Periodico di informazione dell’Associazione Cuore Sano – Anno X VII - n.2 aprile-giugno 2012
COME FUNZIONA IL PRONTO SOCCORSO DEL SANTO SPIRITO
ALL’INTERNO: CHE COS’È LA SINCOPE E QUANDO ESIGE IL MEDICO IL CONSUMO DI STATINE E IL RISCHIO DIABETE LA TERAPIA PSICOLOGICA IN DEGENZA OSPEDALIERA MAGGIORE NELLE DONNE IL DANNO VASCOLARE
LA MARATONA FA BENE O MALE AL CUORE?
PILLOLE DI SALUTE… QUANTE CALORIE IN UNA PIZZA? – Sembra facile dire: pizza e birra, e la dieta è a posto. Quale pizza? E con quali condimenti? Allora diciamo che un etto di pizza con pomodoro e mozzarella vale 271 calorie. Ma una tradizionale “margherita” pesa almeno il doppio, e quindi fornisce non meno ma forse più di 500 calorie. Se poi è gigante o, peggio, è una “capricciosa” si possono raggiungere le 800-1.000 calorie, senza contare la famosa birra. Quindi meglio la più semplice margherita, o ancora meglio una pizza con verdure. A condizione per giunta che nell’altro pasto della giornata non figurino pasta, legumi o patate.
AUMENTANO L’IPERTESI RESISTENTI – Gli ipertesi resistenti al trattamento con i farmaci sono aumentati in Italia del 62% in venti anni. Non è fenomeno solo di questo Paese: in tutti i paesi sviluppati si registra, in misura più o meno elevata, lo stesso fenomeno, con tutti i rischi che ne possono derivare, a partire dall’ictus. Ecco allora che la Società europea per l’ipertensione e l’omologo organismo degli Stati Uniti hanno promosso una campagna mondiale di sensibilizzazione (“Più controllo sulla pressione”) con apposito sito consultabile su internet: poweroverpressure.com. Ci sono casi di ipertesi resistenti persino al trattamento con quattro pillole al dì. La campagna mira a trovare un nuovo approccio per fronteggiare questa diffi-
cile forma di ipertensione che colpisce, in Italia, dall’8 al 10% degli ipertesi.
UN CEROTTO PER L’ECG – Negli Stati Uniti (Università dell’Illinois) è stato presentato uno straordinario cerotto: è un elettrocardiogramma in miniatura e misura anche il battito cardiaco e la pressione. All’apparenza sembra il microchip di una scheda per cellulari: in realtà è formato da sottili membrane di silicone che contengono alcuni sensori studiati per raccogliere informazioni sul cuore e trasmetterli ad un computer. Dalle fase di sperimentazione si è già passati alla produzione su scala ridotta. Dall’anno prossimo sarà in vendita, negli Usa, per pochi dollari. Per averlo in Italia dovrà passare attraverso la valutazione degli organi della Sanità.
…E SALUTE IN PILLOLE LE SPIE DEL RISCHIO-ICTUS – Ancora a proposito di ictus. Un gruppo di ricerca delle Università di Chieti e di Ancona ha annunciato al congresso della Società italiana per lo studio dell’aterosclerosi di avere identificato cinque difetti genetici la cui contemporanea presenza predice nell’82,4% dei casi la possibilità di avere un ictus, a prescindere dai classici, e comunque reali, fattori di rischio come ipertensione, diabete, fumo, dislipidemia. La ricerca è pubblicata sulla importante rivista Stroke. In base a questa scoperta sarà possibile sapere, con un test genetico, se si è predisposti ad un ictus. I RAPIDI DANNI DEL MANGIAR GRASSO – Sono stati misurati su due distinti gruppi
di topi, alimentati per appena sei mesi rispettivamente con una dieta ricca di grassi ed una normale. Ebbene, in così breve tempo sono avvenute diverse modifiche strutturali e meccaniche nelle arterie (sia la carotidea, più grossa, e sia la più piccola toracico-dorsale) e una maggiore rigidità nei piccoli vasi. Nulla di nuovo, se non – ecco le novità della ricerca effettuata all’Università della Virginia – da un lato la rapidità delle conseguenze, e dall’altro lato l’infiammazione delle cellule adipose che circondano le arterie coronariche, che può anticipare l’aterosclerosi.
CIOCCOLATO OK MA NERO E ALL’80% – Sarà un suo chiodo fisso, ma chi redige questa rubrica insisterà, quasi ad ogni numero,
sul ruolo non indifferente di protezione del cuore che ha il cacao. Ma non quello spacciato negli intrugli da spalmare sul pane, e nemmeno quello del cioccolato al latte. No, il cardioprotettore è il cioccolato nero che – si guardi bene la carta che avvolge la tavoletta – abbia una quantità di cacao che va dal 70% in su, che possibilmente ne contenga l’85%. Bene, questo stimola la vasodilatazione e riduce, pur moderatamente, la pressione e l’aggregazione piestrinica nel sangue. Inoltre, un moderato consumo di flavanoli (il cacao ne è ricco) sembra prevenire problemi alle coronarie e l’infarto del miocardio. Ma attenzione alle quantità: solo qualche quadratino, a salvaguardia delle calorie della giornata.
