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L’intervista

“La finzione può seguire schemi precostituiti la vita molto raramente” Lorenza Pieri intervista Joyce Carol Oates

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ata nel 1938 in una famiglia di origini ungheresi nella campagna dello Stato di New York, Joyce Carol Oates ha al suo attivo, tra l’altro, più di quaranta romanzi, circa settecento racconti, una ventina di saggi, che regalano affreschi vividi e potenti dell’America contemporanea, attraverso la violenza, la verità nascosta dietro le apparenze della vita borghese, la condizione delle donne negli ambienti sociali più disparati, il desiderio di potere e sopraffazione. Il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia è Jack deve morire (Il Saggiatore), la storia di un “uomo perbene”, scrittore di thriller, in costante lotta con un passato oscuro e il mostro che si nasconde nel profondo della sua anima. Vorrei farle una domanda sull’identità degli scrittori. Di recente in Italia si è parlato molto di questo argomento, anche - come probabilmente sa - in relazione all’identità di Elena Ferrante, di cui non si conosce il vero nome. Fa uno strano effetto: così potente e così invisibile. Anche lei ha scritto alcune opere sotto pseudonimo preferendo, come ha dichiarato, “fuggire dalla vera identità”. Una volta ha anche detto di “sentirsi

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trasparente e non avere una personalità molto spiccata”. Pensa che gli scrittori con una forte personalità nella vita reale inquinino in qualche modo la loro opera? L’autore “non trasparente” rischia di sopraffare la sua arte narrativa? È una questione cruciale. Credo che l’arte debba parlare da sola. Non che le forti personalità “inquinino” l’opera, ma di sicuro la aiutano a definirsi e in alcuni casi possono anche danneggiarla. Alcuni grandissimi artisti, come Shakespeare, sono virtualmente “invisibili”, si sa pochissimo di loro ed è una cosa molto positiva. Elena Ferrante può anche rimanere anonima, ma dalla sua narrativa ricca, empatica, profondamente emotiva e “storica” si può certamente delineare un’idea della sua personalità. Una tale arte narrativa si costruisce tramite un occhio acuto per la realtà e un’empatia istintiva nei confronti dei suoi personaggi, che si suppone rimandino a “vere” persone. Di recente ho letto e molto apprezzato il suo memoir The Lost Landscape. A writer’s coming of age. Mi sono piaciuti molto l’acume, il senso dell’umorismo e le scelte stilistiche utilizzate per scrivere della sua infanzia e della sua famiglia. Spesso anche le sue opere di finzione sono ispirate a fatti della vita reale. Quale pensa sia

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la differenza principale tra scrivere fiction basata su fatti reali e nonfiction ispirata a ricordi, spesso inaffidabili? La finzione può seguire degli schemi mitici o trascendentali, ma la vita (se siamo onesti!) raramente si conforma a delle strutture. Le nostre vite sono, nel loro complesso, contorte, prive di forma, a volte persino caotiche; regolate da piccolezze e complicazioni, mentre l’arte non lo è. Tra fiction e nonfiction si annida l’ombra dell’”arte” che è appunto l’artificio, l’artificiale, che impone una struttura alla natura episodica e contraddittoria della vita. Certo alcune opere d’arte imitano la mancanza di forma e la confusione della vita, ma non i dettagli inutili che la regolano. Scrivendo un romanzo basato sulla vita di Marilyn Monroe, per esempio, ho selezionato dalla miriade di esperienze della sua vita quelle che illuminavano meglio la sua personalità e la sua storia. Se Marilyn Monroe da bambina è stata data in affidamento a diverse famiglie, ho deciso di scrivere nel dettaglio di una sola di esse, se ha avuto un certo numero di aborti spontanei basta raccontarne uno. Lei è nota per essere estremamente prolifica. Potrebbe dire a tutti gli scrittori italiani pigri come lavora e quale disciplina adotta? Pensa che un atteggiamento ossessivo o

