ALLA COMUNITÀ CHE LI OSPITA E PER QUESTO, FRA VARIE ATTIVITÀ, CENTRO ASTALLI PORTA I RIFUGIATI NELLE SCUOLE SUPERIORI E NEI GRUPPI GIOVANILI DELLA PROVINCIA. IN TRENTINO VIVONO CIRCA 300 PERSONE A CUI LO STATO ITALIANO HA RICONOSCIUTO UN DIRITTO ALLA PROTEZIONE, PROVENIENTI IN GRAN PARTE DA PAKISTAN, MALI, SOMALIA, NIGERIA, COSTA D'AVORIO, ERITREA, TIBET, AFGHANISTAN, LIBERIA, GHANA. SOSTENERLI NEI LORO PERCORSI VERSO LA DIGNITÀ SIGNIFICA VALORIZZARE RISORSE IMPORTANTI PER LA COMUNITÀ E IMPARARE MOLTO, SUL NOSTRO MONDO E SULLE SFIDE CHE CI ASPETTANO. Come vi chiamate e da dove venite? Adil, Marshale e Souleymane, veniamo dal Sudan, dalla Somalia e dal Mali. Come siete arrivati in Trentino? Marshale: Sono partito dal mio Paese nel 2007 per scappare dalla guerra e ho attraversato altri Paesi. È difficile vivere senza documenti, io non ho la carta d'identità e durante il viaggio gli uomini del governo o quelli contro il governo cercavano di pren-

derci per farci entrare nei loro gruppi. Sono partito dalla Somalia e ho attraversato il Kenia, l'Uganda e il Sudan, il grande deserto del Sahara. Quando sono arrivato in Libia sono entrato in prigione con altri somali e dopo un anno sono uscito dal carcere e sono andato a Tripoli, la capitale della Libia, e qui ho lavorato fino al 2010. Vivere in Libia è difficile, quando è arrivata la guerra sono partito, ho attraversato il

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mare e sono arrivato a Lampedusa, sono stato fortunato. Ho chiesto di essere registrato al governo perché ero senza documenti e siamo stati mandati in varie zone d'Italia. Sono arrivato in Trentino con tante persone da tutto il mondo. Vado a scuola, faccio volontariato, sto bene. Grazie. Come avete trovato i soldi per il viaggio? Marshale: Quando sono uscito dal mio Paese ho lavorato 2-3 mesi in Kenia perché non avevo soldi, quando ho preso i soldi sono andato in Uganda dove ho lavorato sei mesi e quando ho preso i soldi sono andato in Sud Sudan, ho lavorato anche qui e quando ho preso i soldi sono arrivato nella capitale del Sudan dove ho lavorato ancora un mese e poi con altri somali abbiamo attraversato il Sahara e siamo arrivati in Libia. Oltre alla guerra ci sono stati altri motivi che vi hanno spinto a lasciare il vostro Paese?

Marshale: Prima della guerra c'era un governo che aveva il sostegno di altri governi stranieri e poi c'era un gruppo che è come un governo parallelo e che ha il sostegno di altri gruppi simili nel mondo. Tutti loro cercano ragazzi e vogliono arruolarli, farli diventare soldati. Io non voglio farlo. Nel mio Paese non c'è altra strada. Quando avete lasciato il vostro Paese volevate venire in Italia o in altri Paesi? Marshale: In Italia e basta. Il mio nome è italiano, conosco l'Italia da quando la Somalia era una sua colonia. Nella mia città ci sono industrie italiane, del vino, della pasta e dello zucchero perché nella mia regione ci sono grandi campi. Ci sono anche due ospedali dove lavorano italiani. Adil: Quando ero in Libia non pensavo assolutamente di andare in Italia, stavo bene in Libia. Quando è scoppiata la guerra non ho potuto fare altrimenti, sono stato obbligato a partire.

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Il fatto che voi eravate stranieri in Libia, durante la guerra vi rendeva più vulnerabili degli altri? Eravate considerati in qualche modo dei nemici? Adil: Effettivamente è così. In Libia gli stranieri non sono i benvenuti. Io ero lì solo per cercare una situazione di lavoro migliore appena finiti gli studi. Sono andato in Libia e ci sono stato un anno e qualche mese. Quando siete arrivati in Italia sapevate che c'erano delle regole per gli immigrati e che quindi rischiavate di commettere un reato arrivando qui in modo irregolare? Conoscevate la legge italiana? Marshale: Sì, ho pensato a questa cosa prima di arrivare in Libia, ci sono tanti ragazzi somali che hanno fatto questo prima di me. Io ho chiamato loro e chiesto tante cose su cosa fare quando si arriva in Italia e loro mi hanno spiegato tutte le cose da fare, i documenti, il permesso di soggiorno e tutto il resto. In Italia vi state trovando bene o avete vissuto delle ingiustizie?

Adil: Qui ho dove dormire e da mangiare, ho avuto un sostegno che mi ha fatto sentire nuovamente un essere umano. La cosa che mi manca è il lavoro, ero abituato a lavorare e non farlo è la cosa più difficile per me. In Libia prima della guerra c'era da lavorare. Adesso non so quanto potrò restare in Italia e non sono sicuro del mio futuro. Marshale: Per me, la vita in Libia era difficile. Lui è del Sudan e quelli del Sudan in Libia li trattano bene. Ma io non posso fare come loro. Forse lui aveva il passaporto o la tessera, una specie di permesso. Ma io in Libia non ho mai avuto nessun documento. Il Governo non ne dava. Perché eri somalo? Marshale: Sì, è perché ero somalo. Ma è per colpa del Governo somalo che non rilascia i documenti o per colpa della Libia che non ha buoni rapporti con la Somalia? Marshale: Io non avevo proprio documenti, perché il Governo della Somalia non mi ha dato documenti e la Libia neppure. I do-

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cumenti in Somalia non funzionano, non esistono proprio. Nessun somalo ha documenti. È da 22 anni che non c'è un Governo in Somalia, non c'è controllo, non ci sono passaporti o documenti riconosciuti in altri Paesi. Non c'è un'ambasciata Somala in Italia, non esiste [una rappresentanza è stata aperta nel 2012, ndr]. È difficile. Quando arrivi in Libia finisci sempre in carcere, un anno, un anno e mezzo. Loro vedono male i somali, quando sei somalo stai sempre in carcere almeno un anno, poi paghi 2mila dollari e arrivi a Tripoli. Loro non ti danno documenti. Si vede solo il mare, non c'è altra strada, non c'è altra vita. Siamo fortunati adesso qui in Italia. In Somalia come è visto il nostro Paese? Del periodo coloniale cosa è rimasto, c'è un brutto ricordo? Marshale: No, io ho altri ricordi. Tu magari sei giovane, ma i tuoi genitori? Marshale: Loro parlano italiano. Mio padre parla italiano bene, il somalo lo parla poco. Io invece parlo solo somalo, niente italiano. Ci sono anche tante parole uguali tra italiano e somalo o puoi sentire tante persone che dicono: “vai, vaffanculo”. (risate) Sulle parolacce siamo più uniti! Guardando al vostro futuro avete più speranze o più paure? Marshale: Speranze sì. Sono in Italia, basta. Il mio passato basta. E gli altri? Adil: La mia paura per il momento è di perdere i documenti, perché sto aspettando che venga data una comunicazione rispetto alla mia domanda di asilo, quindi se è negativa rischio di perdere i documenti. Questa è la mia paura. Vi sentite responsabili per le vostre famiglie che sono rimaste nei vostri Paesi? State cercando di costruire una vita migliore anche per loro che sono rimasti lì? Marshale: Ci penso tutti i giorni alla mia famiglia. La mia famiglia mi ha sempre aiu-

tato in passato. Prima del mio affitto mando sempre soldi alla mia famiglia. Tutti i giorni guardo, cerco lavoro sempre, qualcosa per poter mandare soldi alla mia famiglia. Che cosa vi manca di più della vostra cultura, del modo di vivere del vostro Paese? Marshale: Tutto uguale, le nostre culture sono uguali tranne per la religione. Di che religione sei? Marshale: Musulmano, ma la nostra e la vostra cultura sono uguali. Souleymane: Per me la cultura del Mali e quella italiana sono un po' diverse. La questione di essere musulmano non influenza. In Libia ho incontrato tanti cristiani e vissuto con persone diverse. Però la differenza la sento più fra la cultura del Mali e quella italiana. È qualcosa che si trova anche nella vita di tutti i giorni. Ma se inizio a parlare di questo un giorno non ci basta. Per noi è tutto nuovo, non abbiamo idea di come si viva in Mali. Souleymane: Per esempio, una differenza è che quando qui si incontra qualcuno per strada si parla solo con le persone che si conosce. Invece, in Mali non serve, anzi se non ci si conosce c'è sempre un motivo per parlare. Non vi capita mai che qualcuno vi fermi per strada e vi chieda qualcosa per conoscervi meglio? Adil: Quando vedo qualche persona io chiedo: "Ciao, come stai?". E rispondono? Adil: Sì, quando chiedo loro rispondono. Quale è il vostro ideale di libertà? Cosa significa essere liberi? Adesso che hai i documenti ti senti libero? Marshale: Adesso mi sento libero e felice. Sono felice di stare in Italia, in Trentino. Per la prima volta ho i documenti, per la prima volta sento la mia vita. Perché prima dell'Italia c'erano molte difficoltà per la mia vita. Nel deserto del Sahara è troppo duro.

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Sono stato nel Sahara 20 giorni. Quando sono stato nel Sahara, i primi cinque giorni ho avuto da mangiare e acqua, poi è finito tutto. Prima di partire dalla Somalia, sapevi che il viaggio sarebbe stato così difficile?

due anni con la guerra; adesso io sono scappato dal governo. Capito? Morto è morto uguale. Posso morire nelle strade di altri Paesi quando nel mio Paese c'è solo guerra. La vita è fatta così. Quindi, tu hai fatto il soldato? Marshale: Sì, per due anni.

Marshale: Sì, lo sapevo. Sapevo che tanti Somali muoiono nel deserto, tanti morti in mare, tanti uccisi nella carceri in Libia. Però sei voluto partire lo stesso? Marshale: Sì, sono partito. Non so quando si muore, tanto guerra è sempre guerra; nel mio Paese c'è sempre stata la guerra contro il governo. Io per esempio non ho mai studiato, ho lavorato con il governo

Quanti anni avevi quando eri soldato? Marshale: 23. Sei stato obbligato o hai scelto tu? Marshale: No. Il governo ti ha obbligato? Marshale: Sì, sei come schiavo. Quindi, tu sei scappato? Souleymane: Sì, dopo due anni. Con mia moglie e il bambino che rischiavano di mo-

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rire di fronte a me in Somalia. Io sono scappato dopo due anni. Non posso lavorare quando c'è la guerra. Marshale: Io avrei una domanda. Per noi? Marshale: Sì. Perché voi chiedete a me tante cose. Ok! Se voi vi foste trovati nelle mie condizioni che cosa avreste fatto? Aspetto la risposta. Avrei cercato di trovare qualcosa di meglio, anche se è difficile essere forti di fronte alle difficoltà. Ma avere la speranza di trovare qualcosa di meglio, perché se si sta male è giusto così. Marshale: Ancora, gli altri rispondano. Anch'io sarei andata via, avrei lasciato il mio Paese; non sarei mai in grado di combattere una guerra con un'arma in mano, piuttosto avrei fatto il vostro viaggio, come voi... Marshale: Io ho avuto due possibilità: lavorare contro il governo con le forze di Al Qaeda [le milizie Al Shaabab, ndr] oppure con il governo. Nè l'una né l'altra di queste possibilità erano adatte a me, perché in entrambe i casi si ammazza la gente. Anch'io penso che avrei cercato il modo per scappare e ammiro molto il vostro comportamento, nel senso che sapendo quello che avrei affrontato forse non avrei avuto il coraggio, infatti vi ri-

spetto molto per questo. È molto bello. Marshale: Se voi foste al centro del Sahara, senza acqua, senza mangiare, che cosa fareste? Prima muoiono alcune persone, poi altre, da sette a quindici persone morte, cosa fate? Qual è la scelta che hai quando sei in queste situazioni? Andare avanti o fermarti? Marshale: Non puoi andare né avanti né indietro, perché il Sahara ha enormi distanze e tu sei nel centro del deserto. È difficile no? Credo che nel Sahara quando stai per morire di fame, se trovi insetti, animali... Marshale: Non c'è niente! Solo sole e sabbia... Non c'è altro! Forse mangeresti altre persone? Io pregherei. Marshale: Chi altro risponde? Io sarei disperata. Marshale: La vita è così. Anche quando io sono nel centro del Sahara non penso mai che cosa faccio perché da mattina a sera muoiono tante persone. E la vita è così, il tempo va avanti. Ma Dio ci aiuta, all'arrivo ci dà un po' d'acqua, non tanta perché se bevi troppo muori secco. Dopo un giorno tu puoi iniziare a mangiare, prima il tuo stomaco non collabora.

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UN GIORNO HO VISTO SVANIRE LA MIA STORIA prof.ssa Barbara Mei “un giorno ho visto svanire la mia storia..la storia di Onna, la nostra Onna che non c'è più... anche voi non ci siete più... io ci sono e la storia sembra essersi fermata... ricostruiranno ma sarà diverso... nulla sarà uguale a prima... la storia continuerà nonostante tutto... anche voi ne fate parte, anzi ora svegliamoci tutti dal sonno, riprendiamo il cammino, il futuro ci attende... ( G.Parisse) Il futuro ci attende… già, ma come dimenticare il dolore di tutti coloro che ancora oggi, dopo quattro anni da quella terribile notte, aspettano che quest'Aquila torni a volare come una volta? Questo viaggio è servito forse a comprendere ancor di più quanto sia importante conoscere, sapere e soprattutto, non dimenticare. “Un viaggio in fondo al cuore”. Per citare la frase di uno dei nostri ragazzi, credo sia questo quello che il viaggio nella città dell'Aquila ha davvero rappresentato per tutti loro e soprattutto per me, che ho avuto la fortuna di accompagnarli. Mai avrei immaginato di tornare a L'Aquila dopo tre anni da quella terribile notte, mai avrei pensato di vivere delle emozioni così forti, partecipando con i miei studenti ad un progetto che all'inizio rappresentava per me la possibilità di far vedere loro qualcosa che forse fino ad allora avevano solo immaginato o visto in tv. Volevo essere per loro una guida più che la semplice prof. che accompagna i suoi studenti, ma alla fine sono stati loro ad accompagnarmi in una delle esperienze più belle che questo lavoro potesse regalarmi. Io L'Aquila la conoscevo bene e avevo avuto la possibilità di viverla prima che il lavoro mi

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portasse a lasciare l'Abruzzo per trasferirmi a Trento e, da abruzzese, sapevo che cosa avrei trovato all'arrivo, ero stata lì dopo il terremoto, anche se non mi era stato possibile raggiungere quella che ancora oggi rappresenta “la zona rossa” e l'impre ssione che avevo avuto era stata quella di una città bombardata. Conoscevo il centro storico, ricordavo bene i vicoli caratteristici e pieni di vita, le passeggiate sotto i portici e lungo il corso, le chiese, i monumenti e le piazze piene di giovani, ma sapevo che anche per loro l'impatto sarebbe stato forte e in un modo o nell'altro quell'esperienz a sarebbe rimasta dentro ognuno di loro per molto tempo. Con loro ho camminato tra quelle macerie, ho ascoltato i racconti delle persone, ho sentito il silenzio nelle stradine di Onna, ho visto il dolore negli occhi di un padre che ha perso i propri figli e gli occhi lucidi di ognuno di loro mentre ascoltavano e prendevano nota di tutto quello che vedevano e sentivano e con loro mi sono commossa. Con loro ho riflettuto sull'importanza delle piccole cose, quelle che ogni giorno fanno da contorno alle nostre giornate e a cui spesso non diamo importanza, e dormire tre giorni in un container del campo Caritas ha contribuito profondamente a tutto questo. Credo sia stata una significativa esperie nza di vita e la sensibilità che traspare dai loro racconti ne è la dimostrazione. È stato un viaggio in fondo al cuore di una città ma anche in fondo al cuore di ognuno di loro. Un viaggio ricco di emozioni, dove la tristezza e la malinconia si uniscono alla rabbia e all'indignazione, ma anche un viaggio di speranza per questa città, perché i loro racconti possano contribuire a non dimenticare, a mantenere vivo il ricordo di una città che ha bisogno di un futuro, ed io come insegnante ma soprattutto come abruzzese, non posso che ringraziarli per aver reso possibile tutto questo.

EPORTAGE A CURA DI ALESSANDRO GIOVANNINI, BARBARA MEI, ELEONORA FORTI, ELISA BIANCHINI, IRENE PARISI, FEDERICO ROVEA, FIORELLA TURRI, FRANCESCO BENANTI, LAURA GRETTER, MARGHERITA COZZIO, NICOLA RIZ, NOA NDIMURWANKO, RAMA KIBLAWI, SERENA RIGHETTI, STEFANO PATERNOSTER

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Foto di Elisa Bianchini

21.03 ORE 22.15 È STATO BELLO, EMOZIONANTE, TRISTEMENTE CRUDELE A VOLTE, MA STRAORDINARIO... GRAZIE A TUTTI QUELLI CHE CI HANNO ACCOMPAGNATO IN QUESTO VIAGGIO...

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NICOLA RIZ

L'AQUILA TORNERÀIAGAGIO VOLARE? RACCONTO DI V RICOSTRUIRE NELLA CITTÀ DA

18.03.2012

luce del È sera quando giungiamo a L'Aquila. La città si materializza nella strana a mano Mano Sasso. crepuscolo poco dopo aver superato il lungo tunnel sotto il Gran e le nostre ese che ci avviciniamo possiamo notare la somiglianza tra il paesaggio abruzz , nella frazione Pile, montagne. Arriviamo al campo semideserto dei volontari della Caritas 23.30 puntuali si giusti giusti per la cena. Dopo cena seguono presentazioni e canti, alle ge domani. reporta nostro il iniziare a spengono le luci... tutti a riposare per essere pronti

19.03.2012

carichi di panini alla Sveglia alle 7.15. Dopo aver fatto colazione siamo pronti per partire, nte a che punto è porchetta offerti dai volontari per pranzo e desiderosi di vedere finalme e vedo che è la ricostruzione della città. Prima di lasciarlo, do un'occhiata al campo immagine non è circondato da condomini ancora deserti e pieni di crepe. Come prima molto incoraggiante... amo in pullman Prima tappa del nostro percorso è il centro storico del capoluogo. Giungi alla "zona dritta porta fino in piazza Fontana Luminosa dalla quale diparte una via che potranno entrare. rossa", la zona ancora pericolante del centro, nella quale alcuni di noi fuoco e operai, ma In piazza notiamo un andirivieni continuo di camion, furgoni, vigili del liberi qua e là, ora ciò che mi colpisce di più sono i quattro cani randagi che scorrazzano . Anche loro, fontana della piedi ai lli abbaiando a qualche auto, ora stendendosi tranqui compagni nostri ranno Divente come gli aquilani, sono sopravvissuti al sisma del 6 aprile. la città. versa cui in ono fedeli durante tutta la nostra visita, simbolo dello stato di abband ista farmac un e Sempre in piazza realizziamo le nostre prime interviste: un edicolante Dove centro città. rispondono alle nostre domande denunciando la morte della vita del salvo casi vuoto, il regna ora e person ità, univers una volta c'erano bar, negozi, teatri, affari sono sugli ssioni ripercu uenti sporadici di riapertura di qualche locale. Le conseg di to l'acquis ano: ovvie. Il farmacista inoltre conferma ciò che i giornali riportav , per non scettici molto antidepressivi è in costante aumento. Entrambi dicono di essere dire rassegnati, sui tempi di ricostruzione brevi del cuore de L'Aquila. a ciò che avevano Percorrendo la via ci fermiamo ad ascoltare un barista che ci conferm fantasma. Solo il detto i primi due intervistati: L'Aquila si sta trasformando in una città ha avuto la fortuna di chi Per centro. in ento sabato sera i giovani portano un po' di movim non sono per futuro il per ttive poter riaprire è comunque difficile tirare avanti e le prospe sorreggono che amenti niente rosee. Questo sentore comune ci è confermato dai puntell parziale crollo il rne ogni edificio, imbrigliandolo in una gabbia di tubi di metallo per impedi o totale.

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protezione civile. Arrivati in Piazza San Bernardino, siamo accolti dai volontari della anno nella pagner accom ci e regioni vicine dalle Sono giovani abruzzesi o provenienti da polizia e ato presidi za sicurez di tro visita alla "zona rossa". Una volta varcato il perime a che il Sembr te. infonda così militari capiamo che le previsioni degli aquilani non sono io distrutt edifici e, tempo dopo il sisma e i primi soccorsi si sia fermato. Ovunque maceri peso dal ita appiatt mancanti di alcune parti, case ancora arredate, perfino una macchina anni. tre delle macerie mai rimossa in a parte noi, i cani Ciò che colpisce è il silenzio che avvolge tutto. Non c'è nessuno qui, ndo delle macerie riordina stanno che che ormai ci seguono affezionati, un paio di operai effettuando i stanno che davanti a una chiesa e un paio di tecnici incaricati da privati difficoltà sia le ziano rilievi preliminari ai lavori di ristrutturazione. Intervistandoli eviden le ordinanze, o sono economiche che, soprattutto, a loro parere, burocratiche. "Mancano sostiene un primo contraddittorie. Manca trasparenza, non sono solo problemi finanziari" risponde costruttore. Alla domanda: "Pensa che la situazione si stia sbloccando?" rilevamenti i ancora o facend Stiamo semplicemente "Quanti cantieri hai visto aperti? laser, i lavori non sono ancora partiti". protezione civile. Proseguendo la visita scambio due parole anche con i volontari della emergenza, i piani di Prima del sisma non era mai stata fatta una prova di evacuazione di leti. Dopo il sicurezza dei comuni (obbligatori per legge) o non c'erano o erano incomp alcuna decisione sisma sono stati puntellati subito tutti gli edifici, ma poi non è stata presa per lunga alla ate aggrav quindi sul loro futuro. Le condizioni di molti edifici si sono i sono restaur unici Gli te. nevica infiltrazioni, altri sono crollati sotto il peso delle recenti a, elettric rete La ditte. commissionati dai cittadini che si rivolgono privatamente a delle quella del gas sono ancora fuori uso. e luogo di ritrovo Una delle volontarie che ci accompagna è aquilana: ci mostra qualch di avere poco. avamo lament ci , "Prima . deserto è che anche lei frequentava e che ora Questa sa. confes tutto" era poco Dopo il sisma abbiamo capito che per noi quel ere la descriv soliti siamo confessione mi ha colpito molto. Anche noi giovani di Trento di più zare apprez ad nostra città come morta. Dopo questo viaggio riuscirò sicuramente ciò che do per scontato e che invece non lo è affatto. abruzzese, che Questo amore per il centro è confermato da Davide, nostro coetaneo in centro, era lì la evidenzia l'unità che dava al tessuto sociale il centro storico. C'era tutto gibili da tutti, raggiun nte facilme sono non vita. Oggi ci sono alcuni pub nei dintorni, ma via l'anima to spazza ha oto perciò aumenta la disgregazione della comunità. Il terrem o per "girand loro: casa della città al punto che gli stessi aquilani si sentono stranieri a Da città". mia L'Aquila mi sento un po' stupido, perché mi sento come un turista nella certi aspetti alla trentino mi sono sentito molto coinvolto in questa realtà così simile per stati, a sentire i vari mia quotidianità. Sarà forse per questo che proprio noi trentini siamo non solo zione ricostru alla attenti e intervistati nei giorni seguenti, tra i più solidali materiale, ma anche sociale della città? sedi ancora Dopo un pranzo ristoratore sotto la pioggia, raggiungiamo una delle ed ex presidente provvisorie del comune dove ci aspetta l'assessore alle politiche sociali della Provincia Stefania Pezzopane. e». Qui Nel pomeriggio arriviamo alla sede dell'associazione «Ricostruire Assiem osservate quelle di viva e itiva propos più scopro un'altra faccia de L'Aquila, sicuramente punto di o all'unic rnativa un'alte finora. I volontari stanno lavorando per cercare di offrire

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questa ritrovo per i giovani di tutta la città: un centro commerciale. È nata perciò costruendo sta fatica con che e zioni associa se associazione che coordina altre numero ritrovo di centro re diventa dovrà che anche con l'appoggio dei trentini - una piazza nte nella culturale e di integrazione per aquilani e stranieri accorsi improvvisame o progett oso speranza di trovare lavoro come operai nei cantieri. Questo ambizi ... mostre Inoltre, ci comprende un «Bibliobus» con relativa biblioteca, un teatro, una sala ismo per bambini e racconta una giornalista volontaria, si sta tenendo un corso di giornal comune questi ragazzi che sta avendo un notevole successo. Quello che hanno in ene, lasciando andars e narsi rasseg di volontari è l'amore per la propria città e il rifiuto della ione dispers nella è morire la loro casa. A loro avviso il problema più grosso L'Aquila de ario popolazione che ora vive in diverse «New Town» isolate nel circond itorio. ri-dorm totalmente prive di servizi di ogni tipo, dove la gente vive come in quartie

20.03.2012

degli abitanti sono Oggi ci dirigiamo a Onna, il comune più colpito dal sisma (un settimo "Il Centro" che morti) per intervistare Giustino Parisse, giornalista del quotidiano locale o partecipato al ha perso entrambi i figli e il padre durante il terremoto. Con lui abbiam e per subito ha che ia disgraz la niare dolore di un padre che ora vive per testimo non va e che ciò iando denunc , assicurarsi che la ricostruzione proceda senza intoppi aiutata stata è ta, raccon ci mantenendo un riflettore puntato su questa situazione. Onna, a il manier e qualch soprattutto dai tedeschi, che hanno avuto occasione di risarcire in sala una ogli paese distrutto per la strage nazista operata dalle SS nel 1943 donand i abitativi (modul m.a.p. dei ato realizz hanno che , comunale di ritrovo, e dai trentini tardi più che vissute soprav e famigli 92 provvisori) destinati all'alloggio di tutte le ati, essi realizz meglio i siano Onna di visiteremo. Egli sostiene che, nonostante i m.a.p. ma che , iniziale smico post-si sono stati fondamentali all'inizio, per rispondere allo shock coloro tutti per ione a distanza di tre anni cominciano a essere percepiti come una costriz vita. una di i stipend che erano abituati alla propria casa, costruita magari impegnando gli zioni future. Anche Parisse sottolinea l'importanza di ricostruire L'Aquila per le genera centro storico il lato un da e, oppost realtà due a Facendo un giro per il paese assistiamo di macerie, cumuli vuoti a posto raso al suolo dal terremoto, dove le case hanno lasciato del scene alcune o ggio dall'altro il villaggio realizzato dai trentini che ricorda un campe ie giardin ampi da film «Edward mani di forbice»: casette basse e colorate, circondate di pretesa questa prati, strade deserte e calme. La contiguità delle due realtà fa stridere fino al grottesco. ricostruire una realtà il cui aspetto artificiale e finto viene esasperato vivendo i cittadini stanno che ciò me o second Questa situazione paradossale rispecchia e agghiacciante di vivo ricordo il parte di Onna e delle altre zone colpite dal sisma: da una ellabile e l'incanc lare cancel di quei momenti di terrore, dall'altro un tentativo mal riuscito c'era che ciò con riprodurre una vita reale senza radici o collegamento di alcun tipo i al governo prima. Questa visione mi ha fatto capire ciò che chiedevano i cittadin bianco L'Aquila, Berlusconi, quando si opposero alla volontà di ricostruire di punto in Se ha fatto luoghi. questi di storia la tutt'ora è abbandonando quella che è stata e che una vita anni tre per vivere dire voglia questo effetto a me posso solo immaginare cosa primo un in arie necess finta come quella. Ciò non toglie ovviamente che siano state Parisse e come ci momento a dare conforto a chi aveva perso tutto, come sottolineava visto nel presidente racconta la signora Nunziatina Colaianni, abitante di Onna, che ha 131


vicinanza e un del consiglio Berlusconi non solo un aiuto materiale, ma anche una un conforto che si to manca sia che sostegno morale che ci testimonia. Sostiene invece paese, pur del sarebbe aspettata dal mondo religioso, lamentando che il parroco istenza nell'ass essendo una buona persona, abbia giocato un ruolo troppo passivo o dell'unità cinofila spirituale ai sopravvissuti. In serata visitiamo la sede di addestrament testimoniano i della protezione civile, dove scambiamo altre parole con i volontari che problemi del post-terremoto.

21.03.2012

o al «Liceo Stamattina, dopo esserci congedati dai volontari della Caritas, ci dirigiam teranno il raccon ci che ti studen di zione scientifico Bafile», dove ci aspetta una delega noi con sfoga che side, sisma dal loro punto di vista. Arrivati ci accoglie la vicepre nella inante l'indignazione che mi sarei aspettato essere il sentimento predom a però non critica popolazione dopo così pochi progressi realizzati in tre anni. La prof.ss contro gli aquilani tanto il governo o l'amministrazione politica, ma riversa la sua rabbia aiuti piovessero stessi che, ci spiega attraverso un mea culpa, hanno aspettato che gli o profitto massim il trarre di anzi o dal cielo senza provare a mettersi in gioco, tentand za di differen A adini. concitt economico individuale dal sisma a scapito dei propri stessi solo abbia oto terrem il quanto avevamo sentito prima, la professoressa sostiene che Il terremoto è accentuato le divisioni e l'egoismo degli aquilani che già era forte prima. problema collettivo stato vissuto come un'opportunità di lucro per pochi, piuttosto che un più colpito. Parole di da risolvere velocemente e nel rispetto delle esigenze di chi è stato ci dice, si sono che, ti, studen i giovan speranza e di ottimismo sono rivolte invece ai alberghi sulla dagli ndo giunge impegnati a frequentare le lezioni anche sotto le tende, forza d'animo una e o costa, arrivando a conseguire l'esame di maturità con un impegn a rilanciare la volte e lodevoli e notevoli, facendosi promotori anche di una serie di iniziativ ritrovo culturale e scuola non tanto come struttura di apprendimento, ma come luogo di i per la punto di partenza per la ricostruzione, elaborando per esempio progett una mostra zionali interna artisti ad e ricostruzione della città, oppure allestendo assiem artistica contemporanea nell'edificio scolastico. iuto i miei Condivido questo segnale di speranza della prof.ssa dopo aver conosc ha voglia di coetanei. Mi hanno lasciato un'immagine potente, viva, di gente che in contro in rimettersi in gioco, nonostante sia consapevole delle difficoltà a cui andrà città - pronta a futuro - si pensi solo al preoccupante tasso di disoccupazione della molto legati e che sono quale alla città rimboccarsi le maniche per far rivivere la propria facilità il upante preocc con non vogliono abbandonare. Spesso gli adulti scaricano errori, ma propri ai compito di migliorare il futuro alle generazioni più giovani di fronte porre contrap poter conoscere questi giovani mi ha lasciato un'immagine di speranza da e» - al grigiore assieme a quella dei volontari dell'associazione «Ricostruire Assiem nate o comunque rasseg nianze testimo altre lasciato laconico e apatico che mi avevano una parte de di volontà come niare "smorzate" nei toni, che ritengo doveroso testimo perfino a chi, ndibili inconfo no L'Aquila di risollevarsi da questo torpore i cui segni appaio ta - della manca ione non aquilano, può venire a vedere solo per pochi giorni l'evoluz situazione a ben tre anni dal sisma

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ALESSANDRO GIOVANNINI

UN VIAGGIO IN FONDO AL CUORE L'AQUILA, VIAGGIO IN UNA REALTÀ SCONVOLTA DALLA POTENZA DELLA NATURA. VIAGGIO NELLA RICOSTRUZIONE E NEGLI INTOPPI BUROCRATIC I, NELLE PAURE E NELLE SPERANZE, NEI LUTTI E NELLE RINASCITE, NELLA RASSEGNAZIONE E NELLA DETERMINAZIONE. UN VIAGGIO NEL NOSTRO CUORE, PER “TOCCARE CON MANO” QUELLO CHE ABBIAMO SOLO SENTITO DAI MASS MEDIA. zione, nessun Lunedì mattina arriviamo in “città”, in piazza; l'aria è triste, di desola minimo rumore. ci ritroveremo. Anche se ho qualche idea, non so precisamente in quale situazione avere una Cominciamo da un container, allestito come farmacia. Comincio ad in centro, vedrete il e “Andat detto: viene Ci . percezione di cosa ci sia oltre quella piazza non troverete è, che quello e so disastro e vi renderete conto di quello che è succes “quella notte” e da anni tre i nessuno a cui chiedere”. Così effettivamente è, sono passat terra, l'anima a case le tutto ancora “immota manet”: le macerie ai margini della strada, iamo. Ogni tanto della città deserta e le ferite nei cuori delle poche persone che incontr abbandonati dalle vedo qualche porta o finestra spalancata, all'interno macerie e arredi, fare con i frastuoni di 3:32 di quel maledetto 6 aprile. Qua e là qualche lavoro, nulla a che l'unico rata; ristruttu già casa e martelli pneumatici, i ponteggi trafficati e qualch cambiamento che c'è stato da quella notte è il vuoto. “quella notte” ha Il giorno dopo si va a Onna. Incontriamo Giustino, un giornalista che paese. Ci dice: “Eh, perso i figli, il padre, altri 37 (trentasette) compaesani e il suo amato gli auguri da è difficile, ieri era la festa del papà, io non ho potuto fare né ricevere , le rovine delle meglio o città, la visitare nessuno.” Sento il cuore in gola. Ci porta poi a a L'Aquila visita la Dopo . città, rasa al suolo come se fosse appena finita la guerra ta, la assolu pensavo di aver visto tutto; no, Onna è più di tutto, è la distruzione che a L'Aquila mi ricostruzione inesistente. Non ci sono neanche quelle reti di strani tubi rsiamo un piazzale, avevano stupito sorreggere quel che era rimasto degli edifici. Attrave un bel paesino che Giustino ci porta “a casa sua”; gli sguardi persi nel vuoto, nel vuoto di età se ne nostra della i ragazz due fa, ora non c'è più, sul posto dove, meno di tre anni sono andati. Chi parla di Abbiamo chiesto quali siano le speranze e le aspettative reali. Zero. mai tornare alla promesse, solo a parole, da parte dei grandi, chi dice che non si potrà onare il senso vita a cui ci si era affezionati, chi dice che gli aquilani stessi devono abband e. alment person i attivars ma cielo”, di “aquilanitas”, non aspettare più “la manna dal i in metters di voglia e smo entusia Fra gli studenti del Liceo Scientifico Bafile si evince più

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gioco, consapevoli che devono ricostruire la loro città, per la loro genera zione, per la loro vita. Al contrario, amarezza, nostalgia e rassegnazione sono i sentim enti diffusi fra le persone più anziane e fra la maggior parte degli alloggiati nei m.a.p. (moduli abitativi provvisori) e nelle abitazioni del progetto c.a.s.e. (complessi antisism ici sostenibili ed ecocompatibili), condomini di tre piani lunghi metri e metri che infondo no immensa tristezza. Si immaginerebbero le grida dei bambini che giocano, gli anzian i che passeggiano, il traffico delle automobili. No, nulla di tutto ciò. Un'auto ogni tanto, qualche persona che passa in silenzio. Sono immerso nella natura? No, in una new town di circa 1000 persone. La sera andiamo a cena fuori, a L'Aquila, in corso Vittorio Emanuele, il corso centrale della città. È tutto buio. Cammino, sulla mia destra una transenna, vi sono le chiavi appese, simbolo della speranza di tornare in casa. Attorno c'è il nulla; un bar, è deserto; più in là un cane randagio abbaia e rincorre una macchina. Proseguiamo, Piazza Duomo. “Do stemo a ji?” (dove stiamo andando?). All'unico bar aperto. La proprietaria ci accoglie, si scusa perché il giorno prima aveva interrotto l'intervista: “La signora che sono andata a salutare era una cittadina aquilana, ha perso il marito, la figlia e il nipotino; non vive più qua a L'Aquila, non ce la fa”. “Signora, non si deve scusare!” Foto di Fiorella Turri

Toccante, un viaggio in fondo al cuore.

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RAMA KIBLAWI

L'IMMOBILE RICOSTRUZIONE Lunedì mattina, ore 9.30 circa in altre città il Siamo nel centro storico dell'Aquila in piazza…. A quest'ora probabilmente ila invece sembra centro “pullulerebbe” di lavoratori o di anziani a passeggio. Qui all'Aqu ancora quasi tutti da un'eterna domenica. Domina un silenzio assordante, gli edifici sono gnia nel nostro sistemare, i cani randagi sono (quasi) gli unici essere viventi a farci compa un'edicola e bar, un io esemp ad come giro. Solo qualcuno ha riaperto coraggiosamente, una farmacia. di quello che è Negli occhi delle persone che intervistiamo vi è ancora un segno velato utto luccica una stato per loro il trauma del sisma, vi è ancora un po' di paura, ma sopratt di ricominciare scintilla di speranza. Speranza, che ha dato la forza di andare avanti, testimoniano e person Queste miche. pre-sis nonostante tutto e riprendere le attività la loro e da esse quale sa rischio ne proprio la forza di volontà e il coraggio in una situazio bisognerebbe prendere esempio. viene da chiedersi: Lo scenario che si apre ai nostri occhi è poco incoraggiante. Subito e non molto altro. “Ma cosa si è fatto in tre anni?”. Gli edifici sono ricoperti da puntellature cimitero, in cui sono Fatta eccezione di tre timidi bar, sembra quasi di camminare per un zona più pericolosa sepolti oggetti e ricordi provenienti dal passato. Nella zona rossa, la o ancora notare posson si e pezzi a e del centro storico, i palazzi sono completament abitazioni squarciate letteralmente dal sisma. i decadenti, bagni, Dalla strada intravediamo intere camere ai piani superiori dei palazz , sembrano una di cucine, stanze da letto che sembrano essersi fermate al giorno fatidico quelle foto nei quotidiani di aprile 2009. L'atteggiamento degli Aquilani quel giorno sembra Il 6 aprile 2009 è divenuta una sorta di anno zero per gli Aquilani. Da essere cominciata una nuova era, una vita diversa per tutti. della città Le scosse avranno certo spazzato via case, palazzi, scuole, ma il ricordo città che accomuna amata permane negli Aquilani. È proprio il grande amore per questa il borgo natale, il tutti i suoi abitanti, di cui molti dopo il sisma non hanno abbandonato oli. “Il mio posto è piacev dolci, ricordi tanti borgo in cui si è cresciuti, maturati, il borgo dai cui è stato a , Parisse ista qui…io sono nato dove è morto mio padre” dice il giornal contrario di al dove proposto di trasferirsi a Pescara. Egli è rimasto nella sua Onna, io la sua quanto uno si potrebbe aspettare, prosegue con grande forza e coragg persone, basandosi professione, testimoniando in prima persona il dramma di migliaia di Con il suo lavoro sulla propria esperienza, divenendo così “cronista della propria vita”. e nel tament comple cadano oto egli cerca di impedire che L'Aquila e il suo terrem ” imento “accan dell' to dimenticatoio, come si può in gran parte notare dal tramon evento un olo, spettac mediatico. “Il terremoto per chi non lo ha subito è stato solo uno passare all'altro mediatico”, che dopo il boom dei primi mesi è stato dimenticato, fatto mondo. 135


Foto di Laura Gretter

Come ha detto una giornalista aquilana, per il resto d'Italia il necrologio dell'Aquila è già stato segnato/annunciato; tuttavia per gli aquilani l'Aquila è ancora viva e aspetta solo di essere curata, come un cagnolino ferito, di cui bisogna occuparsi quotidianamente affinché possa recuperare al meglio. E per soccorrere questo cagnolino ferito è necessario un impegno, per quanto piccolo sia, costante. Nonostante questo enorme legame con la città natia, l'ardente desiderio di vedere l'Aquila bella come una volta viene permeato, come ci dice la vicepreside del liceo Bafile, dalla cosiddetta “aquilinitas”, la mentalità aquilana, caratterizzata da un forte immobilismo. I cittadini cioè tendono a rimanere con le mani in mano, senza intervenire in prima persona per la propria città, come se aspettassero un miracolo dall'alto. Questa concezione è sicuramente un grande ostacolo lungo la via della ricostruzione, se poi si considerano gli altri problemi, come gli intoppi burocratici, e gli interessi economici di filiere, multinazionali, si può dire che il traguardo non si può nemmeno intravedere.

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STEFANIA PEZZOPANE STEFANIA PEZZOPANE È STATA PRESIDENTE DELLA PROVINCIA DELL'AQUILA DAL 2004 AL 2010, IN SEGUITO È STATA ASSESSORE CON DELEGA ALLA CULTURA, AL SOCIALE, ALLA RICOSTRUZIONE PARTECIPATA E ALLE POLITICHE ABITATIVE PER IL COMUNE DELL'AQUILA. DAL 2013 È SENATRICE DELLA REPUBBLICA ITALIANA.

abbiamo fatto tante cose: abbiamo cercato di trattenere i giovani, di inventarci luoghi di ritrovo, ma per quanto si possa fare risulterà sempre insufficiente, perché giustamente manca innanzitutto il centro storico, manca L'Aquila. Quante persone ancora non hanno riavuto la propria casa? Trentaquattromila persone, un numero enorme. Dopo tre anni la mancanza della propria casa fa entrare in gioco molti sentimenti complessi: ansia, senso di precarietà. Trentamila di queste persone abitano nel comune dell'Aquila, quattromila nei comuni intorno e diciottomila vivono nelle abitazioni del progetto c.a.s.e. (complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) o del progetto m.a.p.(moduli abitativi provvisori). Poi, vi sono ancora alcune centinaia che vivono in albergo e duecento nelle caserme degli alpini e della finanza. Invece di costruire c.a.s.e. e m.a.p., perché non ci si è concentrati maggiormente sulla ricostruzione di quanto c'era prima? Questo è stato uno dei grossi problemi dell'Aquila. È stata una scelta del governo nazionale su cui si è molto discusso. Io allora ero presidente della Provincia e mi battei molto perché non ci fosse questo tipo di soluzione, ma ce ne fossero altre più transitorie. Il presidente del consiglio -

Qual è oggi la situazione a L'Aquila? Sono passati quasi tre anni dalla tragedia; in questi anni sono successe molte cose, alcune buone altre meno buone. Quelle buone hanno anche il simbolo di Trento. La vostra comunità è stata molto solidale, molto vicina, molto poco incline alla propaganda e alla visibilità, ma concreta. Grazie alla provincia di Trento abbiamo le case di Onna, altre case sparse in altri comuni e avremo un auditorium progettato da Renzo Piano, l'auditorium è molto importante perché tra le tante cose che abbiamo perso ci sono i luoghi della cultura e dello spettacolo. Solo in centro c'erano quattordici sale spettacolo, un'enorme biblioteca provinciale, tre auditorium, due teatri; la nostra era una città con un centro storico che costituiva un grande spazio d'incontro, un'agorà, un centro sociale, civile, commerciale e culturale. Nel centro storico c'erano inoltre la maggior parte delle scuole. L'Aquila aveva 73mila abitanti di cui 28mila erano studenti universitari, di questi quasi 14 mila erano fuori sede e 8 mila abitavano nel centro. Molto di tutto questo oggi non c'è più: il centro storico è ancora chiuso; le scuole si trovano in moduli provvisori. La ricostruzione ha effettivamente subito un forte blocco: all'inizio c'era una grande enfasi, una grande propaganda, ma in realtà abbiamo dovuto patire le forche caudine per avere le procedure. In tre anni 137


Berlusconi - voleva fare una sola realtà, la cosiddetta “new town”. La proposta del governo era di ricostruire da zero la città e abbandonare L'Aquila. Sono stati momenti molto dolorosi, ve lo assicuro, nei quali ho sentito la solitudine di una responsabilità enorme: mi sono sentita impotente. Si sentiva abbandonata dal governo? Mi sono sentita come una persona che doveva prendere delle decisioni più grandi delle proprie possibilità. In quei momenti l'unica cosa da fare è farsi guidare dalle idee forti. Al tavolo della decisione del progetto c.a.s.e. sono stata l'unico ente a votare contro questo tipo di soluzione e infatti mi sono presa un sacco di rimproveri: in realtà, anche alla luce dei miei studi, mi rendevo conto che disurbanizzare i cittadini e collocarli in un altrove indistinto avrebbe provocato delle reazioni. Ma in quel momento avevamo un governo molto forte, dei mezzi di comunicazione protesi a promuovere la politica del fare e non quella del discutere. È stata una decisione comunque approvata non solo dal governo, ma anche da altre istituzioni: il comune, ad esempio, disse no alla new town, ma decise comunque di farne un numero maggiore ma di dimensioni più piccole. Di questi alloggi ne sono stati fatti cinquemila e oggi ci sono problemi sociali enormi. Oggi è il nostro primo giorno all'Aquila, ma già parlando con le prime persone abbiamo capito che il problema più grande di questi progetti è la mancanza di servizi e punti di aggregazione. Come assessore del comune di L'Aquila cosa intende fare? Abbiamo creato un piano regolatore, ma sono cose molto complesse: i progetti c.a.s.e. dovevano nascere contemporaneamente con i servizi e in questo caso avrebbero funzionato,

questo invece non è accaduto. Sono state destinate delle aree ai servizi e ci è stato detto che sarebbe stato compito nostro realizzare questi servizi con i soldi che ci avrebbe dato il governo. Naturalmente i soldi non li abbiamo visti. In alcune situazioni non solo i soldi non ce li hanno dati ma le aree destinate ai servizi non sono state neanche espropriate e sono ancora oggi inutilizzabili perché non è stato completato l'esproprio. Inoltre, il trasferimento dei cittadini è avvenuto direttamente dalle tendopoli alle c.a.s.e. mentre nelle Marche e nel Friuli si è adottata un'altra formula: in queste regioni prima è partita la ricostruzione, nel frattempo la gente viveva nei container, infine è stata spostata nelle case, ma nelle proprie. Qui invece la logica è stata dalle tende alle case, ma la differenza è che la gente si è ritrovata a vivere in case che non erano le loro. È stata la cosa più brutta che potesse succedere? È stata una scelta. Ovviamente, all'inizio le persone erano contente, come mette in risalto la Guzzanti nel suo film, Draquila, nel quale intervista le persone appena arrivate nelle c.a.s.e., all'interno delle case c'era tutto: la carne nel frigo, le padelle, le lenzuola, c'era persino la bottiglia di champagne. Dopo nove mesi che hai vissuto in una tenda non puoi che essere felice: ti hanno ridato tutto. È solo dopo che ti accorgi che non hai nulla, o comunque molto poco, rispetto a quello che avevi prima; per chi viveva nel centro è addirittura pochissimo. Avendo visto il film, ricordo che quando gli abitanti attuali delle c.a.s.e. dovranno lasciarle, saranno costretti a restituire tutti gli oggetti che avevano trovato al loro arrivo.

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Sì, è vero. Sono piccole cose che comunque sono emblematiche. Negli altri casi di terremoti, come il Friuli e le Marche, la gente viveva in un container ed era sollecitata a portare le proprie cose: qui no, qui c'era già tutto. Inizialmente questo ha creato una sorta di euforia. Piano piano però le gente si è accorta che gli oggetti quotidiani sono sì importanti, ma non cambiano la vita: avere dodici asciugamani invece che sei non è fondamentale. Un cinema, un pub, un luogo per i disabili, una biblioteca… quelli sì che cambiano la vita. Nel 2009 c'era la crisi dell'edilizia e di determinati settori. Sono stati comprati cinquemila divani, cucine e pentole: chi ha avuto la fortuna di essere il fornitore ha risolto tutti i suoi problemi finanziari. Era stato deciso che fine avrebbero fatto tutti questi oggetti nel momento in cui le case dovevano essere restituite? Nel momento in cui ricevevi la casa firmavi un contratto con il quale ti impegnavi a restituire tutto quello che ti era stato dato. Ma immaginate di dover restituire una pentola dopo che è stata usata per anni. Tutto questo crea, specie nella popolazione più anziana, un grandissimo disagio: da un lato il malessere di vivere con delle cose non tue, dall'altro l'assurdità di pensare: “Se si rompe la pentola che faccio?” Sono davvero cose assurde. Visto che anche dal suo punto di vista la politica delle new town è stata un fallimento, non c'è nessun incentivo per iniziare la ricostruzione dell'Aquila vera? All'indomani del terremoto le abitazioni sono state classificate, a seconda del danno subito, con delle lettere: A B C E F. La lettera A rappresenta le abitazioni che non hanno subito quasi nessun danno, B sono quelle lievemente danneggiate, le abitazioni di tipo C sono fortemente

danneggiate, ma non a livello stru tturale. Le E hanno subito danni strutturali, le F si trovano affiancate a case con dan ni strutturali e quindi risultano non accessibili. Le abitazioni di tipo A, BeC sono state tutte ricostruite. Le E in periferia stanno partendo adesso, le E nel centro storico, invece, sono sottopo ste a un piano di ricostruzione che è stat o approvato solo da questo comune , mentre altri 35 comuni ancora non lo hanno approvato perché risulta mol to complesso sia in termini urbanisticiarchitettonici che economici e soc ioeconomici; deve essere inoltre app rovato dalla regione. Nel primo periodo avete comunq ue ricevuto molti aiuti. Diciamo che l'atteggiamento era un po' quello dell'elemosina, cosa che ha creato una sorta di atteggiamento remissiv o da parte della popolazione: dopo nov e mesi che ti hanno alimentato e nutrito, che hai vissuto in una casa che non è le tua, che ti hanno ridato tutto ma di quel tutto tu non sei proprietario di nulla, la tua condizi one è cambiata da cittadino a inquilino ospite. Purtroppo una parte di cittadini sta smettendo di essere protagonista della propria vita; questo, a mio parere, è un danno gravissimo alla nostra coscien za critica, al nostro spirito di appartenen za e alla nostra identità di cittadini. Forse questo atteggiamento in realtà c'er a anche prima del terremoto: penso che sia un atteggiamento che dipende dall a nostra cultura. Con il terremoto si è però evidenziato anche perché serviva un'assistenza in grado di responsabilizzare e di indurre a rico struire la propria casa. Già il fatto che il citta dino non aveva lo stimolo di recuperare le proprie cose perché tanto gli erano date era una cosa assurda. Ripensando al G8, per voi è stata un'opportunità di rilancio o è sta ta più

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Francesco Rovea Oggi L'Aquila non è più possibile definirla una città. Sembra invece una città fantasma, una di quelle che si vedono nei film, senza vita e senza alcun movimento. C'è però una differenza: questa è pura realtà, non finzione. Passeggiando nel centro, in Corso XX settembre, si sente un silenzio irreale: gli unici rumori provengono dai cantieri, sparsi qua e là nelle piccole e strette vie cittadine, o dai cani randagi, tantissimi nel centro. Sembrano quasi i custodi e le guide di queste rovine dove, dal 6 aprile 2009, il tempo sembra essersi fermato inesorabilmente. Ti accompagnano zoppicando ovunque tu vada; quando pensi di averli persi, ecco che spuntano da dietro un angolo o un cumulo di macerie per farti strada tra le rovine, lungo stradine deserte piene di calcinacci. Faccio fatica a pensare che solo tre anni fa, in questo stesso giorno e in questa stessa ora, le vie del centro brulicavano di vita, piene di giovani e di studenti chiassosi che si dirigevano verso l'università, in quella che era una normalissima giornata, uguale a tutte le altre. Oggi, qui, di normale non c'è più niente: ci sono solo macerie, puntelli e qualche raro cantiere. E il silenzio. Nient'altro. Mi vengono i brividi a pensare che in tutti questi edifici pericolanti e cadenti non c'è più nessuno, solo una grande, grandissima desolazione. Non si riesce a comprendere pienamente tutto questo a parole: ti rendi conto della tragicità di questo avvenimento solo quando riesci a vederlo di persona, con i tuoi occhi. E io con i miei occhi ho visto una città triste e malinconica, un'aquila ferita che fa fatica a ricominciare a volare. Ma di sicuro la disperazione più grande l'ho colta negli occhi vuoti degli anziani che girovagavano senza meta in quel paesino una volta chiamato Onna. Oggi, con questo nome si indica solo un complesso di casette colorate messe a disposizione degli sfollati; la frazione di una volta ora non esiste più. È una visione inquietante. Sembra di essere in un allegro villaggio-vacanze, uno di quelli che si trovano al mare, con file di casupole tutte uguali. Mi viene da tremare: la dura realtà è completamente l'opposto. Questo è solo un paesino triste e senza vita. Non essendoci alcuna struttura sociale, la gente trascorre le giornate nei piccoli prefabbricati, chiudendosi sempre più nella propria malinconia. A Onna l'impatto del terremoto è stato tragico e devastante. Gli edifici rimasti in piedi in tutta la piccola frazione si contano sulle dita di una mano. Da ogni residuo di muro, da ogni cumulo di macerie traspira un grande sentimento di tristezza, quello di un paese che muore. La forza della natura è così, incredibile ma spaventosa al tempo stesso. Mentre mi aggiro tra le rovine, un anziano si avvicina. Con uno sguardo silenzioso che vale più di mille parole mi indica la sua casa. O meglio, quella che una volta doveva essere la sua casa. Ora, là, al primo piano, si vede solo una porta che si apre sul vuoto e qualche muro pericolante, destinato a franare a terra al minimo soffio di vento. Mi viene da piangere quando, con gli occhi lucidi e la voce flebile e tremante, comincia a raccontarmi la sua vita. Dev'essere davvero devastante per le persone più anziane. Il terremoto ha distrutto le loro abitudini e le loro certezze. Per la ricostruzione sono previsti tempi molto lunghi, quindi difficilmente riusciranno a tornare alla vita di una volta: non avranno più la propria casa, il proprio paese o, soprattutto, le proprie amicizie e la propria famiglia. Quel sisma maledetto delle 03:32 ha cancellato le loro gioie. Fortunatamente, però, non è così per tutti. Ci sono anche molti giovani volenterosi che si stanno adoperando al meglio per ricostruire la città. La loro città. La ricostruzione deve ripartire dalla loro speranza e dalla loro voglia. Loro sono il motore indispensabile per ripartire e il tempo è dalla loro parte. L'Aquila ferita deve ricominciare a volare, per librarsi alta nel cielo come ai bei tempi. Ma per intanto, noi, tutti insieme e non in base ai nostri interessi, dobbiamo prenderci cura di lei per guarirla e curarla.

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L'Aquila. Stiamo ancora cercando di capirlo. Venne anche George Clooney e lui aveva promesso di girare un filmdocumentario. L'ha fatto. È uno dei pochi che ha mantenuto l'impegno. Un film bruttino ma comunque l'ha girato. Attorno ai finanziamenti legati agli indennizzi e alla ricostruzione c'è ancora poca chiarezza. Cosa ha impedito una maggiore trasparenza? Ci sono ancora oggi tante centrali gestionali molto accentrate. La città è ancora commissariata, siamo all'interno di una visione accentratrice dove si decide dall'alto se fare una nuova città, si decide dall'alto dove ti faccio vivere, che pentole usi, si decide anche chi appalta, tutto con l'idea che questo garantiva di più la trasparenza ed invece è stato arrestato per infiltrazione proprio il provveditore alle opere pubbliche. Poi, si è creato un imbuto mefistofelico che crea ritardo perché in un'unica struttura devono passare gli appalti pubblici di tutti i comuni e delle province e così si è intasato. Cos'ha differenziato una ricostruzione veloce come quella in Friuli rispetto a voi? Anche in Friuli e nelle Marche ci hanno messo un po' di anni, nelle Marche una decina d'anni, quindi il processo di ricostruzione è lento. In Friuli però di buono è che la gente non se ne è andata, si è sentita coinvolta. Lì il processo è stato completamente diverso: tutto alle autonomie locali, alle regioni, alle province e ai comuni. Qua invece noi siamo ancora commissariati. Oltre ad avere avuto la sfortuna di avere il terremoto, ci siamo collocati in una fase storica in cui c'era questa visione di accentrare le decisioni e così c'è stata la figura del Capo della Protezione Civile, che è stato anche efficiente nei primi tempi, però era una sorta di Deus ex machina, una sorte di Padre Eterno che

che altro una spesa, soldi sostanzialmente buttati? Per esempio avevamo letto di 480 euro per ogni penna. Il G8 all'Aquila ha fatto sicuramente risparmiare allo stato italiano. Se lo avesse fatto senza sperperi avrebbe risparmiato enormemente, perché solo in termini del viaggio noi siamo attaccati a Roma. Quando ci hanno proposto il G8, io e il sindaco abbiamo detto di sì. Ci è stato proposto a giugno e noi avevamo già notato un abbassamento dell'interesse nei confronti del dopo terremoto. Sapevamo che quando succede una tragedia, nell'epoca della comunicazione di massa, se non si è al centro dell'attenzione non si è nessuno. Noi non solo siamo stati dimenticati, ma si è raccontato all'Italia che la ricostruzione era stata fatta: beh, guardatevi attorno. Il G8 era un ottimo pretesto per attirare di nuovo l'attenzione su di noi e riproporre L'Aquila nel mondo. Ed ha funzionato? Durante il G8 ci furono fatte delle promesse che non sono state realizzate se non in piccola parte. Ci venne promesso che sarebbe stata fatta una specie di “lista di nozze” e ogni Paese avrebbe “sposato” un monumento. Il ministero stilò la lista: la Spagna doveva ricostruire il castello spagnolo, la Francia la chiesa delle anime sante e così via dicendo. Abbiamo avuto molto più dalla provincia di Trento, ma molto di più, cioè cifre spaventose, rispetto a Paesi potentissimi del mondo che hanno fatto delle promesse e che poi non hanno mantenuto. Perché? Non siamo riusciti a capirlo. Forse perché il nostro ministero, la Farnesina, non ha stipulato gli accordi, forse faceva parte di un gioco: il governo, grazie alle donazioni, poteva vantarsi di risolvere i problemi di

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fa tutto, “ghe pensi mi”, perché tanto voi ci mettete tempo, siete stupidi, non sapete fare... e noi un po' stupidi a volte lo siamo, perché non è che affrontare la ricostruzione della propria città è una cosa facile, hai bisogno di aiuto, ma di aiuto, non di essere sostituito. Cosa vi state proponendo di fare per risolvere questo mancato coinvolgimento dei cittadini e la disoccupazione che si è venuta a creare dopo la chiusura di molti esercizi commerciali? Adesso stiamo predisponendo, con molto ritardo, degli strumenti. Il governo ha stanziato 90 milioni di euro per l'economia che verranno però gestiti dal commissario finché c'è, poi speriamo dagli enti locali, per dare incentivi alle imprese. In questo momento nel centro storico hanno ripreso meno di 50 attività, prima ce n'erano mille e di queste circa 300 hanno riaperto fuori dal centro storico, ma molte non hanno riaperto. In Friuli una cosa molto importante è stata l'impostazione: prima il lavoro, prima l'industria, mentre qua per l'industria si è fatto il provvedimento solo adesso. Si è parlato molto del fatto qualcuno aveva previsto il terremoto mentre altri, come Bertolaso, rassicuravano dicendo che tante scosse piccole avrebbero evitato la scossa grande. Lei da presidente della Provincia come vedeva la situazione? Dunque, io ero molto preoccupata prima del sisma e insieme al sindaco, qualche giorno prima del terremoto, avevamo chiuso le scuole perché a L'Aquila c'è una tradizione di terremoti, ogni 300 anni circa fa un terremoto devastante, l'ha fatto nel Trecento, l'ha fatto nel Settecento e stavano arrivando i 300 anni... si tratta di qualcosa di scientifico perché le faglie hanno una fase di accumulo. Quindi il lunedì prima del terremoto, il terremoto è

stato di domenica, ci fu una scossa molto forte, paurosa, erano le tre e mezza circa. Io e il sindaco eravamo nei nostri uffici che erano praticamente entrambi in piazza Palazzo, quasi di fronte. Ci chiamammo, uscimmo, facemmo evacuare. Il mio ufficio era dove c'era la biblioteca, piena di ragazzi, ce n'erano 350. Feci evacuare immediatamente la biblioteca, tutti gli uffici, tutti si riversarono in strada e decidemmo di chiudere le scuole. Il sindaco, quale autorità di Protezione Civile, inviò immediatamente una lettera al presidente della regione per chiedere una mano, per chiedere che stava succedendo. Il presidente della regione delegò l'assessore alla Protezione Civile, Daniela Stati , la quale chiese l'aiuto della Protezione Civile Nazionale. La Protezione Civile Nazionale mandò la Commissione Grandi Rischi. Il mercoledì arrivò la Commissione Grandi Rischi. Io non fui invitata a questa riunione, non si è mai capito il perché, invitarono tutte le istituzioni tranne la Provincia; quindi non invitata non andai. La sera in televisione vidi la conferenza stampa, provai un grande brivido perché tutti ci rassicurarono. Bertolaso non venne; adesso c'è un processo, io sono stata anche chiamata a testimoniare sia per le cose che ho scritto subito, sia per le cose che ho detto in quei giorni, mentre ve lo racconto soffro perché lì c'è stato un grave momento di sottovalutazione. La Commissione Grandi Rischi si tiene per mezz'ora, non analizzano nessuna carta, non guardano niente, discutono fra di loro. Alla fine di questa riunione durata quaranta minuti, normalmente durano ore, fanno una conferenza stampa il cui esito è: “Può esserci un terremoto, però è positivo questo sciame sismico in quanto sta scaricando energia”. In realtà ero molto angosciata, perché i nostri padri, ci dicevano sempre: “Quando fa il 142


terremoto tante volte arriva la scossa grande”, quindi i nostri avi ci avevano insegnato che quando arriva il terremoto bisogna uscire di casa, bisogna chiudere le scuole, bisogna proteggersi e così avevamo fatto. La Commissione Grandi Rischi ci rassicura, ci dice che tutto può iniziare tranquillamente, che “sta scaricando energia”, una frase che sta scritta proprio su tutti i verbali. Il vicecapo della Protezione Civile invita gli Aquilani a bersi un bicchiere di Montepulciano d'Abruzzo perché possono stare tranquilli, l'assessore regionale, la Stadi, che poi è andata sotto inchiesta per corruzione in vicende legate al terremoto perché le hanno regalato televisori e brillanti in cambio di appalti, fece un appello alle mamme, io sono anche una mamma di una bambina che allora aveva dieci anni, disse: “Vi parlo da mamma, io i miei figli li tengo a casa questa notte, state tranquille”. Io non gliela perdonerò mai questa cosa perché poi lei non è aquilana, quindi poi se ne è tornata a casa sua altrove. Abbiamo riaperto le scuole e tutta la vita è tornata normale. Ero molto preoccupata, però quando arrivano gli scienziati più importanti a dirti che devi stare tranquilla... Voi sapete che Giuliani aveva annunciato una scossa e fu denunciato dal sindaco di Sulmona per procurato allarme? Quando tu alzi la soglia dell'allarme addirittura puoi beccarti una denuncia, quindi noi buoni buoni abbiamo ricominciato la nostra vita ordinaria. Tra l'altro dopo la Commissione Grandi Rischi non ha fatto più una scossa per 4-5-giorni. La notte alle 11 fa una scossa molto forte, io ero a casa sul divano e dietro c'erano le cornici delle foto che cascano tutte quante, non era mai successo, nemmeno con la scossa del lunedì. Ovviamente mi alzo dal divano, chiamo il sindaco, intanto chiudiamo le scuole. Anche se ci avevano rassicurato

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avevamo fatto il piano di evacuazione, però doveva esserci l'ordine dell'evacuazione. Non avevamo nemmeno il prefetto che stava in pensione, i vigili in servizio erano dieci, che sono quelli che abbiamo normalmente di notte, sarebbero dodici ma due stavano in ferie. Poi fa un'altra scossa forte all'una, richiamo il sindaco, il mio direttore generale e dico “ Domani uffici chiusi”. Mi collego all'Istituto Nazionale di Geofisica, ma non dice niente, il tg3 dette la notizia di una scossa di terremoto altrove. Si torna a letto; alle 3 e 32 arriva questa bomba mostruosa... Ma la Commissione Grandi Rischi cosa aveva discusso? Solo dopo abbiamo scoperto che non c'era nemmeno un verbale, adesso sulla Commissione Grandi Rischi c'è un processo, che non è un processo alla scienza come qualcuno ha detto, non è che agli scienziati si rimprovera di non aver previsto il terremoto, perché il terremoto non è prevedibile, il punto è che ci avevano proprio rassicurato, ci avevano detto che quello che stava accadendo era una forma di scaricamento di energia, invece stava accadendo esattamente l'opposto. Sicuramente io mi porto dietro il cruccio di non aver manifestato ancora più brutalmente la mia paura pensando di sembrare solo un'isterica. Ma nessuno ha dato credito alle parole di Giuliani? A Giuliani si è dato credito, tant'è che abbiamo chiamato la Commissione Grandi Rischi. Durante una recente puntata di Presa Diretta si è visto come anche oggi le ricostruzioni delle case vengono fatte in zone che sono pericolose, in deroga alle normative, perciò non si rispetta a pieno l'antisismica. La norma che è stata fatta non ci fa ricostruire le case al 100% di sicurezza


ma al 60%, quindi lo stato copre fino al 60%, se tu la vuoi fare al 100% devi coprire la differenza, è la prima volta nella storia che si fa questa cosa. Su costruire sulle faglie o meno anche questo è discutibile, perché sulla faglia del terremoto a Pettino di cui parla Presa Diretta, su alcune cose ha ragione su altre no, perché avrebbe dovuto approfondire un po' di più. Sulla zona di Pettino ci sono edifici che il giorno dopo sono stati adibiti all'uso che avevano, l'Accademia di Belle Arti ha riaperto tre giorni dopo, è sulla faglia di Pettino, non è caduto nemmeno un pennello. La sede della regione, che sta sulla faglia a Pettino, ha riaperto un mese dopo, soltanto erano caduti libri e mobili. Di fronte all'Accademia di Belle Arti son morte delle persone in case degli anni '70. L'Accademia di Belle Arti è un bunker,

quindi il problema è come costruisci, non è solo dove. Puoi costruire anche lì, però devi farlo con delle norme molto più rigide. Quando siamo andati a manifestare per avere almeno l'80% di sicurezza sismica non ne ha parlato nemmeno un giornale. Sta scritto sulla legge, non è un adeguamento sismico, ma un miglioramento sismico. Noi le scuole le facciamo sicure al 100% e ci rimettiamo di nostro, ma il cittadino privato li ha i soldi per farlo? Ecco perché ci si mette tempo, perché nel vaglio dei progetti non c'è la copertura totale della sismicità, quindi tu obietti, ma la legge dice che con il 60% la casa è agibile. Cosa farete per migliorare la situazione di vita e l'opportunità di lavoro dei giovani? Quali sono le sue speranze per il futuro e quali le sue aspettative? Foto di Laura Gretter

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Per i giovani abbiamo fatto un progetto che si chiama “Scuole aperte scuole attive”, per tenere le scuole aperte il pomeriggio e la sera per fare delle attività. Alcune scuole hanno assecondato questo progetto, altre no, perché alcuni presidi non sono stati disponibili. Poi stiamo costruendo delle strutture transitorie, ce l'hanno chiesto i giovani facendo un questionario in cui chiedevano di allestire due strutture nel centro storico: una come caffè letterario e l'altra sala studio, abbiamo allestito vari progetti culturali, uno particolarmente rivolto agli studenti universitari, dal 22 marzo i giovedì sera ci saranno spettacoli, cinema ed altro nel centro storico, perché la richiesta è di stare nel centro storico pur essendo disabitato, loro non vogliono stare nei loro quartieri e abbiamo anche allestito un sistema di trasporto pubblico che la notte li riporta a casa. Durante tutto l'anno abbiamo organizzato varie rassegne, varie iniziative, attività laboratoriali, però è poco, bisogna fare molto di. Io sono

ancora piena di speranze e vivo di costantemente con la contraddizione o avere delle speranze, ma constatand . La ente cem velo to che il tempo corre mol lla que è do ivan speranza che stiamo colt più he anc di ricostruire la città e di farla moderna e su questo abbiamo vari progetti, per esempio candidiamo ura nel L'Aquila capitale europea della cult tura dida can sta 2019 e per fare que liaio di abbiamo fatto un gruppo di un mig o emm volontari, attraverso cui vorr po' più motivare le persone ad essere un pare, protagoniste. La gente vuole parteci però bisogna dare le regole alla partecipazione, altrimenti diventa una non forma indistinta di protesta che poi è za ran coglie la concretezza. La spe irla stru quella di ricostruire la città ma rico non in maniera diversa, perché il tempo ha città La ce. trac iare passa senza lasc città una è non , ppo un problema di svilu versa, appetibile proprio per lo stato in cui della one razi quindi da una parte l'accele he anc ricostruzione, ma dall'altra creare quella nuove vocazioni, quella culturale è te. per cui stiamo lavorando maggiormen

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ONNA GIUSTINO PARISSE

VINCENZO ANGELONE GIUSTINO PARISSE, CITTADINO DI ONNA E CAPOREDATTORE DELLA REDAZIONE DI L'AQUILA DEL QUOTIDIANO «IL CENTRO». DURANTE IL TERREMOTO HA PERSO I SUOI DUE FIGLI, MARIA PAOLA DI 16 ANNI E DOMENICO DI 18 ANNI, E IL PADRE DOMENICO DI 75 ANNI. IN QUESTI ANNI HA CONTINUATO A RACCONTARE CON PROFONDITÀ E LUCIDITÀ I PROBLEMI E I DRAMMI DEL DOPO TERREMOTO. ALCUNI SUOI SCRITTI SI POSSONO LEGGERE NEL SUO BLOG: WWW.PARISSE-ILCENTRO.BLOGAUTORE.REPUBBLICA.IT VINCENZO ANGELONE, CITTADINO DI ONNA E PRESIDENTE DELLA LOCALE PRO-LOCO DAL 2008. Municipalizzata, che smaltiscono le macerie seguendo le norme della raccolta differenziata. Ora viviamo nel villaggio realizzato dalla Provincia Autonoma di Trento. Rispetto al progetto c.a.s.e., condomini in cui tutto è davvero anonimo, da cui le persone escono la mattina e rientrano la sera senza salutarsi e senza alcuna possibilità di vedersi, se non quando si va a gettare i rifiuti nei cassonetti, noi siamo riusciti a mantenere un tessuto sociale molto stretto, assegnando gli alloggi con la particolare attenzione di mantenere il vicinato originale. Quindi il terremoto ha unito i cittadini, più che creare ulteriori divisioni? Giustino Dunque, premettendo che L'Aquila, con le sue 64 frazioni, è uno dei Comuni più grandi per estensione territoriale in Italia e che c'è una mentalità diversa per ogni borgo, posso certamente dire che noi di Onna siamo fortunati, perché abbiamo un intrinseco attaccamento e amore verso il nostro

la e in Ieri mattina siamo stati a L'Aqui ie. alcuni vicoli c'erano ancora macer avete Giustino Sì, L'Aquila è quella che ci non e dov lì, sta visto, una città che e dell te par abita nessuno. La maggior duli persone vivono nei m.a.p. (mo i abitativi provvisori) oppure nei pian tenibili c.a.s.e. (complessi antisismici sos dei ed ecocompatibili) che sembrano condomini enormi. Il tema centrale di questo nostro o viaggio è la ricostruzione, non sol lla que quella urbanistica, ma anche personale e del tessuto sociale. che Vincenzo Grazie per l'esperienza e dov , uila L'Aq a qui siete venuti a fare ge reg si ico stor avete visto che il centro to men tella pun ancora in piedi fra qualche Qui uto. e qualche palazzo che non è cad ad Onna potete vedere la distruzione à totale, spazi, dove, anche se vi potr delle ano c'er fa i ann tre sembrare strano, e olite dem case. Molte sono state li del tutt'oggi ci sono due squadre di Vigi Fuoco, coadiuvate dall'Azienda 146


territorio che ci ha portati, con il sostegno del governo tedesco a imporci per rimanere qua, sfuggendo così all'originale progetto di essere destinati agli alloggi del progetto c.a.s.e.. È stato “inventato” questo villaggio sul cui modello tanti paesini circostanti si sono basati per la loro ricostruzione. Anche tutte le manifestazioni, feste patronali ed attività culturali che organizziamo ora, in collaborazione con la Pro Loco, vengono fatte mantenendo una certa vicinanza con il vecchio paese. Oggi Onna com'è strutturata? Vincenzo Nel villaggio ci sono 94 abitazioni, due per ogni blocco abitativo, in cui alloggiano dunque 188 famiglie, poi ci sono 10 famiglie rimaste in quella che costituiva la nuova periferia che si stava sviluppando prima del terremoto. Queste case, fatte in cemento armato, hanno retto e sono abitabili. Giustino Vincenzo vi ha presentato il nostro villaggio, ma va ricordato che prima del 6 aprile Onna era una frazione semisconosciuta anche per il Comune dell'Aquila, figuriamoci per l'Italia. Dopo il terremoto, nostro malgrado, siamo diventati noti dentro e fuori l'Italia. Un aneddoto che racconto sempre, riguarda una cosa che mi colpì particolarmente: il 28 aprile 2009 venne qui a Onna Benedetto XVI e mi ricordo che il TG1 quella sera titolava: “Benedetto XVI a Onna”, non a L'Aquila, ma a Onna. Questo fu forse il momento in cui mi resi conto che la tragedia che ci aveva colpito era qualcosa di assurdo e molto più grande di noi. Onna è stata tra le zone maggiormente colpite. Giustino La notte del 6 aprile nel centro storico vivevano circa 300 persone, 40 non ce l'hanno fatta. Naturalmente ci sono state famiglie più colpite e famiglie meno colpite, ma credo che a Onna non

ci sia una persona che possa dire che quella notte non ha perso nulla, sia a livello umano che materiale. A distanza di tre anni diventa anche difficile raccontarlo. Il terremoto per chi non lo subisce sulla propria pelle è uno spettacolo, i 40 morti hanno fatto audience, da un giorno all'altro siamo stati invasi non solo da giornalisti italiani, ma da tutta Europa e persino dal Giappone, e tutti ci chiedevano come stavamo e com'era il nostro dolore. La mia storia poi è apparsa fra le prime, già la mattina del 6 aprile, poiché i miei colleghi giornalisti lo sapevano e hanno subito diffuso la notizia; per questo motivo ero cercato praticamente da tutti. Questo spettacolo ebbe molto impatto sull'opinione pubblica e per questo – che vedo più che altro come un paradosso della storia - ne rimase colpito anche l'ambasciatore tedesco in Italia. Dovete sapere che in piena seconda guerra mondiale, l'11 giugno 1944, mentre l'esercito tedesco era in ritirata, qui a Onna si verificò una strage nazista, una delle tante stragi naziste di quel periodo. Furono uccise 17 persone, proprio nel centro storico, e il paese fu minato e distrutto. Il 12 giugno del '44 Onna era quindi molto simile a come è oggi. Per questo motivo ci fece visita l'ambasciatore tedesco e a questo seguì un notevole impegno da parte della Germania; arrivarono donazioni da grandi imprese come la Siemens e la Volkswagen ma anche da privati cittadini. Il governo federale ha poi versato 3,5 milioni di euro per la ricostruzione della chiesa, il cui recupero non è però ancora iniziato a causa della lenta burocrazia italiana (n.d.r. i lavori sono partiti nel maggio 2013). Tutto questo ha contribuito a fare sì che i cittadini di Onna potessero rimanere a vivere nel proprio paese?

