UP review Itw Christophe Dumarest Jan 2012

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Christophe Dumarest Molto giovane, eppure con svariate prime salite alle spalle e spedizioni in tutto il mondo, Christophe Dumarest è un alpinista innamorato della favola della montagna. Sempre sorridente e con uno spiccato senso dell’umorismo, Christophe afferma spesso che la performance non è in cima ai suoi pensieri. Ma leggendo il suo curriculum non si direbbe. Tra le tantissime ascensioni vogliamo ricordare l’apertura della via Heidi alla punta Margherita sulla parete nord della Grandes Jorasses insieme a Patrick Gabarroux e Philippe Batoux, per la quale ha ottenuto il Crystal FFME, nel 2005. E poi ancora il Melungtse in Tibet, in stile alpino, di Tour sans Nom nella catena del Trango in Pakistan (1.000 metri di scalata, gradato 7c+, fino a 6.250 m.), e la prestigiosa ripetizione di Eternal Flame con la famiglia Petit. Infine la recente (fine Ottobre) ascensione della via Gousseault-Desmaison sulla Nord delle Grandes Jorasses seguendo una variante diretta (1100 5c/A1/85° oppure M7+), che segna la sua decima salita su questa parete. Nell’autunno del 2010 ha realizzato un

sogno, concatenando, insieme a Yann Borgnet, tre vie classiche di Walter Bonatti (“l’avventuriero” per eccellenza) sul Monte Bianco: parete nord della Grandes Jorasses sperone Whymper, Grand Capucin e Pilastro Rosso del Brouillard. Da questa magnifica avventura ne è scaturito un film, La voie Bonatti, uno cronaca dettagliata di sei giorni di scalate. Un numero considerevole di esperienze che hanno notevolmente arricchito il bagaglio culturale di un ragazzo sensibile, cresciuto seguendo valori forti, la cui scuola è stata la montagna con la sua severa sincerità. In questa intervista Christophe ci racconta del suo amore per la montagna, di come vive l’alpinismo oggi, e di come ideare un’ascensione, viverla e raccontarla facciano parte della stessa avventura. Hai iniziato a fare alpinismo molto giovane. Pensi che avresti fatto la stessa scelta di vita senza l’esempio di tuo padre? No, sono stato programmato per fare della montagna. Dico spesso che sono nato in uno zaino. Mio padre lavorava molto durante la settimana e al fine settimana ci portava sempre con sé, praticando alpinismo, scialpinismo, escursionismo, e ancor prima di saper camminare avevo già visto parecchie

Intervista di Lucia Prosino Foto Marc Daviet, Pascal Tournaire, arch. Dumarest

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incastro di mano sulle fessure del Monte Bianco (foto Marc Daviet)g

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montagne. A sei anni già facevo scialpinismo, prima dei dieci avevo salito un quattromila e a dodici avevo già fatto un vero e proprio corso di alpinismo. Tutto questo mi ha molto condizionato e costituisce di certo un’eredità molto importante. A un certo punto mi sono chiesto se questo mondo mi appartenesse veramente. Non volevo vivere il sogno di qualcun altro, dei miei genitori, facendo quello che loro non erano riusciti a portare a termine. Ho analizzato tutto questo e alla fine ho trovato nella montagna una parte importante che mi faceva sentire realizzato. Di certo il mio rapporto con lei sarebbe stato diverso se non l’avessi scoperta così giovane, con un modello così importante come quello di mio padre. Nel tuo film "La voie Bonatti" si parla molto del ruolo che Walter Bonatti ha avuto per te. Ci sono però altri alpinisti che ti hanno influenzato?

Tutti questi sono stati dei modelli, personaggi che consideravo dei “mutanti” quando ero adolescente. A volte credo che appartengano a un’altra categoria. Io pratico alpinismo e può darsi che le mie salite siano viste come importanti, ma se si considera tutto quello che hanno raggiunto e il livello oltre al quale si sono spinti questi alpinisti, non posso che provare una forma di modestia. Chi è per te Walter Bonatti?