una dipendenza dal lavoro possano aiutare? Per me scrivere non è “lavoro”. È un’attività artistico-creativa, forse come la musica, come per un musicista che ama il suo strumento (il mio è il piano). Lavorare con le parole è meraviglioso, rinvigorente, anche solo creare un paragrafo di prosa è emozionante, come coordinare un sogno. Io scrivo sempre – letteralmente o nella mia mente – e i momenti in cui sono più felice sono quelli in cui traspongo scene drammatiche in prosa, nelle quali alcuni individui vengono coinvolti umanamente ed emotivamente con altri. “Raccontare storie” è sempre stata una delle attività più intensamente soddisfacenti conosciute dagli esseri umani. Lei è anche molto attiva su Twitter. Più di 22mila tweet e 145mila follower in poco meno di due anni. L’attività dei social influenza in qualche modo la sua scrittura o la sua percezione presso lettori o critici? I social mi hanno permesso di capire la complessa realtà della vita americana contemporanea che i media tradizionali non sono in grado neanche di evocare. Su Twitter uno può seguire il femminismo, i diritti degli animali, i controlli della polizia (in relazione a #BlackLivesMatter), il veganesimo-vegetarianesimo, l’arte, la musica, la letteratura, i classici, la politica contemporanea, la fotografia… è una sorta di scrigno del tesoro che può portare via una quantità eccessiva di tempo, ma in genere è molto appagante. Sono stata molto grata di avere imparato molte cose sulla violenza della polizia e il razzismo in questo Paese, fino ad ora argomento più o meno censurato dai media. È un orrore molto più vasto di quanto si possa sospettare leggendo solo i giornali

Joyce Carol Oates

tradizionali o guardando i canali televisivi principali. Sempre seguendola su Twitter, la sua posizione sulle presidenziali americane è piuttosto chiara. In quanto scrittrice sempre interessata a descrivere la sete di potere, potrebbe raccontare ai lettori italiani come vede queste elezioni? Ad esempio, come spiega l’ascesa politica e il successo di T***p, come lei chiama Donald Trump? T***p è un bianco nazionalista che si rivolge in maniera rozza e senza vergogna ai “bianchi” americani che ce l’hanno con le persone di colore o con le minoranze etniche. Questa gente non sopporta di pagare le tasse per gli “altri” nonostante siano felici di ricevere sussidi e servizi pubblici per se stessi. Non trovo T***p divertente, a differenza di altri. È un pericoloso demagogo che prende le sue idee dalla massa, sostenendo quelle che ricevono il plauso dei più fanatici (tipo costruire un muro tra il Messico e gli Usa) e lasciando perdere quelle che suscitano risposte tiepide. In questo senso T***p è l’anti-Obama: ignorante, esibizionista, meschino, totalmente privo di empatia nei confronti di chi percepisce come più debole, prepotente. Mentre Obama è informato, premuroso, giusto, preoccupato delle minoranze etniche o religiose, e ovviamente beneducato, colto. Uno dei suoi libri che preferisco è

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Sulla boxe (del 1987 ripubblicato di recente in Italia da 66th and 2nd), un affascinate reportage (composto di tre saggi) che rivela molte idee interessanti sulla funzione sociale e la natura psicologica di questo sport crudele. Com’è nato questo suo interesse per un’attività apparentemente così distante dal suo mondo intellettuale? Il mio interesse nella boxe è nato quando ero una ragazzina e mio padre mi portava agli incontri di pugilato nella zona di Buffalo. Questo accadeva molti anni fa, quando la boxe era fondamentale per la cultura americana. Molti anni dopo ho riconsiderato questo interesse da una prospettiva femminista, anche se il mio libro Sulla boxe è molto solidale con i pugili, li tratta come protagonisti di racconti intensi e potentemente appassionanti che illustrano i drammi subliminali nelle vite di tutti noi. Lo scorso autunno ho partecipato a una presentazione con lei in una libreria di Washington. Sul retro del libro che ho acquistato in quell’occasione ho trovato un appunto nel quale la cito: “Parafrasando Henry James, nella vita le cose più importanti sono tre: empatia, empatia, empatia”. Perché l’empatia è così importante nella sua vita e nella sua scrittura. Henry James in realtà aveva detto “tre cose sono importanti nella vita: essere gentili, essere gentili, essere gentili”. Ho alterato la sua frase di poco, virandola sull’“empatia” — mi sembra la qualità necessaria per uno scrittore, l’abilità e il desiderio di mettersi nei panni dei propri personaggi, percepirli nella loro individualità, unicità, nel loro valore, sia rappresentativo che esemplare. Senza empatia non solo non c’è arte letteraria, ma non c’è neanche civiltà.

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