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Giustino Se Onna non avesse avuto i 40 morti, qua non ci sarebbe più niente e chissà dove saremmo noi, probabilmente sparsi in varie zone. Bisogna capire la filosofia che c'è stata dopo il terremoto. Il 6 aprile, ore 3.32, arriva la scossa, 309 morti, 1500 feriti e 100.000 persone senza una casa. Nei primi due giorni diverse persone furono portate negli alberghi della costa abruzzese con centinaia di pullman, altre rimasero nelle 119 tendopoli allestite. Nei giorni immediatamente successivi si doveva trovare una soluzione per il futuro più lontano; la Protezione Civile, che per nove mesi ha avuto il potere assoluto, assieme al governo Berlusconi che dal punto di vista dell'organizzazione dello spettacolo non è secondo a nessuno, presero dunque la decisione - che voi ricorderete per il grande impatto televisivo che ha avuto - di realizzare l'idea berlusconiana di una New Town, una “nuova città”, in una piana a 5 km da qui. Questa cosa per fortuna fu frenata dal Comune che evidenziò l'impossibilità di portare tutti gli abitanti del comune dell'Aquila in una città che già era prevedibile sarebbe diventata una città dormitorio con migliaia di appartamenti. Si decise al suo posto di costruire 19 piccole New Town in varie parti del territorio comunale, dove ora vivono 15.000 persone. Altre 5.000 poi stanno nei m.a.p., le casette provvisorie di legno come qui ad Onna. In realtà per Onna non era previsto nulla. In quei giorni scrissi un articolo, a cui il capo redattore e il direttore diedero molta importanza fino a metterlo come titolone della prima pagina: «Onna non avrà le case». Si scatenò così una ridda di reazioni da Bertolaso al sindaco che poi decisero di costruire anche qui le case. Subentrò però il problema dei fondi per costruirle, poiché lo Stato aveva destinato il sussidio

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(833 milioni di euro) al piano c.a.s.e. e non ai m.a.p.. Intervenne la Croce Rossa con una raccolta fondi (in gran parte dal Canada), con cui, su un terreno allora donato in comodato d'uso dalla famiglia Pica Alfieri, venne costruita la nuova Onna, ricalcando il disegno urbanistico del vecchio paese. Duecentocinquanta persone vivono qui dal 15 settembre 2009, giorno in cui, con squilli di tromba e grandi dirette televisive, Berlusconi inaugurò il villaggio, quattordici giorni prima della data prevista, poiché voleva dare un segno concreto di rilancio. Questo desiderio di magnificenza fece si che i lavori subirono una notevole accelerazione spesso a danno della qualità delle costruzioni, non tanto a Onna dove ha operato bene la Provincia Autonoma di Trento, ma in altre zone del territorio. Berlusconi ha parlato con lei? Giustino Sì, ci ho parlato diverse volte e devo ammettere che se dovessi giudicare Berlusconi da come l'ho conosciuto io e da come si è rapportato con me, lo voterei, perché è sempre stato molto cordiale, mi chiedeva sempre: “Dottore buongiorno, come sta?”, “Cosa le serve?”… Lei pensa che il dramma di Onna o comunque del terremoto sia stato strumentalizzato? Giustino Certo, è chiaro che è stato strumentalizzato. Innanzitutto vi porto l'esempio di Berlusconi, che ogni volta che è venuto c'era sempre una diretta televisiva. A luglio 2009, quando è venuto qua con la Merkel, impegnata nel G8, è stato addirittura creato un grande evento televisivo in cui noi parenti delle vittime siamo stati posti come cornice alla loro visita. Noi in quel momento non ci rendevamo conto di essere usati; prendete per esempio una persona come me, che allora aveva 50 anni, che si è


Foto di Elisa Bianchini

20.03 ORE 11.15 STIAMO PASSEGGIANDO PER LE VIE DESERTE DI ONNA, UN PICCOLO PAESE A POCHI KM DA L'AQUILA... È IMPRESSIONANTE... CAMMINI E NON C'È NIENTE, MA PROPRIO NIENTE!!! NON UNA CASA RIMASTA IN PIEDI... MA CI PENSI SE SUCCEDESSE A NOI?? È INIMMAGINABILE...DA UN GIORNO ALL'ALTRO PERDERE TUTTO E TUTTI...HO I BRIVIDI...

costruita una casa, ha una professione, ha fatto dei sacrifici, ha una bella famiglia con due figli di 18 e 16 anni cresciuti in salute, un padre che sta ancora bene, una vita davvero felice, che tutto ad un tratto nonostante si trovi a casa sua, il posto che lui ha costruito e che dovrebbe essere più sicuro per tutti, soprattutto per i propri figli, in 23 secondi perde la famiglia, la casa, il paese e altri 38 compaesani. Perde tutto, cioè la sua storia sparisce. Ho perso mio padre e i miei figli; fino alle 7 e 30, quando hanno estratto mia madre dalle macerie, pensavo che fosse morta anche lei. Sperando che non vi scandalizzi, ma è un aneddoto che ben esemplifica la situazione, vi racconto che io dormo in pigiama, ma senza slip; quella notte fra le macerie ero senza slip! C'è un altro episodio che racconto sempre: premetto che né prima né dopo il

terremoto ho mai accettato un cen tesimo da nessuno, ma la mattina dopo il terremoto un mio collega, Lorenzo Colantonio, venne a Onna e vedend o la mia situazione mi mise in mano una banconota da 100 euro. Non avrei mai accettato quella somma, ma in que l momento mi sentivo così perso che li presi, pensando che chissà, magari mi sarebbero serviti poi per comprare dei calzini o delle mutande… In questa situazione disperata è chiaro che tutti siamo stati strumentalizzati, la trag edia viene sempre strumentalizzata. Ade sso siamo ancora più strumentalizzati e la situazione è addirittura peggiorata. Il dolore di quei giorni non è sparito, le immagini, i ricordi, il grido di mio figli o mi è impresso ancora nella mente, non ce ne scorderemo mai, ci segnerà per tutta la vita e ci massacra ogni giorno, anz i, ogni minuto. Tuttavia, nostro malgrado, la politica, le macchine dell'informazion efra cui io stesso sono inserito – han no

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prima strumentalizzato, per passare adesso alla speculazione. Poi però ci sono tante persone che sono venute e hanno dato una mano senza chiederci nulla, con cui sono rimaste delle amicizie solide; per farvi capire, l'anno dopo il terremoto io sono stato invitato in tutt'Italia e credo di non aver mai viaggiato così tanto. Anche in questo può esserci sempre quell'aspetto di strumentalizzazione, anche il fatto che voi siate venuti a cercare proprio me ha un motivo preciso, la storia che mi è successa, il mio mestiere. Io so di essere in questa situazione e più volte mi sono prestato, consapevolmente, a essere strumentalizzato, ma l'ho sempre fatto per far restare alto l'interesse , anche mediatico sulla tragedia, per far si che l'Italia non ci dimentichi. Non sempre è questione di volerla strumentalizzare. Giustino Premetto innanzitutto che c'è una ragione ancora più grande. Dopo il terremoto mi sono chiesto che senso avesse la mia vita, dopo che avevo perso tutto. Ieri per esempio era il 19 marzo, festa del papà; io non ho potuto fare auguri né ho potuto riceverne. Pensate al dramma di una persona che sta in queste condizioni. Per me ieri è stata una giornata pazzesca, mi sono immerso nel lavoro per non pensarci. Un prete mi ha mandato un messaggio facendomi gli auguri e dicendo che comunque resto un padre e un figlio. Devo dire che quel messaggio, anche se so che era stato fatto in buona fede, mi ha dato più fastidio che altro. Ora vorrei tornare alla questione principale, senza divagare nel personale, si parlava delle New Town e dell'imposizione della Protezione Civile. Ad un certo punto si è scoperto che non erano neppure sufficienti e tante persone

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sono rimaste negli alberghi. Un'altra soluzione per risolvere questa mancanza di posti fu l'autonoma sistemazione, che garantiva un piccolo contributo a chi trovava ospitalità presso un parente ma che doveva comunque sottostare a determinate spese. Come al solito si sono visti casi vergognosi, gente con stipendi di 7000 euro al mese e la casa al mare, ma che usufruivano comunque di questo sussidio. Dal momento che neanche questo bastava, vennero ascoltati i desideri dei cittadini delle frazioni, soprattutto quelle ad est della città (la zona di Onna), che avevano insistito per rimanere nei loro territori e vennero così realizzati questi m.a.p. in molti paesi qua vicini. Ognuno quindi ha avuto un tetto, ma molti solo tra marzo e maggio 2010, ben un anno dopo. Dove sono state trovate le risorse per i ma.p. di Onna? Giustino La Croce Rossa ha messo a disposizione 5 milioni di euro con cui la Provincia Autonoma di Trento ha costruito 94 alloggi. Qui sono venuti moltissimi trentini che hanno lavorato benissimo; i migliori m.a.p. sono infatti quelli realizzati dal Trentino. La Provincia Autonoma di Trento ha poi realizzato, di sua iniziativa, diverse chiese, fra cui quella di Onna. Si sono susseguiti quindi molti tecnici, ingegneri e lo stesso presidente della Provincia Dellai. Il Presidente Dellai si è presentato con “squilli di tromba” e un seguito di televisioni come il Presidente del Consiglio? Giustino No, devo dire che è stato sempre molto discreto. Per un Presidente, comunque, un po' di attenzione è normale che si formi, ma senza nessuna diretta. Berlusconi è incredibile; dirette televisive, battute… Una sera a «Porta a Porta» mi disse: “Ma è vero che suo figlio tifava Milan?” Non so


come sia arrivato a saperlo, non so da chi si sia informato, eppure nel rapporto personale, ripeto, lui è un esperto; d'altro canto se ha governato l'Italia per 15 anni vorrà anche dire che carisma ne ha. Ho assistito a molte scene di anziane “innamorate” che lo hanno ampiamente lodato. Oltre ad Onna, la ricostruzione com'è stata gestita? Giustino Il 1 febbraio 2010 è finita la gestione della Protezione Civile, Bertolaso è uscito di scena, ma sono iniziati i problemi legati alla politichetta locale con i propri piccoli interessi. Questo ha causato il blocco della ricostruzione; è stata portata a termine la ristrutturazione delle case A e B, quelle che hanno avuto solo danni limitati. Questo processo ha funzionato perché il Comune aveva stanziato dei finanziamenti (con un tetto di 10.000 € per le case A e 80.000 € per le B) che ha sempre elargito dopo una perizia di un tecnico. Purtroppo, anche in questa situazione, sono stati molti i casi in cui i cittadini hanno approfittato per dare un nuovo look alla casa. Addirittura c'è stato qualche cittadino che, per aumentare i valori dei danni alla propria abitazione, ha volontariamente danneggiato qualche piastrella o parete. Il problema è sorto sulle case E, quelle crollate o gravemente danneggiate; alcune dovevano essere abbattute, altre dovevano essere sistemate con interventi pesanti. Occorrevano interventi importanti, l'ausilio di esperti e tecnici. Lì ci si è iniziati a dividere. Per prima cosa sono state distinte le case E del centro storico e quelle periferiche; quindi i centri storici sono stati perimetrati, mentre i lavori dovevano cominciare sulle case periferiche. Usciti i bandi per la ricostruzione delle case E fuori dai centri

Foto di Fiorella Turri

storici, sono stati presentati i progetti e la situazione si è subito bloccata, poiché l'ingegnere doveva sottoporre la pratica ad una filiera composta da tre società: Fintecnica, Reluis e Cineas che dovevano esaminare e approvare la pratica. La cosa ha comportato un notevole spreco di tempo, inoltre molti progettisti hanno tentato varie "furbate" e quindi molte pratiche sono state corrette o riviste. Fino ad oggi, delle diecimila pratiche ne sono state approvate settemila. Il problema restano comunque i centri storici, che si ritrovano i piani già pronti, ma sono rimasti senza fondi. La previsione più ottimistica è quella di

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iniziare i lavori nell'aprile 2013 (n.d .r. rinviato al 2014) e poi altri 5-10 ann i per la ricostruzione vera. Per il centro stor ico dell'Aquila parliamo almeno di quin dici anni. In sintesi, la ricostruzione importante deve ancora partire e i privati che volevano ricostruire le proprie case nei centri storici a proprie spese son o stati fermati. Inoltre, vista la massa di sold i stanziati, l'idea di molti è quella di arricchirsi grazie al terremoto. Un'idea non solo di imprenditori, ma anche di cittadini aquilani, incapaci di guarda re al futuro. Ieri, parlando con l'assessore Pezzopane, abbiamo avuto l'impressione che il Comune abb ia avuto in questa vicenda le mani legate e che le responsabilità dei ritardi nella ricostruzione dovrebbero essere attribuite piuttosto al Governo... Giustino È chiaro che l'assessore Pezzopane, essendo in politica, cerc hi di scaricare parte delle responsabilità sul Governo. Ma in questa vicenda non va cercato un colpevole. È proprio il contrasto tra enti e persone che ha bloccato lo sviluppo. Quello che con testo ai nostri amministratori è che la ricostruzione della città non sta avvenendo in maniera ordinata, ma piuttosto casuale. Pensate solo ai m.a.p. e ai progetti c.a.s.e. sorti in luoghi molto distanti tra loro, privi di bar, negozi e autobus... Sono rimaste solo le "ten de amiche" del ministero dell'Interno e della Caritas, ma sono deserte. Gli anziani stanno affacciati al balcone o al mas simo fanno due passi, i bambini girano per strada in bicicletta. È desolante. Ciò che mi sforzo di fare presente ad ogni incontro pubblico a cui partecipo è che non stiamo ricostruendo L'Aquila per noi, ma per le generazioni future. A loro dobbiamo pensare, affinché non sian o costretti ad andarsene, come molti stanno

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purtroppo facendo. Voi ora da Trento vi trasferireste all'Aquila? Perché un giovane aquilano dovrebbe rimanere in una città senza prospettive, senza lavoro, senza futuro? Tra i giovani stanno emergendo problemi sociali mai visti prima: risse, droga, molestie a danni di ragazze della vostra età, alcol... A lei, dopo il terremoto, non è mai venuta voglia di andarsene? Giustino Io avevo ricevuto l'offerta, dal direttore del mio giornale, di andare a Pescara a fare il caporedattore. Ho rifiutato, poiché credo che il mio posto sia qui, è una vita che sono qui e ormai ho cinquant'anni, ho qui la mia casa e la biblioteca che mi sono costruito. Ma se mi metto nei panni di un giovane cosa rimarrei a fare? Qui ad Onna ci sono cinque o sei ragazzi della vostra età. Sono bravi ragazzi, ma gli manca l'energia e la voglia di fare tipica dei giovani. Noi dobbiamo dare loro una speranza, facendo un atto di altruismo e andando oltre alla soddisfazione personale di vedere il nostro paese a cui vogliamo bene finalmente ricostruito. La mia famiglia è qui almeno dal Settecento e anche io non me ne sono andato. Avevo ristrutturato la casa poco prima del sisma e questo è uno dei miei più grandi sensi di colpa nei confronti dei miei figli; al momento della scossa stavano in quello che doveva essere il posto più sicuro al mondo: la loro casa. Io avevo investito tutti i miei stipendi di giornalista in quella casa che non c'è più. Quello che io ritenevo una fortuna si è rivelata una sfortuna. Io mi ritenevo un privilegiato a vivere lì... Però sarebbe stato troppo facile andarsene, provare a dimenticare tutto. Ma i miei figli sono qua, i miei ricordi sono qua. Certo ho avuto i miei momenti bui, li ho tutt'ora, ma credo che solo qui posso dare un senso alla mia vita. Per ricostruire il mio paese, il luogo dove sono


nato e dove si trova la casa dei miei genitori, dei miei nonni, dei miei trisavoli... ho il dovere morale di consegnarlo alle generazioni future. In un mio libro ho scritto che per l'uomo la morte è la benzina della vita. Sembra incredibile ma è così, dopo ogni tragedia si va sempre avanti, nascono nuovi figli. Solo qui la mia vita può avere un senso. Leggendo un suo articolo abbiamo potuto notare un'affezione particolare per la sua biblioteca: cos'ha di speciale? Giustino Prima del terremoto avevo tre figli: due mi sono stati portati via, la biblioteca è l'unica cosa che sono riuscito a salvare ed è l'unico figlio che mi è rimasto. La stessa risposta l'ho data ad una giornalista del tg1 che mi aveva visto rovistare tra le macerie alla ricerca dei miei libri. Ho cercato di salvare dalle macerie tutto ciò che apparteneva ai miei figli, quaderni, oggetti vari... tre giorni fa ho ritrovato tra le macerie l'orologio di mia figlia, Maria Paola, con le lancette ferme... devo cambiargli la batteria. I pompieri

avevano messo tutto ciò che avevano trovato all'interno di sacchetti neri e li avevano lasciati nell'unico punto rimasto in piedi della casa. Un giorno sono andato a recuperarli, come un barbone che cerca da mangiare. Ho conservato per esempio i temi dei miei figli, dalle elementari alle medie e che non avevo mai letto, come tutti i padri. Trovai questi temi scritti in maniera molto ordinata e sono rimasto colpito dalla loro qualità. Ho preso i trenta più belli ed interessanti, scritti da mia figlia, e ne ho fatto un libro che è uscito il 10 maggio, data del suo compleanno. Ma voi vi sentivate sicuri nelle vostre case anche dopo le prime scosse di allarme? Giustino Come forse sapete su questa questione è in atto un processo del quale io sono parte civile, dato che ho sporto denuncia pure io. Noi eravamo sicuri che le nostre case avrebbero retto. Eravamo stati rassicurati sulla intensità non forte delle scosse, dalla commissione «Grandi Rischi», poi c'era anche una sicurezza tramandata dai nostri genitori che

Foto di Laura Gretter

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siano trattati in futuro con maggiore attenzione, permettendo di salvare qualche vita umana in più. Perché Onna è stata colpita così duramente dal sisma? Giustino Onna è situata su una faglia. Immaginate una frusta. Onna è alla fine della frusta e ha preso il colpo più forte, anche perché il terreno su cui sorge è una piana alluvionale. Inoltre siamo circondati da due fiumi, non c'è roccia sotto. Dimostrazione di ciò è che Monticchio, un paese a due chilometri da qui, non ha registrato morti, poiché sorge sulla roccia. Al terremoto si è sommata l'onda d'urto che ha spostato letteralmente il paese verso il fiume. Se la situazione oggi è ancora così tragica, a cosa sono serviti secondo lei questi tre anni? Giustino A nulla, salvo dare un tetto alle persone. Ma non c'è nulla dal punto di vista sociale. In più anche i m.a.p. che erano sembrati a tutti, me compreso, dei piccoli palazzi, dopo tre anni hanno reso evidenti i propri limiti nelle dimensioni - da 42 a 70 mq per le famiglie più numerose e nel fatto di non essere una cosa tua. È una follia vivere 15 anni nei m.a.p., va benissimo come prima soluzione d'emergenza, anche troppo, ma non può andare bene per sempre! È vero che lo

Foto di Laura Gretter

dicevano che le case si sarebbero sorrette l'una con l'altra in caso di terremoto anche se poi in caso di scossa ci facevano sempre scappare fuori. In più io nel 1980, anno del terremoto dell'Irpinia, ero di leva con gli alpini e mi ricordo che andammo lì e le scosse di assestamento continuavano. Anche quella esperienza mi aveva tolto un po' di ansia da terremoto. Ha mai creduto alle previsioni che avevano dato per probabile un evento simile? Giustino No, perché la scienza ci aveva detto che non ci sarebbe stato un sisma forte. Avevo parlato con Giuliani, che dai rilievi della concentrazione di Radon nel sottosuolo aveva avuto l'intuizione che sarebbe potuto accadere qualcosa, ma non cosa sarebbe accaduto. La sensazione che ha avuto lui non è stata avvertita dagli esperti della commissione. Gli indizi c'erano: sciami sismici sempre più intensi, sismicità storica, concentrazione in aumento di Radon. I veri esperti sono venuti con l'unico scopo di rassicurare la popolazione, anziché mettere in allarme la popolazione. Io non credo che li condanneranno, ma questo processo è importante, affinché casi simili

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lo Stato ha fornito le case nuove, ma ti. aveva fatto anche con gli altri terremo lle Ciò che è diverso è che mentre que la no han ste erano baracche, que o lavatrice, lavastoviglie, frigorifero pien gio sag mes con tanto di spumante con un i dolc di Berlusconi e una confezione di e locali, ogni cosa. Pensate, trovai pur ! tina tren nta pole di delle confezioni tito Lei, in quanto giornalista, si è sen ? iato un osservatore privileg Giustino No, perché il privilegio sono presuppone qualcosa di diverso. Io un testimone, perché ho vissuto il terremoto sulla mia pelle. Dopo il da tutto terremoto sono venuti qui colleghi di a ndic rive il mondo e ognuno di loro o le sott ero essere arrivato per primo. Io al i macerie. La prima cosa che diss fare il collega che venne a casa mia fu di parte, suo lavoro. Io mi sentivo dall'altra in , Poi sta. nali non mi sentivo un gior re onta seguito, ho deciso di racc

direttamente la mia esperienza e ho continuato fino ad oggi, dando una continuità alla testimonianza della nostra situazione anche quando i miei colleghi sono tornati alle proprie case, alle proprie famiglie, tra le loro comodità. Questa invece è la mia realtà. Il fatto di essere testimone e giornalista allo stesso tempo ti dà la forza nel tempo di fare l'osservatore critico per vedere e raccontare ciò che accade, attaccando i politici da testimone che ha vissuto il terremoto sulla propria pelle. Parlo per esperienza diretta, perché incontro persone, vedo cose, mi informo. Noi abbiamo un dovere, quello di accompagnare la ricostruzione. Non dobbiamo fare scoop. In questo momento sono arrabbiato, perché è tutto fermo. Il dolore poi è un fatto personale, chi pochi giorni dopo è tornato alla propria casa può comprendere, avere pietà, ma non prova le stesse cose. Foto di Fiorella Turri

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NUNZIATINA COLAIANNI NUNZIANTINA COLAIANNI, CITTADINA DI ONNA, LA SUA FAMIGLIA RISIEDE A ONNA DA MOLTE GENERAZIONI. NEL TERREMOTO HA PERSO QUINDICI PARENTI, TRA CUI LE NIPOTI SUSANNA DI 16 ANNI E BENEDETTA DI 26 ANNI.

Com'è la vita in queste strutture? È piatta. Siamo scoraggiati, sfiduciati. Viste le promesse fatte, ci aspettavamo qualcosa di più concreto, di più celere. Qui è passato lo Stato al completo e tutti hanno detto cose belle. Se fosse andato in porto tutto quello che avevano detto, ora Onna sarebbe come Parigi. All'inizio non ce ne rendevamo conto, c'era tanto frastuono, tutta questa gente che prometteva e che ha anche dato ma, adesso siamo rimasti così... Onna, rispetto ad altre zone, però ha mantenuto i propri abitanti ancora nello stesso luogo. Su questo siamo stati avvantaggiati, non ci hanno disgregato. Ci conosciamo tutti e siamo tutti molto legati. Questo è stato un bene. In realtà, quando si viveva nelle tende c'era più aggregazione, una volta sistemati nelle casette ci siamo rinchiusi tutti a riccio. Non c'è più quella comunione che c'era in tenda. Ora vedo qualcuno solo quando vado in chiesa. Ora come si vive ad Onna? Riprendere la quotidianità è stata dura. Non ci sono più gli affetti, non vedi più la tua gente, c'è un vuoto impressionante. Mia nipote Benedetta, la più grande, era... come definirla? Un ciclone, per carattere; 26 anni, nel fiore della vita, era molto bella; arrivava e subito: “Nonna, nonna, che cosa stai facendo?”; andava, apriva, chiudeva, chiedeva, prendeva... e io dicevo: “E calmati, datti una calmata!” ma

lei per carattere era così. Come si fa a non sentire un vuoto, un vuoto talmente grande che nessuno riesce a colmare, nessuno. Se esci per fare una passeggiata, poi quando rientri, la casa è fredda, fredda di affetti. Non trovi nessuno, manca proprio quel calore, quel contatto umano. Purtroppo ci dobbiamo abituare anche a questo. Così è stato il nostro destino. Prima dell'intervista però ci raccontava che quando nasce un bambino tutto il paese è in festa. Sì, il bello del paese è proprio questo: se c'è un funerale siamo tutti uniti, si fa la veglia, ci si ritrova tutti, parenti e amici. Quando nasce un bambino è festa per tutti e anche quando c'è un matrimonio. La vita di paese è bella perché c'è aggregazione, ma ora siamo tutti anziani, i pochi giovani la mattina vanno a scuola o lavorano. È un paese morto, un paese piatto. Non c'è niente: non c'è un divertimento, non c'è niente! Qualcuno è venuto ad organizzare teatro, feste, ci hanno distratto, però sono momenti, poi passano: un momento… e via. Dovete pensare che Onna è stata completamente distrutta. Ogni famiglia ha perso qualcuno, un cugino, un cognato, un figlio, non c'è famiglia che non abbia avuto un lutto. Io ho perso 15 persone di famiglia, comprese le nipoti, Susanna e Benedetta, che ho cresciuto io. È stata una tragedia immane, non ci si può

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pensare. Il mio pensiero va sempre alla perdita degli affetti, alla casa... un mio figlio mi dice: ”Mamma sono discorsi che non voglio sentire, tu devi soltanto considerare che potevi essere morta e sei viva”. Però la testa sta sempre lì, è inutile, nella testa ho sempre la mia vecchia casa ... è una vita, sono ricordi, ricordi dei miei avi e ricordi miei, sacrifici. Quando la mattina del terremoto mi hanno tirata fuori dalla macerie... rivedo ancora il cumulo di macerie, era enorme; quello che più mi ha dato fastidio è stato il silenzio, un silenzio... come quando nevica che sei tutta ovattata, così. E ho esclamato: “Rivivo il '44”, quando i nazisti uccisero diciassette persone e distrussero il paese. Una tragedia immane. Poi non avevo notizie dei miei figli, non potevo andare da mia figlia, ci divideva solo il giardino ma ora c'erano montagne di macerie da scavalcare. Anche sulle strade c'erano intoppi? Le strade erano tutte chiuse, le case erano crollate sulle strade. La mobilitazione ed i soccorsi sono stati lenti? Tanta gente dice che sono arrivati tardi. Si sentivano le sirene che passavano, però erano tutte dirette verso altri paesi, perché la tragedia di Onna era rimasta sconosciuta in quel momento. Tutti quei morti, eravamo impauriti, nessuno aveva potuto dare l'allarme perché non funzionavano i mezzi di comunicazione. Un signore si è fatto coraggio e ha detto: ”Passano tutte queste ambulanze, polizia, andiamo a vedere!” ed è andato sulla strada. La polizia passava a tutta velocità e hanno rischiato di investirlo. Quasi arrabbiato ha detto alla polizia: “Ma perché passate senza fermarvi? Onna è tutta distrutta”. I soccorsi sono arrivati in ritardo per questa ragione, ma quando sono arrivati hanno fatto del loro meglio. Quando mi hanno tirata fuori dalle

macerie ho subito cercato disperatamente i miei figli, mia figli a soprattutto che abitava vicino, per ché dicevo: “Strano che a quest'ora nes suno viene a vedere se sono morta o viva , allora saranno morti pure loro”. Chi edevo se avevano notizie, qualcuno sapeva della perdita delle mie nipoti, ma nes suno mi diceva nulla. Io, sempre dispera ta, sono salita su un cumulo di macerie con le ciabattine e con la camicia da nott e tutta strappata e ho scavalcato que sta montagna fra vetri, gas che usciva, acqua che zampillava, pezzi di legno... non so neppure come ho fatto. Sono scesa e ho riconosciuto il pavimento rosso dell a casa di mia cugina, ma qui non c'era nes sun cumulo di macerie, la casa era stat a come inghiottita e sotto di me si trov ava sepolta tutta la sua famiglia. Davanti a me avevano appena estratto il corpo di una ragazza, aveva una bambina picc ola e si era sposata da poco, suo marito era in piedi, come impietrito. Ci siamo abbracciati, ci siamo stretti e non ci siamo detti una parola, perché non uscivan o le parole. In fondo alla piazza c'era mio nipote che mi grida: “Zia dove vai, ti cade tutto addosso!”. Ma io ero disperata, dovevo trovare mia figlia, non trov avo uno sbocco, un buco, una strada per pote r andare da mia figlia. Non sapevo com e fare, stavo impazzendo e mi muovev o con difficoltà, ma non sentivo il dolo re, era più forte l'ansia che il dolore. Poi un conoscente mi ha sorretto e mi ha detto: “Aspetta che ti porto io da tua figlia.” Quando sono arrivata è stata una tragedia, ho trovato mia figlia in gino cchio che scavava con le mani, perché i soccorsi non erano arrivati. Poi piom bò un giornalista che mi chiese: ”Signor a, se la sente di rispondere a qualche domanda?” E allora ho detto: “Ma che vuole che le dica, basta che si gua rdi attorno, è una apocalisse!” Questa piccola intervista ha fatto il giro del 157


mondo, l'hanno vista parenti in Messico, in Australia... ero diventata internazionale e questo mi ha dato tanto fastidio. Quali sono le speranze per il futuro, quali sono le aspettative reali? Le mie speranze sono poche, sono anziana e mi auguro di vedere casa mia ricostruita, almeno in parte, ma ormai queste speranze vanno svanendo. Non ci sono prospettive per il futuro, non vedo roseo ma solo nero. Eppure. quando parlo con le altre persone della mia età dico che noi non dobbiamo farci vedere afflitti e senza speranza, ma dobbiamo dare coraggio ai giovani e far vedere che la vita continua. È come quando muore un capofamiglia, ai figli non devi far vedere che piangi, ma piangi di nascosto e devi far vedere loro che si va avanti; e la stessa cosa succede ora. Però questi giovani non hanno speranza, per esempio quelli che si sono laureati continuano a mandare curriculum a destra e a sinistra senza ricevere risposta e se rispondono è per dirti che non hanno bisogno. Non si trova un lavoro, vanno bussando a tutte le porte, anche per fare il lavapiatti ma nessuno li prende. Questi ragazzi vagano a vuoto col rischio di prendere una cattiva strada. È proprio questo il problema, il futuro dei giovani. È un altro disastro.

Foto di Laura Gretter

Foto di Elisa Bianchini

Noa Ndimurwanko

La data del 6 aprile 2009 segna l'a.C. e d.C. de L'Aquila. Non c'è un "2012", ma un "tre anni dopo il terremoto". La gente dice che qui il tempo si è fermato, nessun cambiamento, nessuna città. Prima di venire qui avevo una visione superficiale dell'accaduto. Se non avessi intrapreso questo viaggio non avrei potuto conoscere degli eroi come i volontari della «Protezione Civile 2009» o i componenti dell'associazione «Ricostruiamo Insieme», che fanno della loro desolazione uno stimolo per essere ancora più determinati nel voler cambiare le cose per vedere rinascere la loro città. E non avrei potuto vedere un uomo piangere mostrandoci le macerie della sua casa, che rappresentava i lavori di una vita, tanti sacrifici, i suoi ricordi e il suo futuro. Com'è possibile che il sudore sceso sulla fronte di quell'uomo per tutti questi anni ora abbia il valore di un cumulo di pietre al suolo? E perché la maggior parte dei ragazzi si sente così abbandonato da non trovare miglior rimedio per poter superare tutto questo se non con droga e alcol? Eppure la cosa che più mi ha colpito è che il popolo abbruzzese, nonostante il grave dramma che gli ha colpiti, preservi la sua calorosità e generosità in ogni momento.


PROTEZIONE CIVILE L'AQUILA 2009" DE FELICE STEFANO, GABRIELLA GIUSTI, RAMONA BARONE, ANTONIETTA ZITO L'ASSOCIAZIONE "L'AQUILA 2009", NASCE IN SEGUITO AL TERREMOTO DEL 6 APRILE 2009 GRAZIE ALLA VOLONTÀ DI PERSONE GIÀ VOLONTARI DELLA PROTEZIONE CIVILE, CHE HANNO SUBITO E VISSUTO L'EVENTO SISMICO IN OGNI SUA PARTE, E CHE, NONOSTANTE TUTTO, HANNO COLLABORATO SIN DALLE PRIME ORE DI "QUELLA NOTTE" NELLA RICERCA DEI DISPERSI SOTTO LE MACERIE, NELLA GESTIONE DEGLI AIUTI E DEI CAMPI DI ACCOGLIENZA.

Come Protezione Civile cosa avete fatto durante i primi soccorsi? Gabriella Nei primi giorni mi sono occupato della ricerca dei dispersi, di aiutare nei campi, montare le tende, pulire nelle mense, rispondere al telefono nella sala operativa, lo smistamento dei generi alimentari… nei primi giorni la gente non mangiava molto, si cercava di stare insieme, di superare il dramma assieme. Per l'anima sociale dell'uomo vi è bisogno dell'altro, come si dice, l'unione fa la forza. In questo senso c'è stato un aiuto psicologico concreto? Stefano Sì, c'è stato. I dottori c'erano, però l'aiuto psicologico, sinceramente… per carità, da qualunque parte andavi trovavi le porte aperte, però per gli anziani, per i bambini, per le persone che sono rimaste sotto le macerie e che hanno visto la vita passargli davanti non è facile riprendersi. La notte del terremoto come vi siete organizzati? Stefano In associazione eravamo solo io e Gabriella. Quando siamo andati in sala operativa, Sabatino Belmaggio, che all'epoca era responsabile regionale del volontariato, ci ha detto: “Andate”. La situazione era talmente catastrofica che

non ci hanno detto concentratevi in un posto, qualsiasi zona andava bene perché non c'era un'organizzazione. Devi calcolare che il terremoto ha colpito 30 paesi, più il centro di L'Aquila, e li ha devastati. Al Ministero faceva più notizia ciò che era successo a L'Aquila, ma tu non sapevi ciò che era successo nelle frazioni. In quelle ore anche le comunicazioni erano interrotte, quindi molte persone sopravvissute magari stavano cercando i familiari. Ramona Infatti, la cosa brutta era chiamare la gente, chiamare mia madre, mio fratello e non riuscire a contattare nessuno. Non sapevo che L'Aquila non ci stava più. Stefano Quando sono uscito di casa, fortunatamente casa mia è rimasta in piedi, neppure mi ero reso conto di quello che era successo. Quando però ho preso la macchina per andare da mio fratello, mi sono reso conto che era finita: L'Aquila era rasa al suolo. In macchina, con i fari accesi non vedevi niente. Se ne sono dette tante: chi lo sapeva, chi se lo aspettava… Ma chi te la dice una cosa del genere? Non ti immagini un terremoto di 6.2. Ci avevano rassicurati fino all'ultimo momento. Poi c'è stata la

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Commissione Grandi Rischi che praticamente il 30 marzo 2009 avevano detto che potevamo stare tranquilli. Ora sono tutti sotto inchiesta. Sì, sentivi il terremoto, però le conseguenze non te le immagini. Ramona E meno male che è capitato di notte, di domenica. La maggior parte degli studenti non stava a L'Aquila, tornavano il lunedì mattina, e molti di loro abitavano in centro. Stefano È stata una fortuna: è successo di notte e sono morte 250 persone, se succedeva di giorno, con il tribunale, le scuole, che sono crollate tutte, l'università di ingegneria… se succedeva alle 11 di mattina ci sarebbero stati 10mila morti. Ramona Non ci arriva neanche la fantasia a pensare ad una cosa come quella che è successa quella notte. Voi siete stati sia terremotati che soccorritori: come avete vissuto questa doppia situazione? Stefano Doppia situazione perché comunque, in qualsiasi emergenza, si pensa prima a se stessi, parliamoci chiaro. Anche se vai in montagna a fare un recupero pensi comunque a te stesso. Se riesci ad uscire da casa tua, magari tutto impolverato, e hai il palazzo di fronte che è crollato, ti metti a scavare con le mani anche senza sapere cosa stai cercando. Quella notte c'era una polvere allucinante. Non si camminava, era una guerra: puzza di gas, acqua… poi tutta la gente, la paura, la preoccupazione… Non si vedeva nulla, c'era solo polvere, peggio della nebbia. Mi ricordo, alla Casa dello Studente c'era un manicomio, c'era un ragazzo che, come ci ha visto, ci ha abbracciato. Ci ha detto: “Qua ci sta una strage, là sotto c'era una festa là sotto”. Sotto la Casa dello Studente c'era la mensa universitaria e quella sera facevano una festa. La fortuna è che se ne erano già andati. Io sinceramente non riuscivo neanche a lavorare e

fondamentalmente anche il cane lo sente quando il conduttore è in ansia. Poi si dice della Protezione Civile, c'è chi diceva: “ha fatto bene” o “ha fatto male”, ma devi pensare che in 40 secondi avevi di colpo 70mila persone da gestire. Ma adesso, dopo tre anni, a livello psicologico come vi sentite? Avete paura? Ramona Se sento una scossa e sto al secondo o al terzo piano ho paura. Gabriella La paura è una cosa che ti rimane, il terremoto non te lo scordi da un giorno all'altro. Quando sento un qualsiasi rumore, io penso a questo, finché morirò. Comunque la paura non ti passa, è inutile, non ci puoi fare nulla. Ramona Quando senti una scossa, anzi, un rumore diverso da quello che è la consuetudine, qualcosa di strano, subito ti fermi. Stefano Il discorso è che il terremoto ha fatto 308 vittime, ma il post-terremoto ne ha fatte 2mila, c'è stata gente che si è suicidata. Cose che prima non vi preoccupavano o a cui non facevate caso adesso le vivete con più paura perché si può pensare che possa ricapitare da un momento all'altro... Gabriella Come no. Ma pure a distanza di tre anni, quando tu vai in giro per le altre città, cammini, cerchi di non pensarci, ma poi ti chiedi: “Ma questa zona come è classificata a livello di scala sismica?” Ti viene spontaneo. Stefano Magari cerchi anche di farci sopra delle risate. È stata fatta una canzone, “Domani”, e la gente l'ha anche rifatta in dialetto, “Doma'”. È bellissima, è fatta in Aquilano e ce l'ho anche sul telefono. Parisse ha spiegato che Onna è stata distrutta di più perché la scossa si è scaricata sul paese con l'effetto di un “colpo di frusta”, infatti, venendo in questa direzione, anche soltanto dopo 160


aver svoltato una curva, c'erano delle case in piedi e senza alcun danno. Perché? Stefano È per via del terreno. Ci sono stati palazzi che non hanno subito nessun danno strutturale, anche se dentro è cascato tutto, e magari lo stesso tipo di casa a 200 metri è andata distrutta. È il terreno sotto, anche a così poca distanza. Se La roccia è buona può assorbire le onde sismiche, se non è buona le amplifica. Gabriella Dove oggi c'è Onna un tempo c'era un lago e la zona poi è stata bonificata ed è stato fatto un terrapieno, quindi è tutta terra da riporto. Le case poi sono vecchie, costruite nel dopoguerra, dopo che era stata rasa al suolo dai tedeschi. Sono tutte di pietre e non c'era un collante tra loro, quindi si sono sgretolate con le sollecitazioni. Siccome il terreno sotto è come un budino, appena arriva la scossa viene amplificata e trema tutto. Quindi un po' la costruzione e un po' il terreno, le case di Onna sono andate giù per forza. Una in mezzo a Onna c'è, intorno ci sono solo case crollate. Questo significa che prima è la costruzione e poi è il terreno. Inoltre, Parisse ci ha raccontato che oltre ad esserci dei politici indagati, ci sono state persone che hanno approfittato degli indennizzi stanziati per ristrutturare le proprie case, è vero? Come si può sopportare che il proprio vicino di casa possa lucrare su una disgrazia come questa? Io immaginavo di venire all'Aquila e di trovare tutte le persone arrabbiatissime... Stefano Sì, è anche una questione di mentalità, però sta di fatto che noi abbiamo avuto la RAI Radio Televisione Italiana che ha tagliato i servizi in cui si potevano vedere le persone che protestavano e così la gente che sta a

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Trento non può sapere quello che è successo. Per esempio è stata fatta una manifestazione a Roma dove i celerini hanno dato mazzate su mazzate agli aquilani perché stavano bloccando il traffico. Delle cose sono state fatte. Noi siamo una città piccola, che già prima del terremoto non ci vedeva nessuno e adesso chi ti sente se manifesti per la tua città? Agli altri non frega niente di 50mila abitanti. Il problema è anche l'informazione, i giornalisti non fanno un lavoro come “Dio comanda”. Sentendo però le risposte delle persone che abbiamo incontrato vige un clima di rassegnazione, come ci si può rassegnare a vivere in un map o comunque a non poter più rientrare in casa tua perché non comincia la ricostruzione? Gabriella Arrivi ad un certo punto che ti devi rassegnare e ti devi rendere conto di quello che hai. Non è che sei felice. Ma non cerchi di riscattare te stesso almeno? Stefano Per far ripartire una città non mi devi dare i soldi, ma il lavoro. Molto probabilmente è anche la mentalità, un signore anziano una volta mi disse: “Noi dopo la guerra abbiamo ricostruito l'Italia, voi dovete ricostruire una città, ma voi avete da mangiare, noi non ce l'avevamo il cibo”. Se penso al G8 a noi non ci ha portato niente, che soldi ha portato? Niente! Hanno rifatto la strada per un chilometro perché usciva Obama. Io mi incavolerei ancora di più a sentirmi preso in giro. Ramona Non sputiamo su tutto. C'è tanto da fare e ti accorgi che non riesci a farlo tutto. Per rifare una città come l'Aquila ci vogliono milioni di milioni di euro, ma chi li investe? Non è che ti rassegni, però a livello locale le amministrazioni ti chiudono le porte in faccia. In Giappone la zona rossa non esiste, hanno ripulito


tutto! Perché c'è meno burocrazia, e in Italia più la città è piccola e più aumenta la burocrazia. La vostra vita come è cambiata? Gabriella Dopo tre anni ti abitui, ma ovviamente manca uscire il sabato sera. Ora l'Aquila è invasa da teppistelli, ubriaconi, tossici… In una situazione come questa, dove il tessuto sociale si è disgregato completamente o ti dai all'alcol o fai come noi che ci siamo associati per uno scopo buono: o diventi buono o cattivo, non ci sta una via di mezzo. I ragazzi non hanno più dei punti di aggregazione o di riferimento, così vanno al bar e bevono. Sabato sera il centro storico è invivibile, i ragazzi dai 15 ai 21 anni non sanno cosa fare e fanno di tutto pur ti evadere un po'. Stefano È anche una questione generazionale, oggi i giovani escono con molti soldi in tasca e il denaro porta all'alcol e alla droga, mentre noi uscivamo con le tasche vuote e nonostante ciò non ci mancava nulla! Ramona Ma poi anche il fatto di vedere la città distrutta induce i ragazzini a ubriacarsi e poi a distruggerla ulteriormente. I controlli ci dovrebbero essere, ma io la sera non esco più da sola.

Avete mai pensato di andarvene ? Stefano Io sì. Inizialmente mi ha trattenuto il lavoro, ora però lavoro a Teramo. Fondamentalmente non me ne voglio andare, è vero manca il sen so di città, ma d'altra parte qua ho tutto, a partire da loro, i miei amici… Gabriella Amo la mia bella città, l'es sere aquilana è qualcosa di innato. C'è quasi un senso di protezione… se ci dov essimo trasferire, dovremmo ricominciare con un nuova vita, in una città totalmente diversa. L'Aquila è una città che piac e, è disastrata ma con il tempo potrebb e ripartire a livelli alti. Qual è l'immagine dell'Aquila che vorreste dare? Stefano Servirebbe un'informazione che ricominciasse a parlare dell'Aquila. Chi ha soldi è riuscito a ricostruirsi la casa, anche in centro, ma un poveraccio come fa? E dopo due anni non serve che ci siano i militari a controllare la zona rossa, perché se io voglio rientrare a cas a mia ci vado, e la responsabilità di chi è? Del governo? Se dessero la situazione in mano agli aquilani, una parte della città si ricostruirebbe in breve tempo. Poi , come disse una persona, se ogni aquilan oo ogni persona che fosse passata di qua, avesse tolto una sola pietra non ci sarebbero più macerie.

Foto di Laura Gretter

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RICOSTRUIRE INSIEME GIOACCHINO MASCIOVECCHIO, VIVE A PAGANICA, FRAZIONE DI L'AQUILA, È RESPONSABILE DAL 2000 DEL SERVIZIO IMMIGRATI DELLA CARITAS DIOCESANA DELL'AQUILA ED È STATO PRESIDENTE DEL COORDINAMENTO DELLE ASSOCIAZIONE RICOSTRUIRE INSIEME DAL 2009 AL 2012. ANDREA SALOMONE, VIVEVA NEL CENTRO STORICO DI L'AQUILA, DOPO IL TERREMOTO VIVE IN UN PROGETTO C.A.S.E. MEMBRO DELL'ARCI L'AQUILA, COORDINA DAL 2011 IL PROGETTO SPRAR PER L'ACCOGLIENZA DEI RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI. RICOSTRUIRE INSIEME NASCE A L'AQUILA DOPO IL SISMA DEL 2009 PER OFFRIRE UN SERVIZIO DI EDUCAZIONE ALLA MONDIALITÀ E DI ORIENTAMENTO AGLI IMMIGRATI. NE FANNO ATTUALMENTE PARTE DIECI ASSOCIAZIONI E ORGANISMI DEL TERRITORIO TRA CUI LE SEZIONI LOCALI DI ARCI, CARITAS E CONFCOOPERATIVE. In questo momento ci troviamo all'interno di quella che è stata chiamata «Piazza d'Arti», volete raccontarci com'è nata? Andrea Abbiamo provato a complicarci la vita e ci siamo riusciti, ma abbiamo creato un contesto unico per la realtà aquilana. L' idea era quella di mettere assieme delle associazioni e provare a chiedere al Comune un terreno, pensando che più associazioni eravamo, più forti potevamo essere in questa richiesta. Siamo partiti da tre-quattro associazioni e siamo arrivati a diciotto. Per una cittadina come l' Aquila è un numero veramente grande. Prima del terremoto L' Aquila era una cittadina fatta di vicoli e piazzette, e la piazza è da sempre luogo di incontro e di aggregazione, da qui l'idea di costruire una piazza nostra da zero. L'obiettivo di piazza d' Arti è stato quello di dare uno spazio a tutte le associazioni e alle loro attività. Per darvi un'idea vi elenco alcuni dei gruppi presenti: «Il Sicomoro» che è un commercio equosolidale, «L'Aptdh» che segue la tutela dei diritti dell'handicap e gestisce un centro diurno per disabili, «La Casa del Teatro» che è gestita da

due associazioni, il «Cngei» che è il corpo nazionale dei giovani esploratori e giovani esploratrici italiani, la sede del «Bibliobus» che è una piccola bibl ioteca itinerante ed è uno dei tanti progett i nati dopo il terremoto, la «Comunità 24 Luglio» che è un altro centro diurno per disabili, la sede degli «Artisti Aquilan i» che è un'associazione concertistic a, il «Muspac» che sta per museo sperimentale di arte contemporane a la cui sede nel centro storico è stata completamente distrutta, il «CSI» che è il centro sportivo italiano e altre ancora . Arrivare a tutto questo non è stato facile, il progetto è stato bloccato il giorno stesso in cui è arrivata la ruspa per iniziare i lavori, perché il terreno serviva per realizzare un parcheggio che ancora non hanno fatto, ma che sembrava foss e più importante che offrire questi servizi. Va anche ricordato che tutte le strutture sono state acquistate dalle singole associa zioni sulla base delle proprie risorse e dell e proprie necessità. Lo spazio è anc ora incompleto, manca una pavimentaz ione e l'illuminazione, purtroppo al momento non abbiamo alcun aiuto da parte delle

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istituzioni se non 20.000 euro da parte della Provincia che ci sono serviti per fare l'allaccio della corrente e fare passare i cavi di rame per unire tutte e diciotto le strutture. Le istituzioni locali sono molto disponibili a parole, ma per i fatti c'è molta difficoltà. Le persone partecipano e seguono le diverse attività? Andrea Sulla partecipazione c'è ancora molto da fare, quando ci sono delle iniziative la piazza si riempie, ma nella quotidianità la partecipazione manca. Ieri c'era uno spettacolo al teatro e l'inaugurazione di una mostra e potevi sentire la piazza viva. Per noi fare delle iniziative in questo contesto e invitare la gente è difficile, perché se a una certa ora comincia a mancare l'illuminazione, ti senti quasi in difetto con le persone che hai fatto venire. Questa vuole diventare una piazza vera, quindi è previsto un cerchio pedonale, con delle fontane e delle panchine. Finora abbiamo speso tra gli 800.000 e i 900.000 euro, tutto a spese nostre e senza contare le ore di lavoro; ci abbiamo messo tutti noi stessi . Un altro problema è far passare l'informazione alla gente, prima era semplice in quanto andavi in centro e mettevi le locandine e facevi il comunicato stampa, ora stampiamo la locandina ma non sappiamo dove mettere e quindi ci rimane solo internet, Facebook e il passaparola, ma è difficile. Il bibliobus è quel furgone parcheggiato? Sì, ora c'è anche la biblioteca all'interno di una di queste strutture, ma con quel furgone, nei primi due anni del dopo terremoto, abbiamo distribuito 25-30mila libri. Oltre alla piazza di cosa si occupa il progetto «Ricostruire insieme» e com'è nata la collaborazione con Trento?

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Gioacchino In modo particolare lavoriamo sui temi legati all'intercultura e all'immigrazione. La Provincia di Trento ha visto il nostro modo di stare con le persone, di cercare di risolvere i problemi e ha chiesto se ci poteva aiutare a far diventare un progetto quello che stavamo facendo. Trento è stata una risorsa non invadente, abbiamo lavorato alla pari e il loro è stato un lavoro di accompagnamento. Quando abbiamo sentito il bisogno di una sede abbiamo chiesto all'assessore Lia Beltrami, che seguiva sempre le nostre iniziative, se poteva aiutarci e dopo quattro giorni ci ha chiamato dicendoci che c'erano quattro comuni disponibili a costruirci una sede. Noi non ci abbiamo più visto dalla felicità. In questo modo è stata costruita la sede dove ci troviamo adesso. Dopo l'accompagnamento iniziale abbiamo gestito noi la progettazione e siamo andati avanti, anche grazie alle capacità professionali che ci avevano fornito e ad alcuni progetti europei. Attualmente ci occupiamo di progetti nelle scuole, attività interculturali, sportive e teatrali che coinvolgono la popolazione. Il nostro obiettivo è diffondere una cultura che possa comprendere tutti, non esclusiva. Visto che vi occupate di mediazione culturale e sappiamo che proprio dopo il sisma sono arrivati molti stranieri alla ricerca di un'opportunità di lavoro nella ricostruzione, dalla vostra esperienza come vengono visti gli stranieri a L'Aquila? Il terremoto è stato un evento che ha favorito l'integrazione culturale o ha creato barriere e divisioni? Gioacchino L'impatto iniziale del terremoto ha messo tutti allo stesso livello. La prima cosa che ho visto dopo il terremoto è stato un bambino straniero portato in braccio, era bianco, gli erano cascati tutti i calcinacci addosso… il papà


Foto di Laura Gretter

e molti di quel bambino purtroppo è morto perché he anc stranieri hanno perso la vita prima La . vivevano nelle case più vecchie nato fase del post-terremoto ha accomu po tem il a sav pas che o tutti, poi man man La . nza vive con di à emergevano difficolt convivenza è difficile, soprattutto blemi all'interno delle tendopoli, dove i pro ema sist Il non facevano altro che acuirsi. gior delle tendopoli è molto strano, la mag parte erano chiuse e se magari un ltra familiare o un amico stava da un'a to mol a ltav risu parte andare a trovarlo rato lavo o difficoltoso. All'inizio abbiam da una molto a fare mediazione culturale giorno, parte e a risolvere problemi di sog perso poiché con il terremoto molti hanno è flitto con di fase ra l'alt lavoro e casa. Poi e, cas e stata l'assegnazione dell e case chiaramente una piccola parte dell c'è ra è andate anche agli stranieri. Allo no stata la solita polemica: “Perché han preso le case pure loro?” oppure “Le he. stanno dando tutte a loro”… frasi tipic o itori terr sul rca rice Noi abbiamo fatto una la che are stat dove abbiamo potuto con sa è percentuale di stranieri nei piano-ca che stata irrisoria. Bisogna ammettere azione c'era molta tensione, adesso la situ grazie si è un po' stemperata, forse anche fare. a citi rius o all'informazione che siam e ben e star Bisogna trovare il modo di ni uma eri assieme perché siamo tutti ess su questa terra. 165

Quale ruolo dovrebbero avere i cittadini nella ricostruzione della città? Gioacchino Quello che non hanno avuto fino ad adesso. A partire dalle tendopoli c'è stata una gestione dall'alto, sono arrivati dicendo: “Ci pensiamo noi!” ed è stato come un sonnifero per la popolazione. Addirittura in alcuni campi non facevano neanche aiutare alla consegna dei pasti! Tutto questo a livello psicologico influisce, molte persone si sono adagiate con la scusa che c'è qualcuno che ci pensa. Tante altre persone hanno reagito, però con scarsi poteri e con molta rabbia. C'è stato il periodo del movimento delle carriole, però è stata una rabbia che non ha avuto possibilità di concretizzarsi a livello politico. La classe politica non è stata all'altezza. C'è stato pure chi ha creato la divisione, per questo per noi il fatto di unirsi è stato proprio una reazione istintiva. Noi ci siamo pure arrabbiati in certe situazioni, però con il potere c'è poco da fare… All'Aquila è stato sfruttato il grande shock del terremoto per creare un laboratorio nazionale, forse anche internazionale, per sperimentare alcune tecniche di controllo della popolazione. L'aver diviso la popolazione è dovuto anche al fatto che la gestione dell'emergenza è stata fatta dall'alto? Gioacchino Sì. C'è stata una


speculazione politica su una tragedia che ha investito una popolazione molto numerosa e non si può fare speculazione sulle morti, sulla sofferenza... fare speculazione politica è miserevole, ma purtroppo è stato fatto. Non voglio dire che le cose fatte siano tutte sbagliate o fatte male, qualcosa di buono ci sarà: se delle persone stanno dentro le case è sempre meglio che stare per strada, ma si è sbagliato il metodo e questo ha lacerato una popolazione già lacerata dal terremoto. Il problema dell'Aquila è stato che il Governo voleva darsi nuovo smalto attraverso alcune azioni spettacolari, oltre a poter essere un bacino di affari enorme per alcuni personaggi, come poi si è dimostrato. Quindi all'Aquila l'intervento dall'alto ha ostacolato l'attivarsi prima di tutto del vostro stesso volontariato. Gioacchino Sicuramente è stata la spina nel fianco che non ha permesso il prevalere di certe forze. Andrea Il volontariato da parte dei singoli cittadini non è mancato. Dovete considerare che L'Aquila era un grande “paesotto”, 70mila abitanti in una realtà quasi di montagna, quindi con una mentalità abbastanza chiusa. Però, contrariamente a questo, subito dopo il terremoto ci si è uniti fortemente e sono cresciuti tanti comitati cittadini. Ancora oggi i cittadini si incontrano in assemblea una volta in settimana in Piazza Duomo e chiunque può dire la propria e proporre delle soluzioni per la ricostruzione, ma la classe dirigente non li ha mai ascoltati. Le proposte dei cittadini vengono dall'esperienza delle tendopoli, dove tutti hanno vissuto i disagi dalla mattina alla sera, contrariamente a una classe dirigente che questi problemi non li ha vissuti e non li vive. Quello che è stato fatto inizialmente è stato esautorare del tutto la classe politica locale sulle

decisioni da prendere: quindi il 9 aprile in televisione il governo Berlusconi presentava già il progetto case, mentre qui noi stavamo ancora in una situazione veramente assurda e il fatto che dall'alto si presentasse già il progetto di una new town lasciò tutti un po' perplessi. C'è da dire che la situazione era del tutto esplosa, gli edifici delle strutture pubbliche avevano subito i maggiori danni: prefettura, università, comune, ospedale erano crollati. Ovviamente in questa situazione era impossibile operare anche per le autorità locali che non erano neppure pronte a gestire una situazione in cui 70mila persone erano per strada. Le spinte dal basso sono state tante, ma le istituzioni invece di aiutare hanno remato contro. Da dove dovrebbe ripartire L'Aquila e l'Italia per una ricostruzione “sana” che permetta la crescita non solo materiale ma anche culturale? Gioacchino Serve proprio una ricostruzione sana, perché se ne è sviluppata una insana in questi ultimi anni. La ricostruzione sana parte valorizzando tutte le risorse che ci sono sul territorio e qui ce ne sono tante. Chi gestisce il potere dovrebbe far diventare protagonista anche la popolazione, ma se si pensa solo alla ricostruzione è una ricostruzione monca, perché una società non cresce solamente con le strutture, ma cresce con le persone, con una coscienza e una responsabilità comunitaria. Questo un po' lo stiamo facendo, ma sarebbe bello se partisse da tutta la città questa voglia di ricostruzione sociale, di stare assieme e di fare le cose assieme. Questa speranza è un sogno o siete fiduciosi che si riuscirà a ricostruire in breve tempo? Gio Il concetto di breve tempo è sempre relativo: nel 2009 dicevano in dieci anni,

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adesso siamo nel 2012 e dicono ancora in dieci anni. In effetti qui si è fermato il tempo, è tutto chiuso. Però c'è una speranza concreta e la «Piazza d'Arti» è una piccolissima parte, ma anche da qua parte la nostra speranza. Si tratta di elementi che mostrano che qualcosa può cambiare. Avete detto che il tempo si è fermato, che cosa è successo in questi tre anni? Gioacchino Da parte nostra, del mondo associativo, sono stati tre anni di rabbia che però si sono trasformati in azione concreta. Mentre tutto tendeva a separare, noi cercavamo di unire ciò che anche prima era diviso: stranieri e italiani. Siamo partiti dalla divisione per unire. Poi c'è stato l'ostacolo istituzionale e politico. Le forze politiche, invece di aiutarci ci ostacolavano, tutto quello che è partito dalla Provincia di Trento è stato bloccato e non facevano partire il progetto. Perchè? Gioacchino Il progetto è stato finanziato dalla comunità europea e qualcuno pensava di poterlo gestire economicamente a livello politico. Tutto è stato bloccato pensando di farci crollare a livello psicologico. È stata dura resistere per mesi e mesi con persone che ti ostacolavano. Se conosci certi personaggi, certi amministratori... rimani schifato! Locali? Gioacchino Qua, qua, amministratori locali. I problemi ce li abbiamo pure qua. La cosa si è sbloccata a marzo 2010, quando poteva partire a fine 2009 e il progetto doveva essere concluso a giugno 2010, quindi tre mesi per fare tutto. Tutti questi ostacoli per mettere le mani suoi soldi? Gioacchino Sì, volevano gestire… L'amministrazione che c'era in quel momento? 167

Gioacchino Eh… allora c'era un amministrazione di sinistra, ora è di destra ma è la stessa maniera, è questione di mentalità, Non è questione di colori politici. Gioacchino Non è questione di colori. Semplicemente non si concepisce l'ente pubblico in maniera sussidiaria, in modo da lasciar fare a chi sa fare, a chi sviluppa una cosa, senza mettersi al suo posto. All'Aquila bisogna lavorare a livello di mentalità, perché c'è la tendenza a dire: “Ti faccio, quindi controllo la situazione”. Un po' questa cosa l'abbiamo invertita, con una buona dose di energia e resistenza. In Italia ci sono stati purtroppo altri terremoti, e anche se non hanno ricostruito da un giorno all'altro, però sembra che abbiano lavorato un po' meglio rispetto a qui. Voi dite che lo Stato e l'amministrazione controlla... però vuol dire che la gente si è sempre lasciata controllare. Gioacchino …Sì, fino a un certo punto. Il paragone con gli altri terremoti è buono in parte, perché un terremoto di dimensioni così vaste, che ha colpito un'intera città capoluogo, rendendo tutti degli sfollati, non c'è mai stato, la situazione è completamente diversa. Ma la mentalità... Gioacchino Questo un po' sì, ma fino ad un certo punto. Ci sono anche dei meccanismi psicologici. È come essere a terra tramortito e ogni tanto qualcuno passa e ti dà una botta in testa, in questo modo non ti alzi più. Noi stavamo così e solo chi ha avuto più capacità e forza non è rimasto schiacciato. Quindi la mentalità c'entra fino a un certo punto, perché l'Aquila ha orgoglio e capacità di reagire e l'ha dimostrato. Però, quando troppe forze lavorano contro, quando c'è chi usa metodi psicologici o il sistema della divisione… ci può essere una parte della


città che riesce a vaccinarsi, ma tanti altri non hanno le risorse per farlo. Sono stati troppi gli stimoli negativi, ma un po' alla volta si allentano le tensioni e ci si risveglia, non è che si rimane sempre a terra. Nel terremoto del Friuli non pensa che ci sia stato un controllo così forte, per voler gestire e controllare la situazione? Gioacchino A livello generale gli osservatori sono stati unanimi: non c'è mai stato quello che è successo all'Aquila, questo tipo di terremoto, no. Ma le persone... Pure noi ci chiedevamo: “Ma come fanno a non reagire?” Molte persone ripetevano: “Ci fanno questo…”, “Arriva Berlusconi e ci fa le case”… e loro tranquilli, nonostante l'altra metà della gente dicesse: “Svegliatevi!”. Ora si stanno svegliando a distanza. Lei è delegato Caritas, la Chiesa a livello locale ha reagito a questo tentativo di divisione o alla fine si è seduta a guardare? Gioacchino La Chiesa è una realtà molto complessa, per cui ha dentro di sé molte risorse e molti difetti, come tutti gli uomini e tutte le società, ma dentro la Chiesa diventano molto più evidenti. Perché se un atteggiamento in un certo ambiente è quasi normale, dentro la Chiesa pesa molto di più e secondo me è giusto che sia così. Il problema delle divisioni si è vissuto pure all'interno della Chiesa e pure della Caritas, non è che tutti hanno reagito subito. Il terremoto porta risorse da fuori e stimola molti appetiti e non sempre si ha la capacità di gestirli in maniera adeguata. Però la Caritas ha in sé degli anticorpi che sono stati immediati, quindi adesso siamo un punto di riferimento. A livello diocesano c'è stato qualche problema in più, nonostante ci sia la volontà da parte del Vescovo di

cercare di unire il tessuto sociale, non sempre ci si riesce. Poi a volte si pensa all'unità ma si lavora magari appoggiandosi solo ad una parte, pensando di ottenere delle risorse che si crede di utilizzarle bene ma che poi hanno creato non pochi problemi. Qui parlo di Chiesa al vertice, poi c'è tutta una miriade di gente, di parrocchie che sono state punto d'incontro e di ascolto. Un problema è la ricostruzione delle chiese, con l' otto per mille non è prevista la loro ricostruzione e così mancano i fondi. Molte chiese provvisorie sono state fatte con il contributo della Provincia di Trento, che ha capito come sia importante per la popolazione del luogo, in maggioranza cristiana, l'esigenza di ritrovarsi e di fare comunità. Tutto questo fa parte della storia locale, con luci e ombre, ma adesso penso che si riescano a correggere gli sbagli passati e sono più ottimista verso il futuro anche per quanto riguarda la Chiesa dell'Aquila. Come si vive nell'Aquila di oggi? Andrea Io sono arrivato a L'Aquila nel '96 e tutto quello che è stato dal '96 al 2009 è come se non ci fosse stato, come se non fosse esistito, se tu mi chiedi quando sei arrivato all'Aquila, io ti dico nel 2009, dentro una tenda, tutto è iniziato da lì. Vivere nell'Aquila di oggi è faticosissimo. Noi eravamo abituati a vivere in un paesotto fatto di stradine, di piazze e di incontri; adesso viviamo disgregati, con dei quartieri che distano 20-30 km l'uno dall'altro, dove non ci sono servizi e negozi. Io ho 35 anni e ho la macchina, ma una persona anziana, con qualche problema di mobilità, non può che vivere isolata. A questo punto non è più vivere, ma è sopravvivere giorno dopo giorno. Motivo per cui le speranze sono quelle che ci animano e che ci hanno portato a realizzare anche questo progetto. Nonostante questo la fatica e la

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stanchezza sono tante e se alle persone viene meno la speranza alla fine andranno via e sono tante quelle che l'hanno già fatto. Anch'io vorrei mettere su una famiglia, ma non ho una casa, casa mia è in centro storico e a tre anni dal terremoto non ho la più pallida idea di quando ci potrò rientrare. A questo punto le speranze sono quelle che ti servono, ma dobbiamo darci da fare e provare a realizzarle. «Piazza d'Arti» è una speranza realizzata, come la possibilità di fare attività, la possibilità di incontrare persone e di offrire servizi ma lo stesso incontro con voi e la possibilità di raccontare la nostra esperienza a noi serve moltissimo. Ci serve raccontare a ragazzi della vostra età quello che la società civile può realizzare dopo un evento catastrofico, sperando che non vivrete mai una situazione del genere. Fate qualcosa per sensibilizzare i ragazzi? Perché non partire proprio da loro per poter fare una ricostruzione sana? Quello che si sta facendo è proprio questo. Sia come «Ricostruire Insieme» sia come Arci L'Aquila, ma anche nelle attività che si fanno nelle parrocchie o a livello associazionistico. L'attenzione sulla situazione giovanile è sicuramente elevata, però ci rendiamo conto che andiamo ad intervenire in un contesto che è del tutto impazzito, in cui è difficilissimo intervenire e anche coinvolgere dei ragazzi non è un'impresa così semplice. Tra i vari progetti e interventi, stiamo organizzando un laboratorio di giornalismo e approfittiamo del laboratorio per incontrare i ragazzi, farli aggregare, divertire e passare anche dei contenuti. Cerchiamo di costruire dei luoghi di aggregazione, di incontro, perché oltre al centro commerciale non c'è più nulla. Abbiamo fatto laboratori teatrali, di scrittura, di fotografia e significa

stimolare i ragazzi, fare imparare loro qualcosa di nuovo e farli riflettere su quello che è questo contesto. In cosa consiste il laboratorio di giornalismo? Elisa L'orizzonte del laboratorio è quello dell'immigrazione e quindi l'integrazio ne che è un discorso fondamentale per ché la ricostruzione dell'Aquila è affidata in buona parte a persone che non son o nate in Italia e siamo chiamati ad accogli ere persone nuove che sono coinvolte in un'avventura importante come que lla della ricostruzione. È essenziale che la cittadinanza aquilana sia in grado di accogliere queste persone e di arri cchirsi. Se non lo facciamo sarà l'ennesima battaglia persa di questa ricostruzion ee ne abbiamo già perse altre. I ragazz i coinvolti vanno dai 14 ai 24 anni e hanno messo in campo davvero tutto que llo che avevano, più di quello che mi aspetta ssi. Questo mi fa sperare. Una delle rag azze più piccole mi diceva: “Basta parlare di terremoto, tutti quanti mi dicono 'son o passati 2 anni dal terremoto'… tutti parlano dalla scossa del terremoto in poi”. Questo mi ha fatto capire che c'è la voglia di dire: “Ok è successo, ma adesso dobbiamo inventarci una nostra man iera di essere cittadini di questo posto vedendoci anche il bello”. Io ho idea che con la caduta delle mura delle cas ee della città, le persone siano uscite e in qualche maniera, che ancora non so spiegarmi, sia un po' più facile inco ntrarsi. Noi siamo gente di montagna, siam o duri, chiusi, ma in tutto c'è il bello e c'è una seconda opportunità. È la tecnica del riuso, in ogni oggetto c'è una second a possibilità di utilizzo che noi magari fatichiamo a vedere in condizioni nor mali. Spero che non vi serva un terremo to per poter vedere le seconde opportunità che ci sono nel mondo e nelle cose che vediamo. Abbiamo letto come nella zona 169


dell'Aquila sia aumentata la depressione; i giovani sono realmente colpiti o hanno reagito meglio rispetto agli adulti e agli anziani? Andrea La mia sensazione è quella che le difficoltà che stiamo vivendo hanno influito nella quotidianità dei ragazzi. Abbiamo provato a studiare la situazione attraverso un progetto da cui è emerso l'aumento dell'uso di sostanze alcoliche e stupefacenti tra i giovani. Il nostro questionario andava dai 15 anni ai 35 anni e anche dividendo per fascia d'età l'aumento c'è stato sicuramente. Un altro aspetto che abbiamo indagato è stato quello dei luoghi di incontro e aggregazione. Il primo è la scuola e l'università, dopo di che non esiste più nessun luogo che era presente prima del terremoto, mentre è apparso il centro commerciale. A L'Aquila uno di questi centri è diventato il punto di riferimento, se vai il sabato pomeriggio alle 18 puoi assistere a delle scene a cui io stesso non ero abituato... puoi vedere riuniti 300400 ragazzi di 15 anni. Sarà qualcosa di normale, ma qui non eravamo abituati, avevamo ancora i negozietti di alimentari e dall'oggi al domani ci siamo ritrovati al centro commerciale, ed è stato qualcosa che ha scombussolato e cambiato tutto.entrati Anche vedere i ragazzi che si fumano la sigaretta o lo spinello nel parcheggio del centro commerciale non è una scena che fa bene e alla quale vorremmo cercare delle alternative. Come potete riuscire ad unire persone che vivono in frazioni e quartieri difficilmente collegabili, e senza un vero centro di aggregazione? Gioacchino Ci sono due tentativi: innanzitutto si prova a raggiungere le persone nei luoghi in cui stanno, portare le attività direttamente nei progetti c.a.s.a., nei progetti m.a.p., grazie anche alla Caritas che in quasi tutti i progetti

tende c.a.s.a. mette a disposizione delle ità. attiv ne alcu e amiche dove svolger ranti, Sono nati inoltre tanti interventi itine ca iote bibl ola come il Bibliobus, una picc giro in itinerante, il Circobus che porta l'altro attività teatrali, il Ludobus… C'è poi le tentativo, quello di fare rincontrare ico. stor tro cen nel persone, riportandole ico stor tro cen del Ora che alcuni luoghi ne sono stati riaperti, si organizzano alcu Il e. son per iniziative per fare incontrare le , centro è diventata una zona turistica sono aperti infatti solo ristoranti e bar, ilani mentre è importante riportare gli aqu è ente ram Sicu nel loro centro storico. alcuni un'impresa difficile, anche perché dal progetti c.a.s.a. distano molti km aria. È centro, ma assolutamente necess ti importante ricostruire i collegamen re cuo il e ntar dive e sociali, il centro dev di lità vita la re pulsante da cui sviluppa tutta la città. Bisogna creare luoghi o d'incontro dove le persone possan . costruire insieme, pensare insieme una Proprio là deve nascere qualcosa… la solo o and rizz valo città non rinasce ricostruzione fisica, bisogna dare . Solo attenzione anche al tessuto sociale nza orta imp la Provincia di Trento ha dato altri gli a questi aspetti sociali, che da tutti se non sono stati considerati “secondari”, etti asp due sti Que ti. del tutto trascura vanno insieme. Ma come si può pensare di organizzare un'attività ricreativa/culturale in un centro morto? gli Andrea Chi ha un cagnetto malato, il ra side con lo e vuole bene lo stesso conto cane più bello del mondo. Mi rendo i ogn tro, che all'inizio era dura nel cen fine Alla croce sugli edifici era una ferita… è , però, il terremoto fa parte del passato tra un'esperienza che fa parte della nos tati, emo terr pre sem vita, noi saremo per … fatto sto nessuno può negare que

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esattamente come un cagnolino ferito ti vuole bene e ti porta le pantofole, anche se con più difficoltà. Io non voglio negare l'evidenza, cioè il fatto che L'Aquila sia ridotta in macerie e se lo negassi farei un torto alla città. Però l'idea che sia morta c'è l'ha più chi non è dell'Aquila che noi aquilani, noi che culliamo in seno il ricordo e la speranza. Anche se la sera la città è desolata, se si riuscisse a riportare la gente in piazza almeno per due ore, questo significherebbe che si è riusciti a sottrarre la piazza alla morte per almeno due ore.