Di certo Patrick Gabarrou. L’ho conosciuto a tredici anni, in compagnia di mio padre nella falesia di Bargie?? Patrick è rimasto in contatto con mio padre e le prime grandi vie che ho fatto sono state con lui. Sul versante sud del Monte Bianco, la via che abbiamo aperto sulla parete nord della Grandes Jorasses [cfr UP n°3 2005], al Pilier du Freney, alla Petites Jorasses. Grazie a lui ho imparato ad avere un approccio professionale alla montagna, un’attenzione particolare per gli aspetti tecnici, anche grazie a Lafuma. Quando facevo parte della squadra della FFME (Federation Française de la Montagne et de l’Escalade), mi ha fatto scoprire begli itinerari, mi ha introdotto all’aspetto se vogliamo anche mediatico della montagna. Mi ha veramente teso la mano verso nuovi progetti, idee di aperture. All’interno della nostra cordata mettevo tutto l’entusiasmo di un ragazzo di vent’anni e applicavo le tecniche imparate all’interno della FFME, come ad esempio il dry tooling. Oltre a lui, Patrick Berhault mi ha fatto sognare con i suoi concatenamenti. Tutte le sue avventure avevano un aspetto molto umano, fatte da un personaggio veramente solare, con un’aura particolare durante le sue conferenze e con un rapporto speciale con i compagni di cordata come Magnin o Edlinger. Dava importanza alla performance, ma non era lo scopo principale delle sue imprese. Ho anche ammirato molto l’arrampicatore svizzero

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Herard Loretan. Una persona di spirito, molto forte ma anche modesto e di certo non solo focalizzato sulla prestazione in sé, sulla professionalizzazione commerciale. Mi ha ispirato anche Lionel Daudet, per il suo approccio “interiore” alla montagna, una sorta di filosofia quasi mistica applicata all’alpinismo, manifestata con le sue straordinarie imprese in solitaria.

Walter Bonatti simboleggia un avventuriero, un combattente, un pioniere. Un personaggio che ha avuto la visione e l’audacia di perseguire le linee che si era prefissato di salire. Una sorta di compositore, un genio, un maestro nell’esecuzione delle sue scalate. Da adolescente, mentre leggevo i suoi libri, sognavo di questo personaggio quasi mitologico, invincibile. Avevo per lui una forte ammirazione, tinta di mistero: è assai raro per un alpinista smettere la sua carriera a trentacinque anni. Lui chiedeva sempre a sé stesso e agli altri il meglio, esprimendo quasi un desiderio elitario di eccellenza. Attraverso il nostro concatenamento abbiamo voluto rendergli omaggio. Era una buona scusa per poterlo incontrare, conoscerlo meglio e capire che messaggio poteva trasmetterci. Purtroppo l’incontro non c’è mai stato, ma forse è meglio così. Il sogno è rimasto tale. Con il nostro concatenamento abbiamo voluto seguire criteri di bellezza ed etica, con un occhio all’aspetto storico, il trait d’union delle vie aperte da Bonatti. Lui di certo mi ha influenzato, nonostante l’alone di cui si circondava, di personaggio quasi inaccessibile e geloso dei suoi programmi, ma le vie che ha aperto sono stupende, e ha veramente lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’alpinismo. In "Montagne di una vita", Bonatti dice: “Ci si domanda quale senso possa ancora avere l’alpinismo oggi”. Credi che oggi esista ancora