Periodico di informazione dell’Associazione Cuore Sano • Anno XVII - n.2 - aprile/giugno 2012 • Reg. Trib. di Roma n.00323/95 • Direttore responsabile Giorgio Frasca Polara • Comitato scientifico Roberto Ricci (presidente), Alessandro Carunchio, Antonio Cautilli, Alessandro Danesi, Gabriella Greco, Francesca Lumia, Alessandro Totteri, Marco Renzi • Redazione Lungotevere in Sassia n.3 • 00193 Roma Ospedale Santo Spirito • Recapiti: Cardiologia-reparto terapia intensiva (Utic) tel. 06.68352579; Cardiologia-reparto Subintensiva (Usic) tel. 06.68352213; Segreterie Cardiologia, Associazione Cuore Sano e redazione Cuore Amico tel. 06.68352323. • E-mail: cuoresano@yahoo.com • www.cuore-sano.it • Stampa Tipolitografia Visconti - Terni
Che cosa è questa improvvisa e transitoria perdita di conoscenza
La sincope è una, ma si fa in tre (e quella cardiaca esige il medico) di Andrea Porzio*
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a sincope è una improvvisa e transitoria perdita di coscienza che di solito determina caduta a terra. Il recupero in genere è spontaneo e rapido, al massimo entro pochi minuti. Tutte le sensazioni che di solito precedono la sincope (vertigini, offuscamento della vista, senso di sbandamento), ma alle quali non segue la perdita di coscienza, si definiscono presincope. La sincope è un sintomo molto frequente che può colpire soggetti giovani e anziani, sani e malati. Il meccanismo fisiopatologico è una ipoperfusione cerebrale globale transitoria. In base al meccanismo che determina la perdita di coscienza possiamo classificare almeno tre tipi di sincope: neuromediata, ortostatica e cardiaca (aritmica e non aritmica). La sincope neuromediata comprende la sincope vasovagale, o svenimento comune (scatenata da emozioni, shock, vista del sangue, ecc), la sincope senocarotidea (scatenata della stimolazione del seno carotideo che è un recettore che si trova nel collo e che regola la pressione arteriosa), e la sincope situazionale (scatenata da specifiche situazioni come la tosse, la minzione, la defecazione, la deglutizione, ecc). Le sincopi neuromediate non sono associate a un aumentato rischio di morte, né allo sviluppo di altre malattie. La terapia si basa essenzialmente sulla rassicurazione del paziente e dei familiari sulla natura benigna della patologia di cui soffrono, e nella messa in opera di alcune misure comportamentali di carattere generale: evitare le situazioni identificate come scatenanti se presenti, evitare i pasti abbondanti e l’eccessivo consumo di alcolici o di bevande ghiacciate; adottare alcuni accorgimenti e misure preventive: bere molti liquidi, aumentare l’apporto di
sale con la dieta, bere caffè o te, fare attività fisica. La sincope ortostatica è dovuta all’incapacità del sistema nervoso autonomo di mantenere adeguati valori di pressione arteriosa quando si passa dalla posizione distesa o seduta a quella eretta. Questo tipo di sincope è frequente soprattutto nei soggetti non più giovani, con varie patologie (diabete, morbo di Parkinson, ipovolemia come nel caso di emorragia o diarrea, ecc.) e in trattamento con molti farmaci. Le sincopi ortostatiche non si associano a un aumentato rischio di morte, ma possono causare traumi e scadimento della qualità di vita. La terapia consiste nel trattamento delle eventuali malattie associate e nell’adozione di semplici misure comportamentali. La sincope cardiaca si traduce in una perdita di coscienza che si verifica quando il cuore, a causa di una patologia aritmica o strutturale, risulta incapace di pompare la necessaria quantità di sangue al cervello. Le sincopi aritmiche sono dovute a una patologica riduzione (bradicardia) o aumento (tachicardia) dei battiti cardiaci, mentre quelle cardiache strutturali sono dovute a malattie del muscolo cardiaco o delle valvole. Le sincopi cardiache, se non adeguatamente riconosciute e curate, si associano a una prognosi severa. Quando un paziente cardiopatico ha un episodio sincopale deve perciò avvertire subito il proprio medico. Questo può contribuire a salvargli la vita. La terapia delle sincopi cardiache ha fatto enormi passi avanti e prevede, a seconda del tipo di sincope (aritmica o strutturale), l’impiego di farmaci, l’impianto di un pacemaker o di un defibrillatore, l’intervento chirurgico di sostituzione valvolare, ecce-