Foto di Laura Gretter

Elisa Bianchini L'odore della pioggia sovrasta quello penetrante dei calcinacci che fino a pochi istanti fa ci accompagnava attraverso vicoli, impalcature e desolazione. Il ritmo di questo strano silenzio mi trasmette una sorta di calma inquieta, interrotta soltanto dalle risate dovute a dei simpatici cani randagi che inseguono le rare auto che passano di qui. L'obiettivo della macchina fotografica è appannato da questa sottile coltre di nebbia che ricopre la città come tantissime, infinite piume che non le permettono di respirare. L'umidità incollerà per sempre al suolo la stessa polvere che tre anni fa soffocò le speranze di migliaia di persone. I suoni ovattati rispecchiano pienamente la mentalità degli aquilani che, dopo aver perso tutto, non hanno più la forza di pretendere a testa alta una vita dignitosa. L'indifferenza aleggia in quest'aria pesante; solamente pochissime persone vogliono riscattarsi e prendere in pugno il proprio destino senza aspettare i fantomatici aiuti da una politica nazionale marcia e inefficiente. Ma sotto questo pesante manto le loro grida di protesta sono difficili da sentire, figuriamoci da ascoltare. Ci sono però. Se ci si fa largo attraverso la nebbia, le possiamo trovare. Tre anni sono passati, e gli aquilani, quei cittadini che popolavano i 64 comuni del capoluogo abruzzese, non ci sono più; o per lo meno, non sono più considerati cittadini ma solo dei "coinquilini ospiti", come dichiara la Pezzopane, assessore comunale delle politiche sociali. Come possono delle persone ritrovarsi da un secondo all'altro nel ruolo opposto, quello appunto dell'ospite? E tutto ciò a casa propria? Di questo ne sono coscienti? pochi, purtroppo. La politica illusoria del "ghe pensi mi", mirata ad un unico fine propagandistico di un governo in crisi, ha fatto in modo che i furori degli abitanti si smorzassero e prendesse posto l'indifferenza che ormai anestetizza ogni sorta di voce fuori dal coro.

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FARMACISTA FONTANA LUMINOSA Da quanto tempo avete aperto questa farmacia? Avevamo la farmacia lungo il corso, nel centro storico, ma è distrutta e due anni fa abbiamo riaperto in questo container. Sono molte le persone che vengono a comperare farmaci? Stanno aumentando, all'inizio erano pochissime, perché dentro la città non c'è nessuno, le case sono tutte distrutte. All'inizio si era detto che venivano bloccati i pagamenti delle tasse, lavorando molto meno. Adesso da questo punto di vista com'è la situazione per voi? Eh, la situazione è che prima del terremoto facevamo tremila ricette al mese, abbiamo ricominciato con cento, adesso siamo arrivati a poco più di mille. Abbiamo letto sui giornali che tra la popolazione è aumentata la depressione. Lei, come farmacista, lo vede? Eh, lo vedo sì!

Tanto più di prima? Sì, sì! Anche tra i giovani? No, più tra gli anziani. Per le persone oltre al lavoro cos a c'è, cosa si può fare, si va al bar, c'è una sala di ritrovo? Adesso c'è solo qualche bar e pizz eria, ma i negozi si sono spostati in per iferia. Se qualcuno vuole distrarsi cos a può fare? I locali sono tutti fuori, bisogna usc ire in periferia. Abbiamo visto tutti questi cani randagi. Da quando sono qui? No, loro ci sono sempre stati, non c'entrano con il terremoto, solo han no resistito. Siete già stati in centro? No, ci andiamo ora. Ecco, bene, andateci così vedete il disastro e vi rendete conto di quello che è successo e della situazione reale, ma non troverete nessuno a cui chiedere qualcosa, perché non c'è più nessun o.

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ELEONORA FORTI

CHE COSA VUOL DIRE NEW TOWN? o da zero dopo in una new town, un quartiere costruit Silenzio. Siamo a L'Aquila, o meglio domini, dei posto dove vivere. Silenzio. Dei con il sisma per dare ai terremotati un . Ma non siamo nzio Sile n. questa è una new tow , one tend un e ro albe lche qua parcheggi, se da qualche one in cui il quartiere è immerso. For noi a dover fare silenzio, è la condizi nati in casa, rinta probabilmente se ne staranno tutti parte c'è un bar, saranno tutti lì? Più essere il a da fare. L'unica attrazione sembra perché tanto in giro non si trova null difficile scomodare di metri dalle abitazioni, Pare quasi campetto da calcio a un centinaio potrebbero sto agglomerato di case. Per carità, la parola “quartiere” per definire que . vita c'è non voli! Ma attorno ad esse essere bellissime, spaziose, conforte questi in vive ressione, qualche storia da chi Vorremmo raccogliere qualche imp rintracciamo ento o. Fortunatamente dopo un mom condomini, ma in giro non c'è nessun E allora signora con il cane preferisce di no. delle persone, alcune parlano, una ere è sconvolgente quanto banale. ascoltiamo, e ciò che veniamo a sap inglese, solo le no, oltre al nome in un inspiegabile Queste new towns, della città han luoghi di ritrovo e di nto, ime attività di intratten di za can man la re soff te gen la e abitazioni, si vuole c'è è un bar ogni tanto, altrimenti chi di aggregazione. L'unica cosa che beve” “Si merciale. E il sabato sera che si fa? incontrare deve farlo al centro com zesca è che loro si fa anche da noi, ma la cosa paz rispondono alcuni studenti. Certo, Ma di certo ciò ento del consumo di alcol e droga. sono i primi ad essersi accorti dell'aum sone. “La azzi, come ci confermano alcune per non avviene esclusivamente tra i rag bra il solito Sem no. dico un'evasione dalla realtà”, ci gente vive queste sostanze come persona che una dice lo are” trito e ritrito, ma quando slogan “Non devi bere, non devi fum a to enta suono. Non solo alcol e droga, è aum vive la situazione ha tutto un altro ressione. dep la ofarmaci, soprattutto per combattere dismisura anche il consumo di psic ione di uomo come animale sociale” perché la concez Aristotele diceva che “L'uomo è un portanza della torita. Al giorno d'oggi pare che l'im individuo non era stata ancora par o occupare del ber reb enticata da coloro che si dov dimensione collettiva sia stata dim la vita di tutti i per iale così una componente essenz benessere dei cittadini, eliminando e ider di incontrarsi sone. Ovviamene si potrebbe dec giorni della maggior parte delle per così qualcuno cchiere, ma dopo tre anni che si fa lo stesso, per strada, fare due chia , ma forse sia brutto di per sé incontrarsi in giro potrebbe anche stufarsi, non perché ere, nessun sibilità di scelta. Non c'è nulla da ved perché semplicemente non si ha pos di tempo ento mom le evo commentare, vivere un piac negozio dove guardare qualcosa, strano bra sem non ani scappano. A questo punto libero. I vecchi stanno in casa, i giov e, svogliata, rassegnata. che tanta gente sia depressa, trist 173


ssero tornare a siano chiesti perché i terremotati vole Inizialmente suppongo che molti si o già ricevuto van ave se non esistevano più, quando tutti i costi nelle proprie case, anche mante in frigo spu di i agi. C'era addirittura una bottiglia alloggi sostitutivi dotati dei maggior probabilmente ccati al territorio, ed è una cosa che in ogni casetta! Loro sono molto atta ra per ciò che è cui i sentimenti valgono poco e si ope in 'era nell ire cap a a fatic o iam facc e la voglia di e la rassegnazione, in altre la rabbia “più giusto”. In alcune facce si legg o darlo. Non siam pos bisogno di aiuto e anche noi lottare. Ma tutte queste facce hanno . oria mente quando muore la sua mem dimentichiamo. L'uomo muore vera

NEW TOWN Salve, siamo un gruppo di studenti trentini e vorremmo chiederle se ci vuole parlare del progetto c.a.s.e. è difficile viverci per lungo tempo? Eh sì, è così... Lei vive qui? Io vivo in questo palazzo. Da quanto tempo? Dall'inizio, da ottobre 2009. Come si trova? In casa stiamo bene, per carità. Lamentarsi sarebbe assurdo è che per qualunque cosa devi muoverti con i mezzi pubblici, non hai alternative. Arrivare al paese che sta qui vicino è scomodo, non esiste un collegamento pedonale, neanche per fare una passeggiata. Al limite approfittiamo di alcuni spazi incolti qua attorno, ma non sono attrezzati. Lei adesso vive accanto alle persone con cui viveva prima del terremoto? No, no, siamo sparsi per tutta l'Aquila. Non è stata una scelta nostra, ci hanno assegnato queste case. Abbiamo potuto esprimere qualche preferenza, però alla

fine non è stato rispettato nulla. Non c'è nessuno in questo palazzo di quelli con cui abitavo prima. È stato facile vivere a fianco di persone nuove? Tutto sommato è andata bene, non c'è nessun problema interpersonale. Qualche problema più per il passaggio delle consegne tra la struttura che manteneva il palazzo prima e il Comune che lo mantiene adesso, c'è stato un po' di scollamento, però pian piano si sta riprendendo. Abbiamo sentito che c'è un aumento di casi di depressione e di abuso di alcol. Lei cosa ne pensa? Siamo stati un pochino monitorati sotto questo punto di vista. Diciamo che per ogni famiglia almeno una o due persone sono state monitorate in questo senso. Mia moglie insegna ed ha incontrato qualche difficoltà nella scuola, anche se, insegnando alle scuole medie, la fascia è ancora un po' protetta. Sembra esserci, per lo meno leggendo qualche rapporto e sentendo i figli più grandi, qualche problema per la fascia che va dai 17 fino 25 anni. La sera c'è qualche momento di tensione maggiore, hanno dovuto ridurre anche i tempi per il consumo di alcolici. Rispetto a prima c'è qualche difficoltà in più.

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Foto di Fiorella Turri

Lei ha parlato di monitoraggio, quindi qualcosa si sta facendo? Sì, l'assistenza e il controllo sembra essere stato adeguato, ci hanno seguito, ci telefonavano e verificavan o il nostro stato con i medici di famiglia, quindi c'è stata un'attenzione per segnalare le situazioni problematiche. Per i giovani si è fatto qualcosa di più, mentre per gli anziani c'è stata qualche difficoltà maggiore a superare questi momenti, perché la socializzazione in questi momenti non è immediata. Per quanto riguarda le strutture, noi abbiamo solo una tenda, è gestita dai preti, però in realtà non solo da loro , hanno dato la gestione anche ad un gruppo di persone del posto, per pote r fare qualche incontro e qualche fest a per i ragazzini. Quindi qualcosa c'è? Sì, sì, qualcosa c'è. In altre zone ci sono situazioni più difficili. Qui invece abbiamo anche un asilo. L'asilo e la

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tenda, questi sono i punti di riferimento. Le difficoltà invece sono legate a cose come fare la spese, le persone anziane devono muoversi o devono avere qualcuno che sopperisce alle loro esigenze.

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Come trova la situazione qui? Beh insomma… Come le sembra la vita in queste case? Non è tanto bella, si sono rinchiusi. Come persone? Sì, sono chiusi, dopo il terremoto si sentono soli. Non è una bella situazione, non c'è neppure un supermercato vicino ed è complicato anche fare la spesa.


Con il terremoto, il fatto di non essere aquilana le ha creato qualche difficoltà? Oddio, io penso che è stato sempre un trauma. La mia casa era stata indicata come A, poi ho fatto quello che dovevo fare. Ma la paura rimane, si sente il pavimento che scricchiola, e allora tà!! Senti che vibra. Abbiamo sentito che molti ragazzi bevono. Lei come vede i ragazzi? I ragazzi, che ti posso dire... Non sanno dove andare, il punto di riferimento adesso è l'Aquilone, il centro commerciale , mentre prima andavano in via Vittorio Emanuele, in centro. Purtroppo non avendo altro, bevono e fumano “a tutto spiano”. Compresa mia figlia, che ha quasi 18 anni. Vedono che la maggioranza fuma e allora... Lei ora è più preoccupata per i figli, rispetto a prima? Non solo per il terremoto, ma anche per la prospettiva di lavoro. Speriamo bene. Io penso che se parte la ricostruzione è già tanto. Per adesso, per quello che so, non è ripartito nulla, è tutto bloccato, se riparte l'edilizia almeno si comincia a rimettere in piedi la città, piano piano. E per voi? È stato un trauma appena arrivati, è brutto no? Vedere una città vuota e pensare che pochi anni fa vivevano migliaia di persone... Oltretutto era una città molto artistica, come cultura l'Aquila era una cosa spettacolare, 99 chiese, 99 piazze... Giustamente non si potrà sistemare tutto, come fai? Se mettono a posto tutte e 99 le chiese, quando faranno le case per la gente? Mai. Non so fino a che punto debbano ricostruire il patrimonio culturale. Comunque si deve avere forza e grinta per andare avanti, altrimenti pensare sempre a quello che è successo ti deprime.

Non si riparte più. abita in una Un giorno una signora che “Chissà se di queste case mi ha detto: casa mia?” e un giorno potrò ritornare a no per poi ha preso il telefono in ma sarebbe ndo chiamare e chiedere qua osto risp potuto rientrare, ma non ha re. nge Ad nessuno e si è messa a pia non una certa età sanno bene che a. cas loro la rivedranno mai più

Foto di Fiorella Turri


Francesco Benanti

(Domani, artisti uniti per l'Abruzzo)

Queste parole del famoso testo «Domani» uscito subito dopo il terribile terremoto che meno di tre anni fa ha devastato L'Aquila mi hanno martellato la testa durante l'esperienza trascorsa questi tre giorni nel capoluogo abruzzese. Il giorno successivo alla terribile scossa sono state tantissime le persone che si sono mosse per risollevare una città rasa al suolo, ma molte di esse si sono rivelate false e hanno pensato solo a fare i propri interessi. Parlando con le varie persone incontrate è emerso che la maggior responsabilità post terremoto è ricaduta sul governo italiano che, trovandosi in piena campagna elettorale, ha utilizzato un metodo che nell'immediato ha portato i suoi frutti ma a lungo andare ha fatto peggiorare la situazione. Ha proposto i progetti c.a.s.e. e m.a.p. che nel giro di pochi mesi ha effettivamente portato a termine, e che non si può negare che siano stati utilissimi perché hanno permesso di vivere sotto un tetto durante l'inverno che sarebbe stato rigidissimo nelle tendopoli, ma non hanno realizzato nessun luogo di aggregazione e le persone si sono sentite subito sole essendo abituate alla forte condivisone delle tende. Quel maledetto 6 aprile la protezione civile ha allestito in pochissimo tempo le tende che hanno ospitato migliaia di persone rimaste senza casa e ha contribuito a fare in modo che ognuno si sentisse a proprio agio nonostante tutto quello che di brutto aveva subito; inoltre, sono stati davvero moltissimi i volontari che si sono mossi da ogni parte d'Italia per raggiungere L'Aquila e dare una mano alla gente. Bisogna davvero ringraziare queste persone che, non avendo un programma ben preciso di come prendere in mano la situazione, hanno saputo svolgere un lavoro eccezionale. La vita nelle tendopoli si è svolta per il meglio, soprattutto grazie a queste persone, ma il fatto di essere sempre serviti e non avere nulla da fare durante la giornata ha portato nella mente delle persone colpite dal sisma un senso di appagamento e qualcuno non ha più mosso un dito per cercare di rialzarsi, pensando che qualcuno gli avrebbe fatto trovare sempre qualcosa di pronto. È stato davvero toccante vedere come le persone che avevano perso i propri affetti personali sono quelle che hanno avuto la maggior forza di reagire e invece coloro che potrebbero fare qualcosa stanno fermi aspettando che l'aiuto arrivi dal cielo. Mi chiedo infatti che fine abbiano fatto tutti i soldi stanziati dal governo per la ricostruzione, perché girare per la città è davvero qualcosa di desolante. Sapere che solo tre anni fa le vie di quella città erano piene di vita, piene di storie di gente diversa e ora è vuota e si respira solo lo strano odore dei calcinacci, mette veramente un senso di angoscia che ti porta a ricordare che davvero ogni pietra che poggi fa pensare al domani ma puoi e devi farlo solo oggi se vuoi che la città continui a vivere anche nel futuro. I cumuli delle macerie sono qualcosa di sconvolgente, perché vengono subito in mente i muri di casa propria e ti viene in mente quel senso di familiarità e tepore che sicuramente avevano anche quelli. Salendo per via 20 Settembre un brivido mi è salito per la schiena, perché vedere «La casa dello studente», che non esiste praticamente più e


dove sono morti tanti giovani, mi ha fatto ricordare che comunque anche le persone che rappresentavano il futuro per la città sono state spazzate via. Se prima L'Aquila era un piccolo centro in cui tutti si conoscevano, perché si incontravano nella piazza principale o nelle vie del centro, ora per attraversarla ci si impiega 50 minuti e tutte le relazioni sociali prima esistenti ora sono completamente interrotte, basta pensare che il nuovo luogo di aggregazione dei giovani è il centro commerciale «L'Aquilone»… una cosa che solo a pensarci mi fa rabbrividire. Perché il governo si è limitato solo a mettersi a capo di una ricostruzione materiale che comunque è ancora in alto mare e non ha cercato di puntare di più sulla ricostruzione sociale creando posti in cui gli aquilani potessero ritrovarsi per cercare di ricostruire insieme? La situazione dal punto di vista mentale delle persone non sembra reggere più, perché anche le persone che cercano di mettercela tutta non vedono ciò che si aspetterebbero di vedere. Le persone più colpite da questo punto di vista sono gli anziani e i giovani; i primi perché rimangono soli per intere giornate e cambiare casa, stile di vita a una certa età non è mai utile; un esempio è la frase detta da una signora riguardante un'anziana: “Ha chiamato per sapere quando sarebbe rientrata nella propria casa, ma nessuno ha risposto e si è messa a piangere”. I giovani hanno iniziato a gettarsi nell'alcol e nella droga perché non hanno un luogo valido dove ritrovarsi e inoltre vedono il loro futuro come un grosso punto interrogativo e lontano dalla loro città. Se anche il motore della città, ovvero i giovani, resta fermo o addirittura smette di funzionare, la situazione è davvero critica. Ma non tutto è così disastroso, infatti ci sono persone che creano spazi per ritrovarsi, per rimettere in moto la città, per riprendere la quotidianità che manca alla città; cercano di fare in modo che anche la più minima speranza diventi qualcosa di realizzabile.

Foto di Fiorella Turri

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MARIA CRISTINA PROIA VICE PRESIDE LICEO ANDREA BAFILE esempio, di un soggiorno-studio gratuito Cosa è stato fatto per i ragazzi che a Londra, ma in quel momento tutto dovevano sostenere la maturità dopo sembrava impossibile come prepar il terremoto? are semplicemente la valigia per par tire. Abbiamo rintracciato quasi tutti gli Quando succede una tragedia com alunni e gli insegnanti e ci siamo e la nostra, serve veramente tutto e noi contati. Qualcuno mancava all'appello. non avevamo nulla. Siamo stati in pigi ama Abbiamo chiesto alla Protezione Civile per una settimana, senza vergogn a di montare delle tensostrutture nel perché, in quella situazione, eravam piazzale della scuola. Abbiamo o tutti uguali: si è azzerato tutto. I prim modulato un “orario delle lezioni” che i tempi ci siamo anche aiutati, poi l'animo tenesse conto delle esigenze sia dei umano è riemerso nelle sue debolez ragazzi che dei docenti che, ze. E terminata la scuola? all'indomani del sisma si erano trasferiti Terminata la scuola i ragazzi han no sulla costa. Nel nostro Liceo erano dovuto fare i conti con la mancan za attivate 8 classi quinte, per un totale di della città. Soltanto a scuola si resp irava circa 200 alunni, hanno frequentato le un'aria di “normalità”. Lì si ritrovav ano i nostre lezioni circa 150 alunni compagni, gli insegnanti, c'era qua lcosa viaggiando quasi tutti i giorni. Non da fare, si condivideva e si esorciz zava esistevano più le classi, si cercava di il dolore della tragedia. La vita soc iale, completare i programmi, ma il tutto era al di fuori della scuola non c'era più. unito alla necessità di trovare un po' di L'unico luogo che si potesse tranquillità. Non è stato facile: frequentare era un centro commer ciale l'ambiente, la situazione, l'animo non situato in periferia. Ma, ormai, non erano sereni. Era una situazione esisteva più la distinzione tra cen tro e singolare, triste. Anche gli esami si sono periferia, ed accettare questo è diffi cile svolti sotto le tende con le commissioni per ragazzi abituati a passeggiar e tra nominate regolarmente, ma il Ministero vicoli medievali. Avevano un teso ro e decise che i nostri alunni, per motivi ora non c'è più. logistici e non, avrebbero sostenuto solo Voi insegnanti come avete affr ontato l'esame orale. la situazione? I ragazzi come hanno affrontato la Noi purtroppo abbiamo perso una maturità? collega. Al dolore si aggiungeva altro I ragazzi sono sempre stati dolore, ognuno di noi aveva perso presentissimi, collaborativi e solidali. qualcosa, tutti avevano problemi e Sprigionavano molta energia, ma difficoltà, le reazioni sono state mol to soprattutto manifestavano la volontà di diversificate. In generale, posso dire, ritornare alla normalità. Tutta l'Italia ci è che tutti i docenti sono tornati in sede, si stata vicino, molte associazioni hanno sono adattati ed hanno affrontato dimostrato solidarietà e cooperazione. situazioni imprevedibili, ma la trag edia Un gruppo di studenti ha usufruito, ad 179


si porta dentro, la vita è cambiata, l'animo è cambiato: ansia, paura, ano. stanchezza, insonnia ci accompagn la sia ci non Questo non vuol dire che di voglia di fare, di ricominciare, l'aiuto sperare. Sono però dell'idea che anche ce lo dobbiamo dare noi, perché . vere muo ono gli aquilani si dev è L'immobilismo che ci caratterizza istica tter cara ormai fuori moda. Questa la non degli aquilani non la sopporto, . sso condividevo prima e figuratevi ade , Gli aquilani sono immobili, sempre a, tagn mon di città una siamo confinati in o siam a, rast il Gran Sasso ci sov o di montanari, siamo chiusi. Pensiam il è a essere i migliori perché L'Aquil un le capoluogo: ma non è così. Ci vuo minimo di umiltà: ci dobbiamo . Fino rimboccare le maniche e lavorare sta Que . fatto o stat è ad ora tutto ciò non con tela nde pre è un'opinione personale, le pinze. Io sono aquilana ma non condivido “l'aquilanitas”, come la

Ci sono anche degli esempi virtuosi da fare? Qualcuno c'è, sicuramente, però sono troppo pochi. Quindi la prima cosa per ripartire veramente è fare un po' di autocritica? Forse sì, ci dobbiamo muovere anche noi. Per esempio le case classificate A: sono case non danneggiate nelle quali si poteva rientrare subito. Lo Stato ha dato ai possessori di case A la possibilità di chiedere 10.000 €. Tutte le case A hanno avuto 10.000 € dieci mila euro. Ma io mi chiedo, se non ne hai bisogno perché chiedi dieci mila euro? Non c'è stata una perizia? Sì certo, la perizia c'era: ecco, vedete, inizia la catena. L'ingegnere constata il danno e stabilisce il rimborso. Egli percepisce un compenso in base ad ogni perizia ed in percentuale al danno accertato. Che cosa viene fuori? Non credo si debba continuare, mi sembra molto chiaro il meccanismo! Se voi noi. chiamiamo più ti pos o siam moltiplicate per tutta la città, sono delle ci La domanda che e com “ma : sta cifre enormi. Infatti L'Aquila è il più volte è proprio que i sat pas o Son ?” grande cantiere d'Italia. Ma su questo mai non vi arrabbiate o, ferm o tutt c'è una speculazione assurda da parte ora anc è ed i ann tre ? di tutti: da parte dei proprietari, da parte gite rea non perché ito spir di à, talit degli ingegneri, dei gestori dei men di ne stio È una que r vole nel ne azio condomini, delle ditte appaltatrici, dei rmin dete di iniziativa, di sta que In i. cret fornitori dei materiali edili e così via. con i risolvere i problem e tant , che to con Mi domando come non ci sia una situazione ci siamo resi della e” ben “il per rivolta sociale anche tra di voi. iona rag si non e, volt ci ndo qua ma, Ritorniamo al discorso di prima, ma o, cas sto que in città, nti, asta dev e ndi anche al fatto che non sempre le gra ì cos edie sono trag i vers per i ism can denunce, le lagnanze vengono mec o entrano in gioc une com un ascoltate dagli organi competenti. Non per ed inimmaginabili tutto i, ism ego ati, pensiate che nessuno si sia ribellato, cittadino. Interessi priv affare ma non sempre è stato ascoltato, o le sibi pos un e com ito cep per e vien ché ci creduto o i tempi della giustizia non e tanto altro. Qui è tutto fermo per hanno permesso la facile risoluzione del sono dei fortissimi interessi, ma non ani, itali i, ilan problema. aqu semplicemente Però intanto passano anni e io la mondiali. casa nuova non ce l'ho.

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ora stati di progetti!!! Qui l'aquilano anc ita stru rico dice che l'Aquila deve essere 19.03 ORE 11.20 a con le pietre di prima: sono andati PAURA È VERAMENTE UNA MERDA IN contare le pietre. Questa cosa va GIRO NON C'È NESSUNO TRANNE 2 è benissimo fino al momento in cui CANI CHE CI SEGUONO DA TRE una ere ess possibile, ma non può è la ORE...NON HANNO COSTRUITO NIENTE conditio sine qua non. Se questa irà stru SEMBRA CHE L'ABBIANO BOMBARDATA condizione L'Aquila non si rico ii finit IERI..ORA ANDIAMO ALLA CASA DELLO mai. Non sappiamo dove siano STUDENTE C'È ODORE DI CALCINACCI fondi raccolti dalla nota cantante one Mannoia finalizzati alla ristrutturazi IN TUTTA LA CITTÀ...
 ” icis Am e “E.D re della scuola elementa è ola scu La situata nel centro storico. quanto puntellata da tre anni e non dico il costano quei puntellamenti, ma Eh lo so, però intanto aspetti con e delle cantiere non c'è. Nessuno sa dar pazienza che arrivi il momento giusto re, esaurienti e che che sblocchi le cose e speri che prima o risposte chia ri giustifichino un ritardo di inizio lavo poi qualche cosa si muoverà. Questa è . oso ogn così grande, anzi verg l'aquilanitas: è drammatico! Quando ancora Lei è molto critica ma sembra dicevano che il grande costruttore fiduciosa. rideva, è vero che rideva perché aveva nte Io sono rimasta qui, ma probabilme perfettamente capito i grandi interessi non ci rimarrò perché mi arrabbio che erano in gioco. Sono venuti dal troppo ancora molto, perché la vita qui è Giappone a vedere cosa si potesse ere ess può si non difficile. Dopo tre anni fare. E intanto all'Aquila i fortunati che La ancora in queste condizioni. avevano dei garages, dei sottotetti o congiuntura economica è molto delle cantine agibili hanno cominciato deve delicata, ma quello che si può fare ad affittarli ai prezzi di una metropoli. essere fatto al di là di ogni singolo Ora è come se vivessimo in una giovani interesse, soprattutto per dare ai metropoli senza nessuno dei vantaggi za ran spe una e un motivo per restare della stessa. Spesso mi chiedo come per continuare. faccia un ragazzo ad iscriversi alle Facoltà universitarie aquilane senza avere alcun degno servizio. E riguardo all'aspetto burocratico? La burocrazia ingessa tutto. In alcuni casi i fondi per la ricostruzione ci sarebbero anche, ma l'aspetto burocratico, ritarda, allunga, complica, è estenuante!!! Secondo me è mancato un potere decisionale: una persona che si assumesse la responsabilità di appoggiare o approvare un progetto, un'idea di ricostruzione. E ce ne sono

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GLI STUDENTI DEL LICEO

Siamo noi che ci stiamo provando. Infatti, oggi, le ultime due ore usciamo in centro con il professore di filosofia, ripercorriamo tutte le strade, ci sta aiutando un sacco. Noi vogliamo partecipare a progetti, far sentire la nostra opinione. Abbiamo intervistato tante persone, ma ci sono sembrate tutte poco motivate, non sembrava che volessero riscattarsi. Ci siamo accorti che dopo tre anni la situazione è ancora più o meno la stessa; alla fine la città è la nostra e i progetti devono partire da noi. Per esempio il mercoledì ogni due settimane ci incontriamo e c'è un forum dove discutiamo su come vorremmo la nostra città, sui nostri progetti. A giugno ci sono le elezioni del nuovo sindaco e speriamo che questo possa dare una svolta. Speriamo. Voi siete molto attivi? Siamo motivati, è la nostra città, qui ci dobbiamo vivere per altri sessant'anni, noi ci teniamo. Se penso alla mia vecchiaia, mi vedo ad andare al centro a fare una passeggiata con le amiche, oppure da mamma mi vedo a portare mio figlio a giocare al parco. Adesso come adesso ce ne andremmo tutti, se continua così, se questa rimane la situazione, per forza. L'università de L'Aquila è abbastanza quotata, però il fatto non è l'università, manca la vita. Un giovane di vent'anni non passa tutto il suo tempo in università. E il lavoro? Che opportunità offre? Si trova? Come muratore adesso si trova, per il resto no. Magari ingegnere edile, ma ormai tutti fanno ingegneria quindi tra qualche anno saranno tutti ingegneri. È vero che prima del terremoto era una città tranquilla? Sì, era una bella città. C'era una via che collegava la periferia al centro, che è viale

di Oltre alla scuola quali altri luoghi ritrovo avete? Le palestre, per esempio. Molti adulti ci hanno detto che è ga… aumentato l'uso di alcolici, di dro e, nqu ovu po' un to Penso sia aumenta hi luog i unic Gli . fare però non c'è nulla da li. loca i o son dove potersi ritrovare la sera vo ritro Quindi è vero che il luogo di migliore è stata la scuola e lo è tuttora? e Sì, purtroppo sì. Sembrerà triste com cosa. in Ma è stata l'occasione per viverla per ito, una maniera diversa dal sol apprezzarla, cosa che noi non facciamo normalmente. Ma per fate? esempio voi il sabato sera cosa o son e dov ico Andiamo al centro stor o, giam man ti, ran aperti tre locali e tre risto poi usciamo, ma fa freddo. Non ci sono eventi, concerti? Molto raramente. Solo durante la o settimana della Perdonanza. C'è stat ma to, emo terr il o qualcosa subito dop di dopo non si sono dedicati a noi più tanto. Prima c'era più vita? Prima il centro era abitato. C'erano di la negozi, e non solo pub o birrerie, quin a. c'er o mod “movida” in qualche aggi All'inizio sono venuti molti person vi Poi famosi, ma anche volontari. siete sentiti dimenticati? Dimenticati no, ma si potevano sicuramente organizzare cose per L'Aquila e portare un po' di vita. Vi hanno coinvolto nella ricostruzione?

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della croce Rossa, che è come una superstrada, è gigantesca, dove ora ai lati come locali hanno messo delle casette di legno. Quindi comunque sia i ragazzi bevono. Bè ma anche da noi, ovunque… Sì, ma qui non c'è alternativa, non c'è nulla da fare. Non si può dire una sera bevo e quell'altra vado al cinema. Qui il cinema non c'è. Ma voi personalmente vi siete accorti che avete cominciato a bere di più? Sì, sicuramente. C'è anche tanta gente che ha cominciato a fare uso di droga? Certo… Ma è per scappare dalla realtà? Proprio così. Parliamoci chiaro, noi non abbiamo niente. Sembra strano, ma è così. Per lo meno voi vi state impegnando, abbiamo visto tante gente che non ha questo entusiasmo. La questione fondamentale è che qui nessuno vuole ricostruire L'Aquila. Di gente che lavora ce n'è, e tanta. Ma nessuno vuole ricostruirla veramente, gli unici siamo noi, che però ci rendiamo conto che abbiamo sedici, diciassette,

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diciott'anni e non siamo politici, non possiamo amministrate i soldi. E quindi comunque sia non abbiamo scelta. Ci proviamo organizzando forum per esempio, come vi abbiamo detto, ma nessuno ci ascolta: i candidati sindaco non vengono, il sindaco attuale non viene, i politici nemmeno. L'altro giorno è venuto un ex generale presuntuoso dicendo: “ma voi lo avete letto il progetto del comune?”. È lungo 500 pagine e l'hanno presentato la settimana scorsa; dopo tre anni presenti il progetto per la ricostruzione?! Ci fa specie che in giro ci sia rassegnazione, come fanno a non arrabbiarsi vedendo tutto fermo dopo tre anni. Eh si, non fanno che lamentarsi.

21.03 ORE 15.30 OGGI È STATO TROPPO BELLO ☺ ABBIAMO CONOSCIUTO I RAGAZZI DEL LICEO SCIENTIFICO E IN UN ATTIMO SIAMO DIVENTATI AMICONI!


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Serena Righetti

zo del deserto si trovava il nonno guardava alla tv: nel mez Ricordo uno dei film western che le non passavano o quanto meno desolata, nella qua spesso una città, per lo più deserta nda dove le porte di non aveva nulla, se non una loca automobili ma solo cavalli. La città non passava nessuno, cowboys. Le vie erano silenziose, legno sbattevano al passaggio dei di un film di chissà quanti tto chissà dove. Era quella città, se non qualcuno di passaggio dire de L'Aquila. Il viale passeggiando per la zona rossa anni fa, che mi sembrava di vedere silenzio. Mi nel mezzo del deserto. Il nulla. Il principale mi sembrava una strada anni fa, piena di asioso flashback, la stessa via tre immaginavo, con una sorta di fant giare mano nella mano, immaginavo due ragazzi passeg negozietti, di boutique, di bar. Mi E invece sembrava , dei bambini ridere rincorrendosi. una mamma spingere il passeggino sentivano erano gli tern, dove gli unici rumori che si proprio di essere in quella città wes fantasma. Perché non rinascere? scricchiolii della strada. Una città è facile. Non è facile abbiamo visto, vissuto, sentito, non Trovarsi a raccontare quello che trasmette, anche dopo lcosa che L'Aquila inevitabilmente racchiudere in una pagina un qua perché è ancora così e malinconia, tristezza. Ma perché, tre anni dall'accaduto: solitudine, ioni durante il viaggio scere?”. Ascoltando un po' di opin non è una città che urla: “Voglio rina Pezzopane, dice essore alle politiche sociali, Stefania sono emerse diverse risposte: l'ass zione, non lasciando voluto controllare da subito la solu essere colpa del governo che ha usconi ha lasciato spazio locali. Ma quando il governo Berl spazio di intervenire alle politiche del liceo A. Bafile o essere cambiate. La vicepreside a quello Monti le cose non sembran lei definisce “aquilanitas”, in un comportamento tipico, che invece ci spiega che la colpa sta che “stanno fermi e rsi totalmente passivo degli Aquilani che consiste in un modo di atteggia lo shock del terremoto e dovuto. Personalmente credo che aspettano”, come se tutto gli foss o ritrovati senza primo momento capisco che si sian sia stato davvero tremendo: in un era aspettare. Ma già e e l'unica cosa che potevano fare sapere come muoversi, come agir i rimasta con le mani in ora di più TRE anni dopo, non sare sei mesi dopo il terremoto, e anc e o da normale io avessi potuto fare, da assessor mano: nel mio piccolo o grande che lche cosa avrei fatto. mie mani o stabilire un decreto, qua cittadino, a spostare pietre con le no è buttando la lli del progetto c.a.s.e. si incontra “L'unica occasione nella quale que il prof. Paternoster ha sse appuntata sul quadernetto che spazzatura”; frase di Giustino Pari ere così, perché quella frase creato per noi. Potrei anche conclud

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si commenta benissimo da sola. Sono passati tre anni, il terremo to si è trascinato via case, chiese, alberghi, auto. Anche circa trecento morti, senza contare le morti del post-terremoto. Ma è successa la cosa peggiore: si è trascinato via l'anima della città. Si è trascinato via quelli che erano i momenti di sorrisi, i centri di aggregazione, le relazion i sociali. Sotto diversi aspetti: in primo luogo ha distrutto fisicamente il centro ed ha quindi reso impraticabile la zona dove i ragazzi si recavano il sabato sera, lamenta ndosi pure - come ci ha raccontato Gabriella, una ragazza della protezione civile - che “loro, all'Aquila non avevano nulla”. In secondo luogo la costruzione delle così dette “New Town” al di fuori del centro e molto distanti tra di loro, ha fatto sì che la popolazione si disperdesse su un vastissimo territorio: così molti dei “vicini di casa” e degli “amici di sempre” sono finiti in new town diverse e distanti. Le relazioni fino ad allora instaurate sono andate a perdersi creando un disagio maggiore per chi, come anziani e bambini, non è dotato di un automobile per potersi muovere. Nelle stesse new town, inoltre, non ci sono - né sono state mai pensate strutture destinate all'aggregazione, soprattutto di anziani e adolesc enti, come bar, sale giochi, biblioteche. L'unica struttura presente è la “tenda amica”, una tenda nel vero senso della parola che funge da oratorio, chiesa, bar. Infine, a livello emotivo c'è chi pensa che il terremoto abbia unito la popolazione e chi invece che l'abbia divisa. Il primo è il caso di Onna, una piccola cittadina a pochi chilometri dal capoluogo, colpita con 40 morti su 300 persone. L'intero paese è stato spostato di qualche chilometro in casette bifamiliari costruite, tra il resto, dai trentini. Nunziatina, una signora del luogo, ci raccont a che ora il paese è molto unito: tutti festeggiano la nascita di un bambino e un matrimo nio. Il secondo caso invece ce lo racconta la vicepreside del liceo Bafile: certo dice, per un po' di tempo ci siamo voluti bene, ma non è durata neanche una settimana e poi abbiam o cominciato a speculare sui soldi che ci venivano mandati.

ri lla Tur i Fiore d to o F

19.03 ORE 18:06 SONO STANCA. SIAMO ALLA SEDE DI UNA FEDERAZIONE DI ASSOCIAZIONI CHE SI SONO POSTI COME OBIETTIVO RICOSTRUIRE LE RETI RELAZIONALI CHE SONO MORTE CON IL TERREMOTO. FIGO PERCHÉ SI DANNO TUTTI STRA DA FARE! NON SO DOVE TROVANO LA FORZA!

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MARGHERITA COZZIO

RACCONTARE L'AQUILA a quella del Finalmente sono riuscita a vedere L'Aquila da un'altra prospettiva rispetto ad andarci da nte invade ura volontariato. All'inizio mi sentivo un po' inutile o forse addiritt di avere la capito ho “giornalista” a caccia di informazioni e non da volontaria. Poi però viaggio questo grande possibilità di tenere viva la memoria delle persone che durante storia per non abbiamo incontrato ed intervistato, di poter scrivere e parlare della loro dimenticare. ni riguardo ai Mi trovo in difficoltà ad elaborare in poche righe dei pensieri e delle riflessio dopo il ma oto, terrem del prima problemi di una città distrutta. Io non l'avevo mai vista , Caritas campo al città, sisma ci sono andata per ben cinque volte. Mi sono legata alla Italia, tutta di ri alle vecchiette, ai bambini del Grest, alle amicizie che ho fatto con volonta di tornarci. a Davide. Dopo la prima volta, nel giugno 2010, mi porto dietro la voglia ci vuole restare “È una città morta, la gente non ha né prospettive né speranze, ma chi che nessuno mai dicono ti quando Eppure i. qui.” Questo è quello che pensano gli aquilan e non mi sento lì inarmi immag ad andrebbe ad abitare a L'Aquila, io, timidamente, provo la mia Trento, come po' un così fuori luogo. Mi piace la cittadina, protetta dalle montagne, mi piace notte; la ma a due passi dal mare; mi piace il clima caldo di giorno e raggelante parlata dialettale. la gente disponibile e ospitale, che suscita subito simpatia con la sua ialità che ha, La domanda sorge spontanea: allora perché una città così, con le potenz ? reagire e i rialzars sembra dopo tre anni dalla disgrazia accadutale, non erazione e le La questione è complessa, ci sono molti aspetti da prendere in consid re al “ghe attribui poteva sfaccettature sono molteplici. All'inizio la lentezza dei lavori si è che il fatta sono pensi mi” del governo Berlusconi, ma... l'idea che personalmente mi ità della gente del problema non è solo legato alla gestione dall'alto, ma anche alla mental po', gli aquilani del posto, la cosiddetta “aquilanitas”: a quanto pare, generalizzando un ndosi che tutto aspetta viene”, che post-terremoto si sono abituati “a prendere quello e e a fare del manich le carsi venga fatto dagli altri, mentre dovrebbero iniziare a rimboc e. Il tipo di comun e ale proprio meglio nel proprio piccolo per ritrovare il benessere person perché ità, mental assistenza che lo Stato ha fornito alla popolazione ha stimolato questa tutti gli abitanti è stata un'assistenza che non ha responsabilizzato. Naturalmente non si è arrabbiato, ha sono rimasti “con le mani in mano”, non tutti si sono rassegnati: c'è chi protestato, ha reagito. aggregazione e Rialzarsi non è facile: i giovani non hanno più a disposizione luoghi di te portati a bilmen inevita fanno sempre più uso di sostanze stupefacenti, gli adulti sono solo) non (e i scappare da una città che offre loro ben poche opportunità, gli anzian della perdita dei soffrono in maniera diffusa di depressione a causa del trauma subito, loro cari e dello stato di isolamento in cui si trovano nelle “new town”. ricordato il redattore Si dice che “la morte sia la benzina della storia”, citazione che ci ha l'occasione di ha l'uomo a de “Il Centro” Giustino Parisse, cioè che dopo ogni tragedi e l'occasione coglier a riprendersi e ricostruire. Il terremoto è ormai accaduto, ora bisogn

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Foto di Laura Gretter

per fare cose nuove; insomma, utili zzando un paragone fatto da una giornalista aquilana, un po' come funziona per gli oggetti, la città è sottoposta ad una second a possibilità di utilizzo. Ma come si possono ricreare ricordi e relazioni in una cittadina, che non ha più un fulcro, formata dall'unione di tante comunit à? Gli abitanti stessi ci dicono che un passo importantissimo da fare consiste nel riportare la gente nel centro storico, dove i lavori di ricostruzione non sono ancora iniz iati, ma si prevede che comincino nell a primavera del 2013. Come è possibile che la gen te sopporti o sia costretta a soppor tare una situazione del genere? Siamo imbestialiti noi, giovani che viviamo dall'altra parte d'Italia, a sentire certe cose. Vorremmo darci da fare e protestare perché la ricostruzion e imbocchi una via più sensata, rapida e utile. Ma pur troppo il nostro viaggio è finito, anc he se in un certo senso continua, perché ci portiam o dietro un'esperienza forte, talvolta drammatica e perché il legame con i ragazzi del liceo scientifico Andrea Bafile de L'Aq uila non si è più interrotto. Devo tornare a scuola, anche se la mia testa è ancora lì, intrappolata tra le macerie… Ho imparato davvero tanto in tre giorni di viaggio: ho condiviso, mi sono info rmata, mi sono commossa, ho riflettuto, ho conosc iuto. Tutto questo grazie alla scuola che mi ha dato questa opportunità, ai professori acc ompagnatori che sono stati capaci di fare i prof ma anche di essere punti di riferimento attenti e divertenti e a tutti gli studenti partecipanti, con i quali si è creato un bellissimo rapporto. Bello, bello davvero, L'Aquila lascia sempre il segno.

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VIAGGIO e SOLIDARIETÀ PADRE MARIO BENEDETTI NADIA LANCERIN MEDICI SENZA FRONTIERE CHIARA VACCARINI EMERGENCY FABRIZIO BETTINI OPERAZIONE COLOMBA ANNA PERINI, PAOLO CORNO PER UN MONDO MIGLIORE ELISABETTA ANTOGNONI, VINCENZO BEVAR

CINEMOVEL

PRESENTI NELLA VITA POSSONO ESSERE FATTI MOLTEPLICI TIPI DI VIAGGI E PER SVARIATI MOTIVI, COME AD ESEMPIO PER GLI INFINITI INTERESSI DI CIASCUNO, PER AMPLIARE LE PROPRIE CONOSCENZE, PER FUGGIRE DA QUALCHE DISPERAZIONE INTERNA O ESTERNA O PER CERCARE DI ESSERE SEMPLICEMENTE PARTE ATTIVA DEL MONDO IN CUI SI VIVE. È FORSE PROPRIO QUEST'ULTIMA TIPOLOGIA CON CUI ABBIAMO AVUTO L'OPPORTUNITÀ DI ENTRARE IN CONTATTO, CHE CI HA MAGGIORMENTE ENTUSIASMATO E FATTO RIFLETTERE. È STATO INCREDIBILE E ABBIAMO ASSISTITO ATTONITI A OGNI SINGOLO INCONTRO CON QUESTE PERSONE CHE, CON IL LORO BAGAGLIO DI VITA 190


CARICO DI ESPERIENZE TOCCANTI E SIGNIFICATIVE CHE HANNO CONDIVISO CON NOI, HANNO ACCRESCIUTO MAGGIORMENTE LA NOSTRA VOGLIA DI VIVERE, DI DEDICARCI AGLI ALTRI E DI NON ABBATTERCI MAI DI FRONTE ALLE DIFFICOLTÀ. DOPO AVER ASSISTITO A TESTIMONIANZE CON PERSONE CHE DONANO LA LORO VITA A COLORO CHE NON HANNO NÉ LA FORZA FISICA NÉ SPIRITUALE PER VIVERE, ABBIAMO CAPITO CHE NON SI PUÒ RESTARE SOLO SBALORDITI E SENZA PAROLE MA BISOGNA AGIRE, CERCARE DI ESSERE PRESENTI NEL NOSTRO PICCOLO MONDO CON AZIONI DI CONDIVISIONE. NON CI È SFIORATO NELLA MENTE DI ELOGIARLI, DI RIEMPIRLI DI MERITI O DI INNALZARLI COME SALVATORI DEL MONDO PERCHÉ NON ERA ASSOLUTAMENTE QUELLO CHE VOLEVANO SENTIRSI DIRE; QUANDO UNA PERSONA DECIDE DI FARE DELLA PROPRIA VITA UNO STRUMENTO PER AIUTARE GLI ALTRI E SI SENTE REALIZZATO, NON HA BISOGNO CHE QUALCUNO LO CELEBRI MA SEMPLICEMENTE DI GENTE CHE FACCIA TESORO DI CIÒ CHE EGLI RACCONTA. ALCUNE VOLTE SEMBRAVANO QUASI IMBARAZZATI NEL PARLARE, FORSE PERCHÉ PER LORO ERA SCONTATO QUELLO CHE FACEVANO, ERA LA LORO QUOTIDIANITÀ SVOLGERE QUELLE SEMPLICI AZIONI CHE CI DESCRIVEVANO E QUINDI MOSTRAVANO UN PO' DI IMPACCIO NEL VEDERCI COSÌ ENTUSIASMATI. L'ATMOSFERA CHE SI CREAVA NEGLI INCONTRI ERA SUGGESTIVA E SEMBRAVA DI POTER SPAZIARE CON LA MENTE IN QUEI LUOGHI. LE FOTO DI PERSONE E BAMBINI CHE CI MOSTRAVANO DAVANO L'IMPRESSIONE DI POTER ACCAREZZARE QUEI VOLTI E DI CONFORTARLI E FORSE QUESTO È SERVITO AI VOLONTARI PER PORTARE, UNA VOLTA TORNATI ALLE LORO ATTIVITÀ, LA NOSTRA FORZA SIMBOLICA, LA CONSAPEVOLEZZA CHE QUALCUNO LI PENSA ED È COSCIENTE DELLE VARIE SITUAZIONI PRESENTI. Francesco Benanti 191


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Fotografie: Archivio Centro Missionario Diocesano di Trento


INTERVISTA A CURA DI FRANCESCO BENANTI, NOA NDMIURWANKO, STEFANO PATERNOSTER

PADRE MARIO BENEDETTI

PADRE MARIO BENEDETTI (SEGONZANO, TRENTO, 1937). DOPO 38 ANNI TRASCORSI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO COME MISSIONARIO COMBONIANO, DAL 2009 VIVE IN UNA CAPANNA NEL CAMPO PROFUGHI DI MAKPANDU, NEL SUD SUDAN, ASSIEME AD ALTRE 4.000 PERSONE. PADRE BENEDETTI ARRIVA NEL SUD SUDAN DOPO AVER DECISO DI SEGUIRE I SUOI PARROCCHIANI, CONGOLESI DI ETNIA AZANDE, IN FUGGA DALLE INCURSIONI DELL'ESERCITO DI RESISTENZA DEL SIGNORE (LRA); GRUPPO GUIDATO DA JOSEPH KONY, SUI CUI PENDE DAL 2005 UN MANDATO D'ARRESTO PER CRIMINI CONTRO L'UMANITÀ DA PARTE DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE DELL'AIA. Che genere di viaggio si aspettava o era pronto ad affrontare quando ha scelto la missione in Africa? Una volta che uno è determinato ad arrivare ad un punto è pronto a tutto. La prima volta che sono andato in Africa, nel 1971, sono andato per mare. Siamo partiti da Genova su di un mercantile, non è stata proprio una crociera, trentatré giorni di viaggio con ben poche possibilità di scendere. Per noi occidentali il termine viaggio fa pensare a momenti di piacere, mentre chi vive in Congo e in Sudan dove sogna di viaggiare? La gente del posto non ha l'idea di viaggiare, ci troviamo in mezzo all'Africa, non si tratta di persone che pensano di lasciare l'Africa per arrivare in Europa, si vedono chiusi in loro stessi e la loro vita è al campo profughi oppure nei villaggi. Le persone poi sono molto legate alla propria terra, non hanno l'idea di viaggiare, anche perché mancherebbe il denaro per farlo. Quando sono arrivato in Congo, all'inizio

degli anni 1970, era più facile viaggiare e comunicare, oggi tutto è peggiorato. Una volta si spedivano le lettere con i francobolli, ora è impossibile, per far arrivare una lettera bisogna passare attraverso qualcuno che viene in Europa o in Italia. Le persone che vivono con lei nel campo profughi si spostano per andare a lavorare? Il villaggio più importante è a 45 km di distanza e per andarci usano la bicicletta o vanno a piedi, oppure pagano dei camion che passano, ma lo fanno solo per andare a lavorare, non c'è l'avventura o la distrazione. La gente è schiava del posto e di una situazione drammatica, è terribile per me vedere come vivono. In Italia quando si usa il termine “esodo” ci si riferisce a quello estivo, ai grandi trasferimenti vacanzieri, ma il villaggio in cui lei ha vissuto ha messo in atto un vero esodo, ha dovuto spostarsi in un altro Paese per fuggire. Ci vuole raccontare cosa è successo?

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L'esodo che ha fatto il villaggio è quello per la sopravvivenza. Hanno lasciato le loro case e il loro villaggio per vivere. Questo “esodo” è cominciato il 17 settembre del 2008 a causa dei ribelli, si è trattato di una fuga, non era nulla di organizzato, ma piuttosto un “si salvi chi può”. I ribelli arrivati al villaggio erano circa una sessantina, armati e tutti giovani. Prima sono passati in una scuola secondaria e hanno preso una trentina di ragazzi e di ragazze, li hanno legati e sono venuti davanti alla missione. Davanti alla missione c'era un piazzale, hanno fatto sedere i ragazzi e poi hanno saccheggiato il villaggio, hanno cercato e portato via tutto ciò che ritenevano utile. I ribelli hanno bruciato le case e preso tutti i viveri e così la gente è fuggita in Sudan o all'interno del Congo per cercare di salvasi. Rimanere significava venire uccisi. Abbiamo letto che lei si è nascosto nella foresta, riuscendo a fuggire ai ribelli. Io ero il responsabile della missione e i ribelli mi hanno chiesto di mostrare dove avevamo il riso e le arachidi. Mentre li stavo accompagnando siamo passati davanti alle stanze dei sacerdoti e loro sono entrati per portare vie delle cose e così mi sono ritrovato da solo, ero molto in dubbio: restare oppure scappare? L'idea che avevo in quel momento era questa: anche se i

ribelli ci stavano aggredendo non erano super-uomini e se fossi scappato avrebbero capito di non essere onnipotenti, così ho deciso di scappare. C'erano altri sacerdoti nella missione? Eravamo tre padri, insieme a me c'era un padre sudanese e uno delle Marche. Dopo che sono scappato li hanno presi e fatti sedere su due panche davanti alla missione e li hanno legati, nel frattempo mi cercavano e interrogavano i due padri chiedendo loro dove fossi, ma loro dicevano: “L'avete preso voi, come possiamo saperlo?”. Allora hanno cominciato a cercarmi intorno alla missione e così ho iniziato ad allontanarmi, mentre lo facevo vedevo le capanne vuote della gente che si era messa in salvo. Alle cinque e mezzo della sera hanno portato i padri nella foresta, hanno fatto circa settecento metri lungo la strada e poi li hanno lasciati. Verso le sette/otto di sera sentivo dei colpi, ho cercato di avvicinarmi alla missione e ho visto la missione che bruciava. Sono tornato nella foresta e ho passato la notte, anche se avevo paura perché potevo trovare serpenti o altri animali feroci. Per quale motivo hanno rapito i ragazzi della scuola? Quando rapiscono questi ragazzi è per averli come soldati, ribelli come loro, men-


tre le ragazze vengono usate come donne per i capi. Cercare di fuggire è molto pericoloso, se uno di loro scappa e poi viene ripreso viene ucciso per dare una lezione anche agli altri. I ragazzi stando con i ribelli cambiano la propria testa e diventano pericolosi. Vengono unti con un olio e gli fanno credere che possono combattere perché non moriranno, ma se fuggono il malocchio li perseguiterà, quindi hanno un “sacro terrore”. Ai ragazzi fanno superare delle prove per vedere se sono coraggiosi e vengono costretti ad uccidere persone ammalate o che non possono più camminare, perché la loro vita è solo “cambiar posto”. Alcuni ragazzi che erano scappati e che sono venuti al campo hanno tutta un'altra mentalità; persino le persone che li accoglievano avevano paura, perché erano i bambini stessi che dicevano: “Io ho ucciso tre, quattro persone con il fucile”. C'è un caos psicologico. Uno di questi ragazzi che è scappato ed è arrivato al campo profughi mi ha raccontato che il comandante si domandava come fossi riuscito a fuggire e che se mi avessero trovato mi avrebbero ucciso. In seguito all'attacco alla missione ci sono state delle vittime? Nella nostra missione si erano rifugiati alcuni ragazzi fuggiti dai ribelli. Questo perché si era parlato di amnistia per quei ribelli che consegnavano i fucili e così alcuni ragazzi sono fuggiti e hanno chiesto aiuto alla missione, noi li abbiamo aiutati dando loro del denaro, del cibo, dei vestiti e cercando di portarli in una zona più sicura a circa novanta chilometri. Il giorno dell'attacco, due giovani stavano portando al sicuro con la moto due ragazzi che si erano rifugiati da noi. Mentre li stavano portando al sicuro hanno incontrato dei ribelli che li hanno subito uccisi. Hanno preso la mannaia ed hanno spaccato la testa al ragazzo che li portava con la moto. Come sacerdote, cosa prova di fronte a

dei ribelli che utilizzano il nome del Signore per saccheggiare e uccidere? Questi ribelli volevano che in Uganda, invece di applicare la Costituzione ugandese, venissero imposti i comandamenti di Dio. Inizialmente, la fondatrice aveva chiamato questo movimento «Movimento dello Spirito Santo» ed in seguito il nome è cambiato in «Armata di resistenza del Signore». Ma di quale Signore? Massacrano la gente in una maniera inumana! Dove trova la forza, a più di settant’anni, per affrontare tutti questi rischi e tutte queste fatiche? Una volta che ci si abitua ad un certo stile di vita si arriva a fare tutte queste cose, non sono cose eccezionali. A volte sono delle situazioni particolarmente drammatiche a far nascere degli eroi quotidiani? Senz'altro, però credo che sia anche il Signore a dare una mano, perché ci sono questi momenti particolari in cui uno si sente forte, però nella quotidianità della vita è più difficile vivere, restare. Io mi trovo con loro, ma loro hanno un modo di parlare, di pensare e di vivere diverso dal mio e a volte è difficile comunicare. Quello che costa di più è la quotidianità. La vera difficoltà è il non riuscire a togliere questa sofferenza. In tutta la mia vita ho avuto l'idea fissa che tutti i ragazzi dovessero andare a scuola e potessero imparare, ma al campo profughi è tutto diverso, le organizzazioni umanitarie aiutano soltanto i ragazzi delle elementari che sono circa cinquecento, hanno costruito delle scuole ricevendo degli aiuti dall'America. Dopo le scuole elementari non c'è niente, allora abbiamo cercato di fondare una scuola magistrale di quattro anni, ma è un miracolo che una ragazza riesca a diventare una maestra, perché verso la sesta elementare, quando hanno circa dodici anni, le ragazze sono spesso già mamme, allora non può più andare a scuola e in questo modo non ci sarà

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evoluzione. Se non c'è l'istruzione della donna in Africa non si arriverà ad uno sviluppo totale. C'è quel proverbio che dice: “Se tu istruisci un uomo, l'uomo penserà per se stesso, ma se tu istruisci una donna lei istruirà più di uno”. Il futuro è nella donna. Con questa scuola magistrale i ragazzi avrebbero un diploma in mano, ma questi ragazzi non hanno voglia. La gente ha molta fame, dal mattino fino a mezzogiorno non mangiano niente ed è difficile poi seguire la scuola. I ragazzi vogliono avere un po' di denaro per comprarsi l'alcool e la droga. Per me non è facile trovare i soldi per pagare i libri e i maestri, i maestri delle scuole elementari ricevono abbastanza soldi e quelli delle superiori vogliono essere pagati allo stesso modo se non di più. Non le viene rabbia a vedere la nostra scuola appena ristruttura e con tutte le macchinette per le merendine? Quello che penso è il perché delle ingiustizie laggiù. Perché la gente viene ammazzata, perdono i figli e le case? Che male hanno fatto? La gente stessa se lo chiede. I giovani, quale avvenire possono avere? Nessuno. Si cerca di orientarli verso la scuola, perché non perdano tempo e se un giorno torneranno in Congo, avranno in mano qualche cosa. Stiamo mandando delle lettere all'ONU perché ci aiutino, ma non ci aiutano. Prima della scuola elementare abbiamo costruito un asilo per i bambini dai quattro ai sei anni che sono circa duecentocinquanta, ma anche lì non abbiamo ricevuto nessun aiuto. Abbiamo scritto molte volte all'ONU, ma sono organizzazioni umanitarie che cercano solo i propri interessi. La mia presenza lì è molto importante perché è un segno per far capire che qualcuno è loro vicino e soffre con loro. Nel campo, oltre a lei, ci sono altri operatori come Medici Senza Frontiere? I Medici Senza Frontiere c'erano ed erano presenti anche i medici e gli infermieri del-

VIAGGIO

È L'INCONTRO DI PER ME NUOVE PERSONE, CULTURE, TRADIZIONI. IL VIAGGIO È SCOPRIRE LE DIVERSITÀ DEI PAESI NEL MONDO, E VEDERLE CON I PROPRI OCCHI NON SOLO ATTRAVERSO UNO SCHERMO. VIAGGIARE È RICORDARE LA STORIA, MA ANCHE CREARE NOSTRI PERSONALI RICORDI. IL VIAGGIO CI PORTA AD APRIRE I NOSTRI OCCHI E SOPRATTUTTO LA NOSTRA MENTE.

ELISA MOLINARI (4B) lo Stato sudanese, che preferivano i sudanesi ai rifugiati congolesi e si creavano contrasti tra le due popolazioni che sono della medesima etnia. Vedevano i congolesi come dei ladri che venivano a rubare il loro terreno, il loro cibo, le loro medicine, ma non è colpa dei congolesi se si trovano là. Sono le organizzazioni internazionali che li hanno collocati in questo posto in cui devono aspettare fino al giorno in cui saranno fuori pericolo. Poi ci sono stati dei problemi e Medici Senza Frontiere ha lasciato il campo profughi. Che cosa le rimane più impresso della vita nel campo? La sofferenza di questa gente per vivere. Sono in una zona morta, chiusa per le comunicazioni, per i giornali, per i telefoni. A volte li paragono ad uno zoo, a un campo di animali, perché lì le organizzazioni vengono a portare da mangiare una volta al mese e quel cibo che danno non è un cibo nutriente e che piace ai congolesi; in Congo mangiavano riso e arachidi, al campo danno delle lenticchie, del granoturco, cose che in Congo non si mangiano molto. I genitori, vedendo che i loro bambini non

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crescono, sono costretti a vendere il cibo che ricevono per comprare cibo più nutriente per i loro bambini. Dove si trova il campo profughi rispetto al vostro villaggio? Quanta strada hanno dovuto percorrere le persone in fuga? Dalla frontiera al villaggio dove vivevamo è circa trenta chilometri, però dalla frontiera fino al campo dove ci troviamo adesso sono altri sessanta chilometri. Lei è partito con loro o è arrivato in un momento successivo? Nel villaggio ero tornato la mattina dopo l'attacco e la missione bruciava ancora. La sera dell'attacco i ribelli avevano bruciato la missione e dato fuoco alle case. I padri, sono poi partiti verso il Sudan con un ra-

che era rimasto, medicine, specialmente quelle per la malaria, poi sono partito in moto con un ragazzo che mi ha portato ad una comunità di sacerdoti in Sudan. Siamo stati accolti e aiutati, anche dallo Stato del Sudan che ci ha aiutato per rifare il passaporto e per poter rientrare in Italia. Arrivato in Italia ho passato un periodo di riposo, ma avevo sempre in mente queste persone che erano scappate dai loro villaggi. Il nostro fondatore, Daniele Comboni, aveva l'idea di fare causa comune con la gente, diceva loro: “La vostra sofferenza è la mia sofferenza, la vostra gioia è la mia gioia”. Quindi anch'io, essendo comboniano, volevo avere questa ispirazione. Per questo anche se sarei dovuto ritornare in

gazzo che aveva la moto, mentre io ho aspettato. Le persone erano traumatizzate, avevano preso i loro bambini dalla scuola e li volevano aspettare nella speranza che uscissero dalla foresta, perciò non volevano partire, altrimenti i bambini non avrebbero trovato nessuno. Sono rimasto con loro ad aspettare per quattro giorni. Nel frattempo avevamo trovato un telefono nella stanza di un padre e con questo ho comunicato a Roma dicendo che avevano bruciato la missione. Loro dissero che era meglio se lasciavo la missione perché i ribelli potevano tornare. Prima di partire ho distribuito alla gente ciò

Congo ho chiesto di andare in Sudan in mezzo ai miei parrocchiani. Sono partito ai primi di maggio del 2009 e sono arrivato al campo profughi il 31 maggio, il giorno della Pentecoste, abbiamo celebrato la messa e la gente era molto contenta, diceva: “Il padre viene in mezzo a noi quando poteva stare a casa sua” e così hanno preso un po' di coraggio. Al campo avevano distribuito dei teloni per farsi delle capanne, soltanto dopo li avevano sostituiti con delle erbe per avere il tetto e poi tutto intorno con del fango. Allora la gente ha pensato di costruirmi una capanna e una chiesa per poter abitare con loro nel campo.

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Fotografie di Nadia Lancerin


INTERVISTA A CURA DI AGNESE GARBARI, ARIANNA BERTONI, CHIARA MATTEI, ENRICO PRUNER, FEDERICO ROVEA, FRANCESCO BENANTI, ILARIA SEGATA, IRENE LUCE PARISI, LAURA GRETTER, MARIKA FERRARI, NICOLE LONA, NOA NDIMURWANKO, RUAN BARBACOVI, SAMUEL GIACOMELLI, VALERIA TREVISAN

NADIA LANCERIN

MEDICI SENZA FRONTIERE

NADIA LANCERIN (TRENTO, 1982), INFERMIERA, LAUREATASI PRESSO L'UNIVERSITÀ DI MEDICINA DI VERONA NEL 2005. NEL 2010 SEGUE UN MASTER IN MALATTIE TROPICALI E SALUTE INTERNAZIONALE E NELLO STESSO ANNO INIZIA LA SUA COLLABORAZIONE CON MEDICI SENZA FRONTIERE. CON MSF REALIZZA TRE MISSIONI: IN NIGER NEL 2010 PER UN PROGETTO SUL CONTRASTO ALLA MALNUTRIZIONE, NEL 2010-2011 NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO PER UN PROGETTO FINALIZZATO ALL'ACCESSO AI FARMACI ESSENZIALI E NEL 2011 AD HAITI PER SEGUIRE IL POST-TERREMOTO E UN'INTERVENTO DI CONTRASTO ALLA DIFFUSIONE DEL COLERA. ATTUALMENTE LAVORA PRESSO IL REPARTO MALATTIE INFETTIVE DELL'OSPEDALE S. CHIARA DI TRENTO; IN ATTESA DI PARTIRE PER UNA NUOVA MISSIONE AD OTTOBRE 2013. Che studi hai fatto e perché hai scelto questo mestiere? Ho fatto il liceo pedagogico a Borgo, finite le superiori sono stata per quattro mesi in Africa con una missione e lì ho conosciuto gente che lavorava in un progetto di cooperazione internazionale; mi sono infomata e poi ho scelto di fare l'infermiera per un eventuale ingresso nella cooperazione internazionale. Cosa ti ha spinto a rischiare la tua vita in Paesi che hanno vissuto calamità naturali e sofferenze? Il voler cercare di essere dalla loro parte,

mettersi nei loro panni, capire effettivamente quanto dolore si provi e quanta forza serva per venirne fuori. Come venite formati e preparati per queste esperienze? Veniamo formati molto poco, tu parti con le conoscenze che hai già e per i nuovi prima della partenza si organizzano dieci giorni in cui tutti i ragazzi della prima missione si incontrano e si parla di quello che si farà, della vita e delle norme di sicurezza. A livello infermieristico e a livello medico quello che non sai lo imparerai là, quindi bisogna essere molto flessibili.