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l’alpinismo tradizionale alla Mummery o Mallory, alla quale si è ispirato Bonatti? Osservando tutto quello che hai fatto con questo concatenamento, l’utilizzo della bicicletta, la discesa in parapendio, si potrebbe pensare che l'hai fatto per una ricerca di stili alternativi. Cosa ne pensi? Bé, posso comprendere perché Bonatti si sia espresso in questo modo. Lui ha sempre cercato di spingersi oltre ai propri limiti, andando in montagna seguendo un’etica rigorosa, dimostrando rispetto per i suoi compagni di cordata, ma credo sia triste pensare che non ci sia più nulla da inventare nell’alpinismo, che i giovani agiscano senza seguire veri modelli. Gli alpinisti di oggi sono come quelli di ieri, sono spinti dalle stesse motivazioni e provano gli stessi sentimenti, vogliono immergersi in una natura intatta, misurare le proprie capacità fisiche e mentali, provare emozioni forti all’interno di una cordata, applicare insegnamenti appresi in montagna nella vita quotidiana. Sono tutte cose che rimangono nel tempo e sono valori importanti per me. Il fulcro del nostro concatenamento non è stato l’utilizzo della bicicletta o del parapendio, ma il semplice essere in montagna e compiere un periplo. Credo sia stato bello attraversare le due valli (Ferret e Veny) in bicicletta e scendere a piedi dal Rifugio Torino. La cosa più logica sarebbe stata forse attraversare la parete e passare sotto i seracchi, ma forse influenzato anche dalle avventure di Berhault, dalle sue traversate delle Alpi senza l’utilizzo di mezzi a motore, abbiamo deciso di scendere e prendere la bicicletta. Anche la discesa in parapendio è stata forse dettata da necessità. Siamo arrivati troppo tardi all’Aiguille du Midi per scendere con la funivia e non volevamo restare lì con il rifugio chiuso, quindi abbiamo terminato il periplo in maniera oserei dire speciale scendendo con il parapendio insieme ad amici, sorvolando tutti i versanti della montagna. Anche le esitazioni viste all’inizio del film sulla slackline, i dubbi di Yann una volta raggiunta la cima della Grandes Jorasses, i nostri errori, fanno parte di tutto ciò. Il voler quasi moltiplicare la nostra attività tramite l’utilizzo di altri mezzi non è di certo stata la cosa più importante della nostra avventura, semplicemente la ciliegina sulla torta. Comunque vi hanno ammirato tutti per questa avventura.

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Grazie. Ci sono inoltre molti alpinisti che vogliono mostrare di poter fare tutto da soli. Per noi non è stato così. Con questo film volevamo anche dimostrare che non siamo eroi, né personaggi fuori dalla norma. Abbiamo lavorato a lungo su questo progetto, ma non siamo specialisti assoluti, per questo ci siamo affidati ad amici piloti di parapendio per effettuare la discesa biposto. È importante che questo film sia visto come un invito, senza volersi distanziare dagli altri alpinisti perché abbiamo fatto un’impresa unica. Forse ciò che abbiamo fatto non è alla portata di tutti, ma il nostro è stato un bel giro che ci ha regalato molta energia, e sarebbe bello pensarlo come fonte di ispirazione per altri. L’apertura della via sulla parete nord della Grandes Jorasses insieme a Patrick Gabarrou e Philippe Batoux (Heidi alla punta Margherita) una via di misto con soste difficili da attrezzare, che ricordi ti ha lasciato? In quel caso abbiamo scelto di partire appesantiti dai portaledge e dai sacchi da recupero per effettuare l’apertura. Come per il versante ovest del Dru, fatto in inverno ripetendo la via Lafaille (nominato al Cristal FFME) dove siamo rimasti otto giorni, lì siamo rimasti cinque giorni. Queste esperienze insegnano veramente a vivere la parete, ad avere un rapporto privilegiato con lei. Questo stile da Big Wall trasferito sulle Alpi non è la mia specialità, è troppo laborioso, i sacchi sono pesantissimi. La scalata in artificiale è positiva se vista in un’ottica di formazione, ma preferirei piantare dei chiodi per la costruzione della mia casa che per effettuare un’ascensione di cinque giorni. Con questo tipo di scalata si raggiungono traguardi favolosi, si provano belle sensazioni, ma non è il mio tipo di scalata preferito. Di certo sono ascensioni che lasciano ricordi indelebili, anche dal punto di vista umano, e devo dire che a volte si raggiunge un’alchimia, altre volte però ciò non avviene. Anche se sei molto giovane, hai viaggiato parecchio, Alaska, Tibet, Norvegia, Patagonia, Canada, Perù, India. Ambienti completamente diversi dal Monte Bianco. Quali sono le differenze maggiori tra questi due luoghi?