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Hai iniziato a lavorare come infermiera in Italia oppure hai cominciato là? Ho lavorato due anni e mezzo in Italia, poi mi sono licenziata perché avevo bisogno di un periodo di pausa in cui ho fatto un viaggio in Messico; sono tornata, ho fatto il master di malattie tropicali - nel frattempo lavoravo in una casa di riposo per guadagnare i soldi del master che costa tantissimo - e poi sono partita. Come viene assegnata la meta delle missioni? Puoi esprimere delle preferenze, puoi dire: “Io preferisco un programma di emergenza vaccinazioni o malaria o malnutrizione rispetto ad un progetto regolare di otto, nove mesi per l'accesso ai farmaci essenziali o la prevenzione dell'HIV o della tubercolosi”; ma ogni missione sarà sempre una novità, perché rispetto agli standard a cui sei abituato tutto quello che incontri negli stati in cui Medici Senza Frontiere lavora è tutta un'altra cosa. La prima missione me l'hanno proposta ed era un progetto di malnutrizione nel Niger. L'ultima missione che ho fatto è stata ad Haiti e sono stata io a richiederla perché volevo lavorare in blocco operatorio e lì ce n'era la possibilità. Di solito la prima missione è la missione spacca ghiaccio, tanti rinunciano tanti continuano perché non è sempre facile stare in missione; ci sono delle norme di sicurezza difficilissime, se vuoi uscire devi sempre avere una radio e ogni 15 minuti devi fare una comunicazione per dire che stai bene, che non sei stata presa dai ribelli, perché si lavora soprattutto in zone di guerra, poi la sera c'è il coprifuoco, si mangia sempre la stessa roba... Ci sono tante cose a cui non siamo abituati. Quali sensazioni provi quando arrivi nelle zone in cui dovrai operare? Ti è mai successo di voler tornare indietro? Tornare indietro e lasciar tutto no. È vero che quando arrivi, soprattutto la prima volta, è agghiacciante, non c'è nessuno che

parla la tua lingua e avresti voglia di poter sfogare tutto nella tua lingua. Si provano tante emozioni contrastanti, dall'amore all'odio. Ti è mai capitato di sentirti “inutile” nonostante le tue competenze mediche? Sì, ma infatti io continuo a sostenere che non è che perché noi siamo gli “europei” o i “bianchi” possiamo andare e dettare legge. Noi lavoriamo a strettissimo contatto con uno staff locale, perché l'obbiettivo di Medici Senza Frontiere è quello di formare la popolazione e quindi poi lasciarli camminare con le proprie gambe. Si impara molto dallo scambio, ho conosciuto tantissimi infermieri, soprattutto in Africa, che potrebbero benissimo essere medici, hanno delle competenze e delle capacità che noi qui assolutamente non abbiamo e quindi è proprio un interagire, è uno scambio. Coraggiosa, altruista, forte, entusiasta e istruita, così immaginiamo un'operatri-ce umanitaria... Quanto ti riconosci in queste qualità? Quanto hai sviluppato queste ed altre qualità durante le tue missioni? Coraggiosa sì, nel senso che non è da tutti prendere, lasciare ed andare, perdere un lavoro fisso, vivere la guerra, le paure, gli attacchi dei ribelli. Altruista sì, effettivamente. Forte no, non dovete pensare che una persona che parte sia forte. Ci sono moltissimi momenti di debolezza ed è importante farli uscire, è importante piangere e ritrovare l'armonia, non penso che una persona possa essere sempre forte. Poi ci sono tante valvole di sfogo: c'è chi urla, chi piange, chi si nasconde, ma non puoi essere sempre forte quando sei lontano dalla tua famiglia, dai tuoi amici e dal tuo vissuto quotidiano. Entusiasta sicuramente, altrimenti non ti metteresti nemmeno nell'ordine delle idee di partire, di rischiare, di provare. Istruita il giusto, nel senso che ho fatto le superiori, ho avuto la fortuna di poter studiare, ho fatto l'università e ho fatto un

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master, però ho ancora molte lacune. Sicuramente sviluppi altre qualità o qualità che non pensavi ti appartenessero, tipo la condivisione e saper affrontare le difficoltà lontano dal tuo quotidiano, dalla presenza stabile di alcune persone che hai come punti di riferimento, impari ad ascoltarti molto di più e ad essere anche più critica sia con te stessa che con gli altri, ma una criticità che non deve essere per forza negativa, anzi posso considerare la critica come positiva perché porta a mettersi in ascolto e allo stesso tempo riesce a dare nuovi spunti alle cose. Quando una cosa non funziona, puoi trovare anche le cause. Quali sono le qualità necessarie per compiere questo viaggio? La voglia di mettersi in gioco, di non essere troppo cocciuti, perché tante volte le proprie idee possono cambiare. Approfittate per andare all'estero in questo periodo che siete giovani ed imparate veramente bene una lingua straniera che è una delle migliori ricchezze. C'è qualcuno di voi che è interessato a partire? Cosa vorreste fare? Io inizialmente volevo fare medicina e poi fare qualche missione, però medicina è troppo lunga e quindi pensavo di fare infermieristica o fisioterapia e poi vedere se riesco a sostenere questa esperienza anche dal punto di vista psicologico. Qualcun'altro? Io vorrei viaggiare e non restare qua. Sì, partire con Medici Senza Frontiere non è l'idea di viaggio che spesso si ha in testa, quella zaino in spalla, via e autostop. È molto più dura, nel senso che lavori tantissimo, inizi la mattina e finisci la sera e ogni tre mesi hai la tua settimana di vacanza. È un'idea di viaggio molto diversa, anche perché viaggi in zone e mondi dove il turismo non esiste, perché spesso ci sono guerre o calamità naturali... però viaggiare è un'ottima cosa. Spesso ci si lamenta che i giovani non hanno qualità, frequentando un mondo

come quello di Medici Senza Frontiere o altri organismi umanitari trovi che il mondo giovanile sia particolarmente coinvolto in questi ambiti? Posso portare la storia di Haiti, che mi ha molto scosso, perché le persone hanno vissuto questo terremoto che li ha completamente devastati. Un ragazzo che lavora a Medici Senza Frontiere ha creato una specie di laboratorio in cui i ragazzi imparano l'inglese, si chiama “Free english club”, una volta al mese fanno una grande serata in cui offrono da mangiare a tutti, poi si balla e si fa festa. Penso che sia pura salute mentale, molto più di quello che potrebbe fare uno psicologo. In un contesto come può essere quello di Haiti, in cui già c'era poco prima e poi col terremoto è divenuta un'isola rasa al suolo, tutti questi ragazzi starebbero sulla strada, mentre così riescono ad avere un posto in cui trovarsi, stare insieme, divertirsi, leggere un libro, il tutto molto serenamente. Si rimane molto colpiti dal fatto che malattie oggi tranquillamente curabili come il morbillo, la dissenteria oppure la malnutrizione siano nel mondo una grande causa di morte infantile. Tu che hai viaggiato e visto con i tuoi occhi le tragiche conseguenze di queste situazioni, hai cambiato il tuo modo di vedere le molte cose che spesso diamo per scontate? Sì, ho adottato una filosofia diversa nella mia vita, nel senso che da quando sono tornata la malnutrizione è la cosa che più ti resta dentro, perché è incredibile vedere bambini che ti muoiono in mano. Da quando sono tornata a vivere in questo contesto ho smesso definitivamente di mangiare carne. Bisogna sapere che per allevare una vacca si utilizzano anche cinquecento chili di foraggio, per ingrassare questa bella vacca che dopo noi uccidiamo, mezza vacca la scartiamo e mezza la mangiamo e penso che tutto il cibo che noi diamo a queste vacche potrebbe andare all'altra

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metà del mondo. Però è un pensiero mio, non voglio contagiarvi o farvi un lavaggio del cervello è vero che ti rendi conto di alcune cose e poi ci pensi quando ritorni. Questo è stato il mio modo di pensare. Perché si parla sempre solo della malnutrizione infantile? Perché è la più pericolosa. Ovviamente esiste anche per gli adulti, ma per un bambino in stato di sviluppo i pericoli sono molti. Prima cosa il rischio di morire direttamente a causa della malnutrizione, secondo il cervello non si sviluppa e se potrà andare a scuola non riuscirà a capire e a stare al passo con i compagni, terzo potrebbe crearsi un diabete incurabile in posti dove i farmaci adatti non ci sono e questo significherebbe la morte assicurata. È tutta una catena! Il grosso problema è quando il bambino non vuole mangiare. Se non ti

vuole aprire la bocca non puoi farci niente, per questo una volta arrivati in ospedale, la sonda è indispensabile. Esistono due tipi di malnutrizione, quella del bambino che non piange mai, che non chiede mai niente e che tende a diventare gonfio, viene messo in disparte e rischia di morire. Invece, il bambino magro magro, dove si vedono le ossa, quello ha fame, divora il cibo e ne chiede tanto. In queste situazioni la carne è un lusso ma le proteine sono necessarie, per questo MSF usa una specie di “nutella” contenente cibo molto calorico e proteico, i bambini sono felici di riceverla e la mangiano senza problemi. Avete trovato spesso genitori che si rifiutano di dare ai loro figli il cibo preparato da voi? No, perché si instaura un grande processo di fiducia, sono rarissimi i casi in cui una

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donna rifiuta, ovviamente deve esserci l'educazione, l'informazione, la comunicazione, sono queste le parole chiave. Non devi dire: “Apri la bocca e prendi questo!”, sarebbe come se venisse un puffo blu da noi e ci dicesse: “Abbiamo cambiato, abbiamo stravolto tutte le regole della medicina e adesso tu devi fare così e così!”. C'è un processo, bisogna informare anche sulla medicina di base, spiegare come lavare un bambino, a non partorire in casa e se si è costretti a non usare lame già utilizzate o arrugginite per evitare il tetano nei bambini. Sono cose molto semplici, ma che bisogna continuare a ripetere, poi piano piano la gente vede e capisce, si fida. Pensando alle situazioni che hai incontrato nei Paesi in cui hai operato, un viaggio di migliaia di chilometri può sembrare anche un viaggio a ritroso nel tempo? No, vederla così è vederla un po' nella maniera di noi occidentali, noi abbiamo tutto, loro non hanno niente. No, io non la vedo così, non la vedo come un ritorno alle origini. Cosa significa per te viaggiare? Viaggiare significa avere uno zaino in spalla, possibilmente andare in posti staccati dal turismo e poter passare del tempo nello stesso posto, conoscere gente del posto, essere ospitata da loro, ovviamente non gratis ma tessendo delle relazioni. Imparare la lingua e mettersi al pari della popolazione. Ma quindi Medici Senza Frontiere è un lavoro? È un lavoro, non è un viaggio. È un connubio col viaggio, perché visiti posti che altrimenti mai ti verrebbe di visitare, non andresti mai in un posto in cui c'è la guerra. Però quando arrivi lì non vai a vederti le cascate o fai sport... no, è un duro lavoro. Quanto la differenza della cultura e della lingua possono essere un arricchimento o uno svantaggio? La cultura non penso sia mai uno svantag-

gio, la lingua sì, perché la comunicazione è la parte fondamentale della vita. Se non riesci a comunicare, non riesci a trasmettere e non riesci a ricevere. Se io voglio sapere se il bambino che viene nel centro di salute ha un problema piuttosto che un altro, se non so comunicare non potrò mai curarlo. Quindi la lingua è un ostacolo grande se non la conosci, la cultura invece più che un ostacolo è un arricchimento. Da quello che ho capito tu sei un italiana a cui piace viaggiare e aiutare, ma hai mai incontrato occidentali che sono in quei Paesi per sfruttarli? Come ti rapporti con loro? Semplicemente ti alzi e te ne vai. A volte può succedere di essere a un tavolo con altri occidentali e poi viene fuori che loro sono lì per le miniere... Gentilmente dici: “Ok devo andare”, anche perché tu firmi una carta dei diritti internazionali in cui dici che sottostai a determinate regole, determinati principi. Anche con i militari non potremmo avere rapporti, esclusi i colloqui che si hanno per il lavoro e la sicurezza, noi non è che possiamo uscire a bere una birra con loro. Noi ragazzi che contributo possiamo dare per affrontare le emergenze? Una grande emergenza è quella dello spreco del cibo. Anche il Trentino ha iniziato una campagna per evitare gli sprechi di cibo, che dice “riempi il frigo non il cestino”. Ad esempio, se siete al ristorante e non mangiate tutto potete chiedere di portare a casa le cose, quando andate a fare la spesa evitate di comperare troppe cose, prendete il giusto. Questo può essere già un grande aiuto che si fa al mondo. Le risorse però rimangono sempre a me. Si dice di chiudere il rubinetto per non sprecare l'acqua, ma il Trentino ha un sacco di acqua e se noi non usiamo l'acqua quella che risparmiamo non arriva a Palermo dove ne avrebbero più bisogno. Ognuno fa nel suo piccolo, come la missione Medici Senza Frontiere

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luogo e continuando il percorso infondendo alla popolazione anche una cultura e uno stimolo per potersi rimettere in piedi e per poter poi andare avanti da sola. Vi sono progetti contro la tubercolosi e l'Hiv per i quali si deve rimanere almeno cinque anni per garantire una durata di guarigione sicura. Questa esperienza ha messo in crisi la tua fede? Non sono mai stata molto credente e più viaggio, meno credente sono. Più vedo malessere e tristezza più mi chiedo come possa esistere un dio. È incredibile come invece, allo stesso modo, più una persona è povera, più crede. Ho incontrato popolazioni africane per le quali andare a messa è una gioia. Credono tutti nel loro dio, che siano animisti o cattolici, sono tutti molto credenti. Io, purtroppo sono molto miscredente. Viaggiando e operando in zone di crisi avrai potuto verificare la reale efficacia degli enti umanitari, le promesse d'aiuto da parte dei Paesi occidentali vengono mantenute o passata l'attenzione dei media tutto scompare? La seconda. Per esempio a Haiti, pur essendoci stata una forte attenzione da parte dei media non è arrivato nulla. Il mondo intero si è unito per Haiti e dopo un anno e mezzo siamo ancora al punto di partenza. La gente vive nelle baracche, nelle tende. Inoltre c'è un inquinamento allucinante, dovuto alle fognature, alla plastica che loro buttano in mare, perché non c'è nessun tipo di riciclaggio, tutta sporcizia. Il mondo intero si è unito per Haiti che è un'isola piccolissima eppure non è stato fatto assolutamente niente. Probabilmente si concentra tutto nelle mani di pochi, dei più forti e alla fine non arriva nulla. Perciò tutte le iniziative televisive che promuovono, anche attraverso l'invio di sms, la raccolta di fondi per portare aiuto in questi luoghi colpiti da simili catastrofi, alla fine non servono a nulla?

in Congo, sono piccole gocce, piccoli semi. Ognuno deve cercare di fare al meglio quello che può. Ma non sembra un po' un voler avere la coscienza a posto? Ti rispondo come la penso io, bisogna rendersi conto che siamo stati fortunati ad essere nati qui. Non si deve pensare di andare giù e stravolgere tutto, noi non cambiamo niente, quello che puoi dare se vai giù è un appoggio. Se tu vivi qui cerca di fare al meglio le cose ed evita gli sprechi qui, perché può essere che evitando uno spreco, forse, tra dieci anni, qualcuno ti ringrazierà per non aver sprecato l'acqua. Il mondo è storto, siamo in pochi ad avere tanto e sono in tanti a non avere niente. Però siete qui, siete fortunati, studiate e imparate, poi se volete date. Però bisogna dare con coerenza. Come siete visti dalla popolazioni dei luoghi in cui operate? La gente accetta volentieri la vostra presenza? Sì c'è un buon rapporto. Si fidano molto. Anche nel caso di situazioni politiche a stampo dittatoriale. Quali sono i luoghi in cui i progetti di Medici Senza Frontiere sono cresciuti meglio rispetto ad altri? Ci sono Stati in cui Medici Senza Frontiere opera dal 1980. Medici Senza Frontiere ha iniziato ad operare in Niger con la crisi del Biafra nel 1968, si trattava della prima volta che la televisione trasmetteva immagini di persone che stavano male. Tre medici francesi si sono uniti e son andati ad aiutare, da lì poi hanno allargato il loro aiuto sempre di più. Dal 1981 si opera in Congo, che ha alle spalle sedici anni di guerra, una delle tante guerre dimenticate, poi c'è la Sierra Leone, anch'essa colpita dalla guerra, la Repubblica Centrafricana. Operate nei luoghi di guerra? Sì, dopo o durante. Poi si parte anche per fenomeni come alluvioni, terremoti o catastrofi ambientali, cercando di rimanere nel

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Io sostengo una cosa, mandare soldi per sms non serve a niente. Se invece vuoi essere sicuro che il tuo supporto arrivi, ti devi rivolgere direttamente all'organizzazione e così hai la certezza, ma mandando soldi in questa maniera, per sms, non arriva niente. L'abbiamo visto con i nostri occhi ad Haiti, dopo tutte quelle manifestazioni di unione per aiutare, per cui solamente in Italia erano state fatte partite di calcio, serate di beneficenza, i cantanti devolvevano l'intero costo del biglietto dei loro concerti ad Haiti, ma niente. Se tutto questo è stato fatto solo in Italia, provate a immaginare cosa è successo nel resto d'Europa, in America o in Canada, eppure... Non si vedeva proprio nulla o alcune associazioni nel loro piccolo hanno lavorato bene?

Sì, qualcuno come la Croce Rossa o la Protezione Civile è andato a supportare con il proprio aiuto, ma pure loro possono fare quello che riescono. Tutti i soldi che sono arrivati al governo, ammesso che siano arrivati, avrebbero dovuto essere utilizzati per la ricostruzione, ma evidentemente sono rimasti al governo. È tutto un punto di domanda, non si sa. Non fidatevi. Tu come vivi nei confronti di tutta questa ignoranza, molte volte indifferenza? Anche qui in Italia molto spesso sappiamo veramente poco di guerre, stragi o avvenimenti così importanti e delicati e nessuno s'impegna abbastanza per informare. In questo caso devi trovare i tuoi canali d'informazione. Parlando d'ignoranza, sì ce n'è tanta. Non possiamo farci niente a

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parer mio, anche perché non siamo ignoranti solamente dal punto di vista delle guerre. Noi ignoriamo perché non ci viene data l'informazione in merito a tantissime cose che forse sono anche più vicine al nostro quotidiano di molte altre. Quando succede qualcosa di drammatico, come fai a non farti sconvolgere da queste situazioni, cerchi di separare il lavoro dalla vita quotidiana o ci fai l'abitudine? Farci l'abitudine no, è vero però che ti devi mettere nelle condizioni di evitare di arrivare al limite e impazzire. Devi trovare un equilibrio. Anche voi medici avete un supporto psicologico magari al ritorno dalla missione? Sì, lo puoi scegliere. Quando io ho fatto la prima missione in Niger mi avevano fatta evacuare a Barcellona per la questione di Al-Qaeda e lì sono stata seguita per due settimane da uno psicologo. Loro sono i primi a volerti dare la possibilità di buttare fuori tutto. E serve a qualcosa? Certo serve. Che poi tu vada da uno psicologo o ti rivolga a qualcun'altro è la stessa cosa. Paolo Rumiz ci ha detto che è difficile tornare, sei d'accordo? Sì, nel senso che ci vuole indubbiamente un periodo di riadattamento che non è semplice perché ritorni in una società piena di stimoli, piena di luci, di colori, di gente che parla, di rumori e non è sempre così facile. Devi riadattarti a tutto. Tendi a parlare sempre meno di quello che hai vissuto perché poi la gente ti ascolta fino a un certo punto. Non capiscono di cosa tu stia parlando quindi, a un certo punto, smetti proprio. Ti chiudi e le persone con cui parli sono solo quelle che condividono il tuo spi-

rito e hanno avuto le tue stesse esperienze. Io comunque avevo bisogno di tornare qui, di calmarmi, di riprendermi anche a livello psicologico perché ho visto cose molto forti. Avevo bisogno di riposarmi, di caricare le batterie per poi ripartire. Dipende anche tanto dal motivo per cui poi riparti, spesso si pensa sempre al viaggio come libertà, come ''il mondo è nelle mie mani'', ma quando invece questo è un lavoro e non solo un'avventura, cambiano un po' tutte le cose. Nonostante questo però l'idea e la voglia è sempre e comunque quella di ripartire. Oltre a riadattarti, tornando qua non ti viene un po' di rabbia per tutta l'indifferenza che c'è qui da noi, anche nei confronti di semplici malattie che invece giù scatenano veri e propri disastri? Se non vuoi avere un fegato gigante, impari a sopportare e ad accettare che ognuno la pensi a modo suo. Impari a farti scivolare addosso certe cose e ad avere il tuo punto di vista, la tua critica e poi a cercare di essere il più razionale possibile con i tuoi pensieri. Vivendo tutte queste cose non si rischia di diventare un po' insensibili, anche come arma di difesa? Insensibili direi di no. Si potrebbe percepire come tale perché diventi più forte e continui a darci dentro e pian piano cominci a controllare le tue crisi davanti a un nuovo bambino che ti muore fra le braccia. Ti si rafforza la corazza e prosegui, purtroppo uno è morto ma forse altri venti si salvano. Insomma se vuoi andare avanti devi riconoscere la realtà in cui sei, fartene innanzitutto una ragione e poi nel momento in cui hai bisogno di sfogarti urli, piangi per due ore, ti arrampichi su un albero e poi riprendi. Diventa la tua quotidianità e lotti per essa.

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Fotografie di Chiara Vaccarini


INTERVISTA A CURA DI AGNESE GARBARI, ILARIA SEGATA, IRENE LUCE PARISI, LAURA GRETTER, NICOLA RIZ

CHIARA VACCARINI EMERGENCY

CHIARA VACCARINI (PAVIA, 1975), ASSISTENTE MEDICO OSPEDALIERO IN AMBITO CARDIOLOGICO INTENSIVO. LAUREATASI NEL 2000 IN MEDICINA E CHIRURGIA ALL'UNIVERSITÀ DI PAVIA, NEGLI ANNI HA SEGUITO E CONCLUSO VARI CORSI E ABILITAZIONI CHE L'HANNO PORTATO A SPECIALIZZARSI IN AMBITO CARDIOLOGICO. HA LAVORATO PRESSO L'OSPEDALE «S. MATTEO» DI PAVIA ED ATTUALMENTE OPERA PRESSO L'OSPEDALE «S. MARIA DEL CARMINE» DI ROVERETO (TN). DAL 2008 È ANCHE DOCENTE IN CORSI RIVOLTI A MEDICI ED INFERMIERI OPERANTI IN AREE E AMBITI DI EMERGENZA-URGENZA. DAL GENNAIO ALL'APRILE 2005 È STATA MEDICO COOPERANTE IN CONGO BRAZZAVILE, PER LA PREVENZIONE DELLA TRASMISSIONE VERTICALE DEL VIRUS HIV MADRE-FIGLIO IN COOPERAZIONE CON L'OSPEDALE «SACCO» DI MILANO. DAL DICEMBRE 2009 ALLL'APRILE 2010 HA SVOLTO IL RUOLO DI MEDICO CARDIOLOGO COOPERANTE PRESSO L'OSPEDALE «SALAM» DI KARTHOUM, IN SUDAN, IN COOPERAZIONE CON IL MINSTERO DEGLI AFFARI ESTERI ITALIANO ED EMERGENCY-ONG. Cos’è per lei Emergency? Emergency è stata fondata nel 1994 a Milano, da Gino Strada e da sua moglie. Opera essenzialmente nei Paesi in guerra per dare un sostegno di tipo sanitario alle vittime civili. Abbiamo per esempio ospedali in Iraq, Cambogia e Afghanistan deputati in particolare al trattamento delle vittime di guerra e delle mine antiuomo. Emergency cerca di applicare i principi fondamentali dei diritti umani soprattutto in campo di sanità e di guerra. E.Q.S. è il manifesto di Emergency: Eguaglianza, Qualità e Responsabilità sociale. Alla base della filosofia di Emergency ci sono il voler garanti-

re equità di cure a tutti, indipendentemente dalle differenze di sesso, religione, credo, cultura e a questo si associa anche la responsabilità sociale. Accanto a questo però la novità è la qualità. Nei primi anni Emergency faceva solo un trattamento di urgenza o di emergenza, da qui il nome dell'associazione, quindi c’erano la guerra, i feriti e si andava a creare un vero e proprio ospedale da campo. Col tempo la filosofia si è un po' evoluta e si è detto: “Se io voglio garantire un'uguaglianza sociale e sanitaria a queste persone, non devo andare a curarle solo quando sono vittime di una guerra, dovrei riuscire a curarle sem-

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pre, come accade nei nostri Paesi industrializzati, occidentali, avanzati”. Da qui la volontà di fornire un servizio sanitario qualificato, paragonabile a quello dei Paesi occidentali, in un luogo che è invece in via di sviluppo. Che tipo di strutture sono quelle di Emergency? Gli ospedali di Emergency sono centri di eccellenza. Non è infatti un ospedale da campo, dove ci si improvvisa o manca igiene. Sono ospedali che di fatto molte strutture italiane invidierebbero, dotati di tutte le moderne attrezzature e in cui il paziente riceve un trattamento infermieristico, anestesiologico e chirurgico del tutto sovrapponibile a quello di una struttura occidentale. Per abbattere il grosso numero di infezioni, problema questo decisamente preoccupante, vengono creati dei filtri antipolvere ad ogni ingresso all'ospedale; i pazienti, una volta entrati, vengono svestiti, lavati e rivestiti con indumenti dati da Emergency. Il personale è sia locale che straniero. Le figure più delicate, anestesisti, cardiologi e chirurghi, sono esclusivamente personale internazionale, prevalentemente italiani, ma anche del Nord e dell'Est Europa. Il personale locale è invece quello che viene impiegato come medici subalterni e infermieri o come strumentisti e ferristi. Lei diceva che Emergency non interviene solo nelle zone di conflitto, può farci qualche esempio? Certamente, nel 2007 ha fatto scalpore l'apertura di un ospedale in Sudan dal nome «Salam Center», centro della pace, che al contrario di tutti gli altri ospedali gestiti da Emergency, è un ospedale monotematico, il suo fine è di dare delle cure cardiochirurgiche in un'area centrale dell'Africa. La cardiochirurgia è una delle aree sanitarie più specialistiche, di più complicata realizzazione ed è veramente un progetto molto ambizioso. L'apertura di questo centro è

stata molto criticata, per la scelta di andare a fare una chirurgia di eccellenza in un Paese in cui si muore ancora di malaria e Aids. Devo dire che anch'io, finché non ci ho lavorato, facevo fatica a comprendere bene questo meccanismo, ma poi ho capito: le patologie cardiovascolari sono, dopo le patologie infettive, quelle a maggior incidenza nei Paesi in via di sviluppo e in Africa in particolare. Perciò la quasi totale assenza di qualsiasi tipo di struttura sanitaria gratuita, implica che in Africa si muoia con un'elevata incidenza di patologie cardiovascolari, che colpiscono bambini, adolescenti e gli adulti. Quindi un intervento di questo tipo ha lo scopo di garantire una sicurezza assistenziale, soprattutto a quella fascia di popolazione molto debole, che è composta da bambini e adolescenti. Per quanto tempo ha operato in Sudan? Sono partita nel dicembre del 2009 e sono tornata nell'aprile del 2010. Ha avuto altre esperienze? Nel 2005 ho partecipato a un progetto sanitario, questa volta non con una ong, in Congo Brazaville. Era un progetto che partiva dall'ospedale “Sacco” di Milano, con il fine di prevenire la trasmissione del virus dell'Hiv dalle donne ai neonati. Si trattava di un progetto non riconosciuto a livello ministeriale e quindi posto a un livello inferiore. Due esperienze molto diverse, sia come Paesi sia come strutture e risorse. Cosa l'ha spinta ad andare in questi Paesi? Penso che la risposta la possiate trovare proprio nel tema che state affrontando: il viaggio. Il viaggio è sicuramente una necessità che molte persone hanno, alcuni lo fanno per dovere, altri per ricerca, approfondimento, scoperta. Aggiungere il viaggio al proprio lavoro significa misurarsi con qualcosa di sconosciuto, perché il lavoro che io posso fare qua è completamente diverso dal quello fatto in luoghi come questi. Il lavoro si può rivelare a tratti ostile o

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accogliente, ma in ogni caso difficile, nuovo e sconosciuto. Per questioni culturali, di lingua o anche a livello sanitario, il trovarsi a dover curare patologie che qui non esistono è estremamente difficile. Quello che aiuta a non mollare è il pensiero di poter essere utile e indispensabile per queste popolazioni, diciamo che se non ci sei tu a fare una determinata cosa, in quel momento non c'è nessun altro. Come venite preparati prima di partire? La preparazione è sul campo, si viene scelti sulla base di un curriculum che attesti di possedere già determinate capacità. Ci sono poi degli incontri formativi, nei quali il personale di Emergency spiega quali saranno le caratteristiche generali del luogo in cui si andrà ad operare. Dopodiché c'è sicuramente lo scoglio della lingua e per questo deve essere conosciuta in modo perlomeno sufficiente una lingua intermediaria, come l'inglese. In Sudan si parla l'arabo, ma non è richiesta la sua conoscenza, perché tutti gli ospedali vengono fatti funzionare in inglese. Un problema organizzativo è quello di riuscire ad avvicendare in modo continuativo il personale, se parte un chirurgo ne deve arrivare un altro altrimenti si forma un buco e l'attività deve essere sospesa. È difficile avere informazioni precise sulle partenze o i ritorni; io ho saputo della mia partenza tre giorni prima, sapevo solo il periodo... ci vuole sicuramente molta flessibilità nel partire per queste missioni. Ha trovato altre difficoltà particolari durante queste missioni? Sì, tantissime. Il clima per esempio, si parla di una realtà africana in cui il clima si attesta più o meno sempre intorno ai 40°C, può oscillare la notte intorno ai 20°C e di giorno arrivare anche ai 50°C. Lo sforzo fisico per abituarsi al clima è sicuramente notevole. Un'altra difficoltà, la prima con la quale devi fare i conti, è la lingua. Nell'ospedale è richiesta la padronanza dell'in-

glese per cui solitamente grossi problemi di comunicazione tra medici non ce ne sono, tutti i pazienti però parlano solo la loro lingua d'origine e per questo l'interazione con loro è sempre mediata. Bisogna dire che questo pone delle difficoltà obiettive e sicuramente anche culturali. Io ad esempio ho trovato grosse differenze tra Congo e Sudan. Il Congo è un paese a forte matrice islamica, quindi il fatto di essere donna, medico e di dover anche stare sopra ad altri uomini maschi, implicava dei rapporti e degli equilibri che non sempre erano facili da creare e mantenere. Poi c'è la vita all'esterno, una vita molto limitata, perché si lavora dodici ore al giorno, con una pausa il venerdì, quando si fa. All'esterno, per evitare problemi bisogna sempre farsi riconoscere, avere il cartellino di Emergency, farsi accompagnare dai mezzi ufficiali e l'interazione con la popolazione locale è molto limitata. Oltretutto, quando c'è una matrice islamica bisogna adeguarsi ai suoi riti. Per esempio, quando c'è il loro momento della preghiera, il personale, sia medico sia infermieristico, si ritira per una mezzora, indipendentemente dai turni o dal fatto che ci sia un intervento in corso. In un ospedale ci sono degli interventi per cui non ci si interrompe, non si mangia, non si beve e si va avanti. Queste situazioni per un occidentale sono certamente difficili da accettare. Oppure, le stesse scelte di salute sulle donne devono essere mediate dall'uomo. Molte donne hanno ancora il burqa e non hanno assolutamente alcun potere decisionale sul proprio stato di salute, per cui non possono decidere di farsi operare nel momento in cui stanno male, sono per esempio il marito e il padre che devono dare il loro consenso in merito. Ci vuole sicuramente molta flessibilità nell'affrontare problematiche che, se vengono affrontate con uno stampo prettamente occidentale, vanno incontro al fallimento. Poi c'è l'ambito più prettamente medico, con un vasto

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campo di patologie che qua da noi sono inesistenti e in Africa sono invece all'ordine del giorno. Purtroppo i medici locali non hanno ancora gli strumenti di conoscenza per affrontarle, mentre noi che abbiamo gli strumenti di conoscenza non le abbiamo mai viste e anche qui ci vuole una forte cooperazione. In tutti gli ospedali di Emergency viene fatta un'attività molto intensa di formazione sul campo, la prospettiva per questi ospedali è quella di arrivare un giorno ad essere autonomi, senza più personale internazionale che vada a dire cosa fare e come lo devono fare. Quindi c'è un'intensa attività di formazione che viene

fatta sia a livello pratico sia attraverso seminari, per insegnare come affrontare le patologie da un punto di vista della medicina tradizionale occidentale. Crede di imparare anche dalla medicina africana? Sicuramente sì, in Occidente siamo abituati a fare diagnosi solo con le macchine, loro invece usano le mani, i sensi e lo stetoscopio, quindi sono sicuramente molto bravi in quello che è un esame obiettivo, un esame diretto alla persona. Quando arrivate cercate di collaborare con le associazioni locali? Emergency cerca di cooperare con le as-

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sociazioni e le istituzioni politiche locali. L'ospedale deve essere un luogo neutro, all'interno dell'ospedale non possono entrare forze dell'ordine né possono essercene lungo il suo perimetro esterno; ci sono delle guardie, ma chiaramente non armate. Questo perché? Operare in Paesi di questo tipo vuol dire anche andare a scontrarsi con delle problematiche politiche. Il Sudan è stato fino al 2011 il più grande Stato africano. Dopo c'è stata la guerra di secessione e il Sud Sudan si è separato dal Sudan vero e proprio. Prima ancora c'è stata la guerra del Darfur. La scelta di costruire un ospedale a Soaba, a 20 km dalla capitale Khartoum, è stata fatta perché si tratta di un'area relativamente tranquilla, vicino alla capitale e vicina ai servizi, in un'area molto ampia sulle sponde del Nilo Azzurro. Problemi possono però verificarsene sempre, un giorno l'esercito è entrato in ospedale a prelevare quello che era un rifugiato somalo, che noi stavamo semplicemente curando. Nel momento in cui succede una cosa del genere ogni attività nell'ospedale si interrompe, perché se non vengono garantite le condizioni di pace all'interno dell'ospedale, noi non lavoriamo più. Questo è un accordo che è stato preso tra Emergency e i vari componenti politici degli Stati in cui vengono aperti gli ospedali. Dopodiché quando si ripristinano le condizioni, viene ripristinata anche l'attività. Oggi, l'ospedale in Sudan ha aperto una convenzione con nove Stati satellite, perché è l'unico ospedale del Centro-Africa che visita, cura ed opera pazienti cardiochirurgici in modo del tutto gratuito. Per estendere l'attività sono stati presi accordi con i vari presidenti e ministri della sanità di tutti gli Stati coinvolti. Ci sono politici o altre entità che hanno interesse ad ostacolare il vostro lavoro? No, ostacoli devo dire che non ne abbiamo

trovati, anche perché questi ospedali vengono aperti solo quando c'è il nullaosta degli Stati coinvolti; quindi senza questo tipo di collaborazione non si apre neanche l'ospedale. Ovviamente, gli ostacoli ci sono nel momento in cui la guerra non riesce a rimanere fuori dall'ospedale. Questo sì, perché l'attività diventa impossibile. Però una volta che si sono create le basi per l'apertura dell'attività, solitamente grossi intoppi non ce ne sono, anche se possono esserci momenti in cui si verifica una carenza di materiale, possono mancare gli aghi per fare i prelievi, i guanti... Come funziona il finanziamento di Emergency? C'è il 5x1000, ma cos'altro possiamo fare? Beh, donazioni, essenzialmente donazioni. Ricordiamo che si tratta di un'associazione non a scopo di lucro, quindi non ci possono essere degli introiti, degli utili da reinvestire. Poi chiaramente le donazioni possono essere ad ampio spettro, nel senso che ci può essere il privato o l'azienda che fa una donazione, ma ci può anche essere la casa farmaceutica che fornisce il materiale necessario al lavoro in ospedale. Diciamo che l'equilibrio è molto labile. Cosa possiamo fare per aiutare Emergency? Offrire il proprio tempo, le proprie capacità e disponibilità. Emergency ha una fitta rete di volontari che operano anche in territorio italiano. Vi ricordo che in Italia ci sono due postazioni che sono Palermo e Marghera, dove ci sono dei poliambulatori e un volontario di Emergency può dare il proprio contributo in qualità di medico, infermiere o semplicemente rispondere al centralino, fare entrare i pazienti; qualsiasi cosa riesca a fare dal punto di vista delle proprie capacità. Poi ci sono le postazioni mobili, che sono delle specie di pulmini in cui vengono visitate le persone e per farle funzionare servono autisti e altre persone che aiutino. Poi ci sono i volontari che fanno gli

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stand a bordo strada, le manifestazioni e qualsiasi tipo di attività da cui si ricavino fondi. Quelli che partono in missione lo fanno solo per motivi umanitari? Diciamo che durante questi viaggi si incontra un po' di tutto chiaramente. Devo dire che la motivazione maggiore di solito è l'aspetto umanitari, anche perché vivere in questi Paesi non è semplice, quindi qualsiasi altra motivazione viene ad essere un po' debole. Sicuramente viene a mancare l'aspetto economico: non è per far soldi che uno parte. Ci può essere forse un aspetto di prestigio o di curiosità, c'è chi parte per vedere qualcosa di diverso o chi parte per poter dire: “Sono partito, sono stato lì, ho fatto questo”. Questi tipi di esperienze di solito sono molto limitate, nel senso che occorre una grossa motivazione per ripetere i viaggi e le missioni; quindi solitamente queste frange tendono un po' a perdersi. Le è mai capitato durante una missione di voler tornare indietro? Sì, sicuramente, perché le difficoltà che si incontrano sono moltissime. Prima di tutto, a livello di salute, c'è anche chi si ammala. Un altro problema è il clima, nel primo periodo bisogna adattarsi alle temperature elevate. Negli ospedali di Emergency, fortunatamente, le sale sono climatizzate a 18°C, mentre in altri tipi di strutture c'è la temperatura che c'è fuori. Ci sono anche le sconfitte, come ad esempio qualche intervento che non è andato bene, qualche insuccesso in termini di diagnosi o cura, perché ci si trova a che fare con situazione veramente estreme, soprattutto riguardanti i bambini. L'insuccesso di un intervento su un bambino è difficile da accettare e in situazioni come queste può sopraggiungere lo sconforto, voler gettare la spugna, abbandonare tutto all'improvviso. Solitamente si trovano persone molto motivate e questo è un notevole beneficio, perché ci si può aiutare, facendosi coraggio a vicen-

da. Inoltre, non ci sono molte persone che ti potrebbero sostituire nel lavoro che stai svolgendo e questo è un notevole stimolo per non abbatterti e andare avanti. Un altro problema è la lontananza dagli affetti, dalla famiglia, da una vita normale. Infatti, quando sono ritornata in Italia, ho subito avvertito un senso di sicurezza e di protezione camminando per strada. Non dovevo temere niente e nessuno. Questo certamente mi ha fatto venire voglia di rimanere nel mio Paese, ma c'è sempre la voglia di tornare in missione, perché i motivi che spingono ad esperienze di questo tipo sono sicuramente molto forti. Come si fa a tornare a vivere in Italia dopo queste esperienze? Dove magari le persone non capiscono quello che si è vissuto. È molto difficile. Per questo c'è molta gente che si trasferisce, perché tornando in Italia non riesce a riadattarsi a quello che è uno stile di vita occidentale. Ci si scontra molto spesso con l'inutilità delle lamentele, dei problemi. Si percepisce il vuoto della gente, dei loro discorsi, perché per un periodo di tempo si è vissuti in una realtà dove la guerra, la fame e la privazione erano argomenti quotidiani. Nella maggior parte dei casi, però, ci si riadatta, perché spesso in questi luoghi è molto difficile vivere al di fuori di quello che è l'ospedale o l'ambiente di lavoro. Si viene visti in modo diverso dagli stessi abitanti, perché per esempio si ha un colore della pelle che non è come il loro. Le relazioni con la popolazione locale sono sempre mediate dal tuo status, si è visti infatti come “il bianco che lavora per quell'associazione”, non per la persona che sei. Quindi si ha bisogno di ricreare delle relazioni che siano più vivibili, al di fuori di quello che è il tuo ruolo, e questo spesso è molto difficile. Molto spesso si creano delle realtà di ghettizzazione, gli occidentali tendono a ritrovarsi con occidentali, in luoghi e locali comuni, in amba-

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sciate... si tratta di un meccanismo che porta ad isolarsi in base alla cultura e alla lingua. Queste esperienze l'hanno cambiata? Ricominciare a lavorare in un ospedale “normale” è difficile? Direi proprio di sì! Inoltre si pensa che il proprio lavoro qui sia inutile perché si vede più gente sana che ammalata, mentre in Africa è il contrario. Mediamente facevo sei interventi al giorno e non potevo permettermi di sprecare tempo in sala operatoria; qui, a volte, un intervento slitta, viene spostato di qualche giorno e non viene sostituito da un altro. Invece lì è una corsa contro il tempo. Si impara ad essere più pazienti, perché una volta tornati nel proprio Paese ti accorgi di come molti proble-

mi in realtà non esistano, sono solo creati dalla nostra mente e dal nostro modo di vivere. Vivendo in una realtà come quella che ho vissuto in Africa, mi sono resa conto che ci sono problemi molto importanti, reali, come ad esempio finire i farmaci in ospedale o non avere una valvola necessaria per eseguire un intervento. Oltre alla pazienza, si sviluppa una grande tolleranza. Spesso da noi si lavora immersi nella routine, senza alcuno stimolo; mentre in questi luoghi c'è una motivazione umanitaria veramente molto forte. Cos'è per lei il viaggio? Viaggio significa confrontarsi con aspetti diversi che nella propria realtà quotidiana non si è abituati ad affrontare.

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INTERVISTA A CURA DI ALESSANDRO GIOVANNINI, CHIARA MATTEI, ELENA MAZZALAI, FIAMMETTA CACCAVALE, FEDERICO ROVEA, FRANCESCO BENANTI

FABRIZIO BETTINI OPERAZIONE COLOMBA

FABRIZIO BETTINI (ROVERETO TN, 1973) DA VENTI ANNI SI OCCUPA DI INTERVENTI CIVILI NEI CONFLITTI E DA DICIASSETTE È VOLONTARIO E OPERATORE DI «OPERAZIONE COLOMBA» (CORPO CIVILE DI PACE DELL'«ASSOCIAZIONE COMUNITÀ PAPA GIOVANNI XXIII»). HA FATTO ESPERIENZE MEDIO LUNGHE IN BOSNIA, CROAZIA, CAUCASO, ISRAELE E PALESTINA. HA OPERATO PER MOLTI ANNI IN KOSSOVO. ATTUALMENTE COORDINA L'EQUIPE DI OPERAZIONE COLOMBA IN ALBANIA, CHE È IMPEGNATA NEL TENTATIVO DI SUPERARE IL PROBLEMA DELLE VENDETTE DI SANGUE. OPERAZIONE COLOMBA, CORPO NONVIOLENTO DI PACE DELLA «COMUNITÀ PAPA GIOVANNI XXIII», NASCE NEL 1992 DALLA VOLONTÀ DI ALCUNI OBIETTORI DI COSCIENZA DI CONDIVIDERE LA VITA DELLE VITTIME DEI CONFLITTI. LE PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELL'INTERVENTO DI OPERAZIONE COLOMBA SONO: LA NONVIOLENZA: FORZA ATTIVA E CREATIVA CHE SI CONCRETIZZA IN AZIONI DI INTERPOSIZIONE,

ACCOMPAGNAMENTO, MEDIAZIONE, DENUNCIA, PROTEZIONE, RICONCILIAZIONE, ANIMAZIONE... L'EQUIVICINANZA: CONDIVISIONE DELLA VITA CON TUTTE LE VITTIME SUI DIVERSI FRONTI DEL CONFLITTO, INDIPENDENTEMENTE DALL'ETNIA, LA RELIGIONE, L'APPARTENENZA POLITICA... LA PARTECIPAZIONE POPOLARE: NON SONO RICHIESTI PARTICOLARI CURRICOLI. DI INDISPENSABILE C'È L'ADESIONE AD UN CAMMINO SULLA NONVIOLENZA, UNA LIMPIDA AFFINITÀ CON LA PROPOSTA E CON LA VITA DI GRUPPO, LA MAGGIORE ETÀ E LA PARTECIPAZIONE AD UN CORSO DI FORMAZIONE SPECIFICO. ATTUALMENTE È PRESENTE IN PALESTINA/ISRAELE, COLOMBIA E ALBANIA CON PROGETTI A DIFESA DEI CIVILI E A SOSTEGNO DI PROCESSI DI INCONTRO E RICONCILIAZIONE.

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Non pensa che si parli troppo poco dei corpi di pace come il vostro? Non è che se ne parla troppo poco, non se ne parla proprio. Pensate ad un semplice esempio che ci forniscono i media, se un pacifista, mettiamo un nostro volontario, viene aggredito in Palestina mentre accompagna i bambini a scuola raccontano che è andato a cercarsela, quando invece un povero cristo a causa della crisi economica e dei suoi problemi è costretto ad arruolarsi per pagare il mutuo, va in Afghanistan e viene ammazzato, questo è presentato come un eroe della pace. Questo è il rapporto, gli squilibri sono presenti già fra i corpi di pace, quelli non armati è come se non esistessero. Negli anni '90, tre volontari pacifisti, andando a portare aiuti umanitari ad alcune donne in Bosnia, furono attaccati e ammazzati da una banda bosniaca, ancora oggi si dice che sono andati a cercarsela. Questo personalmente mi fa davvero arrabbiare, perché noi facciamo delle cose belle e importanti che inoltre, in merito a spese, costano molto meno dei grossi interventi armati e avrebbero certamente un risultato migliore. Per fare un esempio concreto, con un blindato “Lince”, quelle jeep fabbricate a Bolzano che vengono utilizzate in Afghanistan, noi pagheremmo tre progetti di pace all'estero per un anno più l'equipe che lavora in Italia, cioè circa quattrocento mila euro. Con un carro armato “Ariete” poi, noi garantiamo lo svolgimento di tre progetti all'estero per dieci anni... Tornando al discorso dei media, in Kossovo, ex regione serba con grossa presenza albanese, abbiamo iniziato a scortare delle persone da un villaggio serbo alla città serba più vicina e poi in una città albanese che distava solo sette km dal villaggio dove la gente si recava normalmente fino allo scoppio del conflitto. C'era il reale pericolo che gli albanesi li attaccassero. Mentre gli accompagnamenti della NATO, che poneva due veicoli a

scortare un bus, venivano prontamente attaccati perché la presenza militare rendeva chiaro che quelli erano serbi, noi, presentandoci in auto e non con un mezzo armato, scampavamo gli attacchi e non abbiamo mai avuto incidenti. Questo ha avuto effetto su entrambe le parti, gli albanesi hanno visto che i serbi esistevano e non erano mostri, dall'altra parte i serbi hanno visto che non tutti gli albanesi volevano la loro morte, in qualche caso si sono ricostruite relazione interrotte dal conflitto. Queste storie però non stupiscono i giornalisti. A parlarne sono solo riviste o siti web specializzati? Sì, e così la notizia rimarrà confinata ad una ristretta cerchia di persone. Un telegiornale non parlerà mai di quello che facciamo noi; una volta è capitato che un giornalista parlasse di quello che facciamo in Israele e Palestina, o meglio ha parlato della resistenza nonviolenta del popolo palestinese. I conflitti reggono sulla disuguaglianza, anche nei media, e noi siamo intrappolati perché siamo proprio dei pescetti piccoli. Si parlerà di noi solo se ci ammazzano perché diventeremo eroi, però non è questo il nostro interesse. Una realtà come la nostra di «Operazione Colomba» o come le altre associazioni impegnate concretamente nel mantenere la pace non hanno interesse ad essere degli eroi, perché verrebbero così solo screditati e denigrati. Non parliamo poi della tv, in cui non fa scena il ragazzo che lavora tutta l'estate per mettersi da parte il denaro per pagarsi il viaggio e il vitto per andare in Palestina a rischiare la vita, ma fa scena il bravo ragazzo italiano in divisa che dice di andare a difendere la pace. Non ce l'ho con i militari, ce l'ho con il sistema militare; i ragazzi che vanno là sono davvero le prime vittime della guerra e del sistema. Purtroppo, con le missioni armate, l'esercito ha imparato molto bene a vendersi ai me-

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dia mentre noi non lo abbiamo imparato e facciamo molta fatica ad emergere. Talvolta i giornalisti che incontriamo ci creano anche grossi problemi: è successo che in Albania avessimo chiesto di non fotografare i minori e non diffondere i nomi delle famiglie intervistate e hanno fatto invece entrambe le cose. Possiamo quindi dire che i governi non sostengono questi interventi nonviolenti ma quelli condotti dalle truppe armate? Assolutamente sì, quest'anno dobbiamo ringraziare perché nell'ambito del Servizio Civile, esisteva il comitato chiamato “Difesa civile non violenta e non armata”, che a fine anno è decaduto. Prima di decadere i membri del comitato, che facevano anche parte di associazioni di pace, hanno minacciato di dimettersi se non fosse stata concessa loro la possibilità di utilizzare alcuni fondi per una sperimentazione di presenza civile in Albania contro le vendette di sangue. Approvato questo progetto, si è fatto un bando sperimentale di Servizio Civile con l'obiettivo di lavorare direttamente sul conflitto. Questo per noi ha significato un piccolo passo verso una possibile creazione dei Corpi Civili di pace. Nonostante sia stata solo una sperimentazione e abbia coinvolto solo sei giovani, ci siamo impegnati molto e stiamo lavorando al meglio perché siamo sicuri che quest'intervento avrà dei risultati. Bisogna dire che la Provincia di Trento sostiene la pace, per esempio finanziando i tre tavoli di cooperazione decentrata e comunitaria in ex-Yugoslavia, che collaborano con l'idea della rielaborazione del conflitto, della riconciliazione e dell'incontro fra le parti. Purtroppo non è sempre così, nonostante la buona volontà di alcuni: in Trentino un consigliere provinciale della maggioranza ha fatto una proposta di legge sui corpi civili di pace. Questa proposta è di fatto politicamente impresentabile, perché il nostro statuto di autonomia non

permette di fare politica estera, e certamente sarebbe considerata una questione di politica estera. La legge permetterebbe di seguire una formazione e di partecipare ad iniziative come la nostra senza perdere il posto di lavoro, con in più un'assicurazione e la possibilità di costituire un albo dei corpi civili di pace trentini. Non si tratta di fare l'esercito del bene, ma si tratterebbe di piccole cose molto importanti ma che risultano ancora impossibili, quindi continueremo ad essere i “ribelli della montagna”, i “partigiani della pace”. I governi non hanno sensibilità su questa cosa, se l'avessero risparmierebbero. Non dico che l'Italia debba abbandonare lo strumento militare, può essere una mia idea, che l'Italia abbandoni lo strumento militare io ci posso credere, ma non posso pretendere che uno Stato come l'Italia capisca, prima ci sarebbero da fare molti passi. Però potrebbe dotarsi di un doppio strumento. Invece viene inteso come uno strumento civile a servizio dell'apparato militare o come un comprimario, mentre noi ci consideriamo un'alternativa all'intervento militare. Capita che vi siano Stati che, approfittando della situazione di questi Paesi, vendano armi complicando il vostro lavoro. Quasi tutte le guerre hanno motivazioni economiche interne o esterne. Prendi la Repubblica Democratica del Congo, sarebbe il Paese più ricco al mondo; dentro tutti i nostri cellulari c'è il coltan che è un minerale che si trova solo lì e stranamente da quindici anni c'è la guerra. Forse ci sono degli interessi dietro? Magari, se il Ruanda ha un piede in Congo io compro a meno il coltan oppure può entrarci una mia azienda? Ad esempio qual è stato l'interesse della guerra in Kossovo? Mettere tre basi vicine alla Russia? Non so, non credo che per una base gli americani facciano una guerra. Si voleva dare libertà a un popolo, ma invece la povera gente ha pagato sia la pulizia etnica di Milosevic che la

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contro-pulizia degli albanesi. Dopo per ricostruire ci sono voluti anni. Quei soldi lì forse si potevano usare in maniera diversa o forse si poteva trovare un accordo, intervenendo in maniera diplomatica. La politica è una cosa strana. Dal campo tu vedi delle cose e ti chiedi come facciano a non capirle. Chi leggerà l'intervista potrebbe pensare: “Chi crede di essere questo per dire che gli altri non capiscono”. Potresti spiegare cos'hai fatto e cosa fai? Ho avuto la fortuna e l'onore di vivere a fianco delle vittime della guerra, è questo che fa «Operazione Colomba», siamo in mezzo a questa gente in maniera molto semplice e questo crea legami di fiducia che vengono utilizzati per difendere le persone, per arrivare a spazi di riconciliazione e di dialogo. Io ho avuto la fortuna di partecipare a tante cose. Nel '92 ho fatto l'obiettore di coscienza ed è stata una lezione di vita. Non era come adesso che ti dicono che è un modo per trovare lavoro. All'epoca il lavoro c'era e non serviva l'anno di servizio civile pagato dallo Stato per cercare lavoro. Sono andato via per fare un'esperienza e ho avuto la fortuna di farla con i “matti”, in una casa dove la responsabile era in carrozzina e non poteva muovere né gambe né mani. Lei mi ha insegnato che delle volte per mettersi al servizio degli altri non serve essere dei normodotati. L'altra grande lezione di vita è stato capire che dai “poveri” si possono imparare cose veramente importanti e non solo, come diceva il mio background trentino, che aiutare i “poreti” è cosa buona e giusta perché ce lo dice la Chiesa. Poi, mentre facevo il servizio civile, un ragazzo di Volano si è autodenunciato perché pensava che l'obiettore di coscienza lo si dovesse fare in zone di guerra, questa cosa “mi ha fregato la vita” e qualche mese dopo son partito anch'io per la mia prima esperienza in Bosnia.

Nel '93 più di 50 trentini sono partiti per cercare di entrare a Sarajevo, ci siamo comprati un autobus e abbiamo cercato di arrivarci insieme ad altri mille pacifisti italiani. Non ci siamo riusciti ed è stata un'esperienza fallimentare, ma per la nonviolenza e il pacifismo italiano ha segnato un cambio generazionale, tra la generazione che aveva fatto le battaglie storiche ma che non era mai entrata in una guerra e la generazione nuova che si preparava ad entrare nelle guerre, che diceva: “Noi dobbiamo starci dentro”. Ho fatto tante altre esperienze, avevo fame di conoscere. Ho avuto la fortuna di fare l'operaio, a 17 anni sono andato a lavorare, ho messo qualche soldo da parte e mi son licenziato per stare via un anno in Croazia con «Operazione Colomba», dove siamo stati fisicamente presenti in un'area in cui gli anziani serbi rischiavano la vita. Erano vecchi e pensavano che tutto si sarebbe sistemato e si sono ritrovati lì da soli. Vivevano sparsi in vari paesini, morivano di freddo perché quando arrivava l'inverno non potevano comperarsi neppure la legna. Abbiamo cercato di creare dei legami, una certa stabilità che permettesse a questi anziani di ottenere i documenti. Abbiamo fatto un lavoro che è proseguito con altri piccoli gruppi. Poi sono rientrato e ho ricominciato a lavorare, poi un'altra esperienza veloce in ex-Yugoslavia, ma sentivo “sto tarlo dentro, sempre più forte”, finché nel '99 mi sono licenziato definitivamente, scegliendo questa cosa per la vita. Sono stato due anni in Kosovo, prima, dopo e durante i bombardamenti della Nato. Poi nel 2001 sono stato in Caucaso e abbiamo cercato di aprire una presenza in Cecenia ma è stato impossibile perché non c'era la deterrenza, noi eravamo un obiettivo, eravamo stranieri e potevamo essere rapiti. Poi nel 2002 sono stato sette mesi nella striscia di Gaza, nel 2003 di nuovo in Kosovo, doveva essere per qualche mese, ma il 13 ago-

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sto hanno ammazzato due ragazzi, uno di 19 anni e uno di 12 che facevano il bagno al fiume... e ci siamo rimasti altri sette anni, durante i quali abbiamo cercato di lenire le ferite e costruire ponti. “Lenire le ferite e costruire ponti”, questo, secondo me, sintetizza ancora oggi quello che cerchiamo di fare. Dove siete maggiormente impegnati? In questo momento in Colombia e Palestina, stiamo sostenendo contadini e allevatori che hanno capito che con la nonviolenza possono ottenere maggiori risultati; questi palestinesi si sono riuniti in un comitato e hanno deciso di resistere nonviolentemente ottenendo più spazio per coltivare e per pascolare... è una battaglia tutti i giorni per quel centimetro di terra, terra loro. Non è che portano via terra ad Israele, è sempre terra loro che è stata usurpata dai coloni. Noi siamo lì a supportare la resistenza nonviolenta di queste persone, che tutti i giorni scendono in strada anche semplicemente col loro gregge. Scortiamo di fatto i pastori. In Colombia, i contadini con cui collaboriamo hanno detto: i guerriglieri delle Farc dicono che combattono per noi ma non gli crediamo, l'esercito nazionale dice che lo fa per noi ma non gli crediamo, i paramilitari tanto meno, quindi noi dichiariamo il nostro villaggio e il nostro territorio libero, non daremo appoggio a nessuno. Per questo sono minacciati e c'è stata una strage, ma un po' alla volta stanno riuscendo a conquistare piccoli spazi, gente che è stata profuga riesce a tornare a casa sua. La nonviolenza è una grande forza e questo non lo riuscirebbero a fare se non fossero presenti anche civili occidentali, ci sono gruppi nordamericani e da pochi anni ci siamo anche noi a fare un piccolo servizio a questa gente che rischia la vita. Un altro fronte per «Operazione Colomba» è l'Albania, dove un codice consuetudinario risalente al 1500 ha ancora il suo peso e dove lo Stato non riesce ad

essere presente con servizi e leggi. Il fenomeno delle “vendette del sangue” tutt'oggi colpisce diverse centinaia di persone. Le vendette erano regolate da alcune prescrizioni contenute nel “Kanun”, un codice consuetudinario che ha regolato la vita sociale del Nord Albania per secoli. Attualmente il Kanun, pur non essendo in vigore, continua a essere punto di riferimento per regolarizzare alcune questioni come l'omicidio, la perdita dell'onore e conflitti sulla proprietà. Tutto questo in particolare nelle aree più isolate, ma il numero di casi è alto anche nelle aree urbane e semi-urbane, dove migrano le famiglie dalle zone rurali e montane. Secondo alcune di queste norme, quando viene commesso un omicidio o un atto particolarmente violento, i parenti della vittima devono ricostituire l'onore infranto ed “emettere vendetta”, uccidendo il colpevole o uno dei suoi parenti maschi adulti. Ciò costringe la famiglia a vivere in condizioni di auto-reclusione per paura di essere oggetto di atti violenti. In questa situazione i nostri volontari, oltre che a numerose azioni di sostegno pratico, cercano di ricreare le condizioni per percorsi volti al perdono e alla riconciliazione; inoltre sono molto attivi per sensibilizzare l'opinione pubblica albanese sul fenomeno. Tu ora cosa fai? Da sette anni ho deciso di tornare in Italia e seguo i progetti da qua, ossia metto la mia esperienza a servizio degli altri e coordino le equipe, cerco di dare consigli ecc. Sinceramente, ti senti italiano? Mi sento profondamente italiano, ma non nell'inno nazionale o nella bandiera, rispetto questi simboli, ma sento di essere italiano se penso alla Costituzione, al sistema parlamentare. Nel suo complesso si tratta veramente di un bel frutto nato dalla nostra democrazia. Mi sento profondamente italiano, profondamente trentino, però anche profondamente cittadino del mondo. Come fai a tenere unite queste identità?

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Nella bellezza dell'incontro con gli altri. Se io faccio il cuscus alla marocchina non divento marocchino, penso che rimango sempre me stesso, però ho una cosa in più. Ti faccio un esempio: qualche anno fa, non so se ve lo ricordate, un partito ha scritto su un manifesto: “polenta sì, cuscus no”. Per me chi ha scritto questa cosa non è neppure trentino, non ha identità, perché io sono tranquillissimo della mia polenta e so che 50 anni fa la gente finiva in ospedale perché aveva la pellagra perché non c'era altro che polenta, io invece adesso la mangio la domenica, perché è un piatto da domenica. Io sono profondamente trentino nella mia “polenticità” e se mangio cuscus non è che divento meno trentino. Ti è mai capitato di sentirti inutile in qualche circostanza? Frustrato e inutile sì, molte volte. Vi ho detto, siamo stati un anno in Caucaso, c'era la guerra, c'era la gente che moriva, c'era la violenza, ma non riuscivamo ad entrare perché noi eravamo un obiettivo. Quindi ti senti inutile, senti che non riesci a fare niente e allora, quando incontri una persona che ti dice di dire al mondo che i ceceni non sono tutti terroristi, fai di tutto per parlarne. Adesso non riusciamo ad andare in Siria e non ci riusciamo perché non abbiamo le forze umane, non abbiamo le forze economiche, non abbiamo ancora l'esperienza. Quindi ti senti inutile. Allora tu cerchi di parlare di quello che fai perché invece questo è utile. Parlare della povera gente in Albania è un atto di giustizia. Don Oreste Benzi, che ha fondato la «Papa Giovanni XXIII» di cui «Operazione Colomba» fa parte, diceva: “Siate voce di chi non ha voce”. Io penso che ci si sente inutili e sia giusto sentirsi inutili, non si deve mai sentirsi sufficienti, però bisogna raccontare quello che si vive e quello che si fa. Infatti, io mi arrabbio con i volontari che non lo fanno, perché hanno una responsabilità grossa: quella persona che hanno

incontrato in quel posto non potrà venire qua a raccontare quello che vive, e dovranno farlo loro. Non possono dire che non sono capaci: imparate, perché è quella la cosa importante. Ricevete finanziamenti o aiuti da qualche ente? Fino al 2003 andavamo avanti con fondi soprattutto privati e qualche piccolo finanziamento pubblico e gran parte dei soldi proveniva dagli aiuti della comunità Papa Giovanni attraverso le offerte. Dal 2003 in poi la struttura si è ingrandita, i progetti sono diventati più dispendiosi e non è più stato possibile. Attualmente, dei tre progetti che stiamo portando avanti, quello in Colombia e quello in Albania sono in parte finanziati da fondi privati e in parte dalla Provincia Autonoma di Trento, mentre quel-lo in Palestina è in gran parte finanziato da un progetto dell'Unione Europea. È molto importante la raccolta fondi, questi enti danno una parte ma non danno tutto, per questo abbiamo pensato ad iniziative come «tutti x uno» (http://tuttixuno.operazionecolomba.it) che consiste nell'adottare un volontario o un progetto: ci date quello che riuscite ogni mese o ogni tre mesi e noi ti raccontiamo come sta andando. Chiaramente se vuoi avere tre progetti all'estero, seguire i volontari e formarli, hai bisogno di una struttura in Italia. Io sono parte di questa struttura e il mio stipendio è un po' un peso, sono una risorsa ma sono

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anche un peso. Quindi bisogna cercare dei fondi per mantenere anche la struttura in Italia. Se ci sono delle province che sembrano così virtuose come il Trentino, come mai lo Stato italiano non investe? Seguendo i suoi racconti, apparentemente e ingenuamente sembra tutto molto bello e molto conveniente. È un problema economico, culturale o di quale altro tipo? In parte è un problema politico, in parte è la crisi economica e in parte non lo so, non lo riesco a capire nemmeno io. È una posizione molto miope, tagliare i fondi alla solidarietà internazionale significa una perdita in termini di scambio e aiuto che oltre ad arrivare in zone svantaggiate ritorna da noi sotto forma di conoscenza, accrescimento culturale ed esperienziale. Più conosciamo gli "altri" più impariamo a conoscere "noi" e la nostra società. Progetti come i vostri non avrebbero anche un ritorno economico? Sì, risparmierebbero anche creando un corpo civile di pace. La fine dell'esercito rimane un'utopia e così un corpo di pace sarebbe comunque una spesa in più. Beh, potrebbero togliere qualche carro armato, ne basterebbero pochi. Le guerre giuste non esistono, ma quelle necessarie? Non esistono. Faccio un esempio, lì dove avrebbero dovuto bombardare non l'hanno fatto... a Srebrenica, perché li abbiamo lasciato fare i massacri? Li abbiamo lasciati massacrare e non abbiamo fatto niente. Dove hanno salvato gli ebrei? In Danimarca, dove non hanno sparato. Il re ha detto che se mettevano le leggi razziali si sarebbe messo anche lui la stella. Il nostro Vittorio Emanuele non l'ha mica fatta questa cosa, il Papa non l'ha fatta questa cosa. È vero che ci sono stati tanti ebrei salvati dalla chiesa però non l'hanno fatta. Questa è un'azione nonviolenta di un po-

polo che dice io non ci sto a questa occupazione. Ti boicotto e non ti faccio fare niente. Di notte li hanno presi e li hanno portati in salvo in Svezia. Allora Srebrenica non potevamo invaderla? L'Iraq è molto peggio adesso che con Saddam Hussein, era un tiranno assassino però forse c'era un altro modo, io non lo so però investiamoci. Adesso ci sono queste tv del digitale terrestre, ce ne è una che fa un programma sulle armi del futuro, parla di missili a guida elettronica che scelgono dove colpire oppure il carro armato che va nell'acqua... ma quanto investiamo sulla pace? Io sono un povero cristo che fa fatica ad arrivare a fine mese, che non ha studiato ecc., ma vogliamo mettere un po' insieme queste teorie e fare una sperimentazione non con sei ragazzi ma con cento? Provare a intervenire in un'altra maniera, fare un'azione congiunta e coinvolgere la società civile. Non è che le alternative arrivano dall'oggi al domani, ma le alternative si costruiscono. Se gli afroamericani avessero reagito con la violenza non avrebbero ottenuto i diritti civili ma avrebbero ottenuto uno Stato solo per neri. Invece, tutto è partito da una signora che alla fine della giornata era stanca, aveva lavorato tutto il giorno, e non trovando un posto libero sull'autobus decide di sedersi nella parte riservata ai bianchi. Le hanno detto di alzarsi ma non si è alzata. Rosa Parks è morta qualche anno fa ed è partito tutto da lei e da quel gesto. Le rivoluzioni non sono solo spari o statue che cadono, le rivoluzioni sono formichine che lavorano e disobbediscono. In Italia dobbiamo imparare a lavorare con lo strumento della nonviolenza, perché noi diventiamo sempre di più uno Stato conflittuale. Ci deve essere un'alternativa, non si può tirar fuori la violenza per poter poi giustificare una reazione. La nonviolenza ha interesse che ci guadagnino tutti, non è vinco io e perdi tu, ma ci guadagniamo tutti.

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INTERVISTA A CURA DI ALESSANDRO GIOVANNINI, ANDREA CAPOZZI, ANTONIO ARRESTA

ANNA PERINI PAOLO CORNO PER UN MONDO MIGLIORE

ANNA PERLINI (VERONA, 1957) E PAOLO CORNO (EDOLO, BS, 1975), DAI PRIMI ANNI '90 VIVONO VICINO A FIUME, IN CROAZIA, E OPERANO COME VOLONTARI DELL'ASSOCIAZIONE «PER UN MONDO MIGLIORE», FONDATA DA ANNA E DAL MARITO MICHAEL NEL 1996, DOPO MOLTE ALTRE ESPERIENZE DI VOLONTARIATO IN TUTTO IL MONDO. ASSIEME AD ALTRE 6-7 PERSONE DI DIVERSE NAZIONALITÀ, DEDICANO LE LORO GIORNATE AD AIUTARE IL LORO PROSSIMO A SCOPRIRE FEDE, AMORE E SPERANZA PER UN FUTURO MIGLIORE. LE LORO ATTIVITÀ SI DIVIDONO IN VARI SETTORI: LA DISTRIBUZIONE DI AIUTI UMANITARI (PRIMA NEI CAMPI PROFUGHI, E TUTTORA AD ALCUNE FAMIGLIE BISOGNOSE NEL POVERO ENTROTERRA CROATO E NELLE VICINANZE DI FIUME), LA TERAPIA DEL SORRISO, CHE VIENE PORTATA AVANTI CON SPETTACOLI, CONCERTI E ATTIVITÀ DI CLOWNTERAPIA IN CASE DI RIPOSO, OSPEDALI E CENTRI PER DISABILI PER SOLLEVARE LE PERSONE DAI PROBLEMI E DAI DOLORI QUOTIDIANI, IL PROGETTO «8 GIORNI», CHE CONSISTE NELL'ORGANIZZAZIONE DURANTE TUTTA L'ESTATE E IN PARTE DURANTE LE VACANZE NATALIZIE, DI CAMPI SCUOLA DOVE GIOVANI VOLONTARI POSSONO TOCCARE CON MANO L'OPERATO DELL'ASSOCIAZIONE ATTRAVERSO LE ATTIVITÀ PRIMA DESCRITTE, TESTIMONIANZE, REALIZZAZIONE DI MURALES IN ASILI, SCUOLE, CASE DI RIPOSO. I TRE RAGAZZI CHE HANNO INTERVISTATO ANNA E PAOLO SONO STATI PIÙ VOLTE OSPITI DELL'ASSOCIAZIONE PRESSO IL LORO CENTRO ACCOGLIENZA COME PARTECIPANTI AL PROGETTO «8 GIORNI»; HANNO DECISO DI INSERIRE QUESTA TESTIMONIANZA NEL VOLUME POICHÉ OLTRE AL VIAGGIO FISICO FRA L'ITALIA E LA CROAZIA, VEDONO NELL'ESPERIENZA DI QUESTI VOLONTARI ALTRI ASPETTI DEL VIAGGIO: È UN VIAGGIO NELLA REALTÀ SCONVOLTA DALLA GUERRA DEL 1991-95, UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DELLA PROPRIA VOCAZIONE, PER QUALCUNO UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DEL SIGNORE.

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In cosa consiste il vostro operato? Paolo: Io opero in ex-Yugoslavia dal 1994, subito dopo essermi diplomato e in questi anni gli interventi sono stati diversi. Ho iniziato prima con l'emergenza umanitaria quindi con l'emergenza guerra, distribuzione di aiuti umanitari, vestiario, offerte per le persone. Poi, quando l'emergenza umanitaria è finita, ci siamo spostati verso un aiuto più spirituale. Ci siamo resi conto che per aiutare serve non soltanto dargli da mangiare, ma anche aiutarli per quanto possibile a recuperare dei valori nei quali noi crediamo, la fede, la speranza, l'amore, il perdono, e quindi tramite degli incontri, tramite degli spettacoli, tramite delle animazioni, tramite la clownterapia, si è cercato di far fronte a questi bisogni. Quindi quello che facciamo è cercare di aiutare le persone dal punto di vista fisico e spirituale. I progetti che l'associazione «Per un mondo migliore» porta avanti, sono principalmente quattro: attività umanitarie, terapia del sorriso, incontri - seminari e campi estivi della durata di otto giorni di volontariato. Come siete venuti a conoscenza di questa realtà spesso sconosciuta? Paolo: Personalmente è stato proprio un caso. Nell'autunno del 1994, sono andato a Edolo, nel mio paese, a trovare un mio amico e la moglie mi ha accolto dicendomi che non c'era perché era andato a Mostar con un gruppo di amici per portare aiuti umanitari. Io al tempo guardavo solo il TG sport, non sapevo né dove fosse Mostar, né che in Bosnia ci fosse la guerra. Quando è tornato mi ha raccontato di questa cosa che faceva come volontariato ogni quattro, cinque mesi; ho conosciuto questi suoi amici e mi è venuta la voglia di fare anche io qualcosa. Mi sono poi reso conto che un fine settimana ogni tanto non mi bastava, che volevo qualcosa di più e quindi a fine '94 sono partito per venti giorni con un'altra associazione e poi ho cono-

sciuto bene la realtà, da cosa nasce cosa e i venti giorni sono lievitati in qualche anno in più. Anna: Io ho vissuto a Belgrado, capitale dell'attuale Serbia, nel 1981; mio marito insegnava lì ed è nata una delle mie figlie. Era appena morto Tito, il dittatore che, anche con violenza, riusciva a tenere unita la Jugoslavia, e io in un anno e mezzo mi sono innamorata della gente del luogo. Poi per una serie di motivi siamo partiti e sempre volontariamente abbiamo fatto un'esperienza indiana e nepalese. Agli inizi degli anni '90 siamo tornati in Italia con l'intenzione poi di ripartire per l'India, ma poi è scoppiata la guerra nei Balcani e visto che conoscevamo già la lingua e le tradizioni abbiamo voluto prima aiutare con dei viaggi umanitari e poi nel 1996 ci siamo trasferiti definitivamente a Rijeka. Avete cominciato assieme o l'associazione è stata fondata prima da qualcuno? Anna: Come associazione legale siamo nati ufficialmente nel gennaio del 1996, ma già operavamo prima; ci siamo costituiti come associazione per avere più facilità nel recuperare beni e nelle questioni burocratiche. Tutto è iniziato a Verona e nel 2001 abbiamo aperto una sede legale in Croazia, «Za bolji svijet», la traduzione di «Per un mondo migliore». Mio marito era lì dal 1995, io l'ho raggiunto dopo con i figli, Paolo era nelle zone di Mostar (Bosnia) già dal '94, ci siamo uniti tutti verso la fine del 1997 e da allora c'è un nucleo di noi che è sempre rimasto insieme e che ha continuato a portare avanti questo centro di volontari che abbiamo in Croazia. Molti si sono anche fermati lì da noi per qualche anno, abbiamo avuto un giro di persone e volontari abbastanza grande, diciamo che c'è un nucleo di cinque, sei persone che sono rimaste sempre le stesse, sono un po' le colonne portanti che servono sempre, però c'è stato un bel giro di gente in tutti questi anni, anche volontari di altre

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nazioni: americani, francesi, veramente un bello scambio. Cosa vi ha spinto a intraprendere questo viaggio? Qual è stata la causa che ha scatenato tutto? Anna: Quando avevo quindici anni il mio cantante preferito, che non era molto famoso, si chiamava Claudio Rocchi ed aveva pubblicato un Lp che si chiamava «Il viaggio» ed è iniziato il mio viaggio, cioè un viaggio alla ricerca del senso della vita. Mi chiedevo: “Cosa sono qui a fare? Cos'è che voglio fare nella vita? Com'è che posso essere felice? C'è un Dio? E se c'è che Dio è?” Tutte queste domande, che probabilmente capitano a molti adolescenti, a me sono capitate in maniera molto intensa. Io sono cresciuta negli anni della contestazione giovanile e nella mia ricerca ho fatto un sacco di esperienze, un sacco di cose, anche errori, fondamentalmente, però fanno parte di questo cammino. Ho viaggiato anche fisicamente, perché dopo aver intrapreso questa attività di volontariato sono finita anche in India, in Nepal, per un periodo di sette anni e mezzo, e quindi ho vissuto anche fisicamente realtà molto diverse. Fondamentalmente penso che il vero viaggio sia una cosa interiore, indipendentemente dal posto dove sei. Io ancora adesso sto viaggiando, imparando anche da persone molto più giovani di me, anche dai ragazzi che sono venuti da noi questa estate, da voi che siete venuti a fare qualche campo estivo. Questo è il mio viaggio. Paolo: A me soprattutto ha spinto un forte senso di insoddisfazione che sentivo dove vivevo, in provincia di Brescia. Avevo tutto: genitori, amici, ragazze, facevo sport, mi divertivo, non avevo una giovinezza difficile, ma non ero felice, contento e realizzato come lo sono ora. Quindi mi sono messo in viaggio per cercare di scoprire cosa fare da grande. Dopo il diploma poi non avevo intenzione di andare all'Università, sapevo

di dover andare a fare il militare, e poi mettere la testa a posto nell'ottica del mondo del lavoro. A dicembre del 1994 sono partito con un gruppo di volontariato di Padova per aiutare le persone profughe durante la guerra; sono andato a dormire a Spalato con l'idea di fermarmi per venti giorni. Solo dopo ho scoperto che quella era la prima tappa del mio viaggio, che da lì è cominciato ed è proseguito nella scoperta di ciò per cui ero stato chiamato, la mia missione di vita. Il viaggio mi ha quindi portato gioia e la scoperta di un senso nella mia vita, la cosa più bella che possa accadere a qualcuno. Qual è la funzione della fede in questo viaggio? Paolo: Personalmente è fondamentale. Da non credente, com'ero quando sono partito, o cristiano ma non praticamente e interessato, che collegavo Gesù con una cosa da vecchi, con la mia esperienza ho scoperto un Gesù diverso che mi ha riempito di gioia e di amore, mi ha cambiato la vita ed è stato poi grazie a questo cammino di fede che ho preso determinate scelte. Inoltre non mi ritengo molto protagonista del viaggio di fede che vivo ancora oggi, ma penso che il vero protagonista sia il Signore che mi indica la strada, mostrandomi le prossime tappe e i prossimi orizzonti da raggiungere e io ci metto tutta la buona volontà, prendendo le scelte che mi sembrano seguire il suo disegno. Anna: Condivido quello che ha detto Paolo e aggiungo che quando sei nella nostra situazione, aiutare le persone, vedere problemi, affrontare situazioni drammatiche, il fattore fede aiuta molto, così come il fatto di credere che c'è un Dio che ti aiuta e che ti sostiene. Qualche volta probabilmente mi sarei fermata, avrei fatto scelte più comode, però so che ho sempre davanti a me l'esempio di Gesù, che ha dato la sua vita per me; cosa sono io per dare di meno? Questo ti permette di aiutare le per-

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sone, con una marcia in più, perché trasmettere la fede è il regalo più grande che si possa fare, perché ti aiuta ad andare avanti. La mia gioia più grande non è nel dare un'offerta, ma nel sentire le persone che mi dicono che vorrebbero credere anche loro come me! In queste situazioni spiego un po' come fare e poi vedendo queste persone fiorire, acquistando anche loro questa fede mi fa sentire davvero bene. Dove trovate le motivazioni per andare avanti ogni giorno? Anna: Per me ci sono dei versetti bellissimi nel Vangelo, per esempio uno che dice “L'amore di Gesù è quello che mi spinge”, così come la figura di Gesù, che incontro leggendo il Vangelo nei momenti in cui sono un po' giù o poco ispirata o la vita delle persone che hanno dato la propria vita eroicamente per gli altri. Così riesco anche a rincuorarmi perché effettivamente ci sono dei momenti in cui ti chiedi chi te lo fa fa-

re? Perché non sempre hai grandi gratificazioni, non sempre tocchi con mano i risultati; non è facile andare avanti, trovare i mezzi e le risorse per andare avanti e grazie a Dio con l'esempio di altre persone o altri grandi della fede, mi faccio forza. Paolo: In questi anni di volontariato ho vissuto delle emozioni bellissime e delle sensazioni meravigliose che spesso rivivo quando vedo qualche filmato o il documentario da noi realizzato, «8 GIORNI», ma non sono queste emozioni che mi fanno continuare il mio viaggio, nel senso che le emozioni e le belle sensazioni vanno e vengono. Oltre al fattore fede di cui parlavo prima sono la mia profonda convinzione personale e l'aver scoperto quella che è la mia chiamata che mi danno la forza e la convinzione di andare avanti. Poi ci sono in aggiunta le bellissime sensazioni che arrivano al traino. In generale non succede mai il contrario, perché se uno prima di attivarsi aspetta di sentire la sen-

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sazione meravigliosa, potrebbe rimanere fermo al porto a lungo. Anna: Vorrei aggiungere la testimonianza di Madre Teresa che in un libro, uscito dopo la sua morte, ha raccontato di aver avuto delle crisi di fede, dei momenti in cui non si sentiva di fare niente e che continuava a fare ciò che faceva perché sapeva che era giusto farlo; questo è un esempio che devi proprio credere in quello che fai con fermezza. Come trovate i mezzi economici per andare avanti ogni giorno? Anna: In molti modi; innanzitutto per fede io credo molto nella provvidenza, però ci sono molti mezzi attraverso cui abbiamo qualche guadagno: ci autofinanziamo, abbiamo spettacoli e attività di animazione, ci sono persone o gruppi che credono nelle nostre attività e le sponsorizzano. La provvidenza interviene per esempio nell'inizio di questa collaborazione: molte persone vengono a trovarci e tornano affascinati da un progetto e non potendolo portare avanti personalmente si impegnano a sostenerlo economicamente. Negli ultimi due anni, come associazione Onlus, abbiamo anche potuto partecipare a bandi e concorsi regionali o europei. Non abbiamo comunque uno stipendio fisso che arriva ogni mese e quindi anche in quest'ambito interviene spesso il fattore fede, tanto che a volte ci sentiamo davvero miracolati. A inizio anno per esempio ci servivano fondi per continuare la costruzione del nuovo centro accoglienza e un giorno abbiamo trovato sul nostro conto corrente un'offerta molto grossa, di duemila euro. Ci siamo subito chiesti chi ci avesse donato così tanto e poi abbiamo scoperto che era stata una ragazza che aveva fatto volontariato da noi durante un campo estivo nel 2003, che nel frattempo si è anche laureata e ha trovato un impiego. Quando le ho chiesto cosa l'avesse spinta a fare ciò, mi ha risposto: “Eh, ho sentito

questo bisogno di finanziare un vostro progetto, visto che l'anno scorso non sono riuscita a partecipare a un campo estivo come avrei voluto”. Per noi questo è stato davvero un piccolo miracolo. Quando tornate in Italia vi sentite italiani che tornano a casa o croati che entrano in un Paese, non dico straniero, ma che non sentite come vostro? Paolo: Io, pur vivendo la maggior parte del mio tempo in ex-Yugoslavia, quando torno a casa dai miei o quando comunque vengo in Italia per visitare i vari amici che abbiamo, mi sento italiano, a casa e a mio agio. Anzi, ho avuto la possibilità di scoprire i bisogni che ci sono nella società italiana, magari non di aiuti umanitari ma sicuramente c'è bisogno di aiuti di altro tipo. Per questo motivo quando vengono da noi dei volontari per i campi estivi, la sfida che lanciamo è quella di aiutarci a costruire un mondo migliore da casa propria e nella singola realtà quotidiana, perché ovunque c'è una situazione bisognosa. Devo dire poi che mi sento molto a casa anche quando sono a casa in Croazia o durante i viaggi in Bosnia. Di per sé sono una persona a cui piace stare con la gente e andare in un posto cercando di scoprire la mentalità locale, inserirmi nella società, cercando di diventare uno di loro, potendo così dare una mano. Non mi interessa andare all'estero da Italiano, piantare il tricolore ed esportare tutto quello che conosco di italiano, perché so benissimo che alcune abitudini e tradizioni da qualche altra parte non potrebbero funzionare. Così riesco a sentirmi a mio agio ovunque mi trovo. Anna: Anche io, a volte, mi sento poco italiana e più cittadina del mondo e riesco a vedere da un punto di vista più ampio i pregi e i difetti delle varie nazioni e questo è ciò che di positivo c'è nell'aver viaggiato così tanto e conosciuto tante culture diverse.

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Quali sono le emozioni, le sensazioni che percepite nei giovani che frequentano i vostri campi estivi? Anna: Per me c'è una magia ogni volta che c'è un campo estivo. Arriva a casa nostra un gruppo di ragazzi e il primo giorno di solito sono tutti titubanti a causa del fatto di lasciare l'Italia e non sapere subito bene cosa bisogna fare. Il secondo giorno ci si cala nella realtà locale, si comincia a imparare le canzoni in croato e si fanno le prime uscite ed è come se sulle persone ci fosse una nuvoletta diversa, che poi cresce. Quella settimana lì poi diventa come un mese, da quanto è intensa. Quando vedo i ragazzi ripartire, è incredibile, ma vedo che sono cambiati, vedo una trasformazione in loro perché è come se in una settimana avessero acquistato un bagaglio di esperienze, di amore, di gioia, di saggezza. È davvero incredibile tutto questo, per me notare questi cambiamenti è la cosa più bella. Paolo: Anche per me sono sensazioni bellissime, favolose. Sono molto contento di aiutare nell'organizzazione di questi campi estivi, di questi scambi di volontariato perché è davvero entusiasmante. Cosa vi fa stare bene e cosa vi porta ad essere felici? Paolo: Uno degli slogan della nostra associazione è “Se vuoi essere felice, fai felici gli altri” e questo è un po' il riassunto del mio essere felice, pensare meno a me stesso e più agli altri mi porta a stare bene. Quali sono le difficoltà nel crescere una famiglia nel povero mondo del volontariato e quali gli aspetti positivi hai notato nella crescita dei tuoi figli in quest'ambiente? Anna: Mi ricordo quando siamo partiti con i miei primi tre figli, ancora piccoli, per andare in India. Si parla del 1982, si respirava un altro clima e avere figli in quel periodo non era complicato come adesso, non era così folle questo mondo. È stata comun-

que una sfida, mi chiedevo se si sarebbero ammalati in quelle terre, se questo significava che dovevo tornare; era comunque una pazzia. Invece sono cresciuti in un Paese del terzo mondo imparando già da piccoli cosa vuol dire aiutare gli altri, perché li ho sempre coinvolti e sono sempre venuti con me a fare spettacoli, ad aiutare le famiglie povere e ho visto che anche loro hanno una visione della vita meno ristretta e più universale. Sono felice che alcuni di loro poi hanno continuato con esperienze di volontariato per anni, in Africa o in altri Paesi; quindi secondo me hanno assorbito delle cose positive. Ci sono stati momenti difficile, perché è così dovunque, però sono stati tutti bei momenti e loro se li ricordano molto bene, ne abbiamo parlato recentemente. C'è un accaduto che mi piacerebbe raccontarvi: noi siamo venuti ad abitare in Croazia appena finita la guerra, e c'era ancora un clima violento e di tensione. Infatti, mio marito è andato lì qualche mese prima di me, non ero sicura che fosse la cosa giusta. Quando siamo arrivati lì il clima fra le persone era molto teso e mi chiedevo se era il caso di stare lì o meno; all'inizio è successo un episodio che quasi mi ha fatto scappare via. Ad un nostro vicino di casa, che aveva combattuto la guerra, si era conficcata una scheggia nel cervello che gli provocava grossi mal di testa. Inoltre, era cieco da un occhio e portava una benda come quella dei pirati, era sordo e non riusciva a parlare, aveva una voce molto gutturale; il suo aspetto, nel complesso, incuteva timore. Viveva sotto di noi con i suoi due figli e mi ricordo che un giorno il mio figlio più giovane, Jeffrey (di allora sei anni), voleva giocare con i suoi figli. Quando il padre ha cercato di chiamare a se la figlia per presentarle Jeffrey, la sua voce ha spaventato anche mio figlio che è tornato a casa piangendo, dicendo che aveva paura di questo uomo con una

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benda nera. Dopo questa situazione ho pensato seriamente di andare via perché non avrei mai voluto che i miei figli vivessero così le ripercussioni della guerra. In quel momento ho dovuto prendere una decisione e ho pensato di spiegare a Jeffrey cosa aveva passato quest'uomo e perché si comportava così. Mi ricordo che gli ho detto: “Jeffrey, sai, se vuoi possiamo parlare con quest'uomo e ti insegno come dirgli in croato «Prego per lei», che è una frase molto semplice (Molim za vas); tu glielo dici e vedrai cosa farà...” Lui accettò e quindi poi andammo assieme dal nostro vicino; era un momento molto teso, perché avevo

pregato Dio di darmi un segno che avrebbe significato se restare o tornare in Italia. Ho detto a questo signore che mio figlio doveva dirgli una cosa, lui si è abbassato e Jeffrey ha detto con fretta e forse agitazione quelle parole. Lui si è stupito tantissimo, è scoppiato in lacrime e l'ha preso in braccio, gli ha dato un bacino e mio figlio ha capito che quell'uomo era così perché aveva avuto dei problemi e che il suo cuore dentro aveva bisogno di amore. Così ho notato che si poteva fare e siamo rimasti. Tra le vostre attività c'è la visita alle persone che nell'entroterra vivono in zone tuttora impoverite dalla guerra, su cui

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e ci ha subito chiesto quando saremmo tornati. Alcuni hanno solo bisogno dell'aiuto materiale, mentre ad altri basta solo sentire che sei lì con loro, che hanno degli amici e delle persone che vanno a trovarli. In Croazia c'è molto rispetto per gli ospiti, ogni volta che visitiamo una famiglia, riceviamo sempre qualcosa in dono, principalmente carne o ortaggi, visto che vivono di agricoltura e allevamento. Questo avviene perché noi cerchiamo di instaurare un rapporto di amicizia e loro lo sentono davvero. Cerchiamo di essere discreti con le persone che visitiamo e di raggiungerli a seconda delle loro esigenze, che non sono tutte sullo stesso livello. Poi c'è anche chi se ne approfitta e lì bisogna capire chi ha un bisogno vero e chi no, se qualcuno ha più bisogno di un altro, ecc... Per questo ci teniamo a sviluppare dei rapporti che vanno al di là dell'aiuto. Ricordando quello che eravate prima di iniziare la vostra esperienza di volontariato, in cosa siete cambiati? Paolo: Penso di essere cambiato in positivo. Essermi messo in viaggio e aver continuato questo viaggio nelle tappe, anche nelle più difficili, penso che mi abbia reso una persona migliore. Mi sento davvero in pace con me stesso, più felice, sereno e realizzato. Anna: Io ero un'adolescente a volte confusa, a volte tormentata, a volte alla ricerca. Questo viaggio, che mi è costato tenacia, impegno e forza, mi ha arricchito; mi sento una persona più ricca, più umile e ho trovato la libertà che cercavo prima di partire. Questo tipo di viaggio ti aiuta a spogliarti di quello che non ti serve, vedi che tante cose sono semplicemente maschere, cose che pensi che siano un'esigenza ma non lo sono, perché ti confronti con delle situazioni dove vedi che è meglio essere essenziali. Ci tengo a precisare che devi intraprendere il viaggio ogni mattina che ti svegli, perché non è tutto scontato.

VIAGGIARE. CI SONO TANTI MODI E TANTI MOTIVI PER , CHI PER CHI LO FA PER LAVORO E CHI PER PIACERE E O AIUTARE RITROVARE SE STESSO E CHI PER CERCAR ITA VITA" E GLI ALTRI, CHI PER "STACCARE DALLA SOL IMPARARE CHI PER COSTRUIRNE UNA NUOVA, CHI PER AIUTARE GLI E CONOSCERE E CHI PER INSEGNARE ED A PER ALTRI, CHI PER LASCIARE LA PROPRIA CAS PRE. PER QUALCHE GIORNO E CHI FORSE PER SEM SCOPO BEN TUTTI QUESTI "TIPI" IL VIAGGIO HA UNO TEMPO PRECISO E DIVERSO, MA ALLO STESSO NITÀ DI RAPPRESENTA PER OGNUNO UN'OPPORTU IRE LA MIGLIORARE LA PROPRIA VITA ED ARRICCH LE COME DA PERSONA, DAL PUNTO DI VISTA MATERIA È IL QUELLO MORALE E PSICOLOGICO. QUESTO VIAGGIARE. MOTIVO COMUNE CHE SPINGE L'UOMO A NICOLA RIZ (LICEO GALILEI) nessuno ha più investito e che sono ancora testimoni dei tristi segni del conflitto. La situazione economica dei residenti è disastrosa. Come vi relazionate con loro e come si relazionano con voi quando vi presentate? C'è chi vi rifiuta, chi ha paura di essere aiutato o tutti colgono l'opportunità? Anna: Ci sono diverse reazioni. Noi conosciamo alcune di queste famiglie da tantissimi anni e le abbiamo seguite per molto tempo e quindi c'è un rapporto di amicizia fra di noi, però recentemente siamo andati da altre famiglie bisognose che ci sono state segnalate e lì inizialmente le reazioni sono state diverse. Per esempio due settimane fa siamo andati a portare degli aiuti da una signora anziana e sola che era davvero contenta di vederci entrare, non solo per il pacco di alimenti che portavamo con noi, ma anche perché aveva un gran bisogno di parlare, di sentire un abbraccio

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INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI E IRENE TASIN

ELISABETTA ANTOGNONI, VINCENZO BEVAR

CINEMOVEL

CINEMOVEL NASCE NEL DICEMBRE DEL 1997 GRAZIE ALLA PASSIONE PER IL CINEMA E PER IL CONTINENTE AFRICANO DEI DUE FONDATORI, ELISABETTA ANTOGNONI E NELLO FERRIERI. IN SEGUITO AD UNO DEI LORO VIAGGI IN MADAGASCAR E ALL'USCITA DALLA SALA DI UN VECCHIO CINEMA COLONIALE DECADENTE, PRENDE CORPO L'IDEA DI ORGANIZZARE UN CINEMA AMBULANTE PER PROIETTARE SUL GRANDE SCHERMO I CLASSICI DEL CINEMA. DA QUELLA INIZIALE SPINTA EMOTIVA NEGLI ANNI VERRANNO REALIZZATI NUMEROSI PROGETTI CHE TOCCHERANNO, TRA GLI ALTRI, MOZAMBICO, ETIOPIA, INDIA, MAROCCO E SENEGAL. IN ITALIA È ORMAI GIUNTO ALL'OTTAVA EDIZIONE IL FESTIVAL «LIBERO CINEMA IN LIBERA TERRA» SUI BENI CONFISCATI ALLE MAFIE. ATTUALMENTE LA FONDAZIONE CINEMOVEL HA COME PRESIDENTE ONORARIO IL REGISTA ETTORE SCOLA. Perché per voi è così importante che il cinema, rispetto a tutti i mezzi di comunicazione che abbiamo, arrivi nei Paesi più poveri? Portare il cinema nei Paesi impoveriti è la ragione per cui nasce il cinema itinerante: nasce in seguito ad una serie di viaggi che Nello (Nello Ferrieri, cofondatore di Cinemovel ndr) ed io abbiamo fatto in Africa negli anni '90. Da quei viaggi ci siamo resi conto della forza del linguaggio cinematografico. Durante una nostra partecipazione in una sala cinematografica in Madagascar, dove vi era una proiezione che anzi-

ché avvenire sullo schermo avveniva sul monitor televisivo, siamo rimasti colpiti dall'enorme partecipazione delle persone e il vero significato della proiezione non era tanto il film, di kung fu, ma la partecipazione delle 700 persone che guardavano. La vita che si svolgeva all'interno della sala era fatta dal tifo verso l'uno o l'altro personaggio sullo schermo. L'altra cosa che ci aveva colpito era il fatto che alla proiezione partecipavano tutti, dai giovani agli anziani. Perché proprio il cinema? Perché è un linguaggio universale, chiunque è in grado di capire la storia che si svolge anche se si

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parla una lingua diversa, di fronte al linguaggio delle immagini il pubblico partecipa alla storia raccontata. Il cinema è un'arte molto immediata, non credete che sarebbe un bene portare questa visione anche nei Paesi più sviluppati come il nostro? Assolutamente sì, la prova è un progetto che stiamo realizzando in Italia «Libero cinema in libera terra», una carovana che ha preso avvio nel 2006 dalla Sicilia e che ha raggiunto il panorama internazionale. Nel 2012 siamo partiti da Parigi per una tournée nella speranza di aprire a tutta l'Europa una prospettiva di cinema itinerante legato alla legalità. Cinemovel nasce per portare il cinema sul territorio e in tanti posti in Europa le sale stanno scomparendo e la proiezione cinematografica sta divenendo un miraggio. Dal nostro punto di vista speriamo che il progetto possa crescere ed andare incontro a realtà non solo africane ma anche più cosmopolite. Il cinema è una forma d'arte che può suscitare impressioni diverse a seconda del film e della persona che lo sta guardando: come si può definire un buon film? Cosa dovrebbe lasciare alle persone? È difficile, è molto soggettivo. Davanti ad un film il pubblico reagisce con la sua eterogeneità, quindi l'obiettivo di Cinemovel è quello di mettere il pubblico non solo davanti ad un film ma anche a se stesso: scambiando idee e confrontandosi con le opinioni che un film è in grado di suscitare. Il cinema, da quando è nato, racconta delle storie e quello che noi facciamo è realizzare delle carovane di cinema itinerante per mettere le persone difronte alla storia e dare loro la possibilità di discutere e cambiare anche opinione rispetto alla storia che stanno vedendo. Che riscontro avete avuto dalle associazioni e dalle persone che hanno deciso di collaborare con voi nei vari Paesi? Una delle caratteristiche di Cinemovel è

quella di lavorare sui territori con le associazioni e le organizzazioni locali. Così è successo in tutti i progetti, a partire dal Mozambico la prima volta. Lì la carovana è stata organizzata in collaborazione con l'associazione dei cineasti mozambicani oltre ad alcune associazioni dell'ambito sanitario. Così è stato poi per il Marocco, il Senegal... in Italia avviene con tutte le associazioni di «Libera terra» e le istituzioni pubbliche che sono sensibili e collaborano per contrastare la criminalità organizzata. In che modo il rapporto con «Libera» influisce e come collabora con voi? Diciamo che la collaborazione con Libera è forse una delle più longeve di Cinemovel, va avanti dal 2006 e ha avuto modo di crescere, di rafforzarsi, di sviluppare un percorso comune sempre più preciso e forte. Con Libera il rapporto è nato principalmente dalle cooperative che hanno davanti le realtà più interessanti del panorama italiano, in quanto a contrasto effettivo della criminalità organizzata. Dare un'alternativa in determinati luoghi come Corleone o Mesagne è sicuramente una condizione essenziale per poter fare antimafia. Abbiamo avuto la fortuna di vedere i ragazzi delle cooperative fin dai primi giorni, fin dalla loro fondazione, quindi è stato bello anche vederli crescere, vederli andare avanti in maniera tenace e molto forte, portare avanti i loro progetti e le loro idee. Il nostro rapporto con loro va avanti nel tentativo di cercare di sostenere il loro lavoro. In molte città la società civile a volte fa fatica, ha dei problemi ad avvicinarsi a queste realtà che vengono viste come “pericolose”. Il cinema non è pericoloso, il cinema è un modo per raccontare belle storie, spesso anche non legate al tema della mafia, ma al tema dei diritti, della legalità; quindi è un modo anche per avvicinare la società civile alle storie di questi ragazzi che si impegnano per cercare di costruire un'alternativa. Le mafie non sono più un fenomeno della provincia

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o della periferia meridionale, cioè Palermo, Bari, Napoli, Reggio Calabria, ma sono assolutamente un fenomeno nazionale. Forse il cinema può aiutare ad aprire gli occhi o semplicemente a guardarsi più sinceramente in faccia. Per portare il vostro progetto dall'Italia all'Africa avete un unico gruppo oppure seguite contemporaneamente diversi luoghi con gruppi differenti? Il bello di Cinemovel è che è una struttura ancora veramente molto piccola e quindi al suo interno lo staff non è autonomo, non esiste un gruppo che autonomamente va in giro organizzando progetti diversi con un'idea comune. Il bello di Cinemovel è quello di coinvolgere le maestranze, le professionalità diverse su progetti specifici. Per esempio in Senegal, dove siamo alla seconda edizione di un progetto, l'anno scorso siamo andati con due ragazze che lavorano nell'ambito giornalistico e del reportage e che hanno avuto modo di realizzare un progetto sul reportage sociale e sul tema della scuola femminile. Andare quest'anno con loro, a trattare argomenti diversi come quelli dell'immigrazione clandestina avrebbe forse avuto dei limiti, motivo per il quale siamo andati invece con un regista, sempre italiano, che però ha molta più vicinanza tanto con la formazione specifica che quest'anno era rivolta al montaggio, quanto con la tematica prescelta. Cinemovel cambia il suo staff e ha voglia di far entrare esterni all'interno della propria “mission” e della propria attività principale; anzi, siamo convinti che questa sia la vera forza, presente e futura, della fondazione: quella di riuscire a coinvolgere diverse professionalità, diverse idee, diversi input in uno strumento di comunicazione che è quello del cinema itinerante. Che emozioni avete letto sulle facce delle persone che guardavano i vostri film? Diverse, tante e diverse. In Africa quando portiamo il cinema assistiamo all'entusia-

smo dei bambini, perché molti di loro a volte non hanno mai visto l'immagine proiettata sul grande schermo, ed è sicuramente qualcosa di dirompente. Per gli adulti non è da meno, perché spesso anche tanti adulti hanno visto magari un film in televisione e sanno che cos'è un film, ma non hanno mai avuto la possibilità di vederlo proiettato in forma di cinema e quindi anche lì la dimensione di stupore è grande. Un piccolo aneddoto che forse può essere esplicativo: lo scorso anno in Senegal avevamo messo lo schermo, avevamo iniziato le proiezioni e il pubblico stava guardando. Una persona ha preso una sedia, è passata dall'altro lato dello schermo e si è messa a vedere il film in maniera completamente asimmetrica, quello che avrebbe dovuto vedere da destra a sinistra, lo vedeva da sinistra a destra. Quindi ci sono tante varianti e ci sono sicuramente tante reazioni diverse. Il cinema è uno strumento potente, che coinvolge, anche negativamente e quindi può avere un impatto negativo sullo spettatore. Avete mai colto situazioni di disagio provate dagli spettatori? Qualcosa è capitato in Mozambico e la cosa ci ha spaventati a morte. A un certo punto stavamo proiettando “Mission” e alcuni bambini che si erano addormentati si sono svegliati di colpo durante la scena del cannone che spara, spaventandosi e cominciando a correre. Tutto il pubblico ha cominciato a correre loro dietro e noi in quel momento non abbiamo capito che cosa stava succedendo. Noi eravamo al nord del Mozambico, un territorio con problemi sociali e politici di stabilità e così ci siamo spaventati. Alla fine dopo lo spavento iniziale tutto si è ricomposto in un aneddoto assolutamente divertente. Ci sono invece dei problemi per quanto riguarda la censura, per esempio quando andiamo nei Paesi che hanno culture, storie e tradizioni diverse dalle nostre per evi-

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tare di colpire sensibilità differenti, la programmazione viene sempre sottoposta all'istituto cinematografico del Paese in cui andiamo per avere il visto di censura. In Marocco, per evitare di proiettare in piazza scene che avrebbero potuto determinare delle situazioni di disagio, ne abbiamo tagliata una perché ci è stato chiesto dall'ufficio di censura. Perché capita che le persone si appassionino moltissimo a vicende che dopotutto non riguardano loro ma che hanno solo visto sullo schermo? Questo è un fenomeno umano, non è legato all'Europa o all'Africa. Molte persone credono che il cinema sia più diretto della letteratura, racconta delle storie e ogni essere umano ha nel suo stesso dna la curiosità di raccontare, ascoltare e imparare storie diverse dalle proprie. Per esempio i film di fantascienza non hanno niente a che vedere non solo con noi italiani ma nemmeno con nulla di contemporaneo, ciononostante spesso la curiosità dell'uomo si estende anche in direzione di ciò che non conosce, ma probabilmente questo fa parte della nostra natura. Sicuramente il cinema, come i sogni, aiuta a visualizzare e capire in maniera più forte qualcosa che altrimenti resta fuori dall'immaginario singolo e collettivo.

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VIAGGIO e SPIRITUALITÀ CARLO MARIA MARTINI PAOLO DALL’OGLIO ANGELA E FOLCO TERZANI

PRESENTI

NON TUTTI I VIAGGIATORI SONO UGUALI. C'È CHI PARTE PER SCOPRIRE LE TERRE LONTANE, CHI LASCIA CASA PER TROVARNE UNA IN UN ALTRO CONTINENTE; C'È CHI DICE BASTA A TUTTO E DECIDE DI SCOPRIRE IL MONDO. MA NESSUNO FUGGE DA LUI, DA QUEL VIAGGIO; NESSUNO È IN GRADO DI EVITARLO: CHIUNQUE PRIMA O POI, DEVE FARCI I CONTI E REALIZZARE DI DOVER ESSERE PRONTO PER PARTIRE. È IL VIAGGIO PIÙ DIFFICILE E ARDUO DI TUTTA LA NOSTRA ESISTENZA: È QUELLO DENTRO NOI STESSI, ALLA RICERCA DEL TUTTO PASSANDO PER IL NIENTE. POCO IMPORTA IL MEZZO CON IL QUALE SI AFFRONTA QUESTO LUNGO E TORMENTATO PERCORSO: CHE SI SCELGA LA FEDE, LA MEDITAZIONE, LA CATARSI, LE OTTO VIE DI PURIFICAZIONE PER GIUNGERE AL NIRVANA, LO SCOPO RIMANE SEMPRE QUELLO, RIMANE INDISTINTAMENTE LO STESSO… SCOPRIRE E COMPRENDERE SE STESSI. IN UN MONDO IN CUI CIÒ CHE STA FUORI RIESCE AD OSCURARE E CELARE LA PARTE PIÙ INTIMA DI TUTTI NOI, RISULTA DAVVERO DIFFICILE RACCONTARE E SPIEGARE COSA SIA UN VIAGGIO ALLA RICERCA DI SÉ, CHE COSA POSSA COMPORTARE E, SOPRATTUTTO, DOVE POSSA PORTARE. NON C'È DA PREOCCUPARSI DELLA VALIGIA IN QUESTO CASO: L'UNICO VERO, NECESSARIO BAGAGLIO È QUELLO FRUTTO DELLA NOSTRA ESPERIENZA E DELLA SAGGEZZA CHE, DI CONSEGUENZA, È ANDATA VIA VIA FORMANDOSI GIORNO DOPO GIORNO. SAREBBE DAVVERO GRATIFICANTE RIUSCIRE A 240


ELABORARE UNA BREVE NOZIONE IN CUI SI RIESCA AD ESPRIMERE CIÒ CHE IL VIAGGIO DENTRO DI NOI È, LE SUE SFACCETTATURE, LE SUE INSIDIE, I SUOI PUNTI A FAVORE: SAREBBE, UN PO' COME SOSTENEVANO I FILOSOFI DELL'ANTICA GRECIA, RIUSCIRE A PERCEPIRE E INDICARE IL PRINCIPIO, L'ARCHÈ, "CIÒ PER CUI". IN QUESTA PARTE RELATIVA AI "VIAGGI ALL'INTERNO DI NOI STESSI", ABBIAMO CERCATO DI PROPORRE DOMANDE CHE FOSSERO IN GRADO DI SUGGERIRCI UNA STRADA DA PERSEGUIRE ALL'INTERNO DI QUESTO INSIDIOSO SENTIERO; DOMANDE CHE CI PERMETTESSERO, IN UNA CERTA MISURA, DI SVELARE CIÒ CHE NELLA QUOTIDIANITÀ RIMANE NASCOSTO. NESSUNO HA MAI DETTO CHE SIA FACILE DARE RISPOSTA A CERTI QUESITI E, NELLA MAGGIOR PARTE DEI CASI, DIFFICILE È DEFINIRE SE LA RISPOSTA VI POSSA EFFETTIVAMENTE ESSERE. IL FRUTTO DI QUESTE INTERVISTE CHE SEGUONO NON È STATA UNA RISPOSTA VERA E PROPRIA SU CHE COSA QUESTO VIAGGIO SIA E CHE COSA POSSA COMPORTARE, QUANTO LA NECESSITÀ DI COMPIERLO. CHE SI VOGLIA O MENO INFATTI, DA UN MOMENTO ALL'ALTRO SI SENTIRÀ IL BISOGNO DI COMPIERLO E, AUTOMATICAMENTE, COME SE FOSSE TUTTO GIÀ PREIMPOSTATO, SI SAPRÀ QUALE MEZZO O STRUMENTO UTILIZZARE. UN SAGGIO DISSE: "NON IMPORTA QUELLO IN CUI CREDI, CHE SIA UN DIO, UN SENTIMENTO, UNA PERSONA. TU DEVI CREDERE IN QUALCOSA: ALLORA TROVERAI TE STESSO". CHISSÀ SE È DAVVERO QUESTO L'INGREDIENTE GIUSTO PER ARRIVARE ALL'ARCHÈ DEL NOSTRO IO PIÙ PROFONDO. NEL DUBBIO, BUON VIAGGIO. Elena Foradori 241


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INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI, STEFANO PATERNOSTER

CARLO MARIA MARTINI CARLO MARIA MARTINI (TORINO 1927 - GALLARATE 2012) ENTRA NELLA COMPAGNIA DI GESÙ NEL 1944 A DICIASSETTE ANNI. NEL 1952 VIENE ORDINATO SACERDOTE, NEL 1958 SI LAUREA IN TEOLOGIA ALLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA IN ROMA E NEL 1966 SI LAUREA IN SACRA SCRITTURA. È RETTORE DEL PONTIFICIO ISTITUTO BIBLICO DAL 1969 AL 1978, ANNO IN CUI VIENE NOMINATO RETTORE MAGNIFICO DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA. NEL 1979 VIENE NOMINATO ARCIVESCOVO DI MILANO DOVE RIMANE FINO AL 2002. NEI VENTITRÉ ANNI DI EPISCOPATO DIVIENE UNA DELLE PERSONALITÀ PIÙ CONOSCIUTE E RISPETTATE DELLA CHIESA CATTOLICA. TRA LE SUE NUMEROSI INIZIATIVE PASTORALI E DI DIALOGO DENTRO E FUORI LA CHIESA, HA AVUTO GRANDE IMPORTANZA L'ISTITUZIONE NEL 1987 DELLA «CATTEDRA DEI NON CREDENTI», OCCASIONE DI INCONTRO E DI DIALOGO TRA CRISTIANI E NON CREDENTI, RIVOLTA NELLE INTENZIONI DI MARTINI A TUTTI I "PENSANTI" SENZA DISTINZIONE DI CREDO. CON LA RINUNCIA, PER SOPRAGGIUNTI LIMITI D'ETÀ, DEL GOVERNO PASTORALE DELL'ARCIDIOCESI DI MILANO, RIPRENDE GLI STUDI BIBLICI E SCEGLIE DI VIVERE PREVALENTEMENTE A GERUSALEMME. A CAUSA DELL'AGGRAVARSI DEL MORBO DI PARKINSON DI CUI SOFFRIVA, NEL 2008 RIENTRA DEFINITIVAMENTE IN ITALIA, RISIEDENDO NELLA CASA DEI GESUITI A GALLARATE, DOVE AVEVA STUDIATO DA GIOVANE E DOVE MUORE IL 31 AGOSTO 2012. Eminenza, il Parkinson l’ha privata della voce, mezzo grazie al quale ci riconosciamo. Il silenzio molte volte spaventa. Ora che è spinto ad ascoltare la sua «voce interiore» ha intrapreso una sorta di «nuovo viaggio» nel quale trova emozioni, sensazioni o certezze che prima non riusciva a cogliere?

Attraverso la «cattedra dei non credenti» ha voluto porre attenzione prima di tutto al dialogo interiore, quello tra la nostra componente credente e quella non, che interrogandosi a vicenda, stimolano il cammino che porta verso la propria autenticità. Quel lungo cammino che lei ha certamente vissuto con grande passione e sinceri-

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tà, oggi dove l’ha portata? È possibile raggiungere quella profonda autenticità personale o si tratta di qualcosa che si pone sempre un passo oltre? Ho sempre pensato che parlare con i giovani è più fruttuoso che parlare dei giovani. Queste lettere me ne danno l'occasione e vi ringrazio per la vostra sensibilità umana e spirituale. In verità mi cogliete nel mezzo di un processo che penso sarà ancora un po' lungo. Mi trovo in una condizione che non è ancora di totale afonia. Grazie all'aiuto di terapisti e con l'ausilio di mezzi tecnologici posso ancora comunicare, seppur con molta fatica. Non riesco quindi a descrivere bene ciò che sto vivendo, se un chiudersi della comunicazione verbale o lo sforzo di parlare ancora malgrado tutto. Non ho paura del silenzio. Mi vado chiedendo tuttavia cosa voglia dirmi il Signore con questa crescente difficoltà che da un lato sto combattendo, dall'altro sto accettando. Invoco il patrocinio di Papa Wojtyla, perché il suo gesto più umano fu quello di battere il pugno sul tavolo quel giorno in cui ebbe l'evidenza di non poter più comunicare a voce con la gente. Lui sa quanto sia faticoso non poter esprimere verbalmente ciò che si ha nel cuore. Sono ancora, quindi, in viaggio e come

ogni viaggio vedo e sperimento cose nuove. Sento che si tratta di una condizione che apre a orizzonti misteriosi, senza dover confliggere necessariamente con altri orizzonti. Inoltre, con gioia noto che avete colto, nonostante siano passati ormai anni, lo spirito profondo di quella che fu una iniziativa che ebbe anche le sue critiche. È vero, in noi vivono un credente e un non credente, in una armonia tra loro difficile, ma che interrogandosi a vicenda e sforzandosi di trovare le risposte pertinenti aumentano la nostra autenticità. Mi pare dunque che sia possibile giungere a quella che si può intendere come una forma di autenticità personale. Su queste cose ci sarebbe molto da discutere. Io però in questo tempo mi sto soprattutto esaminando sul Vangelo e mi incolpo sulle mie non autenticità alla Parola di Dio. Si tratta in ogni caso di un cammino per luoghi impervi e scivolosi, di cui non saremo mai certi dell'esito. Penso si tratti di un continuo svuotamento di sé per fare spazio a Gesù. A quanto ci dicono i grandi autori spirituali di ieri e di oggi, questo svuotamento non è un impoverimento anzi, siamo riconsegnati a noi stessi più autentici di prima. Ma certamente oltre ogni tappa raggiunta c'è e ci sarà sempre qualcosa o qualcuno.

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IL NOSTRO INCONTRO “A DISTANZA” CON

IL CARDINAL MARTINI

Semplicità, profondità e affetto. Un modo di essere e di vivere che ha segnato nel profondo il cardinal Martini, un'inclinazione personale percepita come reale e sincera anche da chi, come noi, è entrato in contatto con lui per poco tempo e solo a distanza. Semplicità. Il nostro incontro con il cardinal Martini nasce da una telefonata del gennaio 2012 all'Istituto Aloisianum dei Gesuiti a Gallarate durante la quale è bastato chiedere di lui per ricevere il numero del suo segretario. Don Damiano Modena, suo segretario dal 2009, ha subito risposto assicurando tutta la sua disponibilità e il suo sincero interesse per il nostro desiderio di rivolgere al cardinale alcune domande. Le nostre domande sarebbero state certamente lette e prese in considerazione, nonostante la situazione di salute fosse già ampiamente compromessa, il cardinale non era più in grado di parlare e comunicava attraverso l'aiuto di don Damiano, l'unico capace di interpretare i gesti e le poche parole che ancora riusciva a pronunciare. Affetto. Da quella telefonata sono seguiti diversi scambi epistolari attraverso la posta elettronica, da cui potevamo leggere - attraverso le parole di don Damiano - il desiderio del cardinal Martini di entrare in relazione con i nostri studenti e la sua volontà, mai sopita, di dialogare. Ogni mail terminava con un ringraziamento per il nostro interesse. Ringraziamenti che ci imbarazzavano, ma che sentivamo sinceri e frutto di un affetto spontaneo e vero nei nostri confronti. L'unico invito che avevamo ricevuto era stato quello di non aspettare troppo, perché il passare del tempo accresceva le difficoltà e rendeva per il cardinale ogni giorno più difficile fare le cose del giorno prima. Profondità. Sarebbe bastato già tutto questo per capire l'autenticità e il privilegio di essere riusciti ad entrare in contatto con una persona come il card. Martini, ma rispondendo alle nostre domande il cardinale ha voluto farci ancora un ultimo regalo. Un regalo, come ci ha scritto don Damiano, accompagnato dalla gioia: “Spero che per voi sia una gioia come lo è per il Cardinale!”. Nelle parole utilizzate per parlare della fatica di “non poter esprimere verbalmente ciò che si ha nel cuore” o dell'incessante ricerca della propria autenticità abbiamo ritrovato la sua capacità di esprimere concetti profondi con una semplicità di linguaggio che in tutta la sua vita lo hanno portato ad essere un uomo capace di avvicinare e unire. Parole che sapevano mostrare la sua grande fede e la certezza “che oltre ogni tappa raggiunta c'è e ci sarà sempre qualcosa o qualcuno”. Oggi sappiamo che dietro quelle tappe c'è anche il cardinal Martini pronto ad accoglierci, ricordandoci quella premessa che ha saputo colpire anche i nostri ragazzi: “Ho sempre pensato che parlare con i giovani è più fruttuoso che parlare dei giovani”. Stefano Paternoster

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IL RICORDO DI UNA STUDENTESSA Giovani e fede: un binomio difficile da interpretare. E il cardinal Carlo Maria Martini lo sapeva bene. Si è spento lo scorso 31 agosto 2012, all'età di 85 anni, l'Arcivescovo della diocesi di Milano, soprannominato dalla comunità religiosa "cardinale del dialogo". Sebbene i suoi ultimi anni siano stati segnati da una grave malattia che lo aveva ormai privato persino della parola, il cardinal Martini non ha rinunciato al suo grande impegno di fede, anche rifiutando qualsiasi forma di accanimento terapeutico durante gli ultimi suoi giorni. Lo scorso febbraio, insieme ad altri ragazzi, ho avuto la possibilità (e l'onore) di poter rivolgere al Cardinale alcune domande che vertevano principalmente sul tema del viaggio: un viaggio interiore, profondo. Con immenso piacere, il 26 dello stesso mese, sul Corriere della Sera sono apparse le domande da noi elaborate, seguite dalla sincera risposta di Martini. Mi preme sottolineare non solo la semplicità con la quale il cardinale si è aperto al dialogo nei nostri confronti, ma soprattutto la radicata voglia di trasmettere qualcosa di importante attraverso le sue parole. Ho percepito la sua immensa fede e la sua infinita voglia di diffonderla. So per esperienza che alcuni indottrinamenti religiosi risultano, quasi per definizione, obbligati e forzati, indiscutibili e inamovibili. Per questo il rispetto delle diversità di opinioni da parte del cardinale ha sempre suscitato in me una profonda ammirazione nei suoi confronti: l'ho apprezzato come uomo, prima che come uomo di fede. E questo credo sia un concetto molto chiaro ai numerosi non credenti che conoscevano Carlo Maria Martini. Sebbene si sia prodigato per la Chiesa e per la sua Diocesi, a mio parere ciò che ha sempre prevalso nella sua mente era il rispetto della persona, a prescindere dal suo credo. E difficile da dimenticare è anche la sua insofferenza nei confronti di quel tabù tanto temuto dalla chiesa: la comunità omosessuale. Non solo ne riconosceva l'esistenza e l'umanità, ma riteneva le unioni tra tali persone possibili ed effettive. A noi giovani il cardinale lascia un importante messaggio: quello di apertura e tolleranza, di dialogo e discussione. Ciò che era possibile dedurre sempre dalle sue parole era infatti il desiderio spasmodico di mettersi in gioco e al tempo stesso la sua fede profonda: essa veniva da lui comunicata non solo come quell'esclusivo fondamento della religione cristiana attraverso il quale è possibile raggiungere la salvezza, ma anche come un rilevante mezzo di relazione e unione con il "diverso". «Con i vostri tanti gesti di bontà, di amore, di ascolto, mi avete costruito come persona e quindi, arrivando alla fine della mia vita, sento che a voi devo moltissimo»: concludo con questo breve pensiero del cardinale Carlo Maria Martini che ancora una volta sottolinea la necessità di interagire con il prossimo per aiutare non solo coloro che ci stanno attorno, ma noi stessi in prima persona. A prescindere dalla nostra fede. Elena Foradori

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INTERVISTA A CURA DI FRANCESCO BENANTI, FEDERICO ROVEA, RAMA KIBLAWI, STEFANO PATERNOSTER

PAOLO DALL’OGLIO PAOLO DALL'OGLIO (ROMA, 1954) PADRE GESUITA. ENTRA NELLA COMPAGNIA DI GESÙ NEL 1975 E VIENE ORDINATO SACERDOTE NEL 1984. NEL 1982 SI IMBATTE, TRA LE MONTAGNE DEL DESERTO SIRIANO A 80 KM DA DAMASCO, CON I RUDERI DI UN MONASTERO RISALENTE AL VI SEC. E ABBANDONATO DAL 1831. DOPO AVER PASSATO LA SUA PRIMA NOTTE IN SOLITUDINE E TRA LE MACERIE, DECIDE DI DEDICARSI ALLA RICOSTRUZIONE DI QUELLO CHE DIVENTERÀ IL MONASTERO DI MAR MUSA, LUOGO DI DIALOGO INTERRELIGIOSO CON IL MONDO MUSULMANO, ABITATO DA MONACI E MONACHE CATTOLICI E ORTODOSSI. INIZIA DAPPRIMA I LAVORI DI RESTAURO DEL MONASTERO CON L'AIUTO DI QUALCHE SEMINARISTA E AMICO, ORGANIZZANDO CAMPI DI LAVORO ESTIVI, PER RACCOGLIERE SOLO IN SEGUITO IL SOSTEGNO DEL GOVERNO SIRIANO E POI DELLA COOPERAZIONE ITALIANA. LA VITA DI PADRE DALL'OGLIO È CERTAMENTE AFFASCINANTE E ORIGINALE MA NON PRIVA DI MOMENTI DIFFICILI. GIOVANE STUDENTE PASSIONARIO E COINVOLTO NEI MOVIMENTI DI SINISTRA, ENTRA IN SEMINARIO E SI INTERESSA DA SUBITO ALL'ISLAM, STUDIANDO ARABO A BEIRUT E POI A DAMASCO. DIVIENE SACERDOTE DEL DIALOGO QUOTIDIANO E CONCRETO, UOMO DI CONFINE, LE CUI SCELTE E RIFLESSIONI LO HANNO PORTATO AD ESSERE ALLONTANATO DALLA COMPAGNIA DI GESÙ DAL 1992 AL 1997. IL SUO PENSIERO VIENE ESAMINATO DALLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLE FEDE CHE NON TROVA PERÒ MOTIVI DI CONDANNA, RICONOSCENDO COSÌ LA SUA ORTODOSSIA NONOSTANTE L'ORIGINALITÀ CHE CERTAMENTE LO CARATTERIZZA. IL GOVERNO SIRIANO FIRMA LA SUA ESPULSIONE NEL NOVEMBRE 2011, IN SEGUITO AD UN SUO ARTICOLO IN CUI PROPONEVA LA STRADA DELLA “DEMOCRAZIA CONSENSUALE” COME VIA PER UNA RISOLUZIONE DELLA CRISI SIRIANA. GRAZIE ALLA DECISIONE DI NON INTERVENIRE IN FUTURO SULLA QUESTIONE POLITICA SIRIANA, PADRE PAOLO RIESCE A RIMANERE NEL PAESE FINO AL GIUGNO 2012, QUANDO IN SEGUITO AD UNA SUA LETTERA APERTA ALL'INVIATO SPECIALE DELL'ONU IN SIRIA, KOFI ANAN, LASCIA IL PAESE UFFICIALMENTE PER DECISIONE DELLE AUTORITÀ ECCLESIASTICHE. Come mai ha deciso di ritirarsi proprio al monastero di Mar Mousa? Ora cosa significa per lei questo posto, dopo oltre vent'anni anni di permanenza?

Io sono un gesuita e quindi un religioso di vita attiva o apostolica. Tuttavia nella storia della mia vita c'è un desiderio forte di contemplazione. La conoscenza delle Chiese 249


orientali e dei sufi musulmani ha aumentato questa tensione spirituale. C'era qualcosa nella mia anima già alla ricerca di un posto così. Tanti déjà vu si sono poi cristallizzati nel monastero e diversi sogni si sono avverati. I primi dieci giorni al monastero sono stati decisivi. Con la testa continuavo a guardare al futuro del gesuita, ma col cuore e le trippe ero già coinvolto esistenzialmente e a vita! Dopo vent'anni, che dico, trenta, di vita a Deir Mar Musa mi sentivo pronto ad andar oltre, a ripartire per lidi più lontani. Proprio allora è arrivato il decreto di espulsione e ho capito che il mio dovere adesso è di rimanere ancorato, abbarbicato qui! Poi Dio provvede. Quella prima notte che si è trovato da solo nel rudere diroccato pensava che un giorno sarebbe diventato un luogo di incontro per persone di culture e religioni diverse? Forse, proprio dalla prima notte non direi, anche se l'impressione d'essere a un punto boa della mia vita è stata subito forte. Sono anch'io sorpreso fino a oggi nel vedere che quei primi giorni furono davvero programmatici: la priorità della vita spirituale (Dio basta), l'importanza del corpo in relazione con il vento e la roccia nella relazione con l'Amato, il deserto come spazio per un'ospitalità e una comunione oltre le siepi delle appartenenze e un cielo stellato come quello che consigliò ad Abramo l'adorazione dell'Unico, tenda celeste del fraterno riconoscerci islamo-cristiano, e, domani, ebraico. In che modo ha deciso di intraprendere una vita così diversa da quella che conduceva in Italia per isolarsi in un luogo deserto, lontano da tutto? Quale è stato il suo "viaggio interiore" che l'ha spinta fino a questo punto? Non mi sono mosso dall'Italia per isolarmi nel deserto. Il mio viaggio interiore, che è cominciato come per ciascuno nell'infanzia, si è impegnato in una tappa decisiva a

partire dal sentimento di voler essere dappertutto per servire Gesù in tutti... Questo mi ha portato all'ordine dei gesuiti nel 1975. Non avevo ancora compiuto ventun'anni! Per me lasciare l'Italia è diventata subito un'esigenza prioritaria. Ero disposto ad andare in Giappone come in America Latina o nel Corno d'Africa... Poi in modo inaspettato è arrivato l'Islam. Come se il mio maestro si fosse guardato intorno interpellando i suoi discepoli: “Chi desidera amarmeli?” E sono partito... e sono ancora in viaggio. La parola accogliere fa pensare ad un'azione che si spinge verso un'unica direzione. Ma è possibile accogliere senza sentirsi a propria volta accolti? L'ospitalità semitica, abramitica, orientale è un atto di culto. Si tratta di riconoscere nell'altro, lo sconosciuto, lo straniero, una presenza trascendente dall'Alto. L'ospite è Iddio che mi fa l'onore d'entrare sotto il mio tetto, nella mia tenda. Certamente accogliere ed essere accolti! L'accoglienza è un elemento essenziale del viaggio. Vivendo in un monastero nel deserto siriano, che significato dà al termine “accoglienza”? Negli anni scorsi abbiamo partecipato a programmare il Cammino di Abramo (abrahampath.org), un'iniziativa di turismo spirituale rivolta soprattutto ai giovani perché, lungo il cammino del Patriarca (Iraq, Turchia, Siria, Giordania, Palestina-Israele), si incontrino e incontrino la gente sperimentando l'essere accolti, comprendendo il mistero dell'ospitalità in una vita che diventa pellegrinaggio, che ritrova l'elemento essenziale del sacro e del bello. Il monastero vuole essere una stazione del pellegrinaggio, un pregustare e un annuncio del giungere finale. Questo ha anche valore a livello locale. Qui il monastero rappresenta lo sfondamento verso l'alto della realtà quotidiana. Specialmente il venerdì, centinaia di persone salgono, musulmani e

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cristiani, dopo il cibo all'aperto, per dire, per celebrare che c'è un oltre, un più sensato, un orizzonte più alto che è sorgente di significato per il quotidiano attirato così al suo fine. Leggendo il libro scritto su di lei da Guyonne de Montjou si nota la grande importanza che lei dà all'olfatto. Come per es. il profumo del mare che da bambino l'attirava fino alla spiaggia o al “profumo della testimonianza”. Usando una formula un po' ironica: “Per viaggiare serve fiuto?” Ho molto apprezzato questa domanda e le considerazioni annesse. Gli odori si combinano spesso con la nostalgia, riguardano la percezione affettiva d'uno spazio di vita, e lo connotano positivamente o negativamente. Ma anche una puzza può essere connotata positivamente a causa della percezione affettiva che l'accompagna percepita, ad esempio, come consolante. La metafora dell'olfatto riguarda pure, secondo il mio sentire, la percezione d'elementi non immediatamente elaborabili intellettualmente, soprattutto in un mondo dove tutti imparano a parlare politically correct, dove tutti sanno fare i sorrisi giusti e conoscono i toni di voce appropriati come attori provetti. Dov'è il misuratore di sincerità? Dove si può comprare un rilevatore di retta intenzione? Cosa indica una capacità di fedeltà e coerenza? Ci vuole naso! È una questione d'intuito per empatia. E quando si viaggia certo bisogna imparare ad annusare l'aria, sentire il vento e condursi con quell'intima bussola che è il desiderio di bene. Il suo vivere - almeno in parte - come eremita, ha sviluppato i suoi sensi? Anche questa è un'osservazione simpatica! Effettivamente nella solitudine in mezzo alla natura si smuovono in noi istinti antichi, capacità percettive dimenticate, e si ritrovano gesti arcaici. I primi giorni qui al monastero furono come una scuola di so-

pravvivenza nella quale ritrovavo i gesti degli antichi pastori e degli eremiti di questa valle. Questa sensibilità nuova fa da corredo allo sviluppo dei sensi interiori, dei sensi spirituali che non sono del tutto altri da quelli corporei. La persona che incontra Dio non è un'altra persona e il creato intorno a noi fa corpo col corpo a corpo della lotta con l'Angelo. Come si è sentito, cosa ha provato quando è stato escluso per cinque anni dalla compagnia dei Gesuiti, dal '92 al '97? Si, nel libro di Guyonne de Montjou c'è un capitolo su questo. In quel momento c'era certamente un grande dolore, la sensazione d'un fallimento insostenibile... ed è lì che si è manifestata la fedeltà di Dio nella mia vita, perché c'era stata profezia di questo fallimento durante il mese di esercizi spirituali in noviziato tanti anni prima. Nell'insieme si è trattato d'uno svezzamento dal bisogno infantile dell'approvazione parentale rappresentata dall'autorità ecclesiastica. Forse non ci rendiamo conto di quanto nella Chiesa cattolica ci comportiamo da bambini, da minori. Una bella Primavera araba non farebbe male! Lei definisce la Siria sua patria d'elezione. Cosa l'ha affascinato maggiormente di questo Paese? Quando salgo sul taxi, dopo qualche minuto di conversazione con l'autista (qui si usa) mi chiede da dove vengo pensando ch'io sia un siriano emigrato da qualche anno, visto che non si capisce la mia provenienza dialettale. Mi diverto allora a farlo indovinare dicendo solo “più a Nord, più a Sud, ecc.” Quando scopre che sono italiano, dopo aver girato tutti i paesi del Mediterraneo, mi fa la solita domanda: “Cosa ti ha fatto fermare in Siria?” Ogni volta rispondo una cosa diversa perché in fondo non lo so. È come se ti chiedono perché hai sposato questa donna invece di un'altra. In definitiva apparteniamo al nostro futuro più che alle nostre radici. La storia del-

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la mia vita è una storia d'amore e la Siria è il quadro ideale. Appena scoppia la pace venite anche voi a scoprirla! Secondo Lei, si può dire che la Siria sia un Paese in cui convivono armoniosamente diverse minoranze? La Siria è antica come la civiltà umana e ha fatto da crocicchio tra culture diverse sicché assomiglia ai mosaici della moschea damascena degli Omayyadi o a quelli della basilica veneziana di San Marco. Nella città di Dura Europos nel terzo secolo dopo Cristo, abitavano assieme dentro la stessa cerchia di mura gli adoratori del dio semita Bel, i seguaci d'una sodalità d'origine persiana di membri di Mitra, gli ebrei d'una sinagoga affrescata con rare rappresentazioni bibliche e i cristiani che si riunivano in una casa - chiesa decorata pure con pitture murali, il più antico luogo di culto cristiano conosciuto. Si, direi che il DNA antropologico siriano è pluralista e tendenzialmente tollerante. Ma la globalizzazione attuale fa soffiare sul Paese altri venti e la polarizzazione confessionale violenta è ormai un fatto. Bisogna non solo conservare l'eredità delle antiche armonie, non esenti esse stesse da contraddizioni, ma piuttosto pro-agire per riappropriarcene in modo geniale e innovativo. I giovani di internet appartengono a mondi paralleli e spesso incapaci di comunicare tra loro. In Siria è urgente ricucire il tessuto del buon vicinato ripensandolo in un quadro democratico. La Siria ultimamente si trova in una situazione a dir poco devastante, come riesce a sopravvivere davanti a così tanta crudeltà? Stamattina dieci maggio (effettivamente siamo all'undici maggio ma l'unità spaziotemporale dell'intervista richiede questa piccola e innocente finzione letteraria) decine di morti a Damasco con centinaia di feriti per un'immensa indecifrabile esplosione. C'è voluta tecnica, maestria, esat-

tezza, coordinazione, determinazione fino al suicidio per far tanto male. Resta difficile immaginare la mentalità contorta e complottista, il ripieno d'odio degli occhi e del cuore di chi ha organizzato quest'orrore. Certo non è una novità; la cronaca libanese ed irachena, per non andare più lontano, ci ha abituati, quasi vaccinati; il coinvolgimento emotivo è dato dal sapere che ci potevano essere amici e conoscenti all'appuntamento con la morte... La domanda centrale riguarda il movente che probabilmente è quello di far fallire il piano Annan per ritrovare intera la logica della guerra civile. I “jusqu'au-but-tisti”, quelli del tanto meglio tanto peggio, sono complici anche quando si combattono. Oggi al monastero ci sono giovani di diverse opinioni... gli stessi che si combattono nella strada. Alcuni di loro hanno sofferto la prigione per delitti d'opinione... altri si sentono patriotticamente vittime di complotti regionali e globali. Abbiamo mangiato assieme, ci guardiamo negli occhi con rispetto e speranza. Lei parla di una possibile "prospettiva federale". Cosa intende esattamente con questa espressione? Non pensa che questa potrebbe portare al disfacimento del caratteristico tessuto sociale siriano, basato sulla compresenza di diverse etnie, religioni, culture? Il quarantennio del potere del partito Baath si è costruito su tre obiettivi programmatici: unità, libertà, socialismo. Quest'ultimo si è consumato e svuotato progressivamente fino a perdere ogni rilevanza a partire dalla fine degli anni ottanta. La libertà è stata intesa come libertà dai nemici esterni, libertà della nazione, non degli individui. E l'unità è stata intesa come un principio di concentrazione del potere nelle mani d'un “padre della patria”. In una prospettiva di autodeterminazione i tre obiettivi vanno perseguiti dal basso, scelti e non subiti dalla popolazione... Il principio della sussidiarietà

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consiglia di ricostruire l'unità a partire dalla comunità locale. Questo significa in alcuni casi il riconoscere e il rispettare delle specificità geografiche dovute al prevalere di un gruppo o di un altro. Il federalismo non significa in nulla tendere alla pulizia etnica e alla discriminazione. La natura “musiva” della società siriana riguarda tutto il territorio, ma ci possono essere dei colori o

delle forme prevalenti in questa o quella figura. Come vive in prima persona questa vera e propria guerra civile? Nel gennaio del 2011, parlando con un importante diplomatico a Damasco, già tratteggiavo la prospettiva della guerra civile e del gran numero di vittime che questa avrebbe provocato, oltre l'immenso danno della divisione del Paese e il rischio d'un effetto domino regionale. In giugno facevo presente alle massime autorità ecclesiastiche la necessità di agire per una soluzione negoziata e garantita internazionalmente per evitare il confronto armato generalizzato che, tra l'altro, avrebbe provocato la perdita definitiva di consistenti e significative comunità cristiane. In dicembre comunicavo che la mancanza di azione efficace stava ormai provocando sul terreno la realizzazione delle previsioni più nere. In prima persona vivo la disponibilità quotidiana a perdere la vita e rischiare le vite di coloro con cui condivido la vita! È difficile fare un calcolo dei rischi in relazione alla decisione di rimanere fedeli al proprio compito e alla propria missione. Devo dire che l'angoscia gelata dei mesi invernali ha lasciato il posto a un tiepido ottimismo primaverile... Sarà l'effetto Annan. Oggi, di fronte allo shock d'una nuova tremenda esplosione e conseguente strage, è difficile ritrovare la voglia di costruire passerelle negoziali. Eppure bisogna ricominciare ancora di nuovo, proprio a partire dalle relazioni tra famiglie in una città divisa come mi è capitato la settimana scorsa a Qusayr e come sta facendo la nostra suor Deema a Homs. Come mai secondo lei questa situazione si sta durando così a lungo? I fattori sono diversi e complessi. Direi innanzitutto che il fattore Israele è decisivo. Il governo dello Stato sionista non vuole un cambiamento sostanziale a Damasco e, in alternativa, preferisce una lunga guerra ci-

IL VIAGGIO PENSO SIA UN'OCCASIREONE

AVE PER AMPLIARE I PROPRI ORIZZONTI E RE CHE UNA MENTALITÀ PIÙ APERTA. IMPARA ENTI E OVUNQUE TU VADA CI SONO USI DIFFER SIERI CHE QUESTO TI AIUTA A CAPIRE I PEN AZIONI. DELLA GENTE, IL PERCHÉ DELLE SUE MONDO È NON CAPIRE CIÒ VORREBBE DIRE "IL A CHE GIUSTO COSÌ COME LO VEDO IO", COS VISTA LA SAREBBE DA EVITARE SOPRATTUTTO O. SOCIETÀ MULTIETNICA IN CUI VIVIAM NDO VA IN UNA PERSONA MI HA DETTO CHE QUA E UN'ALTRA CITTÀ OLTRE A VEDERE LE COS ERE CULTURALMENTE IMPORTANTI VA A VED IRE ANCHE IL "GHETTO" DEL POSTO PER CAP CAPIRE LE COME VIVE DAVVERO LA GENTE E PER DO SIA CONDIZIONI DEGLI ALTRI E COME IL MON NO FARCI DIFFERENTE DA QUELLO CHE VOGLIO NDO CREDERE I DEPLIANT TURISTICI. QUA HO QUESTA PERSONA ME L'HA DETTO IO SO CHE CONDIVISO PIENAMENTE, PERCHÉ PEN FARCI CAPIRE LE CONDIZIONI DEGLI ALTRI PUÒ IAMO E APPREZZARE DI PIÙ QUELLO CHE ABB PUÒ FARCI CAPIRE COME AIUTARLI. MARIA NARDONE (4A)

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Monastero di Mar Mousa. Fotografia di Samuel Santos (Flickr)

vile che indebolisca uno dei popoli più caparbi nel resistere all'espansionismo israeliano. La sorda concorrenza tra Turchia e Iran fa della Siria il ring ideale per un pugilato senza regole né gong. Qui si scontrano sciismo (anche se gli alawiti siriani non sono certo degli sciiti appassionati come gli iraniani, gli iracheni e i libanesi del Sud) e sunnismo (anche se i sunniti siriani corrispondono poco ai cliché dei barbuti afgani o sauditi). Le elezioni in Francia e le prossime negli USA favoriscono la lentezza e l'indecisione. Il fattore russo agisce per ora come freno efficace dell'aiuto internazionale alla dinamica rivoluzionaria... La pesante repressione di qualunque movimento nonviolento e di opinione da parte del Regime rende tutto più lungo e difficile... molti giovani sono andati troppo lontano per poter tornare indietro e tanti hanno troppa paura d'un domani incerto per muo-

versi. La responsabilizzazione della società civile globale è lenta e zoppicante... molti vorrebbero un'operazione chirurgica, diciamo, alla libica... Altri, e io tra loro, vorrebbero provare a sperimentare delle azioni nonviolente di grande portata. Il piano di Kofi Annan va in questo senso, ma i numeri non ci sono ancora e la volontà politica internazionale resta debole e balbettante. Secondo Lei, in un Paese non oggetto di interesse economici come la Siria, potranno mai avere efficacia gli aiuti/interventi internazionali? Chi ha detto che la Siria non sia economicamente rilevante? Bene o male, sono ventitre milioni di persone affacciate sul Mediterraneo e collegate con i grandi interessi medio-orientali petroliferi e geo-strategici. Il timore è che una sfortunata composizione di interessi finisca con lo spin-

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gere la collettività internazionale a scegliere di non scegliere e di abbandonare la Siria al suo destino, forse pure per alleggerire la pressione su Israele e mantenere una sorta di neutralità tra sciiti e sunniti. Anche i giovani trentini possono fare qualcosa per spostare la coscienza civile europea verso un più grande senso di responsabilità, non tanto da esercitarsi con azioni militari dirette, quanto perseguendo con coerenza - e mettendoci quindi tutto l'impegno anche economico oltre che diplomatico - quella mediazione che sola può assicurare una mutazione democratica riuscita senza stragi e divisioni stabili del Paese. Qual è la posizione della Chiesa in questo conflitto? È questo un argomento doloroso e increscioso. In effetti il Papa ha parlato più volte della Siria e sempre riconoscendo le giuste aspirazioni di questo popolo. Le gerarchie locali però sono abituate da sempre a sostenere il potere sperando di ottenere in cambio protezione... La paura dello Stato islamico fa novanta e una larga maggioranza di cristiani, gerarchia compresa, sono per la conservazione del sistema attuale anche se antidemocratico. Molto dovrà cambiare nella Chiesa nei prossimi mesi e la mutazione sarà penosa. Quando si pensa ai tanti cristiani che hanno sofferto per le loro posizioni politiche e per la difesa dei diritti umani, ci si chiede quale calcolo facciano tanti Pastori per rinunciare a dare testimonianza ai valori evangelici! È soddisfatto della politica estera italiana e in particolare del suo operato nei confronti della rivolta siriana? È fiero di essere italiano? La politica estera italiana degli ultimi anni ha sofferto della commercializzazione immorale della cosa pubblica nazionale e internazionale. La Siria è un partner economico non di secondaria importanza per l'Italia e questo spiega l'immensa pruden-

za della Farnesina. Tuttavia, una volta innescato il processo rivoluzionario come per la Libia, l'Italia si è lasciata trascinare dal carro europeo e soprattutto dai partner francese e tedesco. Io sono e resto contrario alla chiusura delle ambasciate e dei centri culturali perché provocano ulteriori difficoltà alla popolazione civile che soffre di asfissia culturale e politica... Piuttosto sono preoccupato per il livello di disinformazione e disinteresse italiano nei confronti delle legittime aspirazioni democratiche del popolo siriano, e noto costernato che l'ossessione islamofobica diventa lo strumento attraverso il quale viene giudicata la veridicità delle fonti di informazione. Sicché sono tanti in Italia e in Europa, specie negli ambienti conservatori anche ecclesiali, coloro che credono alla favola della Siria vittima del complotto globale e dell'opposizione siriana unicamente formata da terroristi barbuti e da agenti prezzolati di interessi stranieri. Spero che nei prossimi mesi l'Italia sappia offrire un ponte di solidarietà efficace tra i giovani democratici italiani e i loro coraggiosi e sofferenti coetanei siriani. Sono fiero d'essere italiano? Non è il genere di domanda che mi faccio di solito. Negli anni scorsi mi sono spesso vergognato di essere italiano. Poi amo l'Italia e spero che cresca in saggezza e grazia. Sono venuto a Trento e ho detto una messa per gli alpini... è stato un bel momento patriottico... io stesso sono stato alpino, anche se un alpino contestatore! Mi chiedo per esempio se lo spirito alpino di solidarietà valligiana non si possa emancipare da un certo militarismo davvero fuori moda. Si parla di “mini-naja” militare alpina per i giovani. A me farebbe piacere invece organizzare delle mini-naja civili per giovani alpini e alpine che, sulle nostre montagne per cominciare, e poi nelle situazioni difficili in patria e fuori, esprimano quei valori di umanità e di solidarietà di cui vorremmo andar fieri.

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Fotografie di Stefano Paternoster


INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI E MARGHERITA COZZIO

ANGELA TERZANI ANGELA TERZANI STAUDE (FIRENZE 1939) NASCE A FIRENZE DA GENITORI TEDESCHI. STUDIA A MONACO E A 19 ANNI CONOSCE TIZIANO TERZANI, SUO FUTURO MARITO, E CON LUI CONDIVIDERÀ I SUCCESSIVI 47 ANNI DI VITA. DAL 1972 E PER CIRCA TRENT'ANNI ANNI HA VISSUTO CON IL MARITO E I FIGLI IN ASIA: SINGAPORE, HONG KONG, PECHINO, TOKYO, BANGKOK E DELHI. SULLA SUA VITA IN ASIA HA SCRITTO «GIORNI CINESI» (LONGANESI, 1987) E «GIORNI GIAPPONESI» (LONGANESI, 1994). È PRESIDENTE DELLA GIURIA DEL «PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE TIZIANO TERZANI», PROMOSSO DAL FESTIVAL «VICINO/LONTANO» DI UDINE. Vorrei iniziare con una domanda riguardante «Un indovino mi disse», che è il libro di Terzani che mi ha colpito maggiormente, perché vi ho trovato una grande emozione e un grande amore per i Paesi orientali. Anche lei, se dovesse raccontare di questi Paesi, utilizzerebbe lo stesso amore, lo stesso coinvolgimento? Erano Paesi estremamente coinvolgenti, ma la situazione era anche un po' ambigua, nel senso che erano tutti paesi colonizzati. Il Vietnam, la Cambogia e il Laos erano stati colonizzati dai francesi, la Malesia e Singapore dagli inglesi, e l'Indonesia dagli olandesi. Però era una colonizzazione non rapace come oggi, almeno non nella stessa maniera, non così rapida e invasiva. I colonialisti in questi Paesi ci abitavano, costruivano intere città, importavano alcune loro tradizioni, importavano la scuola e la lingua. E siccome tutto questo era stato fatto nell'Ottocento, c'era un grande charme. Ai vietnamiti piaceva anche questa cosa, li divertiva, li interessava.