hvia Tifenn al Nant Blanc

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Bé, ovviamente se si confronta il Monte Bianco con il Karakorum è come paragonare un piccolo parco giochi a Disneyland. Sono due realtà completamente differenti. In Pakistan e in Cina ci sono forse le ultime pareti ancora da scoprire. E i sentimenti e le emozioni che si provano quando si vivono esperienze in questi ambienti sono alla stessa altezza delle montagne. Non sono un grande appassionato delle altitudini, ma quando tutto fila per il verso giusto può divenire una droga. Ci si sente quasi in un mondo parallelo, un ambiente energico, dove però anche l’impegno e i rischi sono enormi. Quando si parte per spedizioni del genere ci si distacca completamente dal mondo esterno, si sa che si è soli con il proprio compagno, senza poter far affidamento sui soccorsi, a giorni di marcia dal campo base e dalla prima città. È un impegno totale dove ci si deve assumere tutte le responsabilità. Per contro, le Alpi sono montagne di un livello più umano, dove il soccorso può intervenire relativamente facilmente. Sono anche montagne abitate, forse meno sacre. È quasi bizzarro pensare che in Tibet, ad esempio, la popolazione locale sia sbalordita quando vede stranieri che si espongono a rischi enormi per salire le montagne che loro considerano divine, forse solo per soddisfare il proprio ego. Può darsi che mi manchino la saggezza e la serenità per osservarle semplicemente da lontano. Sono in fondo montagne veramente grandiose e spettacolari. Nelle Alpi si possono compiere belle ascensioni anche solo nell’arco di tre o quattro giorni, sull’Eiger, le Jorasses, il Cervino, il Gran Pilier d’Angle. Quando si condivide la vita con un altra persona e si mette su famiglia, le assenze di uno o due mesi, necessarie per le grandi spedizioni, sono sempre più difficili da sopportare. Inoltre, in tutti questi viaggi lunghi c’è una forte pressione. Tutta l’energia e la motivazione sono indirizzate verso la conquista della cima. Molto spesso il tempo è limitato e non si possono conoscere a fondo le popolazioni e gli usi locali, i contatti con loro si riducono alle trattative commerciali, poiché si è focalizzati solo sul raggiungimento della cima. "Questa ricerca della verticalità e dell’intensità si cristallizza attraverso le manovre più complicate e rischiose che possano esistere a quelle altitudini. L’affinità tra corpo, spirito ed emozioni che si viene

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hsulle Grandes Jorasses

a creare con la sopravvivenza è come una droga dalla quale ci si distacca a fatica." Provi le stesse sensazioni quando fai alpinismo o quando scali? Credo che l’alpinismo crei una notevole forma di dipendenza, su più livelli. Quando mi sono fatto male alla caviglia e sono rimasto fermo per alcuni mesi, mi sono posto alcune domande sul messaggio che questo incidente mi voleva trasmettere. Ci si rende conto di quali siano le cose che mancano veramente. Tra queste spicca senz’altro il rapporto con la natura e la forte energia che essa trasmette. Oggi ho forse una sensibilità diversa, grazie allo yoga che pratico, e sento maggiormente il magnetismo della roccia, l’energia della montagna, che non è indifferente. Inoltre, il solo fatto di essere circondati dalla bellezza, dall’estetismo delle montagne, dei loro profili, ci fa sentire bene. La citazione che apre il mio sito è del filosofo Plotino, e recita “Ogni anima è e diviene ciò che osserva”. Se si è circondati dalla miseria e dalla cattiveria è difficile diventare una bella persona, con uno spirito forte, perché l’ambiente quasi non ce lo permette. In montagna, invece, guardando i raggi di sole che trafiggono un magnifico mare di nuvole, è difficile provare sensazioni negative. L’aspetto forse più nascosto di questa dipendenza è una forma di gratitudine verso la famiglia, gli amici, chi ci accompagna nelle nostre avventure. Di certo gli alpinisti hanno bisogno di tutto questo. Quando si ritorna da una spedizione di successo o da una via che abbiamo aperto, lo sguardo degli altri ci trasmette un’immagine di forza e potenza, che non è poi così importante, tuttavia la sua mancanza si fa sentire. La dipendenza più fisica è data dalle grosse quantità di endorfina e adrenalina rilasciate quando si compiono sforzi, che creano di certo dipendenze. Essere a quattrocento metri dal suolo su un chiodo non buono non è come fare i lavori di casa o lavare la macchina. Si è visto come alcuni alpinisti sentano il bisogno di andare molto veloce in macchina per poter ricreare le sensazioni dell’alta montagna. Questo rispecchia la componente di "droga" dell’alpinismo. Per provocazione si dice che la forma evoluta dell’alpinismo è l’escursionismo, ed è una perla di saggezza. Quando si gioisce anche solo grazie alla natura si diviene più calmi e sereni, ci si ascolta di più e si osserva con maggior attenzione, anche senza correre

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grossi rischi. Ci sono alcuni buddisti che osservano gli alpinisti quasi con commiserazione, poiché li vedono lanciati verso una conquista infinita, che spesso termina con la morte. Nella nostra società conta molto quello che si ha e in questa corsa si vuole possedere sempre di più, quindi gli alpinisti che cercano di realizzare sempre più performance sono forse condizionati da questa tendenza. Nell’ arrampicata ci sono persone che non sono mai soddisfatte e non si ritengono abbastanza forti, credono di non aver mai arrampicato abbastanza e vivono in tensione costante. Non credo che questa ricerca infinita sia la strada giusta per la felicità. Per far questo bisogna forse diminuire il proprio ego, pensare agli altri, trovare un giusto equilibrio. Per questo motivo fare dell’alpinismo è senz’altro interessante, ma non è l’unico modello di vita. Insieme ad Aymeric Clouet, tuo compagno nella cordata ACDC, hai aperto vie ed effettuato ascensioni spettacolari. Avete anche creato il progetto Shining Wall. Di cosa si tratta? Ho conosciuto Aymeric all’interno della squadra FFME e siamo subito andati d’accordo. Ammiravo molto il suo modo di arrampicare, la sua motivazione, il suo impegno. La nostra è sempre stata una cordata piuttosto efficace, comunicavamo molto bene, siamo riusciti a mettere in piedi progetti interessanti, e a ottenere finanziamenti per realizzarli. Una tra le nostre prime ascensioni è stata in Perù nel 2003, non all’interno della squadra FFME. All’epoca avevo dei lievi problemi polmonari e dovetti rientrare prima, e sono riuscito a partecipare solo a uno dei tre progetti. Aymeric ha però continuato e per la salita al Chacraraju (6001 m) e al Jirishanca (6126 m), è stato nominato al Piolet d’Or. In quel momento la motivazione era molto forte e volevamo dar vita a un progetto originale in montagna. Sul versante ovest del Gasherbrum IV (7.920 m.) la parete ha un dislivello di 2500 metri e la roccia è un marmo rosa che diventa molto luminosa al tramonto e viene chiamata, appunto, Shining Wall. Ci siamo detti che sarebbe stato bello andare lassù, e il nome di questa parete ha dato nome al progetto, iniziato nel 2006. Ci siamo dati due anni per preparare la spedizione alla Shining Wall e all’interno di questo progetto abbiamo inserito altre avventure,

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completamente separate dal Gasherbrum, ma che si relazionavano in qualche modo a questa montagna e fornivano una preparazione più che adeguata per scalarla. Cinque in tutto: un concatenamento sul Massiccio del Bianco – chiamato Enchainement Royal, che comprendeva Nant Blanc, Grandes Jorasses e Monte Bianco –, traversata lungo l’asse nord-sud delle pareti nord nel Méridien des Écrins, la parete est del MoosÈs Tooth nel massiccio del Denali in Alaska, che non eravamo riusciti a fare con la squadra FFME, e il Melungtse in Tibet. È stato un progetto molto intenso che ci ha assorbiti completamente per due anni. Avete anche creato un DVD inerente a questi progetti. Si, il concatenamento sul Bianco si è svolto nonostante il tempo avverso, che ci ha accompagnati anche in Alaska, dove non siamo riusciti a portare a termine tutti i nostri progetti. Il dvd Extra Dry parla di queste avventure: è un film piuttosto pedagogico, che fa capire che noi non siamo assolutamente eroi. Dopo gli Écrins siamo stati sul Melungtse, ma non siamo riusciti a salire in vetta. Il bilancio di questo progetto è stato positivo solo in parte, poiché accompagnato da alcuni fallimenti: non sempre le spedizioni vanno a buon fine. Dopo due anni ci siamo quindi chiesti se eravamo veramente pronti ad affrontare il versante ovest del Gasherbrum IV, una tra le ascensioni himalayane più estreme. Abbiamo deciso di prenderci altro tempo per prepararci, quindi il progetto rimane aperto. Nel frattempo è nato mio figlio, e alcune cose sono cambiate. Quella parete non fa più parte della mia sfera d’azione immediata, mi incute timore, richiede un impegno totale e presenta notevoli rischi. Non potrei affrontare una spedizione himalayana in stile alpino così su due piedi in questo momento. Aymeric è però ancora interessato e vorrebbe organizzare una spedizione, almeno di perlustrazione; forse ci andremo assieme, ma nulla è stato ancora deciso. Ci parli del progetto Makay in Madagascar? L’idea è partita da Evrard Wendenbaum, che ha realizzato il nostro film sugli Écrins, un esploratore