Sono stati anche sfruttati, non c'è stato colonialismo nel mondo che non sia stato anche uno sfruttamento, però era piuttosto affascinante. Per esempio a Singapore c'erano queste vecchie ville coloniali inglesi dove si abitava, c'era un rapporto con la giungla molto semplice e incantevole. Va ricordato che l'uomo bianco dominava e noi ci siamo trovati dalla parte comoda di questi Paesi. L'abbiamo trovato molto gradevole, ma eravamo coscienti di molte ingiustizie. Tra l'altro quando siamo arrivati in Vietnam c'era la guerra per buttare fuori tutti i colonialisti, la decolonizzazione era già cominciata; in Cambogia c'era già il principe Sihanouk; nel Laos c'era un re laotiano; a Singapore gli inglesi erano stati buttati fuori pochi anni prima; in Malesia i sistemi di governo erano stati introdotti dagli inglesi, avevano la democrazia e al governo c'erano i locali. Noi si era fortunati perché queste erano piccole economie, per cui noi con pochi soldi - perché all'inizio ne avevamo davvero pochi - si viveva

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molto bene e si godeva di questa specie di magia che Tiziano sentiva forte e descriveva anche molto bene. Quando la descrive è già messa molto in pericolo, scrive «Un indovino mi disse» nel '93 e siamo già molto avanti, comincia l'esplosione industriale, economica, finanziaria... È proprio l'ultimo momento. Il vostro è stato un viaggio lungo una vita: lei che ha partecipato con lui a questi viaggi, che ruolo sente di aver avuto? Sappiamo che ha fatto la mamma, che ha scritto due libri... e in che direzione pensa di continuare il suo viaggio? Il ruolo che mi sento io è di compagna, non dei viaggi ma della vita. È una costante, nel senso che siamo partiti insieme e siamo tornati insieme: sono stata sempre lì, sono sempre stata la sua base. Il mio ruolo era questo, di amica anche, di persona con cui poteva parlare, che lo capiva, che lo conosceva. Io conoscevo le sue ambizioni, le sue mete, i suoi ideali e ho cercato di aiutarlo a raggiungerli, sempre. Io in verità non ero una che voleva diventare la Callas, oppure una pianista d'opera o una scienziata elettronica, non avevo una vocazione particolare. Ho aiutato un uomo che aveva una vocazione, sono stata fortunata a trovare un uomo che mi ha fatto fare questa vita, come forse lui è stato fortunato a trovare una donna che non lo contrastava, perché io ho visto tanti matrimoni di giornalisti rompersi perché la donna diceva “tu vai sempre via, vai a fare i tuoi viaggi, scrivi le tue cose e io sto qui ad aspettare”, si sono stufate e sono andate via. Lei faceva la mamma e lavorava? No, facevo la mamma e scrivevo i miei diari, dai quali ho tratto due libri, ma potevo trarne di più. Ora, da quando Tiziano non c'è più, continuo a cercare di far capire i suoi libri. È sempre lo stesso ruolo. I suoi diari li faceva leggere a suo marito? No, come io non leggevo i suoi, lui non leg-

geva i miei. Certo lui non aveva tempo, scriveva per il giornale tedesco «Der Spiegel», per «La Repubblica», poi a volte lavorava per la radio e la televisione, e scriveva i suoi diari, ma io comunque non volevo nemmeno, perché ognuno fa le sue cose. Creare un diario o un libro è personale. Poi il giudizio finale è molto importante e in questa fase lui rileggeva i miei diari, mi correggeva, spesso migliorava l'italiano, mi dava i suoi commenti. E si ritrovava anche in quello che scriveva lei? Sì. Lui voleva sempre che io li scrivessi. Diceva sempre che nel giornalismo non possono finire tutte queste storie della quotidianità. Nel giornalismo viene richiesto per esempio di parlare dell'economia della Cina, e scrivi quello, non puoi scrivere di tua moglie, dei tuoi figli che vanno a scuola. E questa parte della quotidianità è molto importante. Lei ha mantenuto la memoria di un aspetto complementare... Sì. A fianco di questa vocazione che la tiene ancora molto legata a suo marito e al suo pensiero, oggi si ritaglia una vita sua, staccata dalla figura di suo marito? No. È impensabile. Non ho tempo al momento. Ora vorrei scrivere un libro sulla mia vita, che però, stringi, stringi, è di nuovo la mia vita con Tiziano. Non posso staccarlo da me, non ha senso, però questo libro lo scrivo dal mio punto di vista. Non mi metto a scrivere la vita di Tiziano, quello sarebbe estremamente impegnativo, non posso, e poi non sarebbe nemmeno giusto che la scrivesse la moglie, ci vorrebbe una mente critica in quel caso. Ho già cominciato a scrivere questo libro e in più continuo a parlare di lui, c'è sempre molto interesse: mi telefonano, chiedono. Ma in senso stretto non ho mai avuto una mia vita, per esempio di una che come interesse personale avrebbe l'opera o qualsiasi altra

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cosa. Ho sempre letto libri diversi da Tiziano, e continuo a leggere questi libri che piacciono a me, ma non è che ora, alla mia età, mi invento qualcosa di mio, di nuovo. Perché in verità non ho mai fatto qualcosa che non mi piacesse, mi piaceva. Non ho fatto tutta la vita la dattilografa in un'azienda da arrivare a dire “Ora basta! Ora mi occupo di teatro dell'opera!”. Non è così. Per tutta la vita ho fatto una cosa che mi interessava e continuo a farla. Un'altra curiosità: lei dice che il suo viaggio prosegue in questa direzione, ma riguardo al viaggio più concreto, lei pensa di continuare a viaggiare? No, non tanto. Sono stanca e poi molti Paesi li ho visti. Sono tornata ancora in India alcune volte e sono stata in Cina due anni fa. Ma tanto vale andare su Marte, ormai non riconosco più niente, è un'India che è Chicago alla potenza, Chicago è ormai provinciale rispetto a Shangai o Pechino, anche se ci sono zone ancora molto, molto povere. Non ho voglia di ricominciare da capo, e poi davvero non mi ispirano questi problemi dell'economia, l'economia domina le nostre vite in male e non in bene. Con questa globalizzazione, siamo tutti ridotti a correre dietro questo coniglio economico, anche se non ci interessa siamo obbligati a farlo. E poi va male, il risultato è abbastanza pessimo anche per l'Italia: per colpa degli italiani ma anche per la globalizzazione, che divide il mondo in ricchissimi, elimina la classe media borghese, e ci lascia tutti poveri. L'India è ancora bella, mi piacciono molte parti dell'India. Ma ho viaggiato già tanto e oggi è faticoso viaggiare, in questi immensi aeroporti, poi uno arriva e non sa dove andare. Prima era molto semplice: aeroporti piccoli, si prendeva un qualsiasi taxi che ti portava da qualche parte. Ma oggi è mostruoso, tutto: Singapore, Hong Kong. Tutto colossale e gigantesco, mi perdo. L'immagine che molti giovani hanno di

Terzani è di un “cittadino del mondo”; lei è di origine tedesca, è stata in Cina, ha viaggiato in Asia... lei e suo marito vi sentivate cittadini italiani? Sì, Tiziano si sentiva italiano, si sentiva fiorentino addirittura. Non ci si può sentire cittadini del mondo. Però, suo figlio Folco in un'intervista ha detto che si sente più cittadino del mondo… Se glielo chiedete ora non lo dice più. Oggi non so nemmeno se si identifichi con l'Italia, perché è vissuto sempre all'estero, sempre. A parte le estati ad Orsigna, ha fatto le scuole in Asia, l'università in Inghilterra, la scuola di cinema in America, poi ha vissuto in America fino a quando Tiziano, prima di morire, lo ha chiamato. Ora è qua a Firenze, ma tra poco riparte di nuovo. Alla fine probabilmente l'Italia è la sua patria, l'italiano è la sua lingua, nel senso che è la lingua della sua famiglia, Firenze è la sua città. Poi in Italia lui è rimasto per suo padre e nel complesso ha conosciuto l'Italia meglio di qualsiasi altro Paese. Folco ha un figlio dal primo matrimonio che parla solo americano, gli dà noia, lui vuole che parli italiano, questa la sente come la sua lingua. Lei da cosa è stata conquistata? Visto che non è italiana, giusto? Ma io sono nata in Italia; i miei genitori erano già qui. Però sa bene anche il tedesco? Sì, certo, lo so benissimo. È la mia lingua madre, equivalente all'italiano. Anche perché ho fatto l'università in Germania, durante la guerra siamo stati in Germania e poi ho i parenti in Germania. Nonostante la lingua con cui scrivo e con cui preferisco parlare sia l'italiano, io mi sento anche tedesca. Non voglio vivere in Germania, voglio stare qui, ma uno non cambia così facilmente le proprie radici, le origini dei propri nonni, la cultura della famiglia, le città e la storia dei genitori, che nel mio caso è

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tutta in Germania. Io non posso dire “Ora sono fiorentina”, i fiorentini risponderebbero: “Mi fai ridere”; ho un accento, quindi si sente bene che non lo sono. Non è come in America, che uno ci sta lì un paio d'anni e già diventa americano. Mi ricordo che una volta, in America, Tiziano conobbe un cinese e gli fece: “Piacere, te di dove sei?”, quello rispose: “Di Ohio”, e Tiziano replicò : “No, veramente di dove sei?”, il cinese ribatté: “Prima ero a New York ora a Ohio”, disse: “Ma cosa sei?”, “Americano” e Tiziano gli rispose: “Ma te con questi occhi a mandorla mi vieni a dire che sei americano?! Sei cinese!!”. Questi non lo voleva sentire, sosteneva di essere americano, ma non si può fare così, perché in verità era cinesissimo. Non è onesto, ci si fa violenza così: è molto meglio ricordarsi delle proprie origini. Gli italiani in America invece non dicono di essere americani... “Io so' di Napoli”, dicono di avere il passaporto americano ma non di essere cittadini americani. Suo marito ha viaggiato molto, nel senso stretto della parola, però ha anche intrapreso un viaggio interiore molto profondo. Che tipo di viaggi erano quelli di suo marito? L'uomo ha sempre viaggiato, ma prima del turismo, cominciato con gli inglesi che erano talmente ricchi a forza di saccheggiare il mondo da potersi permettere i cosiddetti “gran tour”, il viaggio era o quello di un marinaio o quello di un esploratore, oppure un viaggio di conoscenza, per cui erano viaggi in cui uno rischiava, ad ogni viaggio non si sapeva se si arrivava in fondo. Anche Marco Polo non ha fatto il turista, ma l'esploratore. Io ho visto passo, passo, Tiziano cambiare. Lui ha cominciato molto presto a vestirsi come le persone del posto, in India come in Malesia. Agli inglesi, per distinguersi dai locali, non era semplicemente permesso di vestirsi come le persone del posto. Mentre Tiziano si vestiva

sempre come loro, fino a quando non ha preso l'abitudine di vestirsi sempre di bianco, perché nel caldo è effettivamente il modo più fresco ma anche il più semplice. Aveva trovato questo modo semplice di vestirsi: i pantaloni erano di qui, perché un giornalista non poteva mettersi le sottane ed indossava quelle che lui chiamava “marsine”, giacche di cotone con le asole che la gente si mette in Oriente. In Cina ci vestivamo tutti come i cinesi: andavamo in giro con i cappotti imbottiti di cotone blu e i pantaloni sempre in cotone blu. Era più comodo, era lavabile. Ci si vestiva tutti uguali, e questo è anche un modo per mimetizzarsi meglio ed entrare in contatto con la gente più facilmente. Loro capivano già il segnale, capivano che se uno si vestiva come loro aveva anche interesse per loro. Ha detto di aver seguito passo passo i cambiamenti di suo marito. A volte è stato difficile seguire questi cambiamenti, oppure non li ha subito compresi? Sì, io ero più lenta. È stato lui che fin da subito ha voluto mettere i bambini nella scuola cinese e io mi son detta “Oddio poverini”. Erano scuole spartane a dir poco, però Tiziano era fermissimo e poi ho capito che aveva ragione lui. Ha fatto di questi anni scolastici dei nostri figli degli anni molto interessanti, di cui sono fieri, anche perché hanno imparato il cinese senza accento straniero e poi era un'avventura anche per loro. Perciò lei si fidava molto di suo marito? Sì, a volte anche se non mi fidavo dovevo adeguarmi, non c'era mica tanto da discutere. Però capivo che non prendeva delle decisioni a vanvera. Queste però non erano imposizioni, sapeva convincerla come i toscani sanno fare? Certo, se io non volevo fare qualcosa lui non me la imponeva per forza. C'erano delle cose in cui io non ci stavo e altre in cui

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chiedeva il mio parere e magari cambiava idea. Ma per lui era importantissimo non mettere i bambini nelle scuole dei privilegiati coloniali, dei bianchi considerati i principini. Diceva in continuazione che questo trattamento esclusivo non andava bene, e infatti ha avuto ragione. Io invece difendevo loro, perché sbraitavano e non volevano assolutamente andarci. Abbiamo visto una foto dei suoi figli in Cina, in cui in particolare suo figlio ha un bel sorriso e sembra divertito... A volte, lui è quello a cui è piaciuto molto meno, perché era già più vecchio e a circa undici anni ha dovuto ricominciare dalla prima elementare, perché non sapeva né scrivere né leggere. È stata dura? Sì, molto dura, ma poi ha anche dato soddisfazioni. Mentre i suoi amici ad Hong Kong, dove eravamo stati prima, facevano storia, geografia, fisica e tutte queste materie interessanti, lui non faceva niente. Sicché si sentiva buttato indietro, non era facile. Matematica però la faceva del suo livello e la faceva molto bene. I viaggi che Tiziano ha intrapreso sono molti e di genere molto diverso: i viaggi fatti da giornalista, i viaggi alla ricerca di una cura, i viaggi alla ricerca di una pace e di una stabilità interiore. Secondo lei qual è il viaggio che lui lascia in eredità a noi giovani? Una delle vie che lui consiglia di seguire è quella di non essere pecore che seguono il gregge, ma di capire sé stessi. Il messaggio è quello di cercare di fare una vita che ti piace, una vita in cui fai qualcosa in cui credi, e se non riesci a farla tutto il giorno è bene dedicarci almeno una parte del proprio tempo. Bisogna vivere, oggi diventa sempre più difficile. Non bisogna seguire soltanto quello che ti sarà utile, ma anche quello che ti farà piacere, la vita deve essere anche piacere. Molti gli hanno detto “Eh beh, tu l'hai po-

tuto fare”, ma anche lui era figlio di operai e se non si fosse dato da fare sarebbe finito in banca a fare l'impiegato. Si è dato da fare, ha studiato molto, sempre di più di quello che la scuola richiedeva, ha lavorato all'Olivetti - e l'ha odiato per cinque anni - e nel frattempo ha continuato a fare domande, a impegnarsi, a cercare di imparare nuove lingue finché ha vinto una borsa di studio per andare in America, e lì ha cominciato a scrivere per i giornali. Ha lavorato molto, però ha sempre cercato di fare quello che gli piaceva e ha sempre avuto una paura terribile di non farcela: i suoi anni giovanili sono stati di grande ansia. Ma poi ha avuto degli anni belli in Vietnam, in Cina, e poi anche in Giappone, era ancora molto interessante anche se non gli piaceva come andava il mondo, si vede da «Un indovino mi disse». A noi rimane l'esempio di un grande uomo che non aspettava che le cose gli accadessero, ma voleva lui stesso esserne parte attiva. In questo modo è riuscito ad affrontare la morte con naturalezza, ad avere il tempo per fermarsi a riflettere, per dedicare momenti al silenzio e per concentrarsi sulle cose che sono davvero importanti. Lei pensa che sia stato d'esempio per noi italiani che ci sentiamo immortali e che siamo follemente terrorizzati dalla morte? La cosa principale che Tiziano ha sentito e ha trasmesso è che era lui alla guida della sua vita, era lui responsabile di quello che gli succedeva, inclusa la malattia. Ha sempre voluto, anche la malattia e la prospettiva della morte, viverla come uomo responsabile e come una cosa sua, non un incidente che gli è capitato. Era convinto che se si era ammalato era perché aveva vissuto in un determinato modo di grande tensione, perché il giornalismo fatto a quei livelli è duro, di grande sofferenza, perché vedeva questo mondo che andava nella direzione del materialismo, dell'economia

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al comando, dell'omologazione e si arrabbiava. Quando dico che oggi Pechino è Chicago alla potenza, non dico una bella cosa. Pechino era una delle città più affascinanti del mondo prima della guerra, prima del comunismo. Così della morte diceva che era la sua morte e il suo modo di morire, e quello che ha trasmesso è una specie di invito a non vivere da pecore, a non vivere come gli altri ti dicono di vivere. Si è trovato un suo modo di vedere la morte, e la vita dopo la morte o la non vita

dopo la morte, come si vuole, in un modo che lo convinceva. Ha insegnato il coraggio e l'autonomia, lui era convinto che «Un altro giro di giostra» fosse un libro per vecchi, che lo avrebbe letto qualche malato di cancro e poi buttato in un angolo ed invece è piaciuto tanto ai giovani proprio perché diceva “prendi la tua vita in mano, non fare quello che ti dice la stramaledetta televisione, pensa con la tua testa, prenditi la tua responsabilità”. Certo, qualche gran personaggio c'è, vedi Gherardo Colombo,

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ma chi segui?! Un personaggio interessante in mezzo ad un mondo marcio?! Per cui fai da te. Lei pensa che questa ricerca interiore abbia aiutato solo lui o anche voi, la sua famiglia e chi gli è stato vicino? Certamente ha aiutato anche noi, ti dà un senso di libertà e di responsabilità per te stesso. Se io la penso diversamente dagli altri lo dico, non ho paura. Se sento dire: “A me piace Berlusconi”, io ribatto: “A me non piace Berlusconi”, e non possono dire “Oh attenzione, zitta!”. Ma come zitta, siamo in un Paese dove c'è la libertà di pensiero, la libertà di parola, e noi ce la stiamo togliendo di mano: meno la eserciti e meno ce l'hai. La democrazia non basta che sia scritta sulla carta. Tiziano Terzani abbracciava qualche religione in particolare? No, lui è nato cattolico, si è interessato molto alle religioni orientali, ma non ha abbracciato alcuna religione. Non era il tipo. Era partito come uomo di sinistra, convintissimo, marxista, poi ha lasciato perdere perché davanti all'evidenza non gli piaceva. Aveva una sua spiritualità, una sua religione, ma non costituita: né buddista, né induista, né scintoista. Una curiosità personale: è riuscita a non piangere alla sua morte, come desiderava lui? Devo dire che è stato proprio come nel film, il film era vero. Noi gli abbiamo detto la verità e loro hanno filmato esattamente le stesse scene. Era talmente convinto che ti convinceva: a quel momento della malattia la morte era una liberazione e non era disperato, ma sperava di lasciarsi andare. Poi certo manca la persona, ma non sono stata presa da quell'angoscia, insomma dopo sette anni di malattia sei anche preparato. Fosse morto sotto un treno o sotto un auto sono colpi a cui non sei pronto, non ce la fai. Ma per sette anni vedi il progressivo indebolirsi anche del corpo,

la sofferenza. Vivere è faticoso alla fine, e allora lo accetti in qualche modo. Brave siete, fate belle domande! Desidero chiedere un'ultima cosa, sperando di non risultare sgarbata né magari di aver compreso male una cosa che avevo letto di suo marito. Nei dialoghi che aveva con suo figlio parlava anche dell'amore che provava per lei, un amore forte, che però allo stesso tempo viveva con un certo distacco e cercava di relativizzare. Lei come viveva questa cosa? L'ho capito bene, l'ho capito giusto. È chiaro: quando uno ha talmente a che fare con sé stesso, deve gestire la propria malattia, deve gestire anche la propria disperazione perché era un uomo che amava la vita più di tutti noi messi assieme, era un bel dire: “io mi distacco”. Eppure doveva farlo, doveva riuscirci, e ogni giorno avvicinarsi un pochino di più. Io dico che ci è riuscito solo nelle ultime settimane ad accettare la morte. Era necessario che si distaccasse da tutti, era necessario perché la malattia è tua; gli altri ti possono accompagnare fino all'ultimo piano ma sul tetto ci devi andare da te, non c'è miglior compagno o migliore amica, devi rimanere solo e non c'è verso. Allora io l'ho capito benissimo. Lui molte cose le diceva come per chiarire un po' le cose, come veramente stavano, non per offendere me, e questo è molto importante. Sono stata chiamata molto anche negli hospice a spiegare, perché il modo in cui Tiziano ha affrontato la morte ha permesso la discussione in Italia sul morire, sul cosa fare. E per chi dirige gli hospice è durissimo, perché i parenti dicono “Fallo per me, stai ancora un po', prendi questa medicina, fai un'altra radioterapia”. Tu non ne puoi più. Ed è lì che lui vuol fare chiaro che ad un certo punto non bisogna chiedere più niente, perché il malato non ce la fa più a fare niente e queste richieste diventano molto pesanti.

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Fotografia da: www.tizianoterzani.forumfree.it


INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI, MARGHERITA COZZIO, SERENA RIGHETTI

FOLCO TERZANI FOLCO TERZANI (NEW YORK, USA, 1969) FIGLIO DI TIZIANO TERZANI E DI ANGELA TERZANI STAUDE. NATO IN AMERICA, CRESCIUTO IN ASIA, HA STUDIATO LETTERATURA A CAMBRIDGE E REGIA A NEW YORK. HA INIZIATO LA SUA CARRIERA NEL CINEMA CON I FILM DOCUMENTARI «THE EUROPEAN BUDDHA» E «MOTHER TERESA'S FIRST LOVE». NEL FILM SULLA MISSIONE DI MADRE TERESA A CALCUTTA HA ACCOMPAGNATO, PER OLTRE UN ANNO, IL LAVORO DELLA SUORA NELLA SUA MISSIONE E HA EFFETTUATO LE ULTIME RIPRESE AUTORIZZATE DI MADRE TERESA. FOLCO TERZANI È STATO CHIAMATO DAL PADRE TIZIANO, POCO PRIMA DELLA SUA MORTE, NELLA CASA SUI MONTI DELLA TOSCANA; PER TRE MESI HA AVUTO LUNGHE E INTENSE CONVERSAZIONI CON IL PADRE, FINO ALLA SUA MORTE. SULLA BASE DI QUESTE CONVERSAZIONI, NEL 2006, HA PUBBLICATO L'ULTIMO LIBRO DEL PADRE CON IL TITOLO «LA FINE È IL MIO INIZIO», DA CUI È STATO TRATTO L'OMONIMO FILM DI CUI RISULTA ANCHE SCENEGGIATORE. NEL 2011 È USCITO IL SUO LIBRO «A PIEDI NUDI SULLA TERRA» (MONDADORI). Mi potete dare del tu, che per me è più semplice? Certo... Abbiamo visto una tua intervista alle «Invasioni barbariche» in cui hai detto di non voler parlare più della figura di tuo padre, ma solo del suo pensiero, giusto? Sì, addirittura nemmeno tanto del pensiero, perché ho già detto tutto quello che dovevo dire e visto che il mio babbo non è più in vita e non ho incontrato il suo spettro in giro per la casa, quello che c'era da dire l'ho detto ed è inutile ripetermi. Ok, allora partiamo con una domanda su di te. Sappiamo che giri il mondo tra America, India e Italia, ti riconosci in qualche patria? Non tanto in qualche patria: sono nato in America da genitori italiani, ma la mamma

è anche tedesca, poi sono cresciuto in Asia, ho fatto l'università in Europa e in America, e il posto in cui viaggio più spesso e più volentieri è l'India, per cui è impossibile capire a dove appartengo, non ci sono delle radici chiare in tutta questa storia. Alcuni pezzi di terra mi sono più familiari di altri, ma non mi riconosco in una patria o in una nazione. Mi identifico nel pianeta Terra, perché negli altri non ci sono stato. Tua madre ha detto che è impossibile che una persona si senta cittadina del mondo e che non è possibile che tu ti senta tale. E invece? Ha sbagliato? Mi sento più italiano che altro. Quando giocano i mondiali di calcio, per qualche ragione sono dalla parte dell'Italia. In fondo, non so quanto siano importanti queste definizioni, perché i Paesi sono costruzioni tutto

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sommato abbastanza recenti, prima non c'erano i Paesi ma c'era un pianeta con gli animali e l'uomo, che giravano da un posto all'altro. Sono immaginarie queste linee che dividono la carta geografica: di solito ci sono i fiumi che dividono due posti, o le montagne, il resto, nonostante ci siano i gruppi linguistici, ma io parlo sei lingue, è tutto un'invenzione. Ci sono dei posti dove uno è cresciuto; io per esempio potrei dire che ci sono alcuni alberi a cui tengo, perché si trovano dove ho passato molti anni della mia vita, perché c'è una vista che riconosco, ci sono gli amici. Però, i miei amici sono sparsi per tutto il mondo, non sono in un posto. Quello è il problema di chi viaggia tanto; i miei migliori amici sono uno in Sud America, uno in Ecuador, l'altro negli Stati Uniti, tre sono in giro per l'India, ma non so dove. È una gran confusione dove sono questi amici: quindi dov'è la mia patria? Credo che mia mamma l'abbia vissuta diversamente; lei è nata e cresciuta in Europa, poi è andata in Cina e in giro per il mondo, mentre io sono stato dappertutto fin dall'inizio, per cui mi sento più cittadino del mondo. Quando abbiamo fatto l'intervista a tua madre ci ha raccontato appunto dell'esperienza in Cina e della realtà molto diversa dalla nostra, sicuramente dev'essere stata un'esperienza che ha segnato tutta la tua crescita. Cosa ricordi? Tornando indietro la rifaresti? Quelli in Cina sono stati gli anni più difficili della nostra crescita, perché non eravamo nella solita scuola internazionale, dove gli stranieri mandano i figli a studiare perché, più o meno, ti senti a casa. Invece lì eravamo proprio in mezzo ai cinesi e bisognava imparare una nuova lingua che non era come lo spagnolo o il tedesco, il cinese è tutta un'altra storia, bisogna ricominciare tutto da capo, non c'è neanche l'alfabeto, si usano gli ideogrammi. Questa cosa ci è stata imposta dal mio babbo che ci teneva

che noi capissimo la Cina, cosa che tra l'altro non ci interessava nulla, ma lui aveva un coinvolgimento suo, legato all'interesse per il comunismo e a questo grandissimo esperimento sociale dell'uguaglianza tra le persone. Però questo era un sogno che aveva avuto lui, essendo nato povero, di vedere se funzionava quest'esperimento. Io non ci avevo neanche mai pensato ad undici anni a questa cosa, per cui non è che vedevo con quegli occhi, e ho trovato difficilissimo andare ad una scuola cinese, non solo per la lingua, ma anche per la loro logica: per esempio, mentre per noi l'artista è quello che fa le cose più diverse, durante la lezione di arte in Cina c'era un libro con dei disegni e chi era più preciso nel copiarli prendeva i voti più alti. È estremamente strano: io che dipingevo molto non mi ci ritrovavo in questo mondo. Erano sistemi per creare elementi che funzionassero insieme, in gruppo, invece che tanti individui che ragionavano da sé, per cui sono stati degli anni piuttosto tosti, infatti io piangevo spesso e ripetevo: “Non ne posso più, toglietemi da quella scuola” e alla fine mi hanno tolto. Come tutte le esperienze difficili, una volta che le hai superate, diventano le esperienze migliori, cioè quelle che t'hanno insegnato di più; qualsiasi esperienza difficile o ti distrugge o, se sopravvivi, diventa uno degli insegnamenti più grandi. Quindi l'esperienza con la Cina mi ha segnato in molti modi, perché mi ha insegnato che potevo buttarmi completamente in un'altra cultura e far parte degli altri, imparare la loro lingua e vedere come vivono, che sono cose che un po' ho fatto dopo nella mia vita, sia in India che, un pochino meno, in Sud America. Tu viaggi dall'infanzia, quindi sei abituato, ma cosa ti spinge tuttora a viaggiare e a continuare questo perenne viaggio? La noia! La noia di stare fermo, perché mi viene subito il senso di noia dopo un pochino e la frustrazione. Spesso le avventu-

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re più grandi sono venute o da una forte noia o da un forte disagio. Di solito un problema mi ha portato più lontano che una semplice curiosità. Quando uno fa un viaggio per curiosità va, vede, legge la guida e più o meno è soddisfatto. Ma se invece, come a volte, non ne potevo più di qualcosa, avevo proprio bisogno di rompere tutti gli schemi, allora ho fatto le cose più rischiose e le cose più rischiose sono state sempre quelle più belle, perché quando rischi succedono tante più cose, poi a volte potresti non tornare. Quando viaggi qual è la prima cosa che t'incuriosisce, che cerchi di scoprire e di conoscere in un nuovo Paese? Se vai a vedere i monumenti è noiosissimo e non serve a niente. Io sono andato in Egitto e praticamente non ho visto le piramidi. Sono stato in India mille volte e non sono stato al Taj Mahal. Sono cose che ora non mi interessano molto, solo a volte, un pochino, ne vale la pena. Ad essere sincero, in Egitto, sulla via dell'aeroporto, mi sono fermato un attimo a vedere le piramidi, perché mi sono detto: “Andar via senza averle viste è un po' assurdo”, però non mi ricordo niente delle piramidi, le vedevo meglio in cartolina. La cosa che cerco, quando viaggio, è conoscere la gente, entrare nelle loro case, nelle loro famiglie, fra i loro amici, fare quello che fanno normalmente. Di solito prima di fare un viaggio cerco un aggancio, non vado in un posto fino a che non ho un aggancio. L'anno scorso sono andato in Brasile perché avevo un amico che abitava lì, e allora sono andato a stare nella sua azienda su un fiume in un posto sperduto e siamo andati insieme a pescare. Allora entri nel Brasile, mentre se vai a vedere i monumenti secondo me è tosta. Fai foto a cose che sono già state fotografate miliardi di volte: come a Firenze si vedono i turisti che fanno le foto a Davide o a Piazza della Signoria, e io mi dico: “Ci sarà proprio bisogno di un'altra

foto di quella cosa? A cosa serve? A provare che ci sei stato?”. Io cerco l'atmosfera. Mi sento diverso in un altro Paese, relativizza molto quello che noi consideriamo assoluto, perché vedo che la gente ha modi completamente diversi di fare le cose. Per esempio, l'India è un Paese in cui senti molto lo spirito e questo è anche dovuto al fatto che la carne è molto coperta. Siccome ci sono stati i musulmani per molto tempo, anche se l'India è indù, le donne si coprono parecchio e quando sei nei villaggi dell'Himalaya spesso anche se le saluti fanno finta di non vederti, non c'è contatto. Il Brasile è l'opposto: il contatto fra gli uomini e le donne è fortissimo in tutti i momenti, è tutto un gioco continuo. Diciamo che da una parte c'è un muro e le donne si coprono addirittura la testa quando arrivi, e dall'altra invece tirano fuori tutto quello che hanno: le gambe, le braccia, il collo, le pance. Uno porta più a una cosa dell'anima e l'altro è come il godimento dei sensi. E queste sono qualità che hanno diversi Paesi, come le hanno diversi posti geografici anche a seconda del clima. Queste sono sensazioni che uno ha nel viaggiare e che tirano fuori diverse parti di te stesso, questo è il vantaggio del viaggio. Poi c'è chi dice che bisogna viaggiare dentro di noi, però è complicato. È molto più facile viaggiare fuori e lasciare che questo tiri fuori qualcosa da dentro di noi. Com'è cambiata la tua idea di viaggio da quando eri piccolo, alle prese con i primi viaggi, ad ora? I primi viaggi non erano la mia idea di viaggio, ma quella dei miei genitori. Per cui mi portavano in giro ed io li seguivo, anche se spesso protestavo, non volevo andare, mi annoiavo, ero ribelle. Ora, siccome li decido io, è diverso. Ma credo che non sia cambiata molto la mia idea di viaggio, più o meno è quella. Spesso i viaggi più forti si fanno da giovani, quando non si hanno né troppi legami né

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TIZIANO TERZANI

UN ALTRO GIRO DI GIOSTRA. VIAGGIO NEL MALE E NEL BENE DEL NOSTRO TEMPO.

(Longanesi, 2004)

"Un altro giro di giostra" è la storia di un viaggio. D'altronde per Tiziano Terzani viaggiare è sempre stato uno stile di vita oltre che una professione. Ma questo, a differenza di tutti gli altri viaggi, non riguarda un articolo da scrivere o una persona da intervistare; riguarda un qualcosa molto più difficile da intraprendere: un viaggio alla ricerca di una cura per il cancro. "Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere - scrive infatti nelle prime pagine - e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso." All'età di 59 anni a Tiziano Terzani viene diagnosticato un cancro; si mette così nelle mani di uno dei migliori ospedali specializzati nella cura della malattia a New York, l'MSKCC. Ben presto Terzani si rende conto però che la cura occidentale non è sufficiente: la scienza del mondo occidentale, se pur efficace, è in grado di curare solo il corpo, ma non lo spirito. Il soggetto della scienza è la malattia, non il paziente. Terzani si getta così alla ricerca di una cura per l'IO-persona, e non l'IO-corpo, IO-portatore di malattia, sperimentando le forme di medicina cosiddette “alternative”. Mentre viaggia per l'India, la Thailandia e le Filippine, Terzani si rende conto che il viaggio più importante non è quello intrapreso per conoscere le diverse forme di cura, ma quello che sta vivendo all'interno di sé: la malattia è diventata un'opportunità per riflettere sul significato della vita, dell'esistenza. Gli ultimi mesi li vive da eremita nella quiete dell'Appennino tosco-emiliano, dove la meditazione si fa più forte e profonda. Nel libro riaffiorano continuamente i temi cari al giornalista quali la globalizzazione, la storia, il confronto tra Oriente, ancora legato alle tradizioni e alla spiritualità, e Occidente, mondo ormai strettamente legato al materialismo. Il viaggio diventa alla fine un viaggio alla ricerca delle radici dell'uomo e alla scoperta della “malattia” di tutti gli esseri viventi: “la mortalità”. Anche se non esiste una “cura” a questa “malattia”, come forse vuole suggerirci Terzani non esiste cura per il suo cancro, non significa che dobbiamo arrenderci, lasciarci andare, anzi! Ognuno di noi deve intraprendere un proprio personale viaggio alla ricerca di sé stesso, del proprio equilibrio, della propria “cura”. “La storia di questo viaggio non è la riprova che non c'è medicina contro certi malanni... tutto, compreso il malanno stesso, è servito tantissimo. È così che sono stato spinto a rivedere le mie priorità, a riflettere, a cambiare prospettiva e soprattutto a cambiare vita. E questo è ciò che posso consigliare ad altri: cambiare vita per curarsi, cambiare vita per cambiare se stessi”. Con le sue più di 500 pagine, "Un altro giro di giostra" è un libro molto profondo e impegnativo, in grado di far riflettere su temi oggi troppo spesso dimenticati, come l'esistenza, la vita, la malattia e la morte: il lettore non può che trovarsi coinvolto in un vortice di pensieri e riflessioni, che sorgono quasi spontanei e involontari; succedono con naturalezza a quelli dello stesso Terzani. La lettura è resa piacevole da piccoli aneddoti, leggende e storie prese dalla tradizione popolare, ma anche ricordi e avventure vissute dallo stesso scrittore, che rendono il racconto non più un qualcosa di lontano e irraggiungibile, ma qualcosa di quotidiano, reale, molto vicino. Tiziano Terzani cessa con questo libro di essere un semplice narratore, un giornalista: diventa un grande maestro, un maestro di vita. La sua esperienza diventa un'esperienza comune quasi che, leggendo, sembra essere toccata proprio a noi. La bellezza e la grandiosità del libro sta proprio in questa strana ambivalenza: da un lato Terzani riesce a commuovere e a toccare, dall'altro non vuole suscitare compassione o essere ricordato per una chissà quale impresa e riesce a far riflettere il lettore. Sarà la malattia l'unico modo per cambiare la propria vita e renderla migliore? Non ho risposte a questa domanda, certo è che la malattia è una grande occasione per reagire, non arrendersi e cambiare un po' di sé stessi, proprio come ci racconta Tiziano Terzani. Serena Righetti

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troppe paure, però vedo che sto cercando di continuare ad andare avanti facendo viaggi sempre più forti di prima. Uno non può dire: “Ho fatto le cose che ho fatto, ora mi adeguo”, ma allo stesso tempo con la responsabilità dei figli piccoli bisogna un po' pensarci se puoi e quanto puoi rischiare. Tuo padre diceva che era importantissimo trovare dei momenti da dedicare al silenzio, lo pensi anche tu? Sei riuscito a trovare questi momenti? Sì, io spesso vado in montagna e sto in silenzio, oppure vado in India, ho un mio amico che è un vecchio e ha una grotta in India e vado a stare da lui. Lui sta in mezzo al nulla, alla giungla, dove passano molti animali, scimmie. Si sta lì e si guarda il sole che sorge la mattina, è abbastanza silenziosa la cosa. Stai lì, si guarda, il mangiare arriva, qualcuno porterà qualcosa, poi si prende l'acqua dal fiume; questi sono momenti di silenzio senza tante cose da fare. È diverso da quello che siamo abituati a fare noi, perché siamo sempre a correre e a fare più cose, allora il silenzio viene anche dal renderti conto che non c'è sempre poi così tanto da fare. Per cui il silenzio lo trovo molto importante e sono completamente d'accordo col mio babbo su questa cosa, anche perché se vogliamo tirare fuori delle idee nuove è più probabile che vengano dal silenzio piuttosto che sorgano dal continuo fare. Dal continuo fare diventi abbastanza automatico, sei dentro ad un fiume che va, e tu vai come tutto il resto e giri, giri, ma il fiume prosegue sempre in quella direzione. Solo se ti fermi puoi avere un'idea nuova che ti può portare anche controcorrente. Grazie a tuo padre pensi di essere riuscito ad affrontare la paura della morte, la paura di perdere tutto? Lui diceva questa cosa bella, che lui questa vita l'aveva già vista, per cui in qualche modo non gli interessava più, l'unica cosa

che non conosceva era la morte e allora voleva andare a fare questa cosa. Questo era l'ultimo viaggio per cui partiva. In un certo senso, per arrivare a questo, devi aver fatto tutto quello che volevi fare. Ora non so se proprio ho finito di fare tutto quello che voglio fare, forse è ancora un po' presto. In una prospettiva futura pensi di riuscire ad affrontarla più serenamente? Forse grazie a tuo padre... Immagino di sì, però è sempre difficile sapere cosa ti succede davanti ad una situazione vera. In teoria siamo “tutti buoni”, ma solo davanti alla cosa vera vediamo come reagiamo. Oltre al mio babbo, l'insegnamento della morte l'ho avuto lavorando con madre Teresa: lavoravo con i morenti tutti i giorni per un lungo periodo. Non si sa come andiamo a finire, come sarà, dove moriremo, per cui bisogna stare a vedere, certo non deve essere una cosa molto facile. Credo che anche per lui non fosse facilissimo, però in qualche modo aveva superato il duro, o aveva messo una faccia dura sul duro, si era detto: “O fai la vittima o fai l'eroe”. Allora aveva scelto di fare l'eroe, ma bisogna sceglierlo, perché non è ovvia questa cosa. Chi lo sa, forse è più facile affrontarla da duro, piuttosto che mettersi troppo a dimenarsi e ribellarsi. È difficile, lì si va verso il mistero. Hai fatto molti viaggi, vedendo culture molto diverse dalle nostre. Cosa ti senti di criticare dell'Occidente rispetto alle culture orientali e perché? Il conformismo, innanzitutto. Anche se siamo tutti così individualisti e facciamo le lezioni d'arte dipingendo tutte cose diverse, alla fine è tutto uguale. In qualche modo siamo un po' rintronati dalla quantità di informazioni e pubblicità, è raro sentire un pensiero fresco in mezzo a tutto questo. Trovo spesso che le conversazioni più profonde non le ho nemmeno con i miei amici qui, ma con persone che incontro in

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montagna, spesso in India. In montagna si riesce a parlare di cose molto profonde, cose che qui è come se non esistessero: ci sono delle questioni che qui non sorgono mai: “Perché siamo qui?”, “Cos'è questa magia di luce e colore che ci circonda?”. Qui non c'è proprio l'atmosfera per portare avanti quel genere di pensiero. Al massimo ci si pone la domanda li per lì, ma poi non si trova la risposta, si passa alla domanda successiva e si ritorna a bere la Coca Cola. Hai trovato un posto in cui non c'è questo conformismo? Sì, in genere anche da noi, se vai in montagna o nei paesini piccoli vedi le persone che sono più padrone di se stesse e della propria vita: coltivano le proprie cose, vivono più fuori, più a contatto con le nuvole, il sole, il tempo, la pioggia; sono a contatto con i propri pensieri. Invece spesso i cittadini che si vantano di essere superiori ai bifolchi, di natura sono estremamente conformisti e glielo vedi anche in faccia: hanno queste facce belline e non in qualche modo formate dall'esperienza della vita. Cercano sempre di evitare di sembrare un albero, si rifanno le facce, si rifanno i visi, mentre davvero vedi dei vecchi che sembrano alberi, sembrano una cosa antica, hanno dei solchi. Questo è segno di un'esperienza forte che gli è arrivata e che hanno accettato. Vogliamo rimanere sempre uguali, ma se rimaniamo sempre uguali e bellini rimarremo sempre ignoranti. In realtà è dura trovare una città dove non ci sia conformismo: voglio dire, al di là dell'ambiente della montagna o di realtà molto piccole, anche se vado in una città dell'India o di qualsiasi Paese non sono forse sommersa dal conformismo? È sicuramente molto più forte in città, in India poi particolarmente. Fino a poco tempo fa molto meno, ora è arrivata un'ondata fortissima di pubblicità, per esempio. Una cosa impressionante! Ed è proprio

una cosa disgustosa! Mentre noi abbiamo un cartello con la pubblicità di un telefono cellulare loro ce ne hanno centinaia uno dopo l'altro, anche della stessa cosa! Purtroppo da loro è arrivata in massa. Fa schifo! È bruttissima e ti stordisce! Io non riesco ad assentarmi da tutto quello che mi stanno dicendo tutte queste cose. In fondo guardo sempre, sono sempre curioso, leggo tutto quello che c'è scritto su questi cartelloni, anche se non c'è mai scritto niente di vero. Lo sappiamo tutti che è falso, eppure lo leggiamo e ci distrae. Poi ci sono le esperienze forti, tutta la nostra civiltà è organizzata per metterci sempre più in scatole. D'altronde è quello che vogliamo: vivere più a lungo, con meno dolore, e per questo esaltiamo i divi del cinema, perché le nostre grandi emozioni le troviamo al cinema, che è tutto virtuale! Non ci mettiamo assolutamente in gioco nel guardarci un film, non c'è nessun rischio e come si diceva prima più rischi più guadagni. Al cinema non rischi nulla. Se vuoi imparare ti tocca uscire dal cinema e metterti in quelle situazioni, in quei percorsi, in cui in effetti ti può succedere qualcosa che non ti piace. E quando succede ti dice una verità sul mondo, su quello che avviene, e perché quello che avviene è un continuo distruggere e ricrearsi. All'inizio hai detto che hai molte amicizie in giro per il mondo. Come mantieni queste amicizie, il confronto con loro? Non con facebook per esempio! Non ci sono su facebook, c'è una pagina con il mio nome, ma non è mia. Lo mantengo un po' con l'idea che quando uno si incontra si incontra, e se non si incontra per dieci anni va bene, poi in qualche modo ci si rincontra. Davvero ho degli amici che non saprei neanche dove sono, dove trovarli, anche perché sono infilati in qualche montagna, però quando ci si ritroverà sarà com'era quando ci siamo visti tanto tempo fa. E se non ci si ritrova mai? È uguale lo stesso.

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Oggi ci sono una quantità enormi di messaggi, ma in qualche modo è meno profondo: è ovvio che da qualche parte devi perdere. Così mantengo queste amicizie cercando di evitare troppi contatti: niente facebook, la mail è tutta chiusa. Penso che se ha troppi contatti ti perdi in molte cose e alla fine finisci solo per dire: “Ciao come stai? Oggi mi girano le scatole”. Ok va bene, però domani non ti gireranno più, quindi non ho bisogno di sapere che oggi ti girano, in un certo senso. Quando ti incontri, senza sentirti ogni secondo, c'è quella cosa più forte. Poi continuo a viaggiare molto, ora sono qui, il mese prossimo sono in Tibet, il mese dopo in California, per cui alla fine li rivedo girando in continuazione. A questo proposito, nel viaggio la partenza porta solitamente a distaccarsi dagli affetti, nel tuo caso il viaggio ti porta a recuperare invece gli affetti, a recuperare tutto queste amicizie che hai lasciato in giro per il mondo, o mi sbaglio? Fa bene staccarsi dagli affetti! Bisogna staccarsi, non si può stare sempre lì inchiodati alla famiglia e a tutte le cose confortevoli a cui siamo abituati; è quello anche un po' il senso del viaggio. Uno dei miei viaggi più importanti, per esempio, è stato quando ho mollato tutto e sono andato a Calcutta, a stare con madre Teresa. In quel momento era essenziale mollare tutti gli affetti e tutte le persone, perché altrimenti non avrebbero accettato assolutamente il mio cambiamento. Le persone che ci circondano sono abituate a una versione di noi, sicché, se vogliamo fare qualcosa di assolutamente nuovo è più facile farlo lontano da tutti quelli che ci conoscono. Io stavo in un posto in cui non avevo telefono, non c'era l'e-mail a quell'epoca, e per molti mesi ho potuto così sperimentare un'altra versione di me. Questa è una bellissima cosa del viaggio: puoi vivere un'esperienza senza dover rendere conto tutti i giorni di cosa stai facendo; lo fai e basta,

gli altri non hanno bisogno di sapere nulla. Quando ti rivedono sei diverso: quando io sono tornato molti dei miei vecchi amici hanno mollato tutto. Ero diverso, ero un'altra persona, per cui non centravo più nulla con loro e questo è anche uno dei privilegi di poter fare una cosa del genere. Poi la famiglia rimane, certo. Poter cambiare però è bello, a volte gli affetti sono anche una palla al piede. Poi di affetti ne trovi di nuovi, altrimenti come fai se rimani sempre legato? Se uno vuole viaggiare, vuole andare a trovare le altre cose belle anche dall'altra parte, non è che parte con la convinzione che le persone e i posti che già conosce sono i migliori, allora va solo a vedere le stranezze altrui. Le stranezze altrui potremmo essere noi stessi. Ma quanto sei rimasto a Calcutta? Quasi un anno. Dovevo starci qualche settimana, ma poi mi ha colpito così tanto che ho stravolto tutti i progetti. Bisogna essere anche aperti a questo: avevo un volo di ritorno e non sono mai tornato, sono rimasto lì, ma senza dare tante spiegazioni. Perché tutti dicevano: “Sei impazzito? Cosa fai? Ma starai mica diventando religioso? Ma che succede?” E te non spieghi nulla e scompari per un po'. Non c'è niente di male; se vuoi fare così fai così. In fondo la famiglia stretta ha capito e mi ha lasciato stare, poi altri affetti non appartenevano più a questa nuova visione e non ci sono più nella mia vita. Abbiamo preso strade diverse e abbiamo degli interessi diversi. Da questo viaggio ho visto che potevo imparare da un morente di strada più che da un professore universitario. Il professore mi diceva le stesse cose, invece il morente mi diceva cose che non conoscevo e allora mi sono buttato su questo. Anche con gli amici di università eravamo tutti uguali, sicché alla fine ho capito che sì, si sta bene insieme, però non c'è un vero confronto, non si impara niente di nuovo. È come quando c'è un gruppo di amici dello stesso

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partito politico, tutti sono d'accordo nel dire: “Quegli altri sono degli stronzi”, ma alla fine non impari nulla. Il confronto deve essere la diversità e la diversità è quello che ti risveglia, ti fa ripensare, ti fa riascoltare, ripulire le orecchie. Se non è diverso, se non è completamente diverso da quello a cui sei abituato, non è interessante. È per questo che non leggo nemmeno più. Perché, cosa c'è da leggere? Più o meno ho letto le cose, non è più tanto interessante, perché più o meno sono riformulazioni delle stesse posizioni: “L'amore è la cosa più importante e bla bla bla”. L'ho già sentito, l'ho già immagazzinato, non ho bisogno che mi venga raccontato ancora. In generale non leggi più libri? No, prima ho letto un sacco, ora leggo molto poco. Oggi pubblicano più libri di quanto abbiano mai pubblicato nella storia; ma ti immagini quante cose avranno veramente da dire? La gente non ha più nulla da dire! Non fa neanche più l'esperienza! Lo sai chi scrive oggi? Quelli che studiano bene e fanno l'università, quelli che hanno studiato lettere: hanno letto tantissimi libri e poi ne scrivono uno loro. Ma cosa hanno da raccontare? Sono stati rinchiusi per tutta la loro vita e poi vogliono raccontarti qualcosa, cosa vuoi che ti raccontino? Cosa hanno visto? Ti raccontano i libri che hanno letto e li rigirano. Ma scrivi libri o sbaglio? Mi limito a scriverne pochissimi, perché ce ne è una sovrabbondanza tale che è un crimine aggiungerne ancora. Se proprio c'è una cosa che ti colpisce fortissimo e non resisti, allora cerchi di raccontarla. Ho lavorato per cinque anni su un documentario sugli elementi dell'Himalaya; cinque anni e l'ho mostrato una sola volta a un piccolissimo pubblico e per caso c'era un miliardario americano a cui è piaciuto tanto e ci ha dato i soldi per finirlo. L'abbiamo finito ma non sono ancora soddisfatto e non l'abbiamo mostrato. Non vale la pe-

na, in quella forma; non aggiungiamo rumore alla gente: o una cosa chiara o niente. Sei stato sceneggiatore del film «La fine è il mio inizio», sei soddisfatto di questo ruolo? Sei rimasto soddisfatto anche di come gli attori sono riusciti ad interpretare la tua famiglia? Lo sceneggiatore l'ho fatto per prevenzione: volevo evitare che fosse storpiata la verità, perché l'importante di quella storia è che era una storia vera. Se è una storia falsa uno può inventare qualsiasi cosa, ma quello era stato veramente vissuto. Se racconti una cosa che è veramente avvenuta allora deve essere la verità. Secondo me hanno fatto un buon lavoro; di solito si può pensare che in un film i personaggi vengono ingranditi rispetto alla realtà, però direi che il mio babbo era un pochino più grande di come è stato ritratto. La sua particolarità era che veramente rideva. Quello di ridere lo trovava difficile l'attore, però il mio babbo lo faceva veramente, rideva davanti a questa cosa della morte. L'attore ha interpretato più il lato del giornalista. A me invece mi ha interpretato benissimo ed è meglio di me, mi ha migliorato. Collegato a questo, nell'ultima parte del film si vede molto il rapporto con tuo padre. C'è una sensazione, un momento, un qualcosa che ti porti dietro con più gelosia e che ti ha colpito di questo ultimo viaggio che tuo papà ha intrapreso? Certamente, la cosa più importante è stata di ricordarci che a un certo punto ci troveremo in quella situazione prima di morire, ci guarderemo indietro e ci chiederemo se abbiamo fatto con la nostra vita quello che volevamo fare. Ora che organizziamo le nostre vite sarà importante pensare a quel momento e pensare se potremmo dire quella frase, chiedere a noi stessi se abbiamo fatto quello per cui siamo nati. È stato bello vedere come ha affrontato la possibilità di poter dire: “Si, l'ho fatto”. È importan-

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te partire con l'idea che è possibile fare quello che uno vuole fare. E mi ricordo quando mi ha guardato con uno sguardo severissimo per dirmi: “La vita è tua, sei tu il padrone, non dare la colpa a nessuno, siamo un'anima libera sulla terra, fai quello che vuoi fare”, come dire, finora ti ho protetto io, ora che sarai solo vai e fai quello che vuoi fare, niente scuse, c'è solo questa vita. Del film mi è piaciuto il pezzo in cui tuo padre si arrabbiava e ti diceva che non avevi fatto nulla della tua vita e poi dopo la tua reazione diceva: “Ok, adesso è pronto”. È bello quel pezzo, nel libro non c'era, però è una cosa vera, che mi ricordo benissimo. Io ho fatto una cosa terribile, lui era dominante e poi, quando era malato, io l'ho battuto, quando lui non ci poteva fare nulla, non poteva alzare la voce. Mi sono sentito in colpa per averlo fatto, invece lui era contentissimo e pensava che ora ero abbastanza forte per andare avanti. È come un gorilla che cede il posto al suo piccolo, è chiaro che è contento se il suo piccolo lo sconfigge, perché se non è così, dopo la sua morte non ci sarà nessuno a prendere le redini del branco. È qualcosa di molto primitivo, ma è così, arrivare a questa purezza di rapporti è bello e spesso solo nelle situazioni difficili ci si arriva. Siccome siamo andati a trovare tua mamma, ti ripropongo alcune domande che abbiamo rivolto anche a lei: il viaggio in giro al mondo come giornalista, il viaggio alla ricerca di una cura e il viaggio per la pace interiore. Secondo te qual è il viaggio che tuo padre lascia in eredità a noi giovani? L'ultimo è l'unico importante, io non ero interessato a lui quando era giornalista, solo la gente interessata al giornalismo si avvicina a quello, il secondo è interessante solo per chi è malato, mentre l'ultimo è universale. L'ultima fase sua era estrema-

mente interessante. Il viaggio per sé stesso ha a che fare con ognuno di noi. A noi rimane l'esempio di un grande uomo che non aspettava che le cose gli accadessero, ma voleva lui stesso esserne parte attiva. È riuscito ad affrontare la morte con naturalezza, a fermarsi e riflettere sulle cose importanti. Pensi che sia stato d'esempio a noi italiani “immortali” e follemente impauriti dalla morte? Sì, credo abbia sdoganato quella discussione. In modo chiaro e accessibile a tutti è riuscito a spiegare tutto. Quanto è impegnativo essere figlio di un personaggio tanto affascinante quanto ingombrante? Difficile, sì. Come si è detto prima le cose difficili o ti sconfiggono o diventi più forte tu. Quando sopravvivi è un vantaggio. In genere non rispondo molto a queste domande, fuori dall'Italia tali domande ricorrono molto raramente. Se c'è un interesse vero non c'è problema a parlare delle cose, se è semplicemente perché l'hanno visto in televisione diventa noiosissimo. Non è come un attore che la gente pensa che sia bravissimo e difende i deboli quando in realtà è un biscaro qualunque, vestito da supereroe e recita solamente. In questo caso è un po' diverso e quindi ha anche più senso parlarne. Tua madre ha detto che la vita sua e di tuo padre era una e ne farà sempre parte, mentre tu col tempo hai cercato di staccarti un po di più dalla sua figura. Sì, loro l'hanno fatta assieme la loro vita, mi hanno portato dietro fin che non avevo la forza di farmela da solo la mia vita. C'è voluto un po' per farlo, ma ora faccio quello che piace a me. Alcune cose sono comuni a mio padre, come l'India, mentre la Cina io non la seguo più. Con tutti i viaggi hai trovato una religione che ti ha colpito particolarmente? Sì, quella del mio babbo. Ne parlavo ieri con dei buddisti, loro parlano sempre dei

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maestri. La cosa bella è che mio padre non aveva maestri, nessun credo, prendeva la responsabilità per se stesso. Non puoi mai essere pienamente te stesso se hai un maestro. Non mi tornano queste cose, avere credi e religioni, mi sembra una costruzione sociale. Quella cosa che cerchi non ha nome. Nell'Islam non rappresentano Dio e sono d'accordo, cosa vuoi rappresentare? Non credo avrebbe senso. Non so se avete visto l'ultimo libro che ho scritto con Cesare Baba, un mio amico che vive in una grotta in India, il titolo è «A piedi nudi sulla terra». Lui formula bene una cosa a cui io tengo, il concetto sulla religione. Lui parte dal sole e dalla visione che ovviamente il sole non è Dio, ma è la cosa più grande, ciò che dà la vita, perché senza sole non c'è vita. Perciò la nostra concezione di Dio come la cosa più grande del mondo parte dal sole, il vero padre dei cieli è quello, poi ovvio che non è Dio, ma intanto lui si sveglia ogni mattina e ringrazia il sole. Tu comunque ti interessi della religione come tuo padre o è una cosa dalla quale ti distacchi? Mi piace leggere i testi, ma non li collego a una religione, ma a pensatori che hanno descritto in un determinato modo le cose. Mi piace molto l'Upanishad, un testo indiano di duemilacinquecento anni fa, e riconosco gli indiani come fratelli maggiori. Loro non appartengono ad una religione, sono persone pensanti. L'idea che una religione debba essere migliore delle altre non ha senso. Sono cresciuto tra tante religioni e ho visto pregi e difetti di ognuna, cosa dovrei fare? Mettermi qui e scegliere la migliore? Non ha senso. Io non ho neanche la concezione che l'essere umano sia l'essere superiore della creazione.

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VIAGGIO e AVVENTURA L'ONDA DEL "FAREASSIEME" FABIO PASINETTI MAURIZIO “MANOLO” ZANOLLA REINHOLD MESSNER PATRIZIO ROVERSI ALESSIA PALLAORO

PRESENTI

VIAGGIO E AVVENTURA. QUESTE SONO LE DUE PAROLE CHE DANNO IL TITOLO ALLA NOSTRA SEZIONE, IL NOSTRO NUMERO PRIVATO DI PAGINE. PAGINE RIPIDE, IMPERVIE, DESOLATE, RICCHE DI TRADIZIONI, COLORI, MUSCOLI E FATICA. I NOMI DEI PROTAGONISTI BASTEREBBERO DA SOLI PER UN' OTTIMA PRESENTAZIONE PER QUESTA SERIE DI INTERVISTE. MA COME È GIUSTO CHE SIA ANCHE NOI ABBIAMO IL DIRITTO DI PARLARE UN PO' DI NOI E DELLE NOSTRE ESPERIENZE. GRAZIE A CHI CI È VENUTO A TROVARE, A CHI CI HA OSPITATO E A CHI SI È LASCIATO FARE QUESTE DOMANDE, POSSIAMO DARVI ANCHE A VOI LE RISPOSTE CHE ABBIAMO TROVATO. ABBIAMO IMPARATO ALCUNE COSE DA QUESTE RISPOSTE. CHE IL VIAGGIO E L'AVVENTURA SONO SCOPERTE, PERICOLO, PIACERE E SOFFERENZA ALLO STESSO TEMPO. CHE L'AVVENTURA È A PORTATA DI MANO PER TUTTI E CHE I NUMERI E I NOMI NON IMPORTANO. ABBIAMO IMPARATO CHE UNA PASSIONE, UNA VOLTA CHE TI 276


COLPISCE DENTRO, LÌ RIMANE E SI METTE COMODA. CHE C'È SEMPRE DA IMPARARE, DA CHIUNQUE SI INCONTRA LUNGO LA STRADA. ABBIAMO CONOSCIUTO GRANDIOSI PERSONAGGI E I LORO GRANDIOSI SUCCESSI! ABBIAMO CONOSCIUTO PERSONE UN PO' MENO GRANDIOSE E CONOSCIUTE, LA CUI AVVENTURA È ANCOR PIÙ GRANDIOSA! E CHI GRAZIE ALLA SUA PASSIONE HA TROVATO IL LAVORO MIGLIORE. SPERIAMO CHE COME È PIACIUTO A NOI BUTTARCI NELLE INTERVISTE E ASCOLTARE, POSSA PIACERE ANCHE A VOI BUTTARVI NELLA LETTURA E CHE ANCHE VOI AVRETE L'OCCASIONE DI FARE QUALCOSINA. Alessandro Castelli

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Fotografie di Sergio Damiani


INTERVISTA A CURA DI ANXHELA BLAMA, CATERINA DE GIOVANELLI, ELENA FORADORI, ELENA MAZZALAI, FABIANA VILLOTTI, ROBERTA DOLCE

RENZO DE STEFANI, PIER GIANNI BURREDDU L'ONDA DEL «FAREASSIEME»

RENZO DE STEFANI (ROMA, 1948) HA LA FORTUNA DI CRESCERE UN PO' IN PIEMONTE UN PO' IN TRENTINO E DI ASSORBIRNE I DIVERSI UMORI. LAUREATO IN MEDICINA A SIENA E SPECIALIZZATO IN PSICHIATRIA A PERUGIA, SI APPASSIONA DELLA RIVOLUZIONE PSICHIATRICA BASAGLIANA. NEL '75 INIZIA A LAVORARE NELL'OSPEDALE PSICHIATRICO DI SIENA E RESTA SEGNATO DALLA MORTE CIVILE CHE VI SI RESPIRA. TORNA IN TRENTINO NEL MAGGIO DEL 1978 A LAVORARE NEL LOCALE MANICOMIO, A PERGINE. CON L'USCITA DELLA LEGGE 180 INIZIA LA GRANDE AVVENTURA DELL'APERTURA DEI CENTRI DI SALUTE MENTALE TERRITORIALI CHE LO VEDRÀ IMPEGNATO PER DIECI ANNI A CLES (VAL DI NON). ALL'INIZIO DEGLI ANNI NOVANTA SCENDE A TRENTO, DOVE SI TROVA TUTTORA, PRIMARIO DEL LOCALE SERVIZIO DI SALUTE MENTALE, E COSTRUISCE UN APPROCCIO, QUELLO DEL FAREASSIEME, CHE VEDE OPERATORI, UTENTI E FAMILIARI LAVORARE FIANCO A FIANCO PER VINCERE LA MALATTIA. ISPIRATORE DE "LE PAROLE RITROVATE", IL MOVIMENTO ITALIANO DEL FAREASSIEME, NE ACCOMPAGNA IL DIFFONDERSI SUL TERRITORIO NAZIONALE, FAVORENDO LA NASCITA DI ESPERIENZE INNOVATIVE DI CONDIVISIONE TRA OPERATORI, UTENTI E FAMILIARI. PER DARE VIGORE E VISIBILITÀ ALLA BATTAGLIA CONTRO LO STIGMA E I PREGIUDIZI PROMUOVE EVENTI INTERNAZIONALI, CHE I MEDIA DIFFONDONO COME ESEMPIO POSITIVO LEGATO AL MONDO DELLA MALATTIA MENTALE: LA TRAVERSATA DELL'ATLANTICO IN BARCA A VELA, IN 200 IN TRENO DA VENEZIA A PECHINO, IN 500 IN KENYA A COSTRUIRE UNA SCUOLA NEL POVERISSIMO VILLAGGIO DI MUYEYE, IL COAST TO COAST INDIMENTICABILE DA BOSTON A LOS ANGELES PER PRESENTARE L'ESPERIENZA DEL FAREASSIEME IN PRESTIGIOSE UNIVERSITÀ E CENTRI DI RICERCA AMERICANI. TRENTO DIVENTA UN POLO DI ATTRAZIONE PER DECINE DI REALTÀ ITALIANE ED ESTERE CHE NE VOGLIONO CAPIRE IL FUNZIONAMENTO. 279


PIER GIANNI BURREDDU (SASSARI, 1975) ARTISTA E BASSISTA, È UN UTENTE FAMILIARE ESPERTO PRESSO IL SERVIZIO DI SALUTE MENTALE DI TRENTO. CON IL PROGETTO DI SENSIBILIZZAZIONE “GIÙ LA MASCHERA” SI RACCONTA NELLE SCUOLE DI FRONTE AGLI STUDENTI, CONDIVIDENDO CON LORO IL SUO PERCORSO E LA SUA STORIA CON LA MALATTIA. NON SI SEPARA MAI DAL SUO BASSO A 6 CORDE, COMPONE DA SOLO LA MUSICA E I TESTI DELLE SUE CANZONI, COLONNA SONORA DEL FILM “OCEANO DENTRO”, CHE RACCONTA LA TRAVERSATA DELL'OCEANO IN BARCA A VELA FATTA DA UN EQUIPAGGIO DEL SERVIZIO DI SALUTE MENTALE DI TRENTO. AREA DEL FARE ASSIEME. SERVIZIO DI SALUTE MENTALE, TRENTO LA PSICHIATRIA ITALIANA DI COMUNITÀ NASCE NEL 1978 CON LA LEGGE 180 CHE HA CHIUSO GLI OSPEDALI PSICHIATRICI E HA APERTO I SERVIZI DI SALUTE MENTALI TERRITORIALI.
NEL SERVIZIO DI SALUTE MENTALE DI TRENTO LA PSICHIATRIA ITALIANA DI COMUNITÀ È APPLICATA CON ALCUNE SPECIFICITÀ: IL “FAREASSIEME” E IN PARTICOLARE GLI UFE (UTENTI FAMILIARI ESPERTI).
LA PSICHIATRIA DI COMUNITÀ SI BASA SU 3 PRINCIPI E SU TANTE BUONE PRATICHE. 1) L'INCLUSIONE SOCIALE: LA CURA E L'INTEGRAZIONE DELLA PERSONA CON UNA MALATTIA MENTALE AVVIENE QUANTO PIÙ POSSIBILE NEL LUOGO DOVE VIVE E LAVORA.
2) L'INTEGRAZIONE DI TUTTI GLI INTERVENTI IN UN UNICO SISTEMA CHE EROGA TUTTE LE PRESTAZIONI DI CURA: IL DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE.
3) LA CONTINUITÀ NELLA PRESA IN CARICO: L'UTENTE E LA SUA FAMIGLIA SONO ACCOMPAGNATI ATTIVAMENTE NEL TEMPO NELLE DIVERSE AREE DI ATTIVITÀ DEL DIPARTIMENTO. LA NOSTRA AVVENTURA PARTE NEL 1999, PER CAMBIARE UNA SITUAZIONE CHE ERA A DIR POCO “DIFFICILE”. UN IMPEGNO SU MOLTI FRONTI CON UN OBIETTIVO SPECIALE: COINVOLGERE ATTIVAMENTE GLI UTENTI E I FAMILIARI. DA QUESTO IMPEGNO È NATO IL “FAREASSIEME” CHE È LA CARATTERISTICA PRINCIPALE DEL NOSTRO APPROCCIO. IL FAREASSIEME È NATO DALLA PASSIONE DI POCHI, CONVINTI CHE DARE VOCE A UTENTI E FAMILIARI AVREBBE DATO PIÙ SAPERE E SALUTE A TUTTI, PIÙ QUALITÀ AL SISTEMA E ALLE SUE PRESTAZIONI. OGGI, IL FAREASSIEME È DIVENUTO UN “SISTEMA”, MOLTO VISIBILE E RICONOSCIUTO. GIORNO DOPO GIORNO LA MENTALITÀ E IL CLIMA DI TUTTO IL SERVIZIO DI SALUTE MENTALE È STATO PROGRESSIVAMENTE CONTAMINATO DAL FAREASSIEME CHE È DIVENTATO COMPONENTE FONDAMENTALE E IRRINUNCIABILE DEL SISTEMA PIÙ COMPLESSIVO DEL SERVIZIO. UN SERVIZIO CHE OGGI NEI PRINCIPI DEL FAREASSIEME VEDE LA SUA CORNICE METODOLOGICA, IL SUO TESSUTO CONNETTIVO, CHE TROVA NELLE SUE ATTIVITÀ OCCASIONI FONDAMENTALI PER ACCOMPAGNARE AL MEGLIO I PERCORSI DI CURA DI TUTTI GLI UTENTI DAI BISOGNI PIÙ COMPLESSI. UN SERVIZIO DOVE SEMPRE PIÙ UTENTI, FAMILIARI E OPERATORI HANNO IMPARATO A FARE COSE ASSIEME, A LAVORARE ASSIEME.
IN POCO PIÙ DI 10 ANNI PIÙ DI 1000 PERSONE (UTENTI E FAMILIARI) SONO STATE COINVOLTE IN ATTIVITÀ DEL FAREASSIEME. UN NUMERO ENORME PER UN SERVIZIO RELATIVAMENTE PICCOLO COME QUELLO DI TRENTO, CON UN BACINO DI UTENZA DI 150.000 ABITANTI. E QUESTI NUMERI SONO ALLA BASE DEL SUCCESSO DEL FARE ASSIEME.

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Come ci si sente in mezzo all'oceano? De Stefani: Comincio io. Per me l'avventura dell'oceano è stata straordinariamente bella, mi prefiggevo proprio di trovarmi come oggi in una scuola a discutere di questa avventura per fare un'azione di contrasto allo stigma del pregiudizio. Sotto quel profilo è stata un'avventura molto riuscita, ormai sono passati cinque anni e ancora facciamo vedere il film nato da quel viaggio e ne discutiamo a Trento come in altre città italiane. Sotto il profilo della convivenza, nella barca ci sono stati momenti molto belli ma ci sono stati anche momenti difficili, perché vivere per quaranta giorni in una barca può portare fuori il meglio ma anche il peggio di qualsiasi essere umano, per cui anche del sottoscritto. Quello che non mi aspettavo, perché io non ero mai stato in barca a vela, tanto meno sull'oceano, è che l'andare di questa barchetta avanti avanti avanti creasse nella testolina dei pensieri, delle riflessioni che francamente non mi sarei aspettato, mi ha molto colpito il suo incidere sulla psicologia ele-

mentare e sotto questo profilo è un'esperienza da consigliare perché è un po' come un viaggio dentro se stessi, sembra un po' retorico dirlo, ma succede proprio così, di notte hai le stelle, l'infinito... è molto interessante. Ho passato metà della mia vita in giro per il mondo e non ho mai avuto nostalgia di casa, mai, ma in questa avventura ho avuto, forse per l'unica volta in vita mia, dei momenti in cui avevo nostalgia di casa, probabilmente perché la barca ti dà una sensazione di tale instabilità e incertezza che hai nostalgia anche dell'ovile, è stata un'esperienza di una forza superiore a quello che potevo immaginare. Pier: Posso? Eh niente... c'è il nesso del viaggio no? Quindi dell'allontanarsi, del rompere i confini con la propria terra, il ritorno a casa e poi ci son tutte quelle cose che muovono qualsiasi inconscio, qualsiasi sensibilità. Io sono sardo ma in realtà noi siamo cittadini del mondo e così come tutti anche le persone che hanno problemi psichiatrici devono trovare una collocazione, uno spazio vitale, uno spazio umano in cui

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integrarsi e poi magari trovare un lavoro, che oggi è una parola impossibile, perché sappiamo che è molto difficile. Prima di arrivare nelle grinfie del dottore, scherzo, sono stato in psicoanalisi per anni e mi considero una persona fortunata perché ho avuto venticinque elettroshock e ci son persone che non si riprendono e sono stato coccolatissimo al centro e non so come ringraziarli. Sono andato fuori tema ma come fanno tutti i jazzisti. La metafora del viaggio viene utilizzata come un movimento di sentimenti che sono molto forti e molto vitali. Vivere così tanto tempo a stretto contatto deve avere modificato i rapporti fra di voi, qual è stata l'evoluzione del rapporto medico-paziente? De Stefani: Guarda, devi tener presente che io non sono il medico né di Pier né di altre persone, perché mi occupo di organizzazione. Detto questo è stata una bellissima esperienza, ma sotto il profilo umano non sotto il profilo del rapporto professionale, perché io non ero lì a fare il medico. Io ero lì, uno dei dieci, a cui toccavano gli stessi turni, poi è ovvio che quando ci sono stati anche dei piccoli momenti di difficoltà era più probabile che qualcuno cercasse me piuttosto che un altro, perché avevo comunque un ruolo che mi trascinavo dietro. Invece, è accaduto che una volta tornati all'ovile io ho avuto con Pier, con Davide, con Chiara e con Adriano sicuramente un rapporto più amicale, più affettivo, perché dopo quaranta giorni, visto che non ci siamo uccisi, è chiaro che siamo diventati più vicini. Poi in realtà Chiara la vedo una volta all'anno, Davide un po' più spesso, Adriano sono due anni che non lo vedo, mentre Pier lo vedo, è un tormento reciproco. La cosa più difficile è stata la convivenza o le condizioni fisiche? Pier: Dipende, con certe persone andava bene però ci sono stati dei momenti in cui abbiamo rischiato, quando ci siamo scon-

trati con la balena abbiamo veramente rischiato, ho avuto paura, ho detto: “Madonna, qua finisce male”. Non è stato facile coordinare caratteri diversi all'interno di una barca. Riesco a captare sia dentro che fuori di me delle cose che possono essere preoccupanti. In questo periodo sto frequentando di più il centro perché non mi sento bene, perché sono andato in una casa a vivere da solo e la nostalgia della mia terra, il mare, le onde, io vengo da lì... Dottor De Stefani perché ha deciso di intraprendere questo viaggio e da dove è nata l'idea? De Stefani: Questo viaggio è nato come quasi tutte le nostre avventure, che poi seguiranno quella della barca, in maniera del tutto casuale, che però è un casuale figlio di questo nostro modo di pensare, di vedere i disagi e quello che ne può conseguire. Noi abbiamo una sorta di approccio che abbiamo chiamato «Fare assieme», in cui riteniamo che gli utenti, gli operatori, i famigliari, i cittadini, gli studenti e qualche insegnante, tutti possono contribuire a esprimere il proprio pensiero, le proprie risorse e che assieme è meglio, questo è il principio. Allora tutte le volte che qualcuno ci propone di fare qualcosa per noi è un'enorme opportunità come quando veniamo a scuola, che per noi è un investimento prezioso, proprio per immaginare anche delle avventure assieme. Allora un paio d'anni prima di questa avventura, un signore che poi ha partecipato al nostro viaggio, per anni ha avuto una storia di amore per la montagna, per gli sport estremi, legati al paracadutismo, poi a cinquanta, cinquantacinque anni si è innamorato del mare, per cui si è procurato una barca a vela e ha iniziato a proporre a noi e ad altre realtà del mondo del disagio di organizzare delle piccole crociere, dove accompagnare delle persone. Così, un giorno, chiacchierando del più e del meno, abbiamo pensato di creare qualcosa di più

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impegnativo. Dopo aver scartato le prime ipotesi a tutti e due è venuto in mente che il vero oggetto di culto della navigazione è la traversata dell'oceano. Quest'idea ci intrigava molto e la cosa divertente è che l'abbiamo decisa veramente in cinque minuti. Abbiamo trovato uno sponsor in pochi giorni, abbiamo avuto la fortuna di trovare Davide, lo skipper, e abbiamo realizzato un equipaggio. Per alcuni di noi è stato l'inizio di una stagione dove avremmo fatto cose fuori dall'ordinario, per far capire agli studenti, ai cittadini di Trento che il mondo della follia non è il mondo della cronaca nera, ma un mondo che esprime cose positive. Quali criteri avete utilizzato per scegliere le persone “idonee” al viaggio? De Stefani: Per scegliere le persone abbiamo usato criteri assolutamente casuali, a parte Pier che avendo questa sua propensione alla musica è stato scelto a tavolino, poi se lui non avesse accettato è chiaro che non l'avremmo trascinato. Dopodiché io ho diffuso la voce all'interno del servizio e le persone si sono rese disponibili in una maniera completamente informale. Qual è stata la cosa più bella del viaggio? Pier: Sinceramente, per me è stato molto difficile, anche perché ognuno di noi ha nella sua patologia dei problemi, delle ricadute, degli alti e dei bassi. Quindi io mi sono preoccupato della mia salute, ma poi mi sono trovato lì, nel mare ed era bello. Poi ci sono tutti i contrasti che scaturiscono all'interno di un rapporto tra medico e paziente e nel rapporto che hai con te stesso, che possono essere sia positivi che negativi. Sicuramente bisogna imparare e io spero che da questo film, al di là della mia vita e tutte queste cose qua, le persone abbiano capito che ci sono storie bellissime nel dolore che possono aiutare gli altri a trovare una strada. Quindi vi invito a stare attenti e

a non sbagliare, perché la vita è una sola; si parla di droghe, alcol e tutte queste cose qua... Abbiate cura di voi, perché è un attimo sbagliare e le conseguenze sono paurose. Lo so che avete sentito questo discorso tremila volte dai vostri genitori, però più avanti capirete che avevano ragione e li ringrazierete. Che ruolo ha assunto la musica nella tua vita? Ti ha aiutato in qualche modo? Pier: Ho avuto diversi momenti di crisi, tali che a un certo punto ero convinto di voler smettere di suonare. Infatti, e il dottore lo può confermare, quando mi sono presentato da lui avevo dei profondi tagli alle dita che mi ero procurato con un temperino, perché non volevo più suonare. I dottori con tutta la pazienza mi hanno aiutato e adesso le mani sono guarite. Alla fine vi dico questo: la musica è qualcosa di bello, ma anche di pericoloso. Sapete perché? Perché è aria. Per esempio uno scultore ti dà una statua, poi ci metti la data e allora acquista valore. La musica invece, a meno che non incidi - io per esempio ho inciso un cd e adesso continuo a suonare con un gruppo e facciamo jazz-rock - è dispersiva. La musica è bellissima, però è dispersiva. Spesso mi dico che suonare è bello, però avere cose più concrete tra le mani è ancora meglio. Quando ero più giovane e suonavo in un altro gruppo, un uomo che stimo molto mi disse: “Ci sono dei tempi nella vita come i raccolti. Ci sono tempi in cui bisogna piangere, tempi in cui bisogna ridere e altri in cui bisogna accettare la vita come viene”. Io lo scrivo anche nella canzone «È solo chimica» che dice: “piangere è come ridere o vivere intensamente, se guardo questo mondo niente mi convince sufficientemente nell'eterna posizione della negatività”. Quando feci leggere il testo a quest'uomo, lui mi disse: “Sì, indubbiamente si vede che tu hai sofferto molto per amore, che hai un contrasto con tuo padre. Però impara ad amare. Non puoi mai

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sapere di chi hai bisogno. Porta sempre un grande rispetto verso chi ti aiuta”. Quindi spero che nel film, al di là dell'esaltazione della musica, spero che ci sia un messaggio pedagogico. De Stefani: C'era in sospeso quella cosa della cura. Chiedevate se questi viaggi sono stati pensati per fare cura. Assolutamente no. Poi cosa sia la cura è un discorso che ci porterebbe lontano, ma è chiaro che nel nostro mondo la cura non è quella che si fa per uno che ha la polmonite, che prende l'antibiotico e guarisce. Spesso nel nostro mondo la cura è qualcosa che dura nel tempo e il cui obbiettivo è migliorare la qualità della vita. Fatta questa premessa, ci siamo accorti che a prescindere se siamo utenti, operatori, familiari, vivere un'esperienza umana ricca cambia alcuni aspetti della vita delle persone una volta tornate a casa. Penso soprattutto al viaggio in Cina dove eravamo duecento, o in America dove eravamo in quindici, o in Africa dove tra l'altro sono venuti anche molti studenti di Trento del Liceo Rosmini. Ma non è il viaggio in quanto tale, è l'esperienza

umana che il viaggio ha favorito. Le esperienze umane le puoi fare anche stando a Trento, ma è chiaro che un viaggio straordinario ti stimola di più che non la routine e in questo senso per molti è stato un'opportunità. Pier: A proposito, vorrei dire una cosa. Oggi secondo me, non si teme la follia, si teme la saggezza... adesso mi sto anche preparando per un esame che devo fare... Che università fai? Pier: Faccio musicologia. Sarebbe come lettere a indirizzo musicologico, però ci sono concetti di ingegneria, per dirti il mio basso l'ho progettato io... però una cosa deve passare: io ho imparato a smettere di piangermi addosso. In questo viaggio ho imparato che ci sono situazioni peggiori e che si può uscirne. Il cammino è lento. Non dico che ci sia una guarigione immediata, dico che c'è una strada, un percorso lungo, che va visto con l'esperienza, un iter che in ogni caso può aiutare la persona a vivere. Io sono una persona che vive in una società e che deve imparare che non è né il primo né l'ultimo che ha fatto questa


esperienza. Adesso viviamo in una casa, in un appartamento con un altro ragazzo, un altro Ufe. Cosa significa esattamente Ufe? Pier: Utente Famigliare Esperto. Ci sono degli utenti che hanno un passato triste o comunque significativo e per diversi motivi sanno riconoscere quando una persona è in crisi, quando una persona è stabile oppure sanno guardare dentro se stessi e sanno dire: “Eh no dottore, io preferisco tornare al Centro”. Perché io penso che quando ti diagnosticano che hai una schizofrenia affettiva... Proviamo a scomporre la frase: cioè, affettiva. Tutto quello che io ho sempre cercato, io sono una persona che cerca affetto. Io non sarei mai capace di picchiare qualcuno o di fare delle cose che non stanno nella legge. Io ho dei criteri. Ho delle regole che ho imparato. De Stefani: Tra un quarto d'ora devo andare, quante domande avete ancora? Ma se volete ve lo lascio, ve lo lascio volentieri. Pier: In omaggio. (risate) Molto dipende dalla piega che prende il discorso. De Stefani: Bisogna vedere se lui dopo rimane, perché io sono il suo autista... ti fermi Pier? Pier: No, portami a casa. (risate) De Stefani: No, non ti porto a casa, puoi restare con loro, volentieri, io ti abbandono se riesco a uscire... (risate) Prima che se ne vada voglio chiederle una cosa che mi sta molto a cuore. Spesso non si sa come comportarsi quando dicono che una persona ha problemi mentali, spesso le persone esagerano, la trattano come se avesse dei problemi indicibili, oppure minimizzano tutto. Io vorrei sapere, da entrambi, qual è l'atteggiamento giusto da avere con una persona che ha dei problemi. Sotto il profilo medico da parte di De Stefani e sotto il profilo umano da Pier. De Stefani: Guarda, l'atteggiamento giu-

sto è difficilissimo da definire con esattezza. Tu hai detto, credo con molta correttezza, che da un lato si può drammatizzare e dall'altro si può minimizzare. Un'altra cosa che spesso capita è attribuire al mondo del disagio una sorta di patina legata ad un mondo quasi artistico. Per quello che è il mio profondo convincimento, che mi deriva non dall'averlo sperimentato, ma dall'averlo frequentato e accompagnato da anni, secondo me quello che caratterizza il disagio è la sofferenza. Se uno coglie questo, rapportarsi con la sofferenza può creare reazioni molto diverse, di fuga, di sofferenza nostra, di disponibilità, questo dipende da ognuno di noi. Però di solito è un atteggiamento positivo, perché non è che la sofferenza in quanto tale ti provochi cose particolarmente brutte. È il pregiudizio che hai rispetto al disagio psichico che provoca atteggiamenti negativi. Allora è chiaro che sul pregiudizio, soprattutto in un contesto come il vostro, si può e dal nostro punto di vista si deve ragionare e riflettere per capire che il mondo del disagio non è così incomprensibile come tanti lo definiscono, né assolutamente caratterizzato da quella pericolosità di cui ogni tanto si legge sui giornali, non è caratterizzato dall'irrecuperabilità perché non è vero. Allora lo stereotipo che vede la persona affetta dal disagio come pericolosa, irrecuperabile, incomprensibile, non è la verità. Allora questo è quello che va verosimilmente chiarito in premessa. Se uno non ha il pregiudizio, allora è chiaro che si confronta in base alle sue caratteristiche personali. Se tu sei una ragazza improntata al sorriso e alla disponibilità, lo sarai anche con la persona con il disagio. Ma se tu sei ringhiosa con tutti, lo sarai anche con la persona con il disagio. Allora dal nostro punto di vista, di chi fa il nostro mestiere, stiamo cercando di far fuori il più possibile il pregiudizio. Da qui il film, i viaggi, da qui tutto quello che serve. Poi quello che cia-

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scuno di voi ragazzi, ciascun cittadino, perché in fondo siamo tutti cittadini, spende nell'incontro con l'altro è lo stesso che spende col proprio fidanzato, col proprio padre... Voglio dire che chiedersi “qual è il comportamento giusto?” è una stupidaggine. Il comportamento giusto non esiste. Se noi, voi, tutti noi riusciamo a vedere nella persona col disagio una persona che vive una sofferenza importante, che non è quella bestia nera che in qualche luogo comune c'è, ci comporteremo più o meno bene e più o meno male a seconda della persona che siamo, al di là della relazione con la persona che ha il disagio. E a questo proposito guardandovi sono un po' preoccupato perché mi sembrate un po' feroci. (risate) Sì, in realtà non te ne puoi andare perché se no aggrediamo Piergianni. De Stefani: No no, io ve lo lascio, voi fate di lui quello che volete. Pier: Basta che non mi violentate (risate); se mai vi lascio fare. (risate) Secondo lei, il mare e le sue onde rappresentano, metaforicamente, i nostri sbalzi d'umore? De Stefani: Oh, io la storia delle metafore, la follia come espressione artistica non è una cosa che mi appassiona. Io Freud non so chi sia. Io non sopporto tutto questo mondo che cerca di scavare nel profondo. Per cui vi immaginate uno che si occupa di questo scavare nel profondo, sull'oceano ci costruisce un'enciclopedia, perché è ovvio che uno può immaginare e sostenere che noi abbiamo immaginato di fatto questa cosa dell'oceano perché quando eravamo piccoli chissà cosa ci è successo. Ma non è così. Noi casualmente siamo andati sull'oceano, ma potevamo andare nel deserto del Sahara, potevamo andare con i cammelli... allora, che le onde vadano così è vero, ma... noi l'abbiamo fatto esclusivamente per fare un'operazione di marketing, quella cosa che deve far vendere

un prodotto. Noi vogliamo vendere il prodotto: la follia è una cosa non brutta come i giornali ce la raccontano ma è una cosa che ha anche valori positivi; non ha solo valori positivi eh, perché Pier è un ragazzo che nella vita ne ha viste di tutti i colori e ha sofferto, poi anche io ho sofferto la mia parte, sono sofferenze che hanno dei punti di unione perché sono sofferenze che appartengono agli esseri umani, ma lui ha una specificità che è legata a un suo disagio che è quello di essere entrato in questo mondo e che secondo me va rispettato e riconosciuto. Nello stesso tempo Pier è un ragazzo che ha evidentemente delle bellissime risorse perché suona bene, perché ti affabula. Allora il nostro marketing è volto a far capire alle persone che il pregiudizio va tolto... poi le onde, non onde, tutte cose che lasciano il tempo che trovano. Lei ha lavorato i primi anni all'interno di un manicomio. Siamo passati da rinchiudere, purtroppo prima ancora anche sopprimere, al viaggiare. Il rapportarsi con il disagio mentale che tragitto ha fatto in questi ultimi anni e dove sta andando? Il viaggio nell'oceano è quella cosa curiosa e strana che succede qua a Trento o è segno di un cambiamento più profondo? De Stefani: Noi in questi giorni stiamo uscendo con un libro che sostanzialmente è scritto proprio per rispondere a queste cose ("Psichiatria mia bella", edizioni Erickson). Ha due livelli, perché io racconto un po' cos'è il manicomio e cos'è stato il percorso dei servizi in questi anni e cosa noi vorremmo che diventassero, ma poi l'asse portante del libro sono undici storie di persone che sono in maggioranza utenti e familiari, ma c'è anche una studentessa del Rosmini che racconta le sue esperienze rispetto al disagio psichico, un cittadino, eccetera. Queste undici persone raccontano la loro storia legata al disagio, focalizzano un'area di quella storia che può essere la crisi, la famiglia o il lavoro e poi il cosiddet-

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to esperto, che in questo caso sono io, ci ricava su un commento. È chiaro che nella mia esperienza di vita personale, quando io sono finito nel 1974-'75 prima al manicomio di Siena e poi a quello di Pergine (Trento), era una situazione drammatica. All'epoca chiunque con un minimo di libertà intellettuale entrava in un manicomio non poteva che dire: "Bisogna chiuderli", perché è una cosa troppo vergognosa da concepire. Poi quello che allora noi giovani e meno giovani, psichiatri e cittadini, abbiamo fatto è stata una grande battaglia sociale, culturale e politica. C'era l'idea molto illuministica ma anche molto bella secondo me che chiuso il manicomio noi volevamo curare le persone. Poi c'è chi pensa o dice superficialmente che Basaglia, lo psichiatra che ha animato questo movimento di chiusura dei manicomi, pensava che la malattia mentale non esistesse e che bastava chiudere i manicomi per risolvere tutto. Allora noi siamo qui a parlare di viaggi anche molto avventurosi, però è chiaro che il nostro principale obiettivo è quello di curare le persone, perché è giusto che sia così, che se una persona sta male, sia un male psichico o un male fisico, esista un servizio sanitario che se ne occupi. Se noi non curassimo come faremo a venire per esempio al Liceo da Vinci e dire: “Ragazzi non dovete avere pregiudizi” e poi girando per Trento si vedessero centinaia di persone che stanno male. Allora il 97% della nostra attività è un attività di cura, poi la nostra attività di cura a Trento ce la giochiamo soprattutto in questa dimensione del «Fare assieme» con tutta una serie di cose un po' particolari. I viaggi sono la ciliegina sulla torta, ma non sono la torta. Se mangiate la torta e non c'è la ciliegina la mangiate comunque. Allora il viaggio è la ciliegina che ci serve a fare quel passaggio in più e che ci siamo permessi non a caso da poco, perché quando siamo partiti nelle nostre riflessioni e nelle nostre

avventure l'idea di fare un viaggio era impensabile perché ne avevamo piene le scatole a mettere le fondamenta della casa. Oggi che la casa, non dico che è perfetta perché non lo è assolutamente, ma che è abbastanza visibile, allora possiamo permetterci anche queste cose che però ci siamo accorti e non era così scontato, che sono entrate nell'immaginario del cittadino medio. Allora questa cosa deve essere controbilanciata da una forte attività, se no venderemmo veramente fumo. E questo sarebbe eticamente poco sostenibile. Come ha fatto a diventare primario di psichiatria? De Stefani: Io ho fatto medicina perché nella mia famiglia c'è stata una certa pressione a fare medicina, mia madre veniva da una famiglia di farmacisti. Io di mio avrei preferito fare degli studi di tipo storico-filosofico, però è andata così. Poi ho capito che il medico inteso in senso tradizionale, chirurgico, non mi piaceva, la disciplina di gran lunga meno medica era la psichiatria. Poi ho avuto una serie di fortune e forse un pizzico di bravura per cui fin da molto giovane ho avuto incarichi di responsabilità e sono diventato primario. Devo dire che a me quello che faccio piace molto. Cos'è un elettroshock e in che circostanze viene applicato? De Stefani: Da un punto di vista oggettivo è il passaggio della corrente elettrica da un emisfero all'altro. Per un certo periodo, negli anni trenta-quaranta, se n'è fatto un uso molto ampio perché si era diffusa l'idea che chi aveva l'epilessia non si ammalava di schizofrenia e viceversa e così si creava artificialmente una specie di crisi epilettica. Quest'idea non ha avuto conferme scientifiche però empiricamente si è visto che in alcune persone, soprattutto con forme depressive gravi, aveva un certo margine di efficacia. Oggi nelle linee guida internazionali l'elettroshock è completamente uscito da tutte le cure per qualsiasi patologia,

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meno che per le depressioni gravi come terza o quarta scelta. Poi cosa sia soggettivamente ve lo racconta Pier, perché lui l'ha sperimentato e gli piaceva talmente tanto che ne ha fatti venticinque. Cos'è la schizofrenia? De Stefani: Quando me lo chiedono io racconto sempre questo: potrebbe succedere domani mattina che ti alzi e cominci a vedere che il poster che è appeso in questa stanza è un po' diverso dal solito e cominci la tua giornata con una percezione di cambiamento della realtà, che attribuisci al poster, che attribuisci a come ti guarda tua madre o a quello che vedi in classe. Guardi le altre persone che hai vicino e ti accorgi che non sono proprio quelle brave persone che avevi pensato. Allora l'ingresso nel mondo della psicosi a volte è questo: la percezione che la realtà cambia e che tu fai parte di un altro mondo. Schizofrenia che sta per intelletto tagliato, dal greco, è una separazione dal mondo della realtà condivisa. Quindi ti ritagli un'altra forma di mondo dove la tua stanza non è più proprio la tua stanza, la tua città è cambiata, le tue amiche sono qui non perché sono tue amiche ma perché emissari di un qualcosa che ti vuol fare del male, perché spesso, in tutto questo, l'idea di essere oggetto di male è molto frequente. Lui pensava di essere Saturnino, il bassista di Jovanotti. Perciò il mondo della psicosi è entrare in una realtà che non è quella normalmente condivisa. Di solito questo può anche far star bene, perché se tu ti svegli una mattina e pensi di essere Dio o la Madonna è bello, perché ti senti forte. Se però ti senti vittima e oggetto di qualcuno che ti vuol far fuori, capisci cosa può significare. Però è un mondo di cui chi ti sta davanti deve tener conto, perché tu in quel momento sei profondamente convinto di essere Saturnino, di essere la Madonna, allora una persona non può mettersi a ridere e dire: “Pirlacchione ma che stupidaggine dici”, per-

ché in quel momento quel mondo è il tuo mondo. È come quando uno è innamorato. Non voglio dire che la psicosi è l'innamoramento, questa è una stupidaggine clamorosa, però è chiaro che quando uno è innamorato, quando uno vive un'emozione forte, il mondo cambia. Allora tu ti convinci che il tuo fidanzato è l'essere più straordinario che ci sia sulla terra, che non è ovviamente vero, il tuo fidanzato sarà uno dei tanti, però per te è diventato così, solo tu pensi che lui è il migliore del mondo, perciò è una cosa bizzarra. La follia è un pelino diversa. Ora però vi devo salutare. Pier secondo te ho fatto bene a dargli del tu? Pier: Dipende da come vedi una forma di rispetto, perché per esempio dove sono nato io, dicevo: "Papà" e lui "Perché, siamo a scuola? Tu mi devi dire: comandi". Ero un ragazzo che andava benissimo a scuola, che aveva molte ragazze, che viveva un amore importante, che si è interrotto per colpa mia... per colpa della fantasia. Allora, che cos'è la follia? Non so, che autori avete fatto. Noi abbiamo fatto Freud Pier: Avete fatto Freud... Parla di inconscio, subconscio e via dicendo... Allora, io ho ricevuto un'educazione cristiana cattolica. Mio padre mi voleva prete, mi voleva prete. Una volta mi ha detto: “Ti renderò la vita impossibile”. Così? Pier: Così. Io ero piccolo, non capivo, avevo otto anni. Non so se avete presente una canzone di Concato, che a un numero di telefono, il telefono azzurro, dice “...e smettila di bere e non mi picchiare ancora...” non so se avete presente, è bellissimo quell'album, io faccio delle citazioni mentre parlo. Tutte le volte che entravo in un gruppo dicevano: “Cazzo che bravo, cazzo che bravo! Io suono con te”. Quando poi entravano cose che non dovevano entrare, mol-

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lavo tutto. Ero perseguitato, ma possibile che tutti questi che suonano si fanno e si strafanno in maniera totale?! Oggi come oggi, io vi dico avvisate le persone, il problema è grosso. Io dico vivete la vita e affrontatela, fronte alta, ma mettete in preventivo che la vita non è una cosa liscia e che nessuno vi deve niente. Questo è quello che volevo dirvi. Lo diceva un filosofo greco importante, Erodoto, noi ereditiamo gli sbagli dei nostri genitori. Io sono spaventato dalla vita. La mia sofferenza è lo spavento, che tutto possa crollare. Sapete che cosa vuol dire "schizophrenos"? No. Pier: Schizo vuol dire scindo... ma anche creo, in greco. Per esempio che cosa fa un pittore? Uno schizzo e poi lo sviluppa, questo se vogliamo vedere una poetica dell'arte che non condivido. Nella mia famiglia c'erano dei problemi... È chiaro che mi chiudevo in me stesso e nei miei libri, che studiavo come un matto, che suonavo come un matto, a costruirmi un universo di cose che mi dessero un po' di sicurezza. Una fuga dalla realtà? Pier: O lo sperare in una realtà migliore. Quindi, quando io sono arrivato qua a Trento mi sono messo a lavorare. E le cose andavano bene. Ero inserito, certo bevevo... Poi quegli sbagli che ci sono stati, riconosciuti, ammessi... Ho fatto più sbagli di voi, potete trarne tesoro da questo. Ascolta, io volevo chiederti una cosa, dimmi se sono giunta a conclusioni sbagliate, ma mi pare di aver capito che tuo papà ha condizionato molto la tua vita.. Pier: Sì, sì. Secondo te lui ha un senso di colpa per questa cosa qui? L'ha capito che lui è stato la causa scatenante di tutto quanto oppure no? Pier: Ha fatto tutto quello che voleva nella sua vita... Abbiamo avuto dei problemi. Sono rientrato a scuola, ho meritato i miei

voti. Ma poi questa enorme paura di quelle che si chiamano le voci. Voci del subconscio e dell'inconscio se vogliamo parlare di Freud. Poi le voci non sono di compagnia. Ti senti ossessionato. Io quando sentivo le voci, sentivo la voce di mio padre che diceva: “Bevi, che bere è tutta salute, bevi e lavora”. Devo fare una tesi sulla semantica dei linguaggi mediatici, ma voi avete mai visto quel film su Italia 1 «The Middle»? Sì. Pier: Hai presente Brick? Sì, sì. Pier: Hai presente come il fatto che lui sia intelligente è quasi un disturbo e come la mamma sia completamente scema? Esatto Pier: La mamma è fuori di testa te ne rendi conto? Si veste da Superman, ferma le macchine, cerca di venderle, cerca di far quadrare una figlia sfigata e un fratello straeuforico... e questo bambino ha solo la colpa di pensare. Questo bambino mi ricorda molto me quanto ero piccolo. Io leggevo a otto anni Socrate. Avevo il dizionario di greco, mi chiudevo in camera e me lo traducevo per non sentirli. L'idea del basso era un'idea di mia sorella perché lei era l'artista della famiglia ma io non ero interessato, non mi importava. All'età di otto anni cominciavo già a studiare il ritmo del basso e mi infilavo le cuffie isolandomi dal resto del mondo, creando uno spazio in cui esistevo solo io, Jaco Pastorius e il basso. Volevo avere una vita, volevo vivere una vita. A tal proposito c'è una canzone di Vasco che dice “Ogni volta che qualcuno si preoccupa per te... perché la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia”. Queste sono frasi profonde e si nota che il cantante le ha rese sue e le ha fatte vere. Ora sono qui a cercare di passare un messaggio positivo e vi sto comunicando questo per mettervi in guardia. È utile avere dei valori e devono essere saldi.

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INTERVISTA A CURA DI ALESSANDRO CASTELLI, GIULIA CASONATO, MARIALUISA POIER, VITTORIA BROLIS

FABIO PASINETTI

FABIO PASINETTI (TRESCORE BALNEARIO, BG, 1956), VIVE CON LA MOGLIE ORIANA, ANCHE LEI NON VEDENTE, E LAVORA COME CENTRALINISTA. IPOVEDENTE DALLA NASCITA, HA PERSO L'USO DEGLI OCCHI A TRENTACINQUE ANNI, A CAUSA DI UN INTERVENTO CHIRURGICO. DA ALLORA HA SCOPERTO LO SPORT: HA PRATICATO TANDEM, SCI NORDICO E ALPINISMO, POI SI È DEDICATO ALLE MARATONE. NEL NOVEMBRE 2008, ASSIEME A CARLA PERROTTI - DOCUMENTARISTA ED ESPLORATRICE DALLA GRANDE ESPERIENZA ATTRAVERSA A PIEDI IL DESERTO BIANCO EGIZIANO; DUE SETTIMANE E DUECENTOCINQUANTA CHILOMETRI IN TOTALE AUTONOMIA. DA QUELL'ESPERIENZA NASCE IL LIBRO «LO SGUARDO OLTRE LE DUNE» (ED. CORBACCIO, 2011). Da dove nasce l'idea di attraversare il deserto del Sahara? L'idea di accompagnare un non vedente nel deserto è stata di Carla Perrotti, il mio primo contatto con lei è arrivato per un equivoco, pensavo che si trattasse di una maratona di qualche giorno, una cosa un po' particolare impostata soprattutto sul grande impegno fisico e nient'altro. Poi ho capito che la cosa era di tutt'altro tenore. Ad un certo punto ho anche avuto un po' di paura perché scorrendo il suo sito web ho capito che lei era una persona abituata a fare imprese in solitaria e in condizioni ambientali molto ostiche e difficili, in condizioni di “razionamento” alimentare e anche di pericolo, legato soprattutto alla presenza di animali pericolosi; quando si parla di deserto, istintivamente vengono alla mente situazioni legate a scorpioni o a serpenti vari. Quindi io ho rigettato un po' la cosa pensando che non facesse per me. Poi mi sono lasciato trasportare in questo vortice,

facendomi guidare più che dalla ragione dalla passione. È il dualismo eterno che regola la vita di ogni uomo, lasciarsi guidare dal sentimento o lasciarsi guidare dal calcolo? Diciamo che ho lasciato che decidesse il mio cuore più che il cervello ed è stato praticamente il gesto che mi ha consentito di superare e di non vedere tutte le difficoltà e i problemi collegati, ho detto di sì senza nemmeno capire cosa si andasse a fare, cosa comportasse quella proposta, però l'idea mi ha in un certo senso affascinato. Ognuno di noi va sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di qualcosa che richie-da un maggiore sforzo mentale e fisico. Così è stata una scelta immediata, spon-tanea. Una scelta che però avrà comportato una lunga preparazione. Tutto il percorso di preparazione è stato molto elaborato. Il progetto consisteva nell'attraversare un tratto di deserto in autosufficienza e solitudine. Questo voleva di-

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re che durante tutto il nostro percorso, che durasse 15 o 20 giorni, tutto quello che era necessario per la nostra sopravvivenza ce lo dovevamo portare sulle nostre spalle. Innanzitutto abbiamo studiato quale doveva essere il Paese di destinazione, dovevamo trovare una localizzazione geografica sicura, i pericoli non mancano e anche poco prima che partissimo c'era stato un sequestro di 35 turisti tedeschi nel Chad in Sudan. Un aspetto impegnativo era la gestione delle spese, obiettivamente costava molto e abbiamo dovuto cercare degli sponsor per coprire le spese di trasferimento nostro e di tutto il team che doveva seguirci ed essere di supporto. Per quanto riguarda me, in particolare, ho dovuto seguire un lunghissimo percorso di preparazione fisica e mentale, perché io del deserto non conoscevo nulla, non c'ero mai stato e non conoscevo le condizioni di quell'ambiente e seguendo le istruzioni di Carla e tramite il suo preparatore atletico ho cominciato un rigoroso e diligente allenamento, che ha comportato, per circa 14 mesi, una preparazione quotidiana, in palestra o in ambiente. Cercavo di dare al mio fisico una tonicità talmente forte da poter superare quelli che secondo me erano degli sforzi e degli impegni fisici molto importanti e in condizioni ambientali particolari. Ho seguito questo percorso con tanta diligenza, i risultati venivano progressivamente a galla e nel 2008 siamo arrivati al momento topico. Siamo partiti per l'Egitto, per l'esattezza l'oasi di Farafra, il nostro punto di partenza, un'oasi a circa 800 km a sud del Cairo e ci siamo addentrati nel deserto Bianco e lì è cominciato il nostro percorso. Da quel punto, quanta strada avete percorso? Abbiamo fatto sedici giorni di attraversamento nel deserto, percorrendo circa 250 km su satellitare, quindi, in realtà, sono qualcosina in più perché il tratto dettato dal

satellitare è una line retta, mentre noi, per arrivare dal punto di partenza al punto di arrivo, abbiamo dovuto fare parecchi “zigzag” per evitare dune e ostacoli legati al terreno. Abbiamo percorso tutto in autosufficienza, portandoci il necessario sulle spalle, soprattutto per quanto riguarda l'alimentazione quotidiana; avevamo uno zaino che al mattino arrivava ai 22/23 kg e alla sera arrivava a 16/18, la differenza di peso dipendeva dal consumo d'acqua. Giornalmente avevamo un consumo di circa dieci litri di acqua e ovviamente non potevamo portarci l'acqua per tutti i sedici giorni, sarebbe stato un peso assolutamente impensabile da portare. Quindi, come vi eravate organizzati? Noi a parte l'acqua eravamo autosufficienti ma davanti a noi ci precedeva a circa 80 km un team composto da tre jeep, che nel loro avanzare ci lasciavano lungo il percorso i rifornimenti d'acqua. Noi partivamo ogni mattina presto cercando di sfruttare le ore più fresche del giorno, trovando un terreno più agevole dato che a temperature più basse il terreno è molto più compatto, la sabbia offre così una maggior resistenza e non si sprofonda. Camminavamo fino a raggiungere nel primissimo pomeriggio il nostro rifornimento d'acqua, che riuscivamo a individuare tramite un sistema di GPS. L'acqua veniva sepolta sotto la sabbia e indicata da una bandiera rossa ma non era così scontato trovarla, infatti il primo giorno, guarda caso, proprio per cominciare bene, abbiamo mancato il rifornimento di acqua per un banalissimo errore di Carla nel digitare le coordinate sul satellitare. È bastato, nell'ultimo ordine di cifre, un due invece di un tre e abbiamo sbagliato di 2 km. Era la prima sera e fortunatamente avevamo un po' di scorta, ma da quel primissimo giorno non abbiamo più avuto problemi di rifornimento di acqua. Immagino che avrete dovuto affrontare altri imprevisti.

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Il terzo giorno è successo qualcosa che ha cambiato il mio approccio nei confronti di quest'esperienza. Io ero una persona, un atleta, legata un po' all'agonismo, fare maratone vuol dire in un certo senso cercare di migliorarsi, cercare di fare la prestazione, è un po' una mania che si ha agli inizi del proprio percorso sportivo. Avevo trasferito questo mio atteggiamento anche in questa esperienza, ma effettivamente non era l'approccio giusto perché non dovevamo fare nessuna maratona, non dovevamo raggiungere prestazioni cronometriche. Io avevo un orologino parlante, una cosa che hanno spesso i non vedenti, mi scandiva a voce l'ora e così io mi calcolavo le medie, le tappe, quanto avrei potuto fare quel giorno. Finché, il terzo giorno, quando siamo arrivati al campo c'erano delle condizioni ambientali un po' particolari, c'era un vento molto forte che sferzava la faccia, la tagliava con la sabbia, dava veramente molto fastidio e montare la tenda comportava delle grossissime difficoltà e così con Carla ci siamo aiutati vicendevolmente cominciando dalla mia tenda. Naturalmente nel terreno sabbioso i picchetti non offrivano una tenuta sufficiente e così stavo caricando i lati della tenda con la sabbia, a questo punto Carla comincia a montare la sua tenda ed io mi sono cavallerescamente offerto di aiutarla a montare la sua, solo che non avendo ancora caricato del tutto la sabbia, il vento l'ha fatta volare via. Può sembrare una cosa abbastanza comica ma era tutt'altro, la tenda era la mia casa, Carla ha tentato per quanto possibile di raggiungerla, di recuperarla, ma la cosa non è stata possibile. Fortuna volle che il team di supporto fosse discretamente vicino, diciamo circa venti chilometri e quindi quando li abbiamo chiamati, nel giro di un'ora ci hanno raggiunti e mi hanno lasciato una tenda di recupero, la tenda originaria era un prototipo fatto per la nostra esperienza. Pesava poco più di un chilo,

era traspirante, anti vento, anti acqua... insomma una tenda fatta appositamente per la nostra esperienza. La tenda che invece ci hanno lasciato era una normalissima tenda da campeggio e quindi con un aggravio di peso notevole sulle spalle che mi sono poi dovuto portare. Al di là di questo aspetto fisico, la cosa ha cambiato il mio atteggiamento nei confronti di questa esperienza, ho dovuto abbandonare quell'atteggiamento agonistico nei confronti delle tappe e dei percorsi che dovevo fare. Da quel momento ho accettato le condizioni che il deserto, l'ambiente in cui stavo vivendo questa esperienza, dettava. Si deve capire che nel deserto le leggi della vita quotidiana sono abbastanza semplici, pochissime regole che vanno rispettate. Si deve innanzitutto considerare che è il deserto stesso con i suoi cambiamenti climatici, legati alle varie fasi del giorno, che determinano il tuo incedere e chiaramente si cammina molto al mattino quando è freddo e ci si riposa nelle ore calde; sarebbe assolutamente inutile camminare facendo uno sforzo molto intenso e consumando acqua che è un alimento assolutamente limitato. Accettare le regole del deserto, in un certo senso ha fatto si che io, un poco alla volta, entrassi in questa ottica di simbiosi con il deserto stesso. È stato il primo passo per riuscire a ricevere anche grandi benefici e grandi sensazioni. Prima di partire, quali erano le sue preoccupazioni a riguardo di questo viaggio? Inizialmente le grandi ansie erano legate al fatto di stare da soli in condizioni così estreme, il silenzio, erano delle situazioni teoricamente concepite come fonte di difficoltà, di ansia e di paura. Invece, ho verificato che con il passare dei giorni avere la consapevolezza che tutto sommato la tua forma fisica ti concedeva di procedere senza difficoltà, ti permetteva di godere della bellezza di questo ambiente. Dicia-

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mo che la solitudine mi ha regalato dei grandi momenti di introspezione psicologica, cioè il silenzio e la solitudine mi hanno regalato questa situazione di pace e di tranquillità interiore che sinceramente da tantissimo tempo non riuscivo più a provare. Di giorno si camminava e la sera c'erano delle lunghe pause di silenzio, c'erano anche momenti in cui si parlava, soprattutto dopo i primi cinque, sei giorni quando è cominciato ad instaurarsi un rapporto, un'empatia un po' più solida tra me e Carla. Di giorno si parla, si sente il rumore del vento, il tuo respiro, lo zaino che si muove... insomma non c'è un silenzio assoluto. La sera invece, dopo aver fatto tutte le nostre operazioni legate al campo, ci concedevamo quella mezz'oretta di relax e poi generalmente tutti i giorni intorno alle cinque c'erano i contatti con tv o radio che erano interessate alla nostra impresa. Quindi c'era anche questo spazio legato alla copertura mediatica. Dopo di che, in un baleno, arrivavano le sette di sera. Alle sette di sera c'era il contatto con il team di supporto, si faceva un brevissimo resoconto della giornata che veniva poi trasferito sul sito web in Italia, perché avevamo oggettivamente anche un buon seguito, quindi veniva stilato un velocissimo e rapido diario di bordo, poi con il team di supporto ci davamo le informazioni essenziali relative alle coordinate del punto acqua per il giorno dopo. Dopo di che il satellitare restava rigorosamente chiuso perché era una scelta nostra di procedere in solitudine ed autosufficienza. Avevamo poi la nostra cena, che era costituita totalmente da cibi liofilizzati, barrette energetiche, olio di fegato di merluzzo, sostanzialmente tutti alimenti concentrati, cercando di trovare il miglior rapporto tra peso e carico energetico perché dovevamo portarci tutta l'alimentazione per sedici giorni. Era un tipo di alimentazione per me particolarmente sgradita, fornisce subito energia, ma al pa-

lato è davvero disgustosa. L'unica concessione serale che avevamo era scaldarci una tisana o un tè con un fornellino al titanio. Poi si godeva il silenzio... La sera si creava una specie di poesia, al campo scendeva veramente il silenzio assoluto, non si sentiva nulla, un silenzio addirittura assordante, sembrerà strano ma questo silenzio ha un suono che ha la capacità di avvolgerti, di darti delle bellissime sensazioni. Poi, il fatto di non vedere stimola la costruzione di immagini mentali anche se magari sono fasulle. Io la sera tiravo fuori il mio materassino da campo, mi sdraiavo sulla sabbia e mi perdevo ad osservare il cielo stellato. Vi sembrerà strano ma è un esercizio che facevo, mi piaceva tantissimo e vi garantisco che il cielo stellato del deserto, pur non vedendolo, lo ho immaginato ed è di una bellezza unica, forse perché l'inquinamento artificiale della luce non esiste per niente e le stelle appaiono proprio nella loro lucentezza e nella loro bellezza più profonda, tant'è che addirittura io mi sono fatto proprio delle immagine poetiche in quelle serate, mi sentivo, scusate se faccio un paragone magari un po' irriverente, come Giacomo Leopardi, un poeta che ho amato moltissimo come tanti adolescenti lo amano, sarà per la sofferenza, la difficoltà che ha sempre avuto questo poeta. Mi sentivo un po' come lui e il fatto di non vedere mi dava un'immagine addirittura della poesia dell'infinito, quando quella siepe, come dice Leopardi, occlude lo sguardo. Il fatto di non vedere ad un certo punto mi dava la possibilità di dare ancora più spazio alla mia fantasia e andare oltre alla mia immagine visiva. In un certo senso riuscivo ad andare molto più in là di quanto un normodotato possa realizzare. Erano delle situazioni veramente belle. Stavo così bene che certe sere mi sentivo anche un po' in colpa, pensavo al fatto che a casa i

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miei cari erano probabilmente in ansia a pensarmi in queste situazioni estreme, mentre io in realtà stavo veramente bene. Nel libro afferma di aver fatto sua la concezione di Carla, secondo cui il limite che è dentro di noi, va spostato sempre più in là, senza mai superarlo. Considera la disabilità proprio come un limite che però rende più forti. Ci sono stati dei momenti in questo viaggio in cui ha creduto di non poter spostare questo limite ulteriormente? No, assolutamente. La difficoltà fisica, durante questo viaggio, non c'è mai stata. Diciamo però che io ho fatto mia la filosofia di Carla di spostare il limite in avanti, però ci tengo a fare una precisazione da disabile, da uno che vive la quotidianità: “Il limite bisogna saperlo accettare”, perché è la prima cosa fondamentale per riuscire a vivere con se stessi. Io l'ho sperimentato nel momento in cui ho perso la vista. Se tu in un momento del genere non accettassi la

situazione, hai finito. Innanzitutto devi accettarla, dopo puoi cominciare ad elaborare e capire come gestirti diversamente, come riuscire a migliorare la tua situazione. Superare il limite, si, è un esercizio positivo perché serve per migliorarsi e per riuscire a raggiungere nuovi risultati. Però secondo me è più importante accettarlo il limite. Non accettarlo porta a delle complicazioni psicologiche che non sono assolutamente positive. Facciamo uno stupido esempio sportivo, io ho corso 30 maratone e non ho mai pensato di ritirarmi da nessuna di queste, a meno che non avessi seri problemi. C'è gente che corre la maratona puntando tutto sul tempo e quando vedono che a metà maratona non sono sul tempo prestabilito, si ritirano delusi, come se avessero perso chissà quale battaglia. Bisogna ammettere che in quel giorno non si era al massimo della forma e chi se ne frega! Vai avanti finché non finisce la maratona. Questo è un esempio stupido, pe-

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rò rende l'idea di come vanno accettate le situazioni. Voglio dire, io non ho mai pensato di fare ora, a 56 anni, le stesse cose che facevo 20 anni fa, il mio fisico ormai è cambiato e devo accettare certe situazioni, non posso pensare di fare l'impossibile. Come diceva un certo scrittore: “Dammi la forza di capire quali sono le situazioni che tu puoi o non puoi cambiare”. Secondo me questo è fondamentale. Spostare il limite sì, ma prima di tutto, accettarlo. Nella nostra vita da disabili, questo esercizio è quotidiano. Il vero nostro limite è nella quotidianità, perché noi, sotto certi aspetti, siamo molto più soggetti ai pericoli esterni. Senza accorgertene potresti essere assalito da un malvivente o investito da una macchina, senza opporre alcuna reazione. Il limite, voglio ribadirlo, per noi è soprattutto nel quotidiano. Come avete fatto ad accettare il fatto

che nella vostra vita avrete sempre bisogno di una guida, di una persona che vi aiuti durante la giornata? Distinguiamo le cose, per quanto riguarda le situazioni esterne abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti, che ci guidi, ma per esempio nel mio paese mi muovo autonomamente in tutti gli spazi, mentre per quanto riguarda le situazioni domestiche, sono rarissimi i casi in cui abbiamo bisogno di un aiuto. Oriana: Ci sono due categorie di non vedenti: chi nasce non vedente, come me, e chi lo diventa, come Fabio. Io ho trascorso la mia infanzia in un collegio dove ho imparato a vivere negli ambienti interni. Ti facevano arrangiare in tutto, in modo tale che imparassi a cavartela nelle diverse situazioni. L'istituto di Milano, dove ho imparato a vivere, era pieno di ostacoli. Chi invece perde la vista dopo, ha più difficoltà


nella vita all'interno, mentre ha maggiore facilità nell'esterno, poiché ha ancora memoria di come era la città, il parco... infatti, mentre lui è più bravo nell'ambiente esterno, in quello interno ho molta più esperienza io. Quando ci siamo sposati tutti si chiedevano come avremmo fatto a farci da mangiare eccetera. Ma noi abbiamo imparato, aiutandoci l'uno con l'altro. Magari ci siamo arrangiati a modo nostro, usando dei modi tutti nostri per utilizzare anche il più comune oggetto, come la forchetta, poi, sinceramente, le difficoltà vanno vissute al momento, cercando di trovare la soluzione basandosi su sé stessi. Fabio: I miei familiari continuano a ripetermi che se non starò attento presto mi si vedrà sui quotidiani locali, scoperto come un classico falso cieco. Nel senso che io a casa ho il giardino, taglio l'erba, poto, falcio... magari sbaglierò anche, ma ho un atteggiamento nei confronti delle situazioni così pratiche, abbastanza spontaneo. Oriana: Poi dopo un po' di tempo ti viene spontaneo. A forza di usare le mani impari. Anche questo è un gran passo. All'inizio, avevamo la colf tutte le mattine, due ore al giorno. Adesso viene solamente due giorni a settimana, abbiamo imparato ad arrangiarci. Fabio: È ovvio che comunque non siamo ancora arrivati al 100% dell'autonomia. Oriana: Penso che l'autonomia l'acquisti in base a come ti sai rapportare con gli altri. Abbiamo molti amici che sembrano capire i nostri bisogni e così la nostra difficoltà diventa quasi relativa. Per esempio, fino all'anno scorso avevamo il problema della spesa e spesso dovevamo chiedere aiuto a qualcuno, mentre adesso si può fare la spesa su internet, per cui ci arrangiamo benissimo e riusciamo a togliere un impegno agli altri. Come ha convinto sua moglie a lasciarla partire per un viaggio del genere?

Fabio: Chi te la suggerita questa domanda? Oriana: Voglio essere sincera e racconterò tutta la storia dall'inizio. Premettendo che del deserto mi hanno sempre parlato come un luogo “infame”, dove ti può succedere qualsiasi cosa. Allora, io non sapevo niente: come sempre ero all'oscuro di tutto. Un giorno, mentre stavo pulendo con l'aspirapolvere ed ero tutta indaffarata, arriva Fabio e mi dice: “Cara, io devo dirti una cosa. Avrei deciso, o meglio, mi piacerebbe fare un'avventura nel deserto”. Inizialmente ho risposto dicendogli che avrebbe dovuto decidere tra me e il deserto, poi ho lasciato cadere il discorso. Dentro di me però hanno iniziato a crescere diverse preoccupazioni, viste le mie credenze su quei luoghi. Devo ammettere che è stato duro, molto duro accettarlo. Poi, grazie all'aiuto dei nostri amici che “me l'hanno raccontata un po’ su”, sono diventata quasi promotrice della sua avventura. Mi sono ritrovata a spingerlo nei suoi allenamenti, a motivarlo, a tenerlo sotto controllo. Era il sogno della sua vita, allora ho detto: “Realizziamolo!”. Non è stato facile. Anche quando è partito è stata dura sopportare la preoccupazione. Ad esempio sono venuta a conoscenza dell'episodio della tenda solo due giorni dopo, nessuno si fidava a dirmelo! Me lo hanno detto solo quando tutto si era sistemato, tranquillizzato. Come mi ha raccontato Fabio, lui non ha mai patito così tanto freddo come nel deserto. Dormire al freddo, voleva dire sofferenza Fabio: La prima notte che ho dormito nella nuova tenda mi sono svegliato completamente bagnato. C'era un'umidità e un'escursione termica fortissima. Quindi di notte dovevo coprirmi con un telo di plastica, sotto mettevo anche guanti e berretto, e la mattina, per la fortissima umidità, mi risvegliavo con il berretto pieno di acqua.

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Fotografie di Stefano Paternoster


INTERVISTA A CURA DI ALESSANDRO CASTELLI, EDOARDO OSS, SAMUEL GIACOMELLI

MAURIZIO “MANOLO” ZANOLLA

MAURIZIO “MANOLO” ZANOLLA (FELTRE, 1958), ALPINISTA E GUIDA ALPINA ITALIANA ANCORA IN ATTIVITÀ, HA APERTO MIGLIAIA DI VIE, UN PO' OVUNQUE, HA SCALATO DALLE DOLOMITI ALLE ALPI, DALLE FALESIE DEL MEDITERRANEO ALLE MONTAGNE DEL CIRCOLO POLARE ARTICO, DALLE MONTAGNE DELL'AMERICA A QUELLE DELL'HIMALAYA. INIZIA AD ARRAMPICARE NELLA PRIMA METÀ DEGLI ANNI '70 QUANDO ANCORA NON ESISTEVA L'ARRAMPICATA LIBERA E SPORTIVA E, ANCORA CON GLI SCARPONI, SUPERA NEL SUO PRIMO ANNO DI ATTIVITÀ IL 7° E L'8° GRADO DI DIFFICOLTÀ, FACENDO COSÌ ESPLODERE - DEFINITIVAMENTE - LA BARRIERA DEL 6° GRADO. PORTA PER PRIMO IN MONTAGNA L'ALTA DIFFICOLTÀ TECNICA, RIPETENDO IN COMPLETA ARRAMPICATA LIBERA MOLTI DEI PIÙ DIFFICILI ITINERARI DOLOMITICI E APRENDO QUELLE CHE SONO ANCORA OGGI ALCUNE FRA LE VIE PIÙ IMPEGNATIVE. E' STATO L'UOMO CHE PIÙ DI TUTTI HA CONTRIBUITO ALLA NASCITA DELL'ARRAMPICATA LIBERA E SPORTIVA IN ITALIA E, INSIEME A POCHI ALTRI, IN EUROPA E NEL MONDO. HA SCALATO NUMEROSE VIE IN SOLITARIA FINO A RAGGIUNGERE, IN QUESTO STILE, IL 10° GRADO. È IL PRIMO SCALATORE AL MONDO A SUPERARE L'11°GRADO A OLTRE 40 ANNI ED IL PRIMO A SFIORARE IL 12° GRADO A 50 ANNI. A 52 ANNI SALE ETERNIT (9A) NELLE VETTE FELTRINE E CON IL REGISTA DAVIDE CARRARI NE RACCONTA LA STORIA CON IL DOCUMENTARIO «VERTICALMENTE DEMODÈ» VINCITORE DELLA GENZIANA D'ORO AL 60° TRENTO FILM FESTIVAL 2012. NON HA MAI PARTECIPATO ALLE COMPETIZIONI PREFERENDO A QUESTE LE FALESIE E LE MONTAGNE SPESSO SCONOSCIUTE E NASCOSTE. MOLTE DELLE SUE VIE NON SONO ANCORA STATE RIPETUTE.

Cosa ne pensa del cambiamento tecnologico nel vivere e nel descrivere la montagna? Da quando ho iniziato a scalare sono indubbiamente cambiate molte cose. Credo che la tecnologia nell'alpinismo e anche nell'arrampicata abbia influenzato e contri-

buito tantissimo a cambiare le cose. Non è detto che tutto questo sia un vantaggio o sia necessario. Forse può dare delle opportunità importanti, soprattutto nelle spedizioni extra-europee dove hai bisogno di garanzie, sicurezza e una precisa informazione sulle previsioni meteorologiche. Sia-

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mo comunque figli del nostro tempo e le cose cambiano, ma non è detto che sia obbligatorio farne uso, sta solo a noi decidere. Il problema sta nell'accettare il fatto che se c'è una tecnologia che permette di avere certe informazioni, non vada poi a influenzare un giudizio nell'eventuale fallimento o riuscita di un impresa. Voglio dire, siamo spesso molto critici di fronte a certe situazioni che portano inevitabilmente a delle tragedie alpinistiche, si spinge a credere che l'unico vero alpinismo sia quello sempre più estremo. Vorrei ricordare che il vero alpinismo, quello importante, porta, nonostante la grande preparazione degli alpinisti che lo frequentano e che lo praticano, a rischiare molto. Perché se razionalmente una persona normale torna a casa, un alpinista molto spesso va avanti, e questo lo porta inevitabilmente ad affrontare rischi che sono incalcolabili. Nessun alpinista può dire che è riuscito a scalare una montagna o a tornare da quei luoghi solamente perché è stato bravo e preparato... bisogna avere anche molta fortuna! Essere preparati aiuta, essere all'altezza di alcune situazioni è importante, però non è sufficiente e bisogna accettare il fatto che questi uomini, gli alpinisti, possano anche non riuscire. Non trovo giusto, ricollegandomi alla tecnologia, criticare chi ha abbandonato questa forma di aiuto. In un intervista alle «Invasioni Barbariche» ha affermato che non è importante arrivare in cima, ma la qualità con cui si scala. Il non arrivare in cima, ricollegandosi anche all'uso della tecnologia, non è come un viaggio interrotto prima di arrivare alla meta? No, non è necessario. L'importante è l'esperienza che vivi. Ho imparato e avuto molto di più dai fallimenti e dagli insuccessi, piuttosto che dai successi. Ho imparato molto di più dalle cose frustranti, come gli abbandoni, aver imparato a perdere è stato più interessante che riuscire. Soprattut-

to in montagna ho imparato questo, molte cose le ho imparate fuori dalla scuola. Questo tipo di esperienza di vita, i viaggi, non sono intesi come quelli in cui prendi un mezzo e ti muovi da un luogo. I miei viaggi sono stati molto interessanti. Ho incominciato a immaginare... vi faccio un esempio: immaginate di essere davanti ad uno straordinario pendio di neve polverosa e voi scendete e sciate, vivete una straordinaria esperienza. Quando arrivate in fondo vi girate e guardate questo pendio, chi con un po' di orgoglio, chi con un po' di soddisfazione e guardando la vostra traccia siete consapevoli che dopo cinque minuti il vento la cancellerà. Cosa vi rimane? Vi rimane l'esperienza. La stessa cosa è affrontare un'avventura o scalare una montagna. Non è sempre necessario arrivare dove vi siete prefissati, l'importante è l'impegno con il quale affrontiamo le cose. Voglio dire, molte cose non riusciamo nemmeno a immaginarle o a vederle, però è attraverso questo tipo di esperienza che riusciamo ad avvicinarci ai nostri limiti, ma soprattutto a comprenderli e a renderci conto che alcune cose sono impossibili, ma non tutte. Alcune sono semplicemente molto, molto difficili, ma raggiungibili. Le esperienze “negative” sono quelle che ti fanno riflettere di più sulla possibilità di non riuscire o su questo “vizio” di arrivare obbligatoriamente sempre; sono importanti perché ci costruiscono davvero e ci fanno vedere la quotidianità e le cose in un modo completamente diverso ma molto interessante ed educativo. La sua idea di viaggio è cambiata nel tempo? Sì, c'è stata un evoluzione anche in questo. Quando ero giovane, molto giovane, non c'era assolutamente la possibilità di viaggiare da nessuna parte, non sono nato in una famiglia che poteva permetterselo. Credo, anzi sono certo, di non aver mai visto i miei genitori nemmeno andare al

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mare. Non ci si poteva permettere una vacanza. La vacanza era la scuola, tutto sommato, perché l'estate si doveva contribuire al lavoro dei nonni e dei genitori, quindi non c'era la possibilità di viaggiare. Il primo viaggio abbastanza grande della mia vita credo di averlo fatto quando ho accompagnato mio padre, che probabilmente si spostava per lavoro. A me sembrava un viaggio infinito e quando ho visto per la prima volta un lago, ho chiesto a mio padre se era il mare, mi sembrava immenso. Rivedendolo dieci, quindici anni dopo, mi sono accorto che era poco più di una pozza d'acqua, era un lago davvero piccolissimo, ma già questo mi sembrava un enorme spostamento, un grande viaggio. Quando sono diventato un po' più grande, quando avevo sedici, diciassette anni, ho improvvisamente avuto la voglia di conoscere questo mondo, di andare al di là di quei contorni che mi accompagnavano quotidianamente, come i profili delle montagne. Prima ancora di pensare di scalarle, non avevo ancora nessuno che mi parlava di alpinismo e non avevo questo desiderio, anzi, ero completamente all'asciutto di cultura alpinistica, perché nemmeno a scuola ne avevo sentito parlare. Voi, ne parlate a scuola? No, assolutamente no. Ecco. In un Italia che è attraversata in lungo e in largo da montagne, l'unica cosa che mi hanno insegnato a scuola è stata la storia del K2, che non mi sembra neanche l'aspetto più bello e importante del nostro alpinismo. A parte questo, più che andare sulle montagne, volevo girare il mondo, e sono partito in autostop. Me ne sono andato in una maniera davvero avventurosa, volevo fare il giro del mondo. Ma quando sono arrivato in Afghanistan ho capito che se quello stesso giorno non avessi deciso di ritornare sui miei passi, non sarei mai più tornato a casa, non avevo soldi e non avevo nessuna possibilità di sopravvivere.

Era inverno e fortunatamente ho deciso in modo rapido di rientrare. Così in un modo ancor più avventuroso sono riuscito a tornare a casa. Però questo viaggio mi ha permesso di capire molte cose, di fare un'esperienza che mi ha davvero arricchito, perché non ho viaggiato in un modo comodo. Sono partito con pochissimi soldi e quando sono sceso a Istanbul, forse dall'ultima corsa dell'Orient Express, mi sono guardato in tasca e ho capito che non avevo garantita nemmeno la possibilità di un pasto quotidiano. Però la voglia era talmente tanta di continuare a esplorare, conoscere e vedere il mondo, che mi ha quasi portato in India e poi di ritorno. È stato davvero molto interessante. Poi il viaggio si è spostato da un'altra parte. Quando sono ritornato mi sono innamorato delle montagne, chissà perché ho improvvisamente voluto conoscere i loro nomi, di quelle montagne dietro cui vedevo nascere e morire il sole. È difficile spiegare perché in quel momento mi sia proprio innamorato e abbia cominciato a sognare questi viaggi in un mondo diverso, perché era in fin dei conti un mondo che non conoscevo. Ero nato sotto quelle montagne, ma nessuno me ne aveva mai parlato, non ne conoscevo nemmeno un nome, strano. E in un momento preciso della mia vita ho sentito questa prepotente voglia di conoscerle e ancora non sapevo se le avrei scalate. L'importante era per me viaggiare in quei luoghi e conoscerli. Poi, quasi contemporaneamente e casualmente, ho cominciato anche a scalare e questa è stata un ottima possibilità per conoscere ancora meglio. Ma non avevo ancora la più pallida idea che avrei scalato le montagne in quel modo. Cosa rappresenta per lei la montagna? La montagna è stata la mia vita, rappresenta quello che è stato il mio mondo, il mio modo di vivere, che è completamente diverso da molti altri. Non è detto che io

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abbia fatto cose molto diverse dagli altri, ma ho vissuto una vita in montagna completamente differente. Questo perché ho la mia personalità, i miei modi di vedere e perché questi modi di vedere sono anche stati in qualche modo costruiti dalle esperienze che ho avuto in montagna. Io credo che nessuna università avrebbe avuto la possibilità di insegnarmi quanto io ho sperimentato e capito attraverso le montagne. Le montagne sono state la mia vita perché ho cominciato presto a frequentarle, e stranamente, rispetto a quel che pensavo, continuo ancora a viverle, e non le frequento solo quindici giorni all'anno in estate come un turista, ci vivo dentro, le montagne sono e sono state la mia vita. Con questo non voglio dire che ho vissuto solo in montagna: ho attraversato qualche deserto, ho attraversato gli oceani, però ho scalato montagne dal Mediterraneo alla Norvegia, e tutto è parte di una stessa esperienza, dello stesso viaggio. È innegabile perciò che la mia vita, per la sua maggior parte, l'abbia vissuta spostandomi da una montagna all'altra. È un mondo che è anche difficile da spiegare perché mi rendo conto di quanto possa essere pericoloso e quanto possa essere arrogante non ammettere di essere sopravvissuto anche per un buon merito della fortuna. Perché non sono luoghi dove bisogna necessariamente trovarsi al limite delle proprie possibilità per essere costretti a prendere decisioni importanti o poter essere davanti a situazioni che possono essere le ultime della nostra vita. Però, è altrettanto vero che non siamo stati costretti ad andare in quei luoghi per lavoro. In alcuni casi sì, non vorrei essere frainteso, ma facendo anche la guida alpina certi luoghi li frequento mio malgrado anche in situazioni non ottimali, ma al di la di questo, quello che volevo dire è che nella quotidianità, a volte siamo costretti a vivere situazioni pericolose anche se apparentemente non sembra, un’auto-

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strada oggi può essere più pericolosa di una montagna. In montagna però bisogna avere una certa consapevolezza, una certa responsabilità, siamo noi che decidiamo di andare in quei luoghi, quindi dobbiamo essere preparati e avere una certa umiltà, perché basta una stupidaggine, un temporale, una scivolata, un sasso che cade da una parte sbagliata... Pericolo e libertà in montagna possono coincidere? Pericolo e libertà? Libertà è una parola importante, forse troppo importante... la montagna mi ha dato la grande possibilità di prendermi delle responsabilità e in questo modo mi ha dato un grande senso di libertà. La montagna è come un enorme polmone dove si possono ancora respirare questo tipo di esperienze, ci sono delle regole non scritte che vanno osservate, in montagna si entra educatamente e ci si comporta in un modo corretto non solo verso l'ambiente ma anche verso chi la frequenta e per fare questo non serve nessuna divisa. Trovo interessante che si mantenga questa forma di libertà di azione e di movimento in questi luoghi. Che cosa l'ha spinta a lasciare le sicurezze a terra per intraprendere un viaggio così pericoloso come la scalata libera? Mi ha sempre affascinato questa forma di esperienza, perché è vera avventura. L'avventura vera, è dentro di noi, quindi o la sentiamo o la si percepisce o non c'è. L'arrampicata e la scalata mi affascinano perché non c'è nulla di scontato nemmeno nelle cose facili, non possiamo calcolare tutto neanche nelle cose banali dell'alpinismo e dell'arrampicata e poi mi piace quella forma di arrampicata dove è intrinseca quella percentuale di rischio e di pericolo che in qualche modo non appartiene a tutte le altre attività. Devo anche dire però che c'è stato un momento in cui ero molto più coinvolto in queste cose e mi fa piacere che quando, in qualche modo, mi sono

sentito fuori luogo in queste montagne e in queste situazioni, non ne abbia sentito la mancanza, non ho frequentato la montagna per un esigenza adrenalinica, l'ho fatto in un modo molto più ambizioso, cercando di avere sempre una certa forma di equilibrio che ho sempre cercato di mantenere ed è questo che forse mi ha contraddistinto da altri alpinisti o da altri scalatori. Spesso gli uomini di montagna sono “solitari”, non amano magari il contatto con il pubblico e con i loro stessi colleghi alpinisti, lei cosa ne pensa? Può raccontarci il suo rapporto con Mario Corona? Io non mi sentirei di affermare una cosa del genere, perché gli alpinisti che conosco io sono quasi tutti delle persone socialmente simpatiche, avvicinabili, sensibili, non sono d'accordo con questa affermazione. Personalmente credo di avere una sorta di spirito solitario e mi sento molto più solo in mezzo alla gente che non in mezzo a un immenso ghiacciaio o ad una montagna immensa, trovo che al giorno d'oggi ci sia molta più solitudine in quei luoghi tremendamente frequentati, che non nell'ambiente naturale. Per quanto riguarda Mauro, ho avuto la possibilità di frequentarlo molto per due anni, ci siamo conosciuti, siamo diventati amici, abbiamo scalato insieme e poi io ho fatto una strada e lui ne ha fatta un'altra e quindi ci siamo persi di vista, però devo dire di aver condiviso dei bellissimi intensi giorni di scalata insieme e non solo. Abbiamo fatto anche un bellissimo viaggio in America, ma al di là di questo non sono d'accordo nell'affermare che gli alpinisti sono delle persone solitarie. Non nel senso che vogliono allontanare i loro ammiratori, ma che magari non vogliono raccontare le loro avventure. C'è una certa differenza nel vivere la quotidianità a scuola che non nelle montagne, vivere parecchi giorni all'anno in questa realtà distaccata dalla quotidianità, può in qualche modo trasformare il carattere ap-

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parente di una persona, le cose possono essere viste in un modo diverso, ma questo può essere affermabile solo avendo una possibilità di un contatto, di uno scambio di opinioni. E non può essere solo una cosa apparente. È difficile. Io preferisco, ho sempre preferito, conoscere profondamente una cosa, esserne certo. Anche questo tipo di informazioni sono discutibili; non basta alzarsi al mattino, guardare quattro telegiornali e leggersi dieci giornali, per avere un'idea precisa di quello che sta succedendo. Ci vuole un impegno enorme, anche nella possibilità di accedere alle informazioni, per comprendere realmente le cose. Non è facile. Bisogna partecipare davvero molto ed è una cosa

difficile. Immaginiamoci poi di pretendere di conoscere una persona semplicemente dopo un'intervista, magari interpretata, o magari da una domanda, in qualche modo pilotata o costruita, è difficile. Io mi guarderei molto dall'affermare queste cose. Lei in un'intervista ha detto che la via è già nella montagna. Bisogna solo estrapolarla. Qual è l'ingrediente segreto per arrivare ad un ottimo risultato? Credo che questa informazione sia vera, nel senso che le montagne sono semplicemente dei sassi, grandi per quanto possiamo immaginarli. Se non ci fossero stati gli alpinisti, gli uomini che hanno iniziato a scalare le montagne, queste rimarrebbero semplicemente parte, magari straordinaria,

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di un paesaggio, perché credo davvero che la cosa che è per alcuni più scomposta, più disordinata, è invece per altri un qualcosa di straordinariamente perfetto nell'ambiente, nella natura, un qualcosa che è difficilmente ricostruibile. Nessun uomo sarebbe in grado di ricreare una perfezione così meravigliosa. Questo è quello che vedo io nel guardare le montagne, i sassi e le pietre. Questo lo faccio perché ho vissuto una vita in quei luoghi, li ho frequentati, li ho calpestati, li ho attraversati e questo mi fa pensare alle montagne in un modo diverso, ma non credo che tutti conoscano le strade che hanno percorso questi uomini. Siamo noi che abbiamo contribuito in qualche maniera a creare questo modo di vedere le cose. Un turista che arriverà al Passo Rolle non guarderà mai il Cimon della Pala come lo guarderà un alpinista, perché noi alpinisti abbiamo sottratto, estrapolato, da quel pezzo di roccia delle cose, delle esperienze, dei sogni, che ci appartengono, ma se appartengono a noi alpinisti appartengono alla cultura dell'umanità, fa parte di noi, è un pezzo della nostra storia. Per arrivare a fare questo bisogna innanzitutto crederci. Uno deve impegnarsi. Non è sufficiente alzarsi una mattina e dire “oggi faccio il 10° grado, oggi voglio correre i 100 metri in 9 secondi, oggi voglio risolvere un problema matematico...”, in qualsiasi attività che si possa fare, bisogna impegnarsi, anche perché non tutto quello che vediamo è così. Con l'impegno riusciamo lentamente a comprendere che quello che non vediamo può improvvisamente affiorare. Non basta sedersi qui e aspettare di avere 50 anni, bisogna viaggiare e alle volte farlo senza paura. Lo so che è rischioso, ma è rischioso vivere. Avere il coraggio di spiccare un salto, di arrivare da qualche parte, può essere più interessante e più importante per “arricchirci”, per farci comprendere delle cose. Ed è per questo che non è necessario “arrivare” da qualche parte. È

importante l'intensità e lo spessore di quello che facciamo per avere delle esperienze. Riuscire ad arrivare ad un certo livello, riuscire a concretizzare, significa aver costantemente cercato di migliorare, di comprendere e di diventare più bravi anche nel riuscire a comprendere le cose. È questo l'unico semplice segreto per arrivare un po' più lontano. È una specie di meritocrazia. Qual è secondo lei la sua impresa più grande? Questa domanda è già più difficile, è difficile rispondere. Ci sono dei risultati che ad un certo momento sono importanti, e poi non lo sono più. Sono importanti semplicemente per costruire il risultato successivo. Quando avevo vent’anni ci sono state cose importanti, importantissime, però non è detto che siano importanti in modo assoluto. Sono un frammento, una parte che è servita a crescere e migliorare e a portarmi a risultati magari più importanti, però alla fine non posso dire se è stato più importante il risultato finale o solo quella piccola parte. A volte i dettagli sono molto più importanti dell'insieme. Cosa ne pensa dell'alpinismo odierno? L'alpinismo odierno è qualcosa che mi appare sempre più lontano, quindi non ci vivo più dentro così intensamente. Forse sono la persona meno indicata per rispondere a questa domanda. La cosa che mi fa piacere è vedere un movimento di giovani, anche se leggermente underground, che cerca di ritornare ad una forma di alpinismo più semplice, questo mi infonde ottimismo nel guardare all'alpinismo di oggi. C'è davvero un tentativo di ritrovare dei valori che forse negli ultimi anni erano leggermente evaporati. Non si cerca più di prendere molte scorciatoie per arrivare da qualche parte, ma si guarda appunto alla qualità con la quale si affrontano certe montagne. Il rispetto. Un'etica un po' diversa, più bella, più interessante.

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Fotografie di Stefano Paternoster


INTERVISTA A CURA DI ALESSANDRO CASTELLI, EDOARDO OSS, SAMUEL GIACOMELLI

REINHOLD MESSNER

REINHOLD MESSNER (BRESSANONE, 1944). AVVIATO ALL'ALPINISMO MOLTO PRECOCEMENTE DAL PADRE SI DEDICA A SCALARE LE VETTE ALPINE FIN DALL'ETÀ DI TREDICI ANNI. LA SUA FILOSOFIA ALPINISTICA MATURA SECONDO UN PRECISO STILE CHE PUNTA A NON “INVADERE” LE MONTAGNE, SOLO AD ARRAMPICARLE, USANDO LA MINORE ATTREZZATURA POSSIBILE, IL COSIDDETTO “STILE ALPINO”. LA PRIMA SCALATA OLTRE GLI OTTOMILA MESSNER LA METTE A SEGNO NEL 1970, QUANDO RAGGIUNGE LA VETTA DEL NANGA PARBAT. IMPRESA SEGNATA DALLA PERDITA DEL FRATELLO GÜNTHER NELLA DISCESA, DUE GIORNI DOPO AVER RAGGIUNTO LA CIMA. LA SUA FAMA RAGGIUNGE IL MONDO INTERO NEL 1978, QUANDO SALE “IL TETTO DEL MONDO”, L'EVEREST CON PETER HABELER SENZA L'AUSILIO DI OSSIGENO. NEL 1980, MESSNER RAGGIUNGERÀ NUOVAMENTE LA VETTA SENZA OSSIGENO E IN SOLITARIA. IL TRAGUARDO PIÙ AMBITO, SCALARE PER PRIMO TUTTI E QUATTORDICI GLI “OTTOMILA”, MESSNER LO RAGGIUNGE NEL 1986. UNA CARRIERA INIMITABILE LA SUA, CHE CONTA OLTRE CENTO SPEDIZIONI E 3500 SCALATE. MESSNER È AUTORE DI MOLTI LIBRI E DAL 1999 AL 2004 È STATO MEMBRO DEL PARLAMENTO EUROPEO ELETTO COME INDIPENDENTE NELLA LISTA DEI VERDI ITALIANI. OGGI SI DEDICA ALLA GESTIONE DEI «MESSNER MOUNTAIN MUSEUM», UN COMPLESSO MUSEALE DEDICATO A TUTTI GLI ASPETTI DELLA MONTAGNA CON SEDI A BOLZANO, SOLDA, CASTEL JUVAL, MONTE RITE E BRUNICO. Con il passare del tempo e della tecnologia è cambiata e si è snaturata la stessa idea dell'andare in montagna. Cosa ne pensa? È molto interessante che nonostante l'appoggio tecnologico che hanno gli alpinisti oggi, la montagna viene sempre più preparata: le vie ferrate e le vie piene di spit... l'alpinista di oggi cerca tutti questi aiuti, mentre una volta la gente andava quasi senza. Questo avviene perché l'uomo porta in montagna la cultura della città. In città vogliamo avere la sicurezza, giustamente. In montagna una volta invece tutto questo

non c'era ed eri completamente esposto ai pericoli ed eri responsabile di ogni tua mossa. Oggi si vuole che la montagna sia preparata come la palestra, ma non si può cambiare la montagna solo perché qualcuno è abituato ad un'attività dove il rischio è eliminato. Basta prendere come esempio lo sci alpino. Una volta la gente saliva dei pendii in zone deserte con degli sci molto primitivi in quanto ad evoluzione, cercavano di trovare un modo di salire, per poi ridiscendere. Oggi salgono e scendono per la pista che è stata fatta per lo sci da discesa. Infatti, l'alpinismo di oggi viene

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chiamato alpinismo della pista. La maggior parte degli alpinisti di oggi cerca la pista, anche per andare in cima all'Everest. Tutto ciò è tipico del turismo, che è un'attività che dà alla gente una possibilità di ricreazione, di tranquillità e di sicurezza. Per esempio non vorrei mai andare in Nuova Zelanda in un albergo dove ci sono dei serpenti che possono uccidermi. Però, se mi trovo in una wilderness, la responsabilità dev'essere solo mia. Mentre la maggior parte degli alpinisti vorrebbero che qualcuno si prendesse la responsabilità al posto loro e non hanno capito che l'alpinismo è legato completamente all'auto-responsabilità. Dovremmo seguire un'unica regola: non rubiamo alla natura la dimensione della natura, con le sue grandezze e i suoi pericoli. Non abbiamo il diritto di cambiare la natura. E questa, è una questione ecologica poiché le montagne perdono valore da questo punto di vista e diventano come un parco giochi. Lei nella sua vita ha vissuto molte fasi dell'alpinismo. Come pensa che il concetto di viaggio, legato a questo termine, si sia modificato?

Questo è un tema molto complesso. Nel viaggio c'è anche la grande domanda di ecologia, perché noi, viaggiamo in tutto il mondo e io sono stato uno dei primi che ha potuto farlo, disturbiamo il clima, l'atmosfera, anche a causa dei nostri movimenti. In realtà l'alpinista non è in grado di incidere fortemente sull'ecologia perché non ne ha nemmeno la possibilità. Il vero problema dell'ecologia è il fatto che, a causa delle industrie, abbiamo bruciato in meno di cento anni quasi tutta l'energia fossile. Anche noi contribuiamo se ogni mese prendiamo l'aereo per andare in Sud Africa o in Himalaya per arrampicare. L'alpinismo mondiale ormai è fatto da tante persone e in questo modo dà un segnale negativo. Io stesso l'ho fatto e per questo faccio un mea culpa. La generazione prima della mia poteva andare fuori Europa al massimo 4/5 volte in tutta una vita. Io sono stato uno dei primi che poteva andarci 4/5 volte all'anno. Fino a 100 anni fa poteva permetterselo solo qualche signore molto ricco, specialmente inglesi o italiani, come Vittorio e Quintino Sella, una famiglia di banchieri e politici, o il Duca degli Abruzzi. In

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quegli anni questi viaggi costavano molto più di ora. L'alpinismo è nato in Europa, in principio erano gli Stati attorno alle Alpi, i primi sono stati gli inglesi, poi gli italiani, i francesi, gli sloveni, ma dopo la guerra, nel periodo della conquista degli ottomila, tutti gli Stati hanno mandato i loro alpinisti più bravi, pagandogli le spedizioni. E li hanno mandati per conquistare, per dare gloria alla propria nazione. Lei appare come una persona molto decisa nella vita, ma anche nelle sue spedizioni. Quanto conta avere una certa dose di individualismo? Per me è molto importante che ognuno possa vivere la propria vita. Io generalmente dico che ognuno di noi, ogni uomo, deve trovare la propria strada e seguirla. La strada è giusta per chi la segue e non per gli altri, altrimenti entriamo nella religione. Io ho deciso di fare la mia strada e da più o meno 25 anni non mi faccio dettare da nessuno la via. Seguo la mia strada. È chiaro che anch'io ho avuto dei fallimenti e anch'io sono tornato, anch'io avevo delle insicurezze e fa parte dell'essere umano dubitare, avere paura, non sentirsi sempre all'altezza della situazione. Secondo Manolo la montagna andrebbe introdotta di più nelle scuole. Lei che investe molto sulla divulgazione della montagna, cosa ne pensa? Oggi quasi tutti i ragazzi hanno la possibilità di andare nell'indoor, in palestra a fare roccia sulla “plastica”, quindi perché no?! Va bene. Forse quello che manca oggi è che a scuola si parli della montagna come pericolo e anche come sport. Far comprendere che sono due attività diverse, sono due dimensioni diverse, allora si può fare il salto dalla palestra alla montagna vera. Lei incontra spesso degli studenti? Perché noi abbiamo avuto qualche difficoltà nel fissare con lei un appuntamento. Dovete sapere che il mio tempo è molto

stretto. Io non sono un professore dell'università e neanche un maestro. Se accettassi tutti gli inviti non farei altro che parlare con studenti, non scriverei più, non farei più musei. Attraverso i miei cinque musei e le cose che ho scritto, penso di aver lasciato il modo di poter studiare quello che dico. Non me. Perché non è importante studiare me, ma quello che sta al di là e dietro la montagna. Però un professore che vuole portare venti ragazzi come voi in un mio museo, prima deve leggere per potervi poi raccontare le cose. Dopo le diverse e numerose spedizioni in tutto il mondo che lei ha fatto, com'è stato farsi male proprio sotto casa? È un fatto che è accaduto e che ho provato. Ho superato anche questo malore, anche se per anni ho zoppicato. Questo fatto mi è servito anche per capire che era giunto il momento di uscire dall'alpinismo estremo, da quel momento ho continuato a fare alpinismo, ma non più ai livelli di prima. Pochi mesi prima avevo tentato la traversata del mare artico, una spedizione al limite delle mie possibilità, ma dopo essermi fatto male ho fatto cose meno alte, meno difficili. Sono ritornato alla mia attività, ma va bene così, non si può fare per tutta la vita la stessa cosa, non si può a quarant'anni voler avere la stessa forza che ha un ragazzo di venti. Io ho avuto fortuna nello scegliere l'età giusta per l'attività giusta. Io nelle mie imprese ho avuto molta fortuna.

IL VIAGGIO È UNA GRANUNDEPO' RE AVVENTURA: SI PARTE SEMP PO' PIÙ PERPLESSI E SI RITORNA UN RICCHI DI PRIMA. SERENA RIGHETTI (5H)

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INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI

PATRIZIO ROVERSI

PATRIZIO ROVERSI (MANTOVA, 1954). LAUREATO AL DAMS (UNIVERSITÀ DI BOLOGNA), CONDUTTORE TELEVISIVO, ATTORE, GIORNALISTA E SCRITTORE. LA SUA ATTIVITÀ ARTISTICA SI È SVOLTA E SI SVOLGE QUASI COMPLETAMENTE IN COPPIA CON L'ATTRICE SYUSY BLADY (MAURIZIA GIUSTI). ASSIEME ESORDISCONO IN RAI NEL 1985, ALL'INTERNO DEL PROGRAMMA «MIXER» DI GIOVANNI MINOLI. DOPO AVER PARTECIPATO A DIVERSI TRASMISSIONE DAL CARATTERE SATIRICO, INSIEME CONDUCONO PROGRAMMI DI GRANDE SUCCESSO COME: «TURISTI PER CASO» E «VELISTI PER CASO». ATTUALMENTE CONDUCONO LA TRASMISSIONE «ITALIA SLOW TOUR» SU RETE4. PATRIZIO ROVERSI HA INOLTRE PUBBLICATO DIVERSI LIBRI SUL TEMA DEL TURISMO, IN PARTICOLARE «QUEL POCO CHE ABBIAMO CAPITO DEL MONDO FACENDO I TURISTI PER CASO» (EINAUDI, 2000); «CHIUDI IL GAS E VIENI VIA, VIAGGI DI UN SEDENTARIO» (SOCIALMENTE, 2008). In che modo nasce la volontà di raccontare ad una molteplicità di persone il proprio viaggio quando, per esempio, per molte persone, esso altro non è che qualcosa di indiscutibilmente proprio e soggettivo? Il viaggio è chiaramente una cosa molto personale. Sono dell'idea che un viaggio debba aderire alla persona che lo fa proprio come un guanto o come un paio di scarpe. Infatti, l'obbiettivo mio e di Syusy (al secolo Maurizia Giusti) non è mai stato quello di documentare in maniera oggettiva i viaggi, quanto piuttosto quello di raccontare in maniera soggettiva una nostra esperienza di viaggio. L'obbiettivo è quello, se vuoi, di stimolare gli altri a loro volta a fare un viaggio, cercando di dimostrare, noi viaggiatori non particolari, facendo cose estremamente normali e alla portata di tutti, che tutti possono fare quello che abbiamo

fatto noi. Risuona uno slogan alla: "Se ce l'abbiamo fatta noi, ce la possono fare tutti!". Il viaggio è un'esperienza unica, irripetibile, individuale e anche per questo mi sembra giusto ricordare la presenza di motivazione, di rispetto nei confronti di ciò che si sta andando a conoscere. Cosa mancherebbe nella sua vita se non avesse avuto la fortuna di visitare "mezzo mondo"? Premetto che ritengo di aver visto un quarto di mondo, da un certo punto di vista il mondo è piccolissimo. Quando, per esempio, abbiamo fatto il giro del mondo in barca, abbiamo visto che anche con un mezzo di trasporto molto lento come la barca che al massimo fa i venti km/h, riesci a compiere il fatidico "giro del mondo". È anche vero che il mondo è molto vario e le cose da vedere sono molte. Il mio carattere sarebbe pigro, sedentario e fifone, è

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stato grazie a Syusy che ho iniziato ad intraprendere questo mestiere, a sposare quest'idea. Il fatto di essere entrato a far parte di questo meccanismo ha equilibrato una personalità che avrebbe passato la sua vita in poltrona! Il fatto di fare qualcosa che è contro la tua natura è una cosa molto interessante, faticosa, che richiede sforzi, ma che alla fine riequilibra il tutto. Quanto è difficile mettere in risalto la bellezza di un viaggio "vissuto" in tutto e per tutto rispetto a quello organizzato, comodo, alla "all inclusive" per intenderci, da cui la società d'oggi è sicuramente dipendente? Qual è il modo più efficace per vincere tale "pigrizia e ozio di viaggio"? Non sarei così sicuro che per fare un bel viaggio si debba spingersi a cose estreme o peggio scomode. Probabilmente, la discriminante sta nell'atteggiamento con il quale noi ci apprestiamo a compiere un viaggio. Faccio degli esempi: il nostro primo viaggio con Syusy, in India, al quale io non volevo partecipare, è stato il primo che abbiamo registrato e da lì è nato «Turisti per caso». Durante quel primo viaggio eravamo "turisti normali" che viaggiavano per conto proprio con mezzi pubblici, permettendoci solo un taxi che costava molto poco; vedevamo però questi turisti che guardavano l'India da dietro il finestrino pressurizzato di un torpedone. È chiaro che se si esagera nel non voler entrare a contatto con la realtà in cui ci si trova si rischia di vedere e di capire poco del luogo in cui si va. Ma credo che se qualcuno ha un minimo di curiosità, qualcosa trapela sempre. Ti faccio un altro esempio: in Egitto, un altro dei nostri viaggi, era tutto organizzato. Partecipavamo insieme ad un gruppo di anziani appartenenti all'Università della Terza Età di Modena con la tipica crociera sul Nilo e gli spostamenti in pullman. Ma devo dire che questi "compagni di viaggio" erano curiosissimi, preparatissimi e moti-

vatissimi. Le guide che ci erano state assegnate erano davvero molto preparate, intelligenti e stimolanti e ricordo che si scatenarono dei dialoghi molto accesi fra noi turisti e le guide. Ricordo varie domande davanti ad una moschea: erano gli anni '90 e il fenomeno dell'immigrazione in Italia non era così pressante, non si sapeva poi così tanto dei musulmani. È nata così una forte curiosità nei confronti del mondo musulmano. Anche da un viaggio organizzato possono scaturire incontri interessanti. Sempre in quel viaggio, io e Syusy ci siamo persi nel mercato del Cairo che si chiama "Khan el-Khalili"; a quel punto abbiamo dovuto cambiare il denaro per poter pagare la merce che volevamo comperare. Mi si è avvicinato un bambino e mi ha detto "Se mi dai 100 dollari torno con il cambio". Dentro di me ho pensato "Sì, come no" ma non avevo alternative. Morale della favola, questo bambino è tornato con un cambio vantaggiosissimo. Ci ha pure offerto da bere con la sua famiglia e ci ha riaccompagnato a destinazione. Anche il turista più normaloide se si fida e affida al viaggio che intraprende, trova il modo di allacciare delle relazioni. Poi quando siamo arrivati alla "città dei morti" che era diventata luogo di residenza per alcuni sfollati, e che è considerata una delle zone più malfamate, in realtà ci siamo trovati benissimo. Abbiamo avuto un rapporto ottimo con le persone. Non è necessario rischiare e osare nei viaggi per avere dei contatti con la gente locale, quello che conta è il proprio atteggiamento. Come consiglio posso dire che esiste un decalogo molto interessante di AITR, che è l'Associazione Italiana per un Turismo Responsabile, che porta ad avere degli atteggiamenti coerenti e consoni al viaggio che si decide di fare. Parallelamente a questi discorsi, non possiamo scordarci della componente economica. I costi in luoghi come Maldive,

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Seychelles e altri sono esorbitanti ed esagerati in molti casi. È possibile godersi un tale spettacolo marino senza una spesa così alta? Sì. Prendiamo la Polinesia. Passa per essere il luogo più costoso del mondo quando in realtà, l'unico costo alto imprescindibile è quello del volo, vista la sua lunghezza. La Polinesia francese è però visitabile anche stando nelle pensioni familiari che mantengono un prezzo accettabile. Poi va sottolineato il suo aspetto del tutto supercivile, ogni piccolo atollo ha il suo centro medico, il suo aeroporto, la scuola e quant'altro. Ma credo che una volta prenotato il volo e passati i primi due giorni in un albergo a Papeete - il fuso orario è davvero impegnativo, circa undici ore - ci si possa organizzare e arrangiare da soli. Tutto è più o meno accessibile con un po' di controllo. La discriminante della Polinesia in questo caso è la durata del viaggio, occorrono minimo ventuno giorni per go-

dersi le isole, fra ore di volo e di recupero dal jet lag. Anche le Maldive sono molto interessanti, per volontà politica degli abitanti, lì la distinzione fra residenti e turisti è abbastanza netta. Intendo che alcune isole sono state cedute agli imprenditori turistici, mentre altre rimangono residenza dei maldiviani. Ma chiedendo un permesso è possibile visitare anche quei luoghi. C'è una barca, ricordo, di un italiano, che ti permette di visitare le svariate isole di cui scopri meraviglie che mai scorderai. Incontri persone stupende ed estremamente stimolanti. Dopodiché i prezzi delle varie isole intorno a quella di Male sono più che abbordabili. Non è detto che si debba spendere sempre tanto. Quanto influisce condividere il viaggio con una persona cara? Le interazioni fra me e Syusy rispetto al tema del viaggio sono molteplici, complicate e a volte contraddittorie. In linea di massima è sempre stata lei a determinare le me-

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te che abbiamo raggiunto, perché è lei quella piena di interesse e curiosità. Ma molte volte, in un luogo in cui siamo arrivati insieme, ci siamo divisi, seguendo itinerari diversi, io mi interessavo di più agli aspetti gastronomici, civili, sociali mentre lei è sempre stata attratta dalla storia e dalla cultura del paese che visita. Viaggiare con una persona cara può voler dire condividere gli stessi interessi, a patto che essi siano realmente comuni, il rischio è quello, ogni tanto, di voler accontentare fidanzato, moglie e marito sbilanciandosi rispetto ai propri desideri e interessi. Attenzione ai viaggi di compiacimento insomma! Il viaggio, ora che ci penso, è anche interazioni con gli altri, con il diverso, con la novità, molte volte, viaggiando con qualcuno che ci conosce e che è legato a noi, si tende a chiudersi nel proprio "nido", perdendo così questo aspetto fondamentale e arricchente del viaggio. Partendo dal presupposto che sarà una scelta difficile, riesce a identificare un viaggio che ricorderà per sempre, sia

per quanto riguarda un aspetto positivo che negativo. Non so se sono sempre stato fortunato, ma direi che un viaggio da ricordare per qualche aspetto negativo faccio difficoltà a trovarlo. Forse perché sono turista, e un turista viaggia per piacere. Il mio viaggio più bello non ha motivo di esistere, tutti sono belli in egual modo. Ovunque io sia andato è stato per scelta, ogni luogo aveva la sua ragione e il suo perché. Potrei risponderti citando le mete che poi, ripensandoci, dicevo "Che bello, è stato un viaggio unico, io qui vorrei tornare". Il primo esempio è quello delle isole Svalbard nelle vicinanze del polo Nord, dove morì Amundsen cercando Nobile che nel frattempo era nella famosa Tenda Rossa, sono isole strepitose, visibili in determinate stagioni, quando la luce ricomincia a fare capolino. Sono territorio libero, incontaminato, dove ci sono svariate basi scientifiche, di cui una anche italiana. Posso citare anche il Mustang che a livello politico è nel Nepal, ma per quanto riguar-

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da l'aspetto geografico appartiene al Tibet. Rappresenta il Tibet di qualche decennio fa, dove per ora, non ci sono ancore strade ma ci si arriva solo a piedi. Pensando a delle mete più vicine, mi viene in mente l'Etiopia, dove ho fatto i conti anche con parti oscure della storia italiana. Gli italiani in Etiopia si sono macchiati di colpe indelebili, ma nonostante questo vengono rispettati e ospitati, mi sono commosso di fronte ad un tale atteggiamento. Alcuni uomini che ho conosciuto mi hanno detto che si comportano così perché sono in grado di distinguere fra le responsabilità di una dittatura e quelle di un popolo. È stata una lezione incredibile. Potrei andare avanti una settimana. Se dovessi scegliere ora dove vorrei tornare, credo sceglierei la Polinesia. Questo perché nella mia testa Stevenson, London, Melville e Gauguin sono dei miti che mi piace andare ad inseguire. Si sente di poter parlare di viaggio interiore durante alcuni suoi percorsi? Sono una persona davvero poco incline alla spiritualità, la mia concretezza tende a tenermi molto spesso con i piedi per terra. Syusy invece è molto appassionata di questi aspetti. Già il primo viaggio in India è stato per lei fonte di conoscenza di vari aspetti teologici. Ricordo che siamo andati all'Ashram di Sai Baba, ad Auroville, dove tutta la spiritualità indù ci ha appassionato ed interessato moltissimo. I pellegrinaggi a piedi, numerosi anche in Italia per giungere al famoso Santiago di Compostela, sono tipi di viaggio molto particolari, profondi, estremamente ricchi di aspetti psicologici. Camminare è un tipo di viaggio che ti fa rincontrare con te stesso. Syusy per esempio, ha affrontato il percorso degli Aborigeni australiani ed è stata a suo avviso un'esperienza unica. È stata anche in Siria dove ha approfondito degli itinerari legati alla Maddalena. C'è solo l'imbarazzo della scelta. Direi che la dimen-

sione mistica, teologica, è un aspetto sempre presente e da approfondire per chi è interessato. Che cos'è per lei il viaggio? Definizioni ce ne sono tantissime, sicuramente migliori di quelle che io potrei inventare. Per quanto mi riguarda il viaggio è una fatica necessaria a soddisfare la curiosità. Il viaggio è una prova con se stessi non per la sua pericolosità, ma perché sollecita l'uomo all'adattamento in ambienti diversi dal proprio. Viaggiare vuol dire entrare in relazione con persone diverse da te per svariati aspetti, questa è la vera scommessa. Se devo ricordarmi dei viaggi mi ricordo per prima cosa le persone che ho conosciuto. Persino io, refrattario al massimo, una volta che l'aereo decolla, mi immergo in un mondo di curiosità ed energia. Alla fine, di fronte al viaggio, l'uomo ha degli impulsi esplosivi che difficilmente riesce a controllare.

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INTERVISTA A CURA DI AGNESE GARBARI, ELENA BONVECCHIO, IRENE TASIN, FABRIZIO ZANELLA

ALESSIA PALLAORO

ALESSIA PALLAORO (TRENTO, 1977), GIOVANE RICERCATRICE PRESSO L'UNIVERSITÀ DELLA CALIFORNIA A SANTA BARBARA IN AMBITO BIOMEDICO. DOPO IL DIPLOMA SUPERIORE, CONSEGUITO NEL 1996 PRESSO IL LICEO LINGUISTICO LEONARDO DA VINCI DI TRENTO, NEL 2005 SI LAUREA IN FISICA E TECNOLOGIE BIOMEDICHE PRESSO L'UNIVERSITÀ DI TRENTO. DURANTE IL PERIODO DI DOTTORATO, GRAZIE AD UN PROGETTO DI SCAMBIO UNIVERSITARIO, ARRIVA A SANTA BARBARA DOVE RIENTRERÀ COME RICERCATORE POST-DOC APPENA CONCLUSO IL PERCORSO DI DOTTORATO NEL 2009 . I SUOI INTERESSI DI RICERCA SONO FOCALIZZATI SULLO SVILUPPO DI NANOPARTICELLE COME STRUMENTI DIAGNOSTICI E DI MONITORAGGIO PER TUMORI E COME PIATTAFORMA PER IL RILASCIO CONTROLLATO DI FARMACI. NEL SUO CURRICULUM VANTA ORMAI NUMEROSE PUBBLICAZIONI E PARTECIPAZIONI A CONGRESSI INTERNAZIONALI. Hai frequentato un Liceo linguistico e poi scelto un indirizzo universitario in ambito scientifico. La scelta di studi fatta per le superiori che influenza ha su quella per l'università? Nonostante io abbia fatto il linguistico, durante il biennio ha fatto biologia, fisica e in generale ho notato che quando una persona arriva all'università avere alle spalle la preparazione di un liceo aiuta, perché dà una forma mentis che permette di affrontare tutte le materie. Quindi più che l'indirizzo di scuola superiore, è importante il metodo che viene insegnato alla scuola superiore. Nel mio corso universitario la maggior parte degli studenti venivano da una formazione scientifica, ma qui in America ho conosciuto un dottorando italiano in biochimica che ha fatto il liceo classico, l'indirizzo delle superiori ha un'importanza relativa. Nel mio caso, l'aver fatto il linguistico è stato un aiuto: al terzo anno, grazie al fatto di

sapere l'inglese, ho preso una borsa di studio per seguire uno stage in Inghilterra e uno dei motivi era proprio la sicurezza che la lingua non sarebbe stato un problema. L'aver studiato le lingue straniere e la forma mentis che il liceo mi ha lasciato, hanno fornito un'ottima base per l'università, indipendentemente dalle materie scientifica. Nella scelta degli studi è meglio seguire i propri interessi e i propri sogni o scegliere qualcosa pensando al futuro e al posto di lavoro? Quando è stato il momento di scegliere a quale università iscrivermi ho cercato di unire entrambe le cose. Sapevo di voler stare nell'ambito scientifico, però all'epoca non potevo studiare fuori Trento e quindi il campo si è ristretto. Sicuramente ho valutato anche le prospettive lavorative, per esempio all'epoca mi sembrava che ci fossero già un sacco di ingegneri in circolazio-

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ne e quindi mi sono detta: “Magari ingegneria non è la cosa migliore”. Alla fine ho scelto fisica applicata, sia perché mi attirava molto la possibilità di fare uno stage in azienda, sia perché si trattava di uno dei pochi corsi che prevedevano la laurea dei tre anni, mi piaceva poter spezzare e dopo tre anni chiedermi se volessi ancora proseguire o se i miei interessi fossero cambiati. Quindi prima mi sono orientata verso l'ambito di interesse, cercando poi di valutare quale percorso fosse il migliore ed in questo la valutazione delle prospettive lavorative deve essere messa sul piatto della bilancia. Poi, almeno in teoria, se uno non lavora sodo non arriva da nessuna parte in nessun campo. Quando hai realizzato che dovevi lasciare l'Italia per proseguire i tuoi studi? Il fatto di andare all'estero era una condizione per prendere il dottorato, il corso d'ingegneria dei materiali a Trento prevede che tutti gli studenti debbano fare un periodo di almeno sei mesi all'estero. Quindi da questo punto di vista, volenti o nolenti, bisognava andare. Poi io sono sempre stata una persona alla quale piace fare esperienze in altri posti e in ogni caso un'esperienza all'estero sul curriculum può avere un certo peso. Durante il corso di laurea non avevo mai preso parte a programmi tipo Erasmus per andare all'estero e quando mi è capitata l'occasione di andare in California non me la sono fatta scappare. Dovevo stare via solo sei mesi e questo è il quarto anno. Com'è il confronto tra la casa nativa, che magari hai fatto un po' fatica a lasciare, e la casa che hai trovato in California? Inizialmente è stato tutto semplice, c'è aria di novità, dopo alcuni mesi questo aspetto viene scemando e ci si riequilibra nelle posizioni. Sicuramente ho avuto la fortuna di incontrare delle persone che mi hanno fatto sentire a mio agio e questo mi ha aiutato molto nel sentirmi a casa, anche quando

ero a diecimila chilometri di distanza. Inoltre, Santa Barbara, il posto in cui vivo, è da cartolina e direi che anche questo aiuta parecchio! Come dimensioni e numero di abitanti è paragonabile a Trento ma si trova sull'oceano. Mi è sempre piaciuto il mare e non ho avuto grosse difficoltà ad adattarmi. Ora è un po' difficile, gli amici di una vita e la famiglia sono a Trento. Gli americani con cui sono venuta a contatto sono delle persone molto ospitali e capiscono cosa significa essere separati dalla famiglia, perché qui è abbastanza normale vivere a chilometri di distanza. Ad esempio, se sanno che durante le ricorrenze sei solo, non esitano ad invitarti, anche se ti conoscono da poco. Cosa manca all'Italia per raggiungere la California? Ci sono molti aspetti che l'Italia può invidiare alla California, ma ce ne sono altrettanti che la California può invidiare all'Italia. Si prende molto spesso l'America come parametro di riferimento, ma pensate ad esempio al sistema sanitario, seppur efficiente, è efficace solo per chi dispone di un'assicurazione, che però potrebbe anche non coprire del tutto le spese. Per quanto riguarda il lavoro, un impiegato medio ha non più di due settimane di ferie e una settimana di malattia all'anno. Ci sono aspetti che spingono a riconsiderare un po' le cose. Invece quali abitudini hai trovato a Santa Barbara che sono completamente diverse dalla vita che si è abituati a condurre qui in Italia? La prima cosa che mi viene in mente è che le persone qui sanno stare in fila e mantenerla, cosa che in Italia non accade mai. Trovi sempre una bella fila ordinata, mentre in Italia tutti si ammassano in maniera disordinata. Ma al di là di queste inerzie italiane, una differenza negativa è che qui in California usano tutti la macchina anche solo per fare pochi metri di strada, poi tutti

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vanno a fare jogging, perché bisogna essere attivi, dicono loro... Un'altra differenza è che qui è tutto più grande, enorme, da quando vai a prendere un caffè a quando vai al ristorante, io non sono ancora abituata a queste porzioni e le avanzo sempre. Qui, con una cena al ristorante mangio per tre giorni, poi quando vengo in Italia e prendo una Coca Cola al bar e mi arriva questo bicchierino piccolo piccolo, dico: “Ma come?”. A Santa Barbara i ristoranti aprono alle undici e mezza e sono aperti tutto il giorno, puoi andare a mangiare quando vuoi e qui mangiano sempre. In positivo hanno un senso della comunità molto sviluppato, dal quartiere in cui si abita all'università, molto di più che in Italia. Un'altra abitudine a livello quotidiano è che alcuni studenti vengono a lezione in pigiama. In che senso? Vengono proprio in pigiama e con le ciabatte, quelle col pelo dentro... si portano la colazione in classe e sono molto rilassati a riguardo. Buffo. Invece, un'abitudine che ho preso vivendo qua, nonostante io legga tutti i giorni i quotidiani italiani, è quella di andare a controllare anche cosa dice “google news” inglese, giusto per bilanciare un po' la situazione. Tutti lo sappiamo e tutti l'abbiamo vissuto almeno una volta, all'estero l'italiano è pizza, mafia e mandolino, c'è qualche nuovo stereotipo in circolazione? Il mandolino non mi è stato nominato molto, ma di sicuro mi hanno chiesto un'opinione o una descrizione riguardante la mafia. Mi hanno chiesto molte volte della politica. Ovviamente la pizza, gli spaghetti, caffè espresso e vino, anche se da questo punto di vista li ho delusi perché non bevo vino e tutti mi chiedono: “Ma sei italiana sul serio?”. Perciò più o meno la descrizione persiste ancora, però molte delle persone con le quali sono venuta in contatto sono

molto curiose di sapere in realtà come vanno le cose al di là dello stereotipo, anche perché è una realtà talmente distante da loro che non sanno mai la verità fino in fondo. Una cosa che mi fa piacere quando conosco nuova gente, è che tutti dicono “Ah sei italiana, che meraviglia!”. Sono innamorati dell'Italia, almeno quella delle cartoline. Dell'arte, per loro i monumenti più antichi qui hanno centocinquanta anni, il pensiero di vedere, più o meno in ogni città di Italia, palazzi e architetture di diverse centinaia e migliaia di anni fa sembra una cosa dell'altro mondo. C'è un po' questa immagine romantica, da cartolina che in qualche posto dell'Italia magari risulta ancora veritiera. Tu come ti senti? Una viaggiatrice, una che è fuggita… Decisamente una viaggiatrice! Anche se mia madre mi accusa di aver abbandonato la famiglia! Ovviamente per i miei genitori è difficile, essendo figlia unica e distante. Li vedo una volta all'anno e per loro non è mai stato facile e non lo è tutt'ora. A me è sempre piaciuta l'idea di andare, partire, vedere. Non so ancora per quanto starò qui a Santa Barbara, anche perché bisogna evolvere e l'evoluzione non è detto che sia stare dove sono ora. Cos'è per te il viaggio? In questo momento alla parola viaggio associo la parola vacanza (anche perché è da Natale che non ne faccio), perciò viaggio significa anche staccare dal lavoro, ma in generale direi scoperta. Scoperta di nuove realtà, conoscenza di altre culture, in tal senso anche solo il contatto con persone provenienti da altre realtà può essere molto istruttivo e rappresentare un viaggio a sé. Conoscere altre persone che possono descrivere, dal loro punto di vista, la loro realtà è una cosa impagabile. Vedere con i propri occhi posti e culture diverse è decisamente la mia visione di viaggio.

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VIAGGIO NEL TEMPO ZYGMUNT BAUMAN MASSIMO NASCIMBENE TOSCA GIORDANI

PRESENTI

VIAGGIARE NEL TEMPO È DA SECOLI UNO DEI SOGNI DELL'UOMO: SUPERARE LE BARRIERE PER SCOPRIRE COSA CI SARÀ DOPO DI NOI O PER VIVERE SULLA PROPRIA PELLE CIÒ CHE È GIÀ STATO. RIGUARDO A QUESTO SOGNO MOLTI LIBRI SONO STATI SCRITTI E MOLTI FILM GIRATI, MA TUTTORA L'ARGOMENTO RIMANE MISTERIOSO E AFFASCINANTE. SCIENZIATI DI TUTTO IL MONDO CERCANO DI RAGGIUNGERE LA POSSIBILITÀ DI VIAGGI TEMPORALI TRAMITE MACCHINARI AZIONATI DA ENERGIA NUCLEARE O CHISSÀ QUALI ALTRE ASSURDE INVENZIONI. NEL FRATTEMPO NOI, CHE NON SIAMO SCIENZIATI, MOLTO SPESSO PERDIAMO DI VISTA L'UNICO METODO CHE CI PERMETTE VERAMENTE QUESTO TIPO DI VIAGGI: I RACCONTI. I RACCONTI DI UNA STAFFETTA PARTIGIANA, CAPACE DI CATAPULTARTI NEL BEL MEZZO DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE SOLO CON LE PAROLE; LE SUE DESCRIZIONI, CHE QUASI TI FANNO SENTIRE L'ODORE DI QUEI BOSCHI, IL RUMORE DELLA PIOGGIA TRA GLI ALBERI, LE PIETRE DI QUEI SENTIERI LUNGHI E ACCIDENTATI TRA LE FIDATE MONTAGNE. LE PAROLE SPESSO RISULTANO AVERE UN POTERE MOLTO PIÙ FORTE DI OGNI ALTRA ENERGIA. VOGLIAMO SAPERE COME SI SPOSTERANNO I NOSTRI DISCENDENTI NEL FUTURO? COME CAMBIERÀ IL MONDO DEI TRASPORTI NEI PROSSIMI DECENNI? C'È QUALCUNO PRONTO A RACCONTARCI COSA CI RISERVANO I GIORNI A VENIRE IN AMBITO AUTOMOBILISTICO, BASTA SAPER ASCOLTARE! 320


IPOTIZZARE LO SVILUPPO DELLA SOCIETÀ È MOLTO PIÙ COMPLICATO, MA NON IMPOSSIBILE. ENTRANO IN GIOCO MOLTE VARIABILI, MA I DATI CHE RACCOGLIAMO NEL PRESENTE CI PERMETTONO COMUNQUE DI ABBOZZARE UN QUADRO ABBASTANZA PROBABILE DEL FUTURO. CERTO, NON SONO RAGIONAMENTI ATTENDIBILI AL CENTO PER CENTO, MA CHI CI DICE CHE PROPRIO QUESTO TIPO DI IPOTESI NON POSSA AIUTARCI A PREVENIRE UNA CRISI, LA CRESCITA DELLA TENSIONE SOCIALE E COSÌ VIA? ASCOLTARE NON COSTA NULLA E I DIALOGHI SONO DA SEMPRE LA CULLA DELLE IDEE PIÙ INNOVATIVE. QUANDO AVRETE VOGLIA DI IMMAGINARE UN FUTURO O DI RISCOPRIRE IL PASSATO, TRA QUESTE PAGINE TROVERETE TUTTI GLI INGREDIENTI NECESSARI PER LA VOSTRA RICERCA. E QUANDO QUESTE PAGINE NON AVRANNO PIÙ NULLA DI NUOVO DA RACCONTARVI? QUELLO SARÀ IL MOMENTO DI RISCOPRIRE LA FORZA DEL RACCONTARE E DEL SAPER ASCOLTARE, LA MERAVIGLIOSA CAPACITÀ DI CHIUDERE GLI OCCHI DOPO AVER LETTO UN LIBRO STORICO E RITROVARSI AL PORTO DI PALOS NEL 1492, PIUTTOSTO CHE A FIANCO DI GANDHI, IN MANIFESTAZIONE, MENTRE, PASSO DOPO PASSO, SI SCRIVEVA LA STORIA DELL'UMANITÀ. Fabrizio Zanella

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INTERVISTA A CURA DI ELENA MAZZALAI, FABRIZIO ZANELLA, MARTINA MOTTES

ZYGMUNT BAUMAN

ZYGMUNT BAUMAN (POZNAN, POLONIA, 1925) FILOSOFO, SOCIOLOGO POLACCO, DI ORIGINE EBRAICA. ALL'ETÀ DI 14 ANNI SI TRASFERISCE CON LA FAMIGLIA IN URSS PER FUGGIRE ALLE PERSECUZIONI ANTISEMITE E SI ARRUOLA COME VOLONTARIO PER COMBATTERE CONTRO IL NAZISMO. RIENTRATO NEL PROPRIO PAESE, AL TERMINE DELLA II GUERRA MONDIALE, SI DEDICA ALLO STUDIO DELLA SOCIOLOGIA, INSEGNANDO IN SEGUITO NELLE UNIVERSITÀ DI VARSAVIA, TEL AVIV E LEEDS. LE SUE RICERCHE PIÙ IMPORTANTI HANNO RIGUARDATO LO STUDIO DELLA MODERNITÀ IN RELAZIONE ALL'ETICA E AL TOTALITARISMO, CON PARTICOLARE ATTENZIONE AL NAZISMO E ALL'OLOCAUSTO. IN QUESTI ULTIMI ANNI SI È DEDICATO ALLO STUDIO DELLA POSTMODERNITÀ DIVENENDO NOTO PER AVER CONIATO L'IMMAGINE DI “SOCIETÀ LIQUIDA” CON CUI DESCRIVE L'INCERTEZZA, L'INDIVIDUALISMO, LA VULNERABILITÀ E LA CONTINUA TRASFORMAZIONE CHE CARATTERIZZANO LA CONTEMPORANEITÀ. L'INTERVISTA È STATA REALIZZATA IL 3 DICEMBRE 2011, DURANTE LA PRESENTAZIONE PUBBLICA DEL LIBRO «CONVERSAZIONI SULL'EDUCAZIONE» (EDIZIONI ERICKSON), A CUI SI RIFERISCONO TUTTE LE DOMANDE. «Pochi minuti per distruggere, molti anni per costruire», il titolo di questo capitolo, del suo libro «Conversazioni sull'educazione», è perfetto nel sottolineare l'immenso lavoro compiuto dalle generazioni passate a favore della cultura, che oggi è diventata solo un bel soprammobile e non, come dovrebbe essere, un'effettiva nota di merito nel mondo lavorativo. Migliaia di laureati si trovano ad accettare occupazioni al di sotto delle loro aspettative e del loro grado di formazione. Secondo lei questo problema, che si è accentuato negli ultimi anni, porterà molti giovani ad abbandonare le prospettive universitarie a causa dell'aumento delle

tasse e degli esigui sbocchi lavorativi? In conclusione, come immagina la scuola negli anni della crisi? Sì, effettivamente questa è una preoccupazione gravissima ed è anche una preoccupazione nuova, emergente. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, pur con tutta la distruzione che essa aveva portato, ci sono state delle nuove generazioni che hanno veramente posto e poi realizzato delle aspettative altissime per se stesse; hanno ricominciato con atteggiamenti e approcci nuovi alla vita. Quelle vecchie generazioni di allora, nuove per quei tempi, erano però unite da un denominatore comune, cioè sapevano che avrebbero cominciato la lo-

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CONVERSAZIONI SULL'EDUCAZIONE (Edizioni Erickson, 2012)

In questo libro, Bauman, prende in esame un tema che a noi sta molto a cuore e ci coinvolge personalmente: l'educazione. Questo però non è un classico pamphlet sulla scuola e sulle buone norme per istruire i ragazzi, quanto una raccolta di dialoghi che hanno per filo conduttore il tema del futuro, ed in particolare del futuro che vogliamo per i nostri ragazzi, e quello che stiamo facendo per garantirgliene uno migliore. Le conversazioni sono varie ed articolate, prendono in esame diversi fatti, come per esempio i riots di Londra, le rivolte dell'estate 2011, l'aumentare delle tasse universitarie, la disabilità ecc. ponendo sempre un occhio di riguardo per quello che concerne la responsabilità dell'educazione in tutto ciò. Non fornisce formule semplicistiche per rendere il mondo un posto migliore ma, attraverso il dialogo, quasi fosse un esercizio di maieutica, accompagna il lettore in un'analisi critica che va al di là del testo e lo coinvolge in prima persona anche nelle scelte quotidiane. Credo che la forza di questo scritto stia proprio nella capacita di suscitare riflessioni profonde da input precisi e arguti, trasformando anche la lettura in un processo educativo. Consiglio il libro a chi ha voglia di fermarsi un attimo a pensare, e di lasciarsi accompagnare da questo libro che in maniera lieve e profonda riesce a concentrarsi e a far concentrare su temi personali ed al contempo universali. Elena Mazzalai

ro vita dal punto in cui i loro genitori li avrebbero portati e la vita dopo la Seconda Guerra Mondiale, credetemi, era veramente molto peggio di come è adesso. Le generazioni di allora ci hanno lasciato una vita molto più comoda e una società migliore, ma adesso in questi ultimi anni non è più così. Le generazioni di adesso non sviluppano più qualcosa sulla base di quanto i genitori hanno lasciato, ma cercano di difendere quello che è stato dato loro. Ecco la ragione per cui abbiamo dato quel titolo al capitolo: "Pochi secondi per distruggere, molti anni per costruire". Dopo i trenta gloriosi anni dell'educazione che sono arrivati fino agli anni '70 e agli anni '80, adesso siamo in una situazione in cui, per esempio, in Gran Bretagna abbiamo avuto un crollo delle iscrizioni nelle facoltà universitarie. Ci sono facoltà in cui le iscrizioni sono crollate anche del 70%. Recentemente, il governo britannico ha triplicato la retta massima che le università possono chiedere agli studenti per cui da

3.000 sterline la retta è passata a 9.000 sterline. Una famiglia per fare studiare un figlio ha bisogno di 36.000 sterline e questo solo per la retta universitaria, poi ci sono i costi per tutto il resto. Si tratta di una gravissima minaccia ed è quello che fa allontanare i giovani dalla formazione e dall'educazione, soprattutto nelle università. Poi c'è anche la questione di questi grandi uomini di successo, che sembrano indurre le persone a dire che si può avere successo nella vita senza la scuola. Sto pensando a tutte quelle persone che hanno costruito delle fortune favolose, nonostante non fossero andate all'università, pensiamo a Steve Jobs per esempio che non ha completato l'università o Zuckerberg che dopo aver fatto il primo milione di dollari ha detto arrivederci ad Harvard e adesso ha una società quotata in borsa per 50 miliardi di dollari, pensiamo a Twitter o all'inventore di Linkedin che non solo non è andato all'università, ma non è andato nemmeno alla scuola superiore. Questi esempi, as-

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sieme al fatto che il costo della scuola è sempre più alto e unito al fatto che, dopo aver concluso l'università, puoi mandare in giro 180 curriculum senza ricevere nemmeno una risposta, fanno sì che i giovani si stiano allontanando dalla scuola, si stiano allontanando dall'università e questo con imprevedibili e gravi conseguenze per le nostre società. Un altro capitolo del suo libro è dedicato interamente alle rivolte avvenute nell'agosto 2011 nella città di Londra, nei quartieri che lei definisce “socialmente minati”. Crede che l'attuale crisi economica europea potrebbe portare ad altri sollevamenti popolari di tale grandezza? Leggendo le sue parole sembra impossibile dissotterrare queste mine dalla società dei consumatori senza, allo stesso tempo, sotterrarne altre. È solo un'utopia pensare ad un futuro in cui la disuguaglianza sociale venga eliminata o per lo meno affievolita? Beh, se fossi americano direi: “Domanda da un milione di dollari”. Nella nostra lingua è presente una particella che è “no”, che non esiste in tutte le lingue ed abbiamo anche il tempo futuro. Proprio per questo, perché abbiamo questa particella, possiamo negare la realtà, possiamo rifiutarla e proprio perché nella nostra lingua abbiamo il tempo futuro, possiamo immaginare una società che non esiste. Ora, per quanto concerne le disuguaglianze, dobbiamo veramente dire che le disuguaglianze attuali, a mio avviso, sono disuguaglianze che temo rimarranno, ma la vera questione è come ci approcciamo a queste disuguaglianze, come le consideriamo. Le consideriamo una vera offesa, un insulto, un atto di ingiustizia che deve essere riparato? Oppure ci consoliamo e diciamo: ”Beh, la gente in gamba comunque se la cava sempre”, lo Zuckerberg di turno se la cava e dice: “Grazie tante, io sto bene!”.

È una questione un po' d'approccio, ci rassegniamo, alziamo le mani e diciamo: ”Mi arrendo” oppure facciamo qualcosa? Cinque-sei anni fa si pensava, giustamente, che le disuguaglianze fossero diminuite fino ad un livello abbastanza tollerabile ed effettivamente dopo tanti anni le disuguaglianze più estreme erano effettivamente diminuite, ma adesso non è più così: secondo le statistiche ufficiali a livello mondiale, un quinto della popolazione del mondo detiene il 74% della ricchezza, mentre il quinto più povero si deve accontentare del 2% di queste ricchezze. Nella domanda usate i termini utopia e nuova società, beh non credo che le disuguaglianze ci porteranno ad una nuova società. Le sofferenze, i dolori, il risentimento, l'odio, la furia che derivano dalle disuguaglianze, è stato dimostrato dalla storia, non sono quelle che ci portano alla rivoluzione. Avete parlato anche delle rivolte che ci sono state in un paio di città della Gran Bretagna e sono state diffuse su tutti i giornali e su tutte le televisioni, si è trattato di furti e incendi nei supermercati. Non è stato solo un furto, ma è stato l'incendio di un simbolo che queste persone odiano. Uso volutamente l'espressione di odio nei confronti di un simbolo, e questo simbolo sono i supermercati, i centri commerciali che sono dei veri e propri templi del consumismo, messi nel centro di quartieri poveri, dove vivono persone che magari non hanno neanche un conto in banca, figuriamoci una carta di credito, e che se cercano di entrare in questi centri commerciali, vengono fermati dalle guardie e questo per loro è un'offesa, un'offesa alla loro dignità. Gli autori di quegli atti sono state persone che in quelle tre notti da “non-consumatori” si sono trasformate in “consumatori” veri e propri, dopo essere stati bombardati per anni e anni da messaggi continui che gli dicevano “spendi soldi, perché se spen-

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gli eserciti mettono degli esplosivi per fermare altri eserciti, li mettono un po' casualmente, nessuno sa quando esploderanno e dove esploderanno, la cosa sicura e che sappiamo è che prima o poi ci sarà l'esplosione e questa è la nostra situazione, temo. Una situazione in cui, prima o poi, succederà qualcosa. Devo dire anche che queste rivolte, che questi sollevamenti non portano come qualcuno potrebbe aspettarsi ad una società più giusta o in cui ci sia maggiore solidarietà tra le persone, anzi al contrario, continueranno a portare ad una società

Fotografia di Alessandra Artedia

di soldi costruirai il benessere del nostro Paese” e così via, queste persone alla fine sono diventate dei consumatori. Prima non potevano farlo, non avevano la capacità di farlo, ma per tre notti sono riuscite a farlo, e sono riuscite anche a distruggere una provocazione: la provocazione era quel tempio del consumismo che stava proprio in mezzo ai loro quartieri. Ora, come dicevo, le disuguaglianze non portano alle rivoluzioni, ma le disuguaglianze possono creare ciò che metaforicamente ho chiamato “campo minato”. Sappiamo tutti cos'è un campo minato, è un posto in cui

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dove ci saranno i migliori, quelli tra virgolette più bravi, quelli “sopra gli altri”, una società in cui continueremo ad avere persone che fanno la fila per ventiquattro ore per essere i primi a comprarsi il libro di Harry Potter. Ecco, questa è la mia risposta, mi rendo conto che non è molto ottimista ma sarò felice se voi potrete dimostrare che ho torto. Nel suo libro si trova una similitudine: paragona la preparazione dei ragazzi alla programmazione dei missili. Ci sono missili balistici, che sono strutturati per non mutare le proprie caratteristiche durante il percorso e missili intelligenti, che apprendono durante il percorso dimenticando all'istante le precedenti direttive. Per l'istruzione dei ragazzi viene esaltato questo secondo modello, ovvero sapere che le nostre conoscenze non sono mai certe e che, appena diverranno vecchie, dobbiamo essere pronti a disfarci di esse. Allora i ragazzi come noi sulla base di quali conoscenze, di quali punti fermi, possono costruire le proprie certezze, se nemmeno ciò che apprendiamo a scuola risulta valido per la vita? Credo di non poter esservi molto d'aiuto. È vero, c'è questo modello del missile balistico per cui viene stabilita una gittata, una direzione e il missile balistico va e colpisce un bersaglio. Ma colpisce un bersaglio che è fisso, la supposizione è che non si muova. Adesso però le cose sono cambiate e il missile balistico possiamo dire che è la persona specializzata, che ha acquisito competenze e continua per tutta la vita in quel modo, ma sembra che questa sia una ricetta sicura per andare incontro ad un disastro. La tecnologia militare ha fatto un sacco di passi avanti, si è passati dal missile balistico che poteva colpire solo un bersaglio fisso, a un altro tipo di missile, il missile intelligente, che invece può colpire

un bersaglio in movimento, perché sapete, adesso i bersagli non stanno più fermi, tutto si muove, i bersagli continuano a cambiare e a spostarsi. Seguendo questa metafora, diremmo che anche la persona deve continuare a cambiare direzione, che deve cercare nuove direzioni e nuovi obiettivi, nuovi bersagli. Se questo da un punto di vista tecnologico può essere una cosa positiva, dal punto di vista morale ha delle conseguenze devastanti, perché non c'è più qualcuno che ha la responsabilità di “premere il bottone”. Adesso tutto è affidato ad un dispositivo elettronico, non ci sono più soldati, generali che schiacciano il bottone, ma c'è questa scatola nera e questo è sgradevole anche dal punto di vista della strategia militare, figuriamoci poi se trasferiamo metaforicamente questa strategia militare alla vita di ognuno di noi! Adesso, la richiesta che la società fa è quella di essere flessibili, ma che cosa significa flessibilità? Flessibilità significa incoerenza, significa negare quello che si è stati, significa negare quello che si è fatto. Sapete, in passato la parola flessibilità, dire che una persona era flessibile, era una descrizione peggiorativa della persona, in passato ci si aspettava invece che una persona fosse costante, che fosse fedele, che mantenesse gli impegni. Adesso questo non si può più fare e la richiesta è quella di essere flessibili, di non assumersi impegni di lungo periodo, di rimanere sempre con le antenne dritte, di individuare i bersagli più utili ed essere sempre pronti a cambiare percorso. Ecco, questo è il consiglio che adesso si dà. È un consiglio razionale, ma moralmente sbagliato. Questa è la situazione attuale, la situazione di cui abbiamo parlato e discusso, a cui abbiamo cercato di trovare qualche risposta, ma mi dispiace dirvi che non ho una risposta, non ho una soluzione definitiva da darvi.

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INTERVISTA A CURA DI EUGENIA CUNIAL, NICOLA RIZ, RAMA KIBLAWI

MASSIMO NASCIMBENE

MASSIMO NASCIMBENE (MILANO, 1953) GIORNALISTA SPECIALIZZATO NEL SETTORE AUTOMOBILISTICO. LAUREATO IN INGEGNERIA MECCANICA AL POLITECNICO DI MILANO E GIORNALISTA PROFESSIONISTA DAL 1988. HA LAVORATO PER RIVISTE COME «GENTE MOTORI», «AUTO» E PER IL QUOTIDIANO «LA REPUBBLICA». ATTUALMENTE È MEMBRO DELLA GIURIA DEL PREMIO EUROPEO «AUTO DELL'ANNO» E DA FINE 2010 È VICEDIRETTORE DI «QUATTRORUOTE», STORICA TESTATA ITALIANA DEL MONDO DELL'AUTO, FONDATA NEL 1956 E OGGI FORTE DI NUMEROSE EDIZIONI INTERNAZIONALI, INCLUSE RUSSIA, CINA, BRASILE E TURCHIA. La sua rivista segue da anni l’evoluzione del mondo dei trasporti. Quanto e come si è evoluto questo mondo negli ultimi anni? Se ragioniamo sul lungo raggio, l'elemento principale di novità che ha rivoluzionato il modo di spostarsi delle persone è stato sicuramente l'avvento delle compagnie aeree “low cost”, che di fatto, parlando da milanese, ha reso per esempio più economico un weekend a Dublino piuttosto che in Liguria. Questo ha influito molto sui flussi turistici e sul modo di concepire le vacanze. Se vogliamo riferirci al mondo dell'automobile invece, cambiamenti significativi ci sono stati solo in quest'ultimo anno e sono da collegare principalmente con il consistente aumento del prezzo della benzina, che ha convinto molte persone a fare a meno dell'automobile per sfruttare altri mezzi di trasporto, sia per quanto riguarda gli spostamenti casa-lavoro, sia per i viaggi di medio raggio. Dall'inizio del 2012 varie fonti se-

gnalano una contrazione della domanda di carburante che varia dal 9 al 15%. Sono numeri destinati a perdurare se i rincari non smetteranno. Per quanto riguarda più strettamente il mercato dell'auto, in Europa al momento si sta vivendo una situazione di calo delle vendite di auto nuove che si aggira attorno al 5%. Gli analisti auspicano un ritorno alle cifre precedenti la crisi del 2007 (15-16 milioni di auto vendute) in Europa solo dopo il 2015. In Italia il calo della domanda è ancora più consistente. Da anni il trend di vendite si aggira attorno ai 2,3 milioni di auto, grazie soprattutto agli incentivi governativi, talvolta eccessivi. Fisiologicamente il fabbisogno del mercato italiano si aggirerebbe attorno a 1,8-2 milioni di vetture. Per quanto riguarda le categorie di consumo, negli ultimi anni si è registrato uno spostamento delle preferenze dalle berline ai cosiddetti “Suv”. Sebbene in un primo tempo molti si siano buttati sui suv di grandi dimensioni, ora vediamo un consi-

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stente spostamento della domanda verso suv di taglia medio-piccola. È una questione di moda, ma anche di sicurezza percepita, poiché la posizione di guida sui suv o sulle monovolume è generalmente più alta rispetto alle berline. Spostiamoci ora a ciò che dà all'auto l'energia per muoversi. Che evoluzioni vive oggi il settore dei carburanti? Visto anche l'aumento del prezzo della benzina ci si aspetta un aumento sostanzioso di altri combustibili, se non addirittura delle nuove auto elettriche. In Italia l'aumento della benzina ha determinato un risveglio della domanda di auto a gpl. Il metano soffre di un problema “regionalista”, in quanto solo le regioni del Norditalia possiedono reti di distribuzione sufficienti. Al Centro e al Sud i punti di rifornimento sono troppo pochi perché il fenomeno prenda piede. Per quanto riguarda il mercato elettrico, abbiamo in Italia numeri ancora piccolissimi. In tre mesi sono state vendute poco più di 100 auto, poiché queste vetture sono ancora troppo care e le stazioni di rifornimento pubbliche sono pochissime. Per cui solo chi ha la disponibilità di un box con ricarica a casa e percorre distanze al di sotto dell'autonomia di questi veicoli (circa 100 km) può sfruttarle con vantaggio. A livello europeo situazioni molto diverse sono presenti solamente nei paesi del nord, più sensibili e più veloci nel rivoluzionare il sistema di distribuzione e ricarica e nello sviluppo di incentivi consistenti per l' acquisto di vetture elettriche. Ad esempio Olanda, Danimarca, Svezia e, in misura minore, Gran Bretagna hanno messo in campo incentivi fino a 6mila Euro. Tuttavia il mercato elettrico è ancora in una fase embrionale. I problemi dello sviluppo di questo settore sono legati alle batterie. Al momento quelle impiegate sono batterie a ioni di litio, sperimentate da poco. Nonostante il costo elevato, sono an-

cora molti gli interrogativi sulla durata del loro uso e sui relativi problemi ad esse collegate. Un pacco di batterie necessario a garantire un'autonomia di 150 km costa oggi circa 10mila euro. Inoltre non si conosce la durata effettiva di queste batterie, è normale che la gente si mostri refrattaria all'acquisto. È solo un problema di costi e tecnologia che impedisce la diffusione del motore elettrico, o vi sono altri ostacoli, magari legati agli interessi economici dei paesi produttori di petrolio, piuttosto che alle aziende che distribuiscono la benzina sul mercato? Mah, personalmente non credo a queste teorie sulle lobby dei petrolieri, per il semplice fatto che una casa automobilistica avrebbe tutti gli interessi a sviluppare per prima una batteria che non pesi troppo, costi poco e renda molto. Ma questo è un problema molto difficile di per sé. Inoltre potrei aggiungere che i paesi all'avanguardia nella produzione di batterie (Cina, Giappone, Corea) sarebbero felici di sganciarsi dalla dipendenza energetica da altri paesi, per cui al momento vedo proprio un problema di tecnologia alla base. Se l'industria elettrochimica fosse in grado nel giro di pochi anni di sviluppare batterie che pesino la metà e con rese doppie rispetto a quelle attuali il gioco sarebbe in buona parte già fatto. Aggiungo una curiosità che ritengo intrigante: l'università Michigan di Boston e l'università di Stanford stanno sviluppando un sistema di ricarica senza fili, denominato “Whitectricity”. Questo sistema prevede delle linee elettriche a bordo carreggiata o sotto l'asfalto che ricaricherebbero l'auto durante il viaggio, permettendo di limitare il numero di batterie a bordo. Tecnicamente è già stato sperimentato con successo per piccole quantità di energia. Rimane ora da verificare l'efficacia per i quantitativi di energia richiesti dalle auto elettriche e il

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costo di costruzione di queste nuove infrastrutture. L'idea di auto che si muovono sulle strade come dei filobus mi pare abbastanza intrigante e allo stesso tempo non così fantascientifica. Nonostante il costo della benzina salga ogni giorno, come mai le macchine con impianti a gpl/metano sono poco acquistate? Sinceramente non credo che si tratti solo di un discorso economico, legato al costo iniziale maggiore per l'acquisto di una vettura di questo tipo. La situazione sembra paragonabile al cane

ce fatto che c'è meno consumo e il governo non ha molto interesse ad alzarlo. Detto questo, nell'immediato, reputo il gpl una buona alternativa per chi fa un uso dell'automobile di breve raggio, diciamo per spostamenti quotidiani casa - lavoro, per 20 km al giorno. Sarei molto più cauto nell'indicare il gpl come alternativa globale, perché per chi fa lunghe percorrenze quotidiane - 200/300 km al giorno - i motori lavorando a temperature di esercizio molto elevate e per tempi molto lunghi porterebbero ad un'usura precoce dei motori stes-

che si morde la coda, perché in realtà con il tempo si andrebbe a guadagnare risparmiando sul costo delle benzina. Sì, questo è sicuramente vero. Teniamo anche presente però che il gpl resta comunque un prodotto di derivazione petrolifera. Quindi diciamo che è un po' un'alternativa dal fiato corto. Teniamo anche conto che il prezzo è più basso un po' perché il gas costa meno, un po' perché il carico fiscale che grava sul gpl è obiettivamente più basso di quello che viene caricato sulla benzina e sul gasolio. Questo per il sempli-

si. Questo dipende anche dal fatto, e siamo sempre al cane che si morde la coda, che parliamo di motori nati per funzionare a benzina e successivamente trasformati per funzionare a gpl. È chiaro che nel momento in cui ci fossero dei motori specificamente progettati per funzionare con il gas (che si tratti di gpl o di metano) questo discorso cambierebbe. Però ripeto, nel caso del gpl la domanda che ci dobbiamo porre è: “Ha senso individuare come scelta strategica il gpl, quando non è altro che un prodotto di raffinazione che si ottiene

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dal cracking petrolifero nella stessa maniera in cui si ottengono benzina e gasolio?”. È vero che l'inquinamento su scala locale è inferiore, però dal punto di vista strategico rimane sempre una scelta che ci confina nel perimetro dell'alimentazione dipendente dal petrolio, per cui strategicamente non cambiano le carte in tavola. Quindi, al momento lei non vede un'alternativa valida e concreta al petrolio? I più ottimisti fra gli analisti e i costruttori stimano che nel 2020 le auto elettriche sia quelle puramente elettriche sia le cosiddette ibride plug-in, cioè le vetture dotate di motore a benzina più motore elettrico ricaricabile dalla rete - potranno conquistare il 10% delle vendite mondiali. Questi sono i più ottimisti, i più pessimisti parlano di un 2-3% e non di più. Questo è lo scenario, ma in realtà altri settori industriali ci hanno dimostrato che molte volte nel momento in cui la tecnologia consente di effettuare un cambiamento i fenomeni poi sono molto rapidi. Si deve poi tener presente che l'industria dell'automobile è un'industria molto complessa e molto “pesante”, in cui i cambiamenti vanno pianificati a tre-quattro anni. Diciamo che le macchine che i costruttori stanno progettando oggi sono le macchine che saranno vendute, se andrà bene nel 2015; per cui ragioniamo sempre su tempi molto lunghi. Ripeto l'industria dell'automobile è molto pesante, è un po' come una petroliera: tu cominci a muovere il timone adesso e la nave comincia a girare tra 10 km; per cui cambiamenti a breve, repentini, francamente non ne vedo. Sicuramente ci sarà un processo di progressiva diffusione dell'elettrico ma su quantitativi ancora limitati per un po' di anni. Quindi crede che l'auto a benzina sia destinata a scomparire in un futuro? Io ho 60 anni e sono convinto che scomparirò prima io. Crede che l'industria automobilistica ita-

liana sia in ritardo per quanto riguarda l'alimentazione alternativa? Mi è capitato di leggere più volte di prototipi all'avanguardia che la Fiat avrebbe sviluppato in passato, ma inspiegabilmente abbandonati, facendo pensare a una sorta di complotto per fermare le tecnologie che superavano il petrolio. Cosa c'è di vero? Per la Fiat il discorso è molto semplice: all'inizio degli anni 90, per le scelte manageriali di quelli che erano allora i dirigenti del gruppo, fu presa la decisione di diminuire drasticamente gli investimenti sull'automobile e di investire in altri settori economici, prevalentemente finanziari, per il semplice motivo che l'industria dell'automobile richiede investimenti colossali e assicura una redditività relativamente bassa. Voglio dire: se oggi investo 100, mediamente dall'industria dell'auto porto a casa un rendimento del 3-4%. Negli anni ruggenti della finanza si guadagnavano molti più soldi e molto più facilmente facendo altre cose. Questa scelta ha portato al fatto che progressivamente l'industria nazionale è andata perdendo competitività rispetto ai concorrenti, anche solo europei come Francia e Germania. In questo modo all'inizio degli anni 2000 la Fiat si è ritrovata in una situazione, diciamo, prefallimentare. Nonostante questo contesto, i centri di ricerca sono sempre stati capaci di fornire delle soluzioni brillanti e all'avanguardia. Però se ragioniamo in termini di tecnologie alternative non è che avessero fatto delle cose che gli altri non avevano fatto a loro volta. Diciamo che la Fiat ha fatto qualche prototipo ibrido alla fine degli anni 90, quando però la Toyota aveva già messo su strada la “Prius”. Non mi sembra il caso di parlare di prototipi nascosti, anche se addirittura l'ex ministro Clini in un incontro pubblico aveva dichiarato che la Fiat sull'ibrido era più avanti della Toyota, cosa assolutamente non vera. La Fiat aveva fatto qualche vettura sperimentale, ma nello

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stesso momento, sia la Toyota sia la Honda, avevano fatto non solo la sperimentazione ma si erano già messe a vendere le loro automobili con una formula che pur nei suoi limiti, negli ultimi anni è riuscita ad affermarsi in maniera consistente. Per quanto riguarda invece i motorini, le due ruote, tecnologicamente la situazione è più vantaggiosa? Per certi versi, se vogliamo, la scienza è più facile, almeno se guardiamo ai motorini che vengono utilizzabili in città. Bene o male quello che fa uno scooter a benzina oggi può essere fatto anche da uno scooter elettrico. Poi c'è la nuova generazione di biciclette a pedalata assistita che sembrano avere ottime prestazioni. Diciamo che se da un lato c'è una questione di costo, dall'altro esiste una certa tendenza del pubblico ad essere conservatore, a faticare a gettare il cuore oltre l'ostacolo, e dire: “Dai, proviamo questa cosa nuova”. Però, per come la vedo io, per gli scooter non ci sarebbero particolari problemi e buona parte degli utenti potrebbe cambiare tecnologia da un giorno all'altro. Riporto solo un aneddoto: un mio amico di Torino ha venduto il suo scooter elettrico dopo tre mesi dall'acquisto, era disperato perché nessuno lo sentiva arrivare e rischiava di tirar sotto pedoni e ciclisti praticamente ad ogni incrocio. Ma questo è un problema che si può risolvere con un generatore di rumore artificiale, senza una particolare spesa.

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Fotografie di Laura Gretter


INTERVISTA A CURA DI ELENA FORADORI, ELENA MAZZALAI, FABRIZIO ZANELLA, FEDERICA FELLIN, FRANCESCA PARIS, FRANCESCO BENANTI, LAURA GRETTER, LUCA ANTONIONI, TOMMASO TONINI

TOSCA GIORDANI STAFFETTA PARTIGIANA TOSCA GIORDANI (PEDERSANO - TRENTO, 1922) STAFFETTA PARTIGIANA NELLA ZONA DI VILLALAGARINA IN TRENTINO. LEGATA ALLA COMPAGNIA «MARIO SPRINGA» GUIDATA DAL PARTIGIANO GIOVANNI ROSSARO, DELLA BRIGATA PASUBIANA. Da dove vuole iniziare? Cominciamo da quando ho iniziato ad odiare il fascismo?! Avevo dodici anni quando la maestra mi ha strappato il quaderno perché avevo parlato male di Mussolini. In realtà avevo scritto solo quello che aveva vissuto mio nonno. Cosa era successo? Mio nonno mi raccontava che quando Mussolini era socialista andava in giro per le piazze a fare comizi. Un giorno arrivò anche a Nomi e in quell'occasione era presente anche mio nonno. Quel giorno, dopo il comizio, iniziò a piovere e così non sapendo come arrivare alla stazione dei treni, mio nonno si offri di accompagnarlo con il calesse. Nel tragitto da Nomi a Rovereto, Mussolini disse di voler comperare un cappello e mio nonno lo portò al negozio del signor Bacca che si trova in via Rialto. Mussolini entrò nel negozio ma poi uscì a chiedere dei soldi a mio nonno, perché non ne aveva abbastanza. Mio nonno acconsentii dicendogli che la prossima volta che si sarebbero visti gli avrebbe dovuto restituire quei soldi. Lo accompagnò in stazione e lì finì la storia. Dopo un mese e

mezzo Mussolini tornò a fare un altro comizio e caso volle che anche quel giorno si mise a piovere. Mio nonno lo aspettava in stazione a Rovereto per accompagnarlo a Nomi e quando lo vide arrivare con addosso un paio di scarpe rotte gli disse: "Scusi, ma dove va in giro con quelle scarpe rotte?" e Mussolini gli risposte: "Non ne ho altre, può prestarmi un po' di soldi per comprarmene un paio di nuove?". Visto che non aveva con sé neppure i soldi che già gli doveva restituire, mio nonno gli propose di seguirlo a casa dove gli avrebbe dato un paio delle sue scarpe; saranno state vecchie, ma almeno non erano rotte. Arrivati a casa, Mussolini si fermò pure a pranzo. Si fermava sempre da mio nonno a pranzo, ogni volta che poteva. Mangiava di tutto perché era un poveraccio! Un poveraccio che non aveva niente. Perché scrisse la storia sul quaderno di scuola? Un giorno la maestra ci chiese, in onore della Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, di fare un tema che allora si chiamava "diario" su Mussolini. Dovevamo farlo a casa. Quel giorno a casa c'era anche mio nonno 335


e lui mi disse: "Scrivi quello che ti ho raccontato". Allora io ho raccontato la storia. Quando poi arrivai a scuola ero orgogliosa del mio tema. La prima ora avevamo matematica e la seconda religione, sicché quando è arrivato il parroco, la maestra controllava i nostri temi. Finita la lezione di religione siamo andati a ricreazione. Nel rientro, la maestra mi ferma dicendo che mi doveva parlare e davanti a tutta la classe mi fa: "Chi ti ha insegnato queste cose?", "Mio nonno" risposi, e lei ancora: "Ma come tuo nonno, come fa a saperle!". La maestra diceva che non era vero niente ma io le risposi che mio nonno non era un bugiardo, così lei strappò il quaderno in quattro o cinque pezzi e poi mi disse di raccoglierli e buttarli nel cestino. A quel punto mi disse di tornare alle quattro del pomeriggio con mia mamma. Il pomeriggio la maestra chiese a mia madre perché avevo scritto quelle cose e lei le rispose che era la verità, che Mussolini davvero era sempre a casa sua a mangiare! Era sempre affamato e un poveraccio che aveva bisogno di tutto. Allora la maestra ci disse che "se fosse arrivato il Direttore Didattico, saremmo tutti in galera!". Da lì è iniziata la mia avventura. Come è entrata a far parte del gruppo di partigiani della zona? Era il '43, l'anno che c'è stato il disastro qui a Rovereto, che hanno continuato a bombardare e tutti scappavano. Mia cugina abitava a Rovereto e quando hanno bombardato la casa in cui abitava è venuta da noi a Pedersano, dormiva con noi e lavorava con me alla Pirelli di Rovereto. La vita era dura. Mio padre faceva lo scalpellino, faceva lapidi, lavandini per la cucina, gradini per le scale, porte... ma nessuno aveva soldi per ordinare queste cose. Mia mamma faceva la sarta e cuciva per molte persone. La gente per pagare portava patate, fagioli, farina e in questo modo si mangiava. Mia madre iniziò a lavorare per

la famiglia Rossaro che abitava in una frazione vicina, tutti i giorni andavamo a casa loro e mia cugina fece amicizia con Giovanni Rossaro e spesso ci trovavamo assieme a lui e ad altre persone che parlavano e discutevano di molte cose e noi ascoltavamo. Un giorno il Giovanni disse: "Ci vorrebbe qualcuno che porti da mangiare ai partigiani. Bisogna cercare una persona, una donna o una ragazza, qualcuno". Allora io gli faccio: "Posso venire io?". "Ma" disse "ricordati che è un rischio". "Credo ben che è un rischio, ma posso farlo?". Così mi sono presa un impegno, andavo a prendere le borse di cibo in casa Calmasini a Rovereto che aveva un negozio di alimentari. Mi dava salami, lucaniche e formaggi, perché altro non potevo portare. Qualche volta pane o quelle scatole di carne come la Simmenthal, rettangolari, che vendevano a fette... e ogni tanto sotto mi mettevano qualche bomba. Io portavo tutto fino a casa e nascondevo dietro la catasta della legna, perché nemmeno i miei genitori e mia sorella, che dormiva in camera con me, sapevano qualcosa. Poi Giovanni Rossaro e qualche partigiano o degli americani portavano via tutto. Come riusciva a procurarsi il pane per voi e anche per i partigiani? C'era una signora, che noi chiamavamo "la megera", era andata in Francia dove aveva conosciuto un minatore, ed era tornata con tre figli, ed aveva “le mani dappertutto”. A quel tempo per prendere il pane c'erano le tessere, un rettangolo di carta con su dei bollini numerati dall'1 al 30, ogni bollino era un cornetto di pane: se volevi prendertene 30 tutto in una volta, potevi, altrimenti ne prendevi uno al giorno. Gli scarti delle tessere e quelle in avanzo venivano portate alla cartiera di Pedersano e qualche operaio riusciva a portarne fuori alcune, non c'era scritto il nome, quindi si potevano usare ancora, ma non potevi

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usarle nel tuo paese. Tutto veniva contato: ai bambini da 0 a 14 anni, alle madri incinte e agli anziani davano due panini e due chili di zucchero al mese; agli altri un panino al giorno ed un chilo di zucchero al mese. Un giorno questa megera venne a casa nostra per chiedere a mia madre di fare un lavoro di sartoria, ma mia mamma non aveva tempo, allora venne da me, io sapevo che lei vendeva le tessere della cartiera, così le chiesi due cartelle in cambio del lavoro che voleva che le facessi. Con quelle cartelle sono andata a Trento per prendere il pane, in bici con una valigia davanti ed una dietro, sono andata in via Roma, sull'angolo con via Belenzani e arrivata trovai una vecchietta che mi chiese: “Cosa desidera?” e io le risposi che volevo un mese di pane, lei me li consegnò e poi tornai il mese dopo a prendere un altro mese di pane. Il fatto di essere una donna l'ha aiutata? Veniva controllata meno rispetto ad un uomo? No, non credo che essere una donna abbia cambiato qualcosa, perché mi hanno sempre controllata. C'era un ponte dove mi fermava sempre una guardia, non capivamo niente perché parlava solo tedesco e allora cercavamo di farci capire a gesti. Quando avevamo delle borse le aprivano e controllavano il loro contenuto e se tutto era a posto ci lasciavano passare. All'altra sponda c'era un'altra guardia che faceva gli stessi controlli. Lei ha mai avuto problemi? No, sono stata molto fortunata. Anche quando portavo i fucili nascosti sulla schiena le guardie non hanno mai controllato i miei vestiti e quindi non mi hanno mai scoperta. Aveva paura quando incontrava le guardie tedesche? Sì, quando le incontravo avevo sempre un po' di paura perché non sapevo mai cosa poteva succedere, ma dovevo far finta di essere tranquilla e far vedere loro che non

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avevo paura per poter passare senza attirare l'attenzione. Un giorno però anche lei ha rischiato di essere arrestata, vero? Sì, un giorno sono partita con mia cugina e il suo fidanzato Giovanni Rossaro per andare a Rovereto a prendere dei mobili, perché volevano sposarsi. Con me c'era anche il mio fidanzato che però non sapeva nulla dei partigiani. Siamo partiti a piedi con il carro e il bue, mentre nevicava e c'erano 70 centimetri di neve. Arrivati a Rovereto ci siamo separati per seguire ognuno le proprie cose e poi ci saremmo dovuti trovare tutti a casa di mia zia. Più tardi, lungo la strada, vediamo un gruppo di persone che parlava. Ci avvicinammo e queste persone ci dissero che erano stati arrestati dei partigiani. Purtroppo avevo capito chi avevano arrestato e così ho cercato di andare velocemente a casa di mia zia. Arrivati abbiamo visto il carro in mezzo alla strada carico di mobili, il cancello spalancato e dentro casa era tutto distrutto e sporco di sangue. Quando ho esclamato che avevano portato via Giovanni, il mio ragazzo non capiva e gli dissi che più tardi gli avrei spiegato tutto. Se fossi arrivata a casa due minuti prima avrebbero preso

anche noi. Era il 21 gennaio del '45. Cosa decideste di fare? Dovevamo portare da qualche parte il bue. Il mio ragazzo conosceva un contadino che abitava poco distante e allora con la scusa della troppa neve gli chiese di tenerci il bue. Quando tornammo a riprendere il carro per portarlo al contadino, in fondo alla strada c'era la spia, uno di Pedersano, un fascista. Poi, arrivati a casa, mia madre era preoccupata per l'ora tarda alla quale eravamo tornati e così le raccontai tutto. Mio padre si vestì e andò subito dalla sorella di Giovanni per dirgli di nascondere tutto, perché il giorno dopo sarebbero sicuramente arrivati i tedeschi. Il giorno dopo arrivarono e anche se rivoltarono la casa non trovarono nulla, erano riusciti a nascondere tutto in tempo. Quando la sorella chiese alle guardie dove fosse Giovanni, le risposero che l'avevano preso loro e che il giorno dopo gli avrebbero fatto la “funzione”. Vennero anche da lei? Il pomeriggio ero in casa con mia madre e hanno bussato alla porta e da una finestrella ho visto che erano otto tedeschi armati fino ai denti. Ho aperto la porta e mi hanno chiesto se mio padre abitasse lì, e

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mi hanno chiesto se io ero Giordani Tosca e dov'ero il pomeriggio prima. Gli ho detto che ero a casa ma loro mi dissero che non era vero e che ero stata a Rovereto con il mio ragazzo, ho continuato a negare dicendo che il mio ragazzo era a Roma a fare un corso per la stazione dei treni di Trento. Mi hanno chiesto dove dormisse mia cugina Vincenzina, allora li ho portati nella sua stanza. L'hanno rivoltata senza trovare nulla. Ci dissero che il giorno dopo avrebbero fatto matrimonio, battesimo e funerale tutti assieme a Giovanni e Vincenzina, e lì abbiamo scoperto che era anche incinta. Poi una guardia rivolta a me mi disse di non muovermi più di casa perché sarei stata controllata. Potevano benissimo arrestarmi perché la spia aveva fatto il mio nome. A quel punto cosa avete fatto? Allora, quando sono andati via, ho detto a mio padre di andare dal mio datore di lavoro, che era "un gran fasciston" - non per volere, ma per obbligo, perché uno che aveva una ditta era obbligato ad avere la tessera del fascio - e di raccontargli cos'era successo e se poteva portarlo dalla Vicenzina e dal Giovanni. Il datore di lavoro cominciò ad urlare, ma poi si mise la divisa del fascio, andò al comando tedesco e chiese di vedere gli arrestati. Lo portarono da mia cugina, che era su di un tavolo con l'elettrico alle orecchie, ai piedi e nel naso e gridava alla madre, che era nella stessa stanza, dicendo: “Mamma, digli che sono incinta, digli di non farmi niente!”. Mio padre vedeva tutto da una finestrella nella porta. Giovanni, invece, era nelle carceri, “appeso come un cristo” con le sarmente accese sotto ai piedi, tanto da avere tutte le dita dei piedi bruciate. Quattro-cinque giorni dopo il carcere venne bombardato e morì il cognato di Giovanni, anche lui imprigionato. Vincenzina e la mamma rimasero sotto le macerie ma vennero tirate fuori, anche se ferite. Giovanni venne porta-

to in un campo di concentramento, ma nessuno sapeva dove. Il giorno del bombardamento mio padre corse a Rovereto perché aveva saputo che il tribunale era stato colpito e vide un gruppo di donne che venivano caricate su di un camion. Riuscì a riconoscere la nipote e la sorella, ma non poteva parlargli, erano circondate e camminavano legate una per una. Venti giorni dopo arrivò a casa un giovane di Pedersano che si chiamava Oscar ed era nella polizia trentina e faceva la guardia al campo femminile di Bolzano. Una volta arrivato ci disse di avere un messaggio di Vicenzina e ci mostrò un pezzetto di carta arrotolato. Ci raccontò che mentre era nel cortile del campo a fare sorveglianza sentì un verso, come se qualcuno lo stesse chiamando senza dire il suo nome e una volta girato qualcuno gli lanciò un rotolino. In quel rotolino c'era scritto: “Avvisa mio zio Ettore che sono qua, se possono mandarmi qualcosa da mangiare, Vicenzina”; solo queste parole. Allora mia madre gli chiese “Come si fa a mandarle da mangiare in un campo di concentramento?” e Oscar ci rispose di non preoccuparci, che poteva farle avere il cibo e di fargli avere un pacchetto che le guardie avrebbero solamente guardato cosa conteneva. La mamma prese del pane, lo tagliò a fette, lo abbrustolì e preparò un vasetto con dentro del "bro' brusà" che sarebbe farina abbrustolita nell'olio, con dello zucchero mescolato assieme, ci mise dentro anche un cucchiaino e diede tutta la scatola ad Oscar. In questo modo noi la sfamavamo da Pedersano, con queste scatole le mandavamo il pane e i vasetti di bro' brusa; con l'acqua lo scioglieva ed era un buon alimento. La sua gravidanza è andata bene, tanto che ha avuto altre tre figliole. E Giovanni? Giovanni era deportato a Dachau, ma di lui non si seppe più nulla fino al giorno in cui tornò a Pedersano con un camion di fortu-

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na. Arrivò fino a sant'Ilario, scese dal camion e si appoggiò ad un muro, stanco e smagrito; da lì passò una persona di Villa Lagarina e nonostante fosse magrissimo e vestito con la divisa a righe bianche e nere, si avvicinò e gli chiese: “Giovanni, sei tu?” e lui, quasi senza voce, rispose: “Sì, sono io, e voglio andare a Pedersano”. Allora prese il calesse e lo portò a Villa Lagarina, da lì telefonarono in canonica e il parroco corse da noi per dire a Vicenzina che stava per arrivare il suo Giovanni. Quando è arrivato in paese gli hanno fatto festa, perché era molto ben voluto. E la spia? che fine ha fatto? Quando è arrivato il Giovanni, il suo gruppo si è ritrovato ed hanno proposto di andare a prendere la spia e di fargli patire quello che lui aveva fatto patire a Giovanni, ma lui disse: “Guardate, sono arrivato a casa vivo, ringraziamo Dio. Solo Dio sa decidere cosa fare, lasciamolo stare”. Gio-

vanni è stato sempre un comunista, ma tutte le domeniche era in chiesa, con la sua famiglia, sempre alla messa prima, alle sei. Quattro anni dopo il ritorno di Giovanni, mentre quella persona (la spia) lavorava alla cartiera, è passato qualcuno e ha urtato una balla di carta che lo ha preso in pieno, schiacciandogli la faccia, dopo l'incidente è vissuto altri cinque-sei anni. Una ragazza della sua età come vedeva la guerra? Pensava che non sarebbe finita? Avevo la speranza che la guerra finisse presto, soprattutto dopo tutto quello che avevamo subito in quel periodo. Volevamo cacciare i tedeschi ed eliminare il fascio ed alla fine ci siamo riusciti. Come ha saputo della fine di Mussolini? Quando Mussolini venne catturato io mi trovavo a Cei a servizio del dottor De Petris e non sapevo niente del fatto che la guerra fosse finita, perché eravamo isolati e non avevamo la radio. La mattina del 26


Aprile a casa del dottore è arrivato l'avvocato Sandro Canestrini di Rovereto in compagnia di alcuni partigiani, che hanno comunicato al dottore che la guerra era finita e l'hanno arrestato, perché era un fascista e io ho scoperto in quel momento che la guerra era finita. Il dottore dove è stato portato? L'avvocato e gli altri partigiani lo hanno portato fino a Sant'Ilario, dove c'era un altro gruppo di partigiani che l'hanno scaricato dal furgone con cui era partito e l'hanno fatto salire su di un altro che lo ha condotto alle carceri. Siccome il dottor De Petris era l'unico pediatra a Rovereto, le donne si sono messe d'accordo ed hanno raccolto delle firme per farlo liberare e ci sono riuscite anche se era un fascista molto importante e faceva il picchiatore. Quelli che voi sapevate essere fascisti che fine hanno fatto alla fine della guerra? I fascisti sono rimasti uguali anche se

avevano paura dei partigiani. Nella nostra zona non è stato ucciso nessuno e non c'è stata nessuna vendetta, perché come diceva Giovanni Rossaro, i partigiani avevano il fucile solo per difendersi. Come si comportavano i fascisti dopo la fine della guerra? Continuavano ad essere spavaldi? Sì, continuavano ad essere spavaldi, anche la spia che ha fatto arrestare mia cugina e suo marito continuava a girare per il paese come se niente fosse, anche se era segnato da tutti. La spia è mai venuta a scusarsi con voi? No, non è mai venuto a scusarsi, ma ha fatto una brutta fine e tutta la gente ha pensato che fosse un castigo per quello che aveva fatto. Nessuno dei fascisti è mai venuto a chiedere perdono? No, non è mai venuto nessuno.


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TO CIÒ CHE NON ERA MARE, E A UN MOMENTO DI VACANZA. TUT COM O GGI VIA AL E SAR PEN A TA ERO ABITUA LTA) PASSAVA IN SECONDO SEI MA NON SEMPRE PER MIA SCE MU HE ANC TE VOL (A E SOL O A CIN LIBRI, PIS CHE IL VIAGGIO LO HANNO QUESTE INTERVISTE CON PERSONE E ANT DUR TI ENU AVV RI ONT INC PIANO. GLI ENTURA MI HANNO DATO AZIONE O SEMPLICEMENTE PER AVV VOC UNA E UIR SEG PER , ORO LAV SCELTO PER E SCOPERTA DELL'ALTRO. GGIARE. UN MOMENTO DI INCONTRO VIA DEL DA FON PRO PIÙ A IDE VA UNA NUO VITTORIA BROLIS 2A

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INDICE 10 13 21 31 43 50 53 57 65 69 77 86 89 97 111 119 126 129

133 135 137 140 146 156 158 159 163 171 172 173

VIAGGIO e LETTERATURA AMARA LAKHUS ERRI DE LUCA PAOLO RUMIZ MARCO AIME VIAGGIO e INFORMAZIONE BARBARA SERRA TONI CAPUOZZO JASON BURKE GIOVANNI PORZIO PINO CREANZA VIAGGIO e MIGRANTI FABRIZIO GATTI ANDREA SEGRE GABRIELE DEL GRANDE MARSHALE, SOULEYMANE, ADIL

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RIFUGIATI E MIGRANTI FORZATI

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177 179 182 186 188 190 193 199

NEW TOWN OGNI VITA CHE SALVI MARIA CRISTINA PROIA GLI STUDENTI DEL LICEO LA "ZONA ROSSA" RACCONTARE L'AQUILA VIAGGIO E SOLIDARIETÀ PADRE MARIO BENEDETTI NADIA LANCERIN MEDICI SENZA FRONTIERE

209

CHIARA VACCARINI EMERGENCY

217

FABRIZIO BETTINI OPERAZIONE COLOMBA

225

ANNA PERINI, PAOLO CORNO PER UN MONDO MIGLIORE

REPORTAGE. L'AQUILA E ONNA

ELISABETTA ANTOGNONI, VINCENZO BEVAR CINEMOVEL

18/21 MARZO 2012

240

L'AQUILA TORNERÀ A VOLARE?

243

RACCONTO DI VIAGGIO NELLA CITTÀ DA RICOSTRUIRE

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UN VIAGGIO IN FONDO AL CUORE L'IMMOBILE RICOSTRUZIONE STEFANIA PEZZOPANE UNA CITTÀ FANTASMA ONNA. GIUSTINO PARISSE, VINCENZO ANGELONE NUNZIATINA COLAIANNI TRE ANNI DOPO IL TERREMOTO PROTEZIONE CIVILE "L'AQUILA 2009" RICOSTRUIRE INSIEME LA "ZONA GRIGIA" FARMACISTA FONTANA LUMINOSA CHE COSA VUOL DIRE NEW TOWN?

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VIAGGIO E SPIRITUALITÀ CARLO MARIA MARTINI PAOLO DALL'OGLIO ANGELA TERZANI FOLCO TERZANI VIAGGIO E AVVENTURA RENZO DE STEFANI, PIER GIANNI BURREDDU L'ONDA DEL "FAREASSIEME"

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FABIO PASINETTI MAURIZIO “MANOLO” ZANOLLA REINHOLD MESSNER PATRIZIO ROVERSI ALESSIA PALLAORO VIAGGIO NEL TEMPO ZYGMUNT BAUMAN MASSIMO NASCIMBENE TOSCA GIORDANI



ELISABETTA ANTOGNONI, VINCENZO BEVAR RENZO DE STEFANI, PIER GIANNI BURREDDU GABRIELE DEL GRANDE

GIOVANNI PORZIO AMARA LAKHUS

PADRE MARIO BENEDETTI

MASSIMO NASCIMBENE

CARLO MARIA MARTINI ALESSIA PALLAORO

ANDREA SEGRE PAOLO DALL'OGLIO FABRIZIO BETTINI BARBARA SERRA

FOLCO TERZANI REPORTAGE AQUILA - ONNA

MARSHALE, SOULEYMANE, ADIL

PINO CREANZA

CHIARA VACCARINI

ERRI DE LUCA JASON BURKE FABIO PASINETTI

PRESENTI

ANGELA TERZANI FABRIZIO GATTI REINHOLD MESSNER MARCO AIME ZYGMUNT BAUMAN

MAURIZIO “MANOLO” ZANOLLA NADIA LANCERIN PATRIZIO ROVERSI TOSCA GIORDANI PAOLO RUMIZ

TONI CAPUOZZO ANNA PERINI, PAOLO CORNO


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