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Continuerai a fare spedizioni? Nelle Alpi o negli Himalaya? Certo, però forse sarò più cauto nell’annunciare i miei progetti. Può darsi che l’annuncio del progetto Shining Wall sia stato, infatti, un errore. Ci sono sempre molte aspettative da parte dei media, degli sponsor e del pubblico quando si annuncia un progetto, la pressione che già esiste aumenta notevolmente. Sono avventure molto aleatorie, quindi non dire niente è forse la cosa migliore, anche se a volte la necessità di trovare dei finanziamenti obbliga a fare questa scelta. Si devono inoltre scegliere

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hGrandes Jorasses. (foto Pascal Tournaire)

progetti originali e quasi accattivanti, e si viene a creare una sorta di circolo vizioso, caratteristica dell’himalaismo professionistico che è piuttosto malsano. A parte alcune eccezioni, la maggior parte delle spedizioni annunciate assomigliano a contratti di lavoro. Ai tempi del progetto Shining Wall io e Aymeric vivevamo in stretto rapporto, cercando di far quadrare le mille variabili di una spedizione di questa portata. Quando abbiamo deciso di rallentare con il progetto ci siamo un po’ distanziati, dedicandoci ad altre avventure, ma questo non ha nulla a che vedere con la nostra amicizia, che rimane molto forte. Aymeric è ancora molto motivato e vorrebbe compiere ascensioni (sulle grandi montagne) in stile alpino, fare spedizioni, e lo sono anch’io, ma le vorrei fare con minor frequenza. Personalmente non mi considero di certo l’alpinista migliore, alla stregua di altri alpinisti che hanno invece raggiunto un livello incredibile. Ho semplicemente lavorato per poter completare i progetti che mi ero prefissato. Credo di poter crescere e migliorare anche nelle Alpi, seguendo criteri estetici, etici, storici: belle avventure che danno vita a storie importanti da raccontare. Forse a livello internazionale le Alpi non sono così rinomate come gli ottomila himalayani, ma offrono ancora occasioni per sognare. I vari record di velocità nelle ascensioni fanno credere che sia importante scalare le pareti secondo questi parametri, altrimenti non si viene considerati. Per un alpinista forte, misurarsi con queste sfide è interessante, non bisogna però dimenticare il contesto e mantenere una certa modestia nei confronti di montagne imponenti come l’Eiger o il Cervino.

hhAlaska con Aymeric Clouet

Photos : © Guillaume Vallot

e fotografo, appassionato della regione Makay del Madagascar, poco consciuta ma molto particolare in quanto ricca di specie animali endemiche, che esistono solo su quell’isola. La popolazione malgascia ha bruciato gran parte dei terreni per lasciar spazio al pascolo di zebù, una tra le fonti economiche principali del Madagascar, mettendo a rischio gli ecosistemi di queste specie di flora e fauna. Con il nostro progetto abbiamo voluto mettere in evidenza la necessità di creare una regione protetta. Evrard ha riunito i migliori specialisti al mondo per catalogare tutte queste specie, scoprirne di nuove, e percorrere le zone del Makay. Vista dal cielo, questa zona di terre bruciate assomiglia ad un cervello, ma tra i canyon si nasconde quello che viene definito l’ultimo Eden, una ricchezza naturale inestimabile. Oltre a questi ricercatori, c’era anche un’equipe televisiva, in loco per produrre un documentario sulla regione. In qualità di consigliere tecnico Lafuma, tra i finanziatori della spedizione, mi avevano chiesto di fare da guida alle squadre scientifiche. Una bella esperienza che è durata un mese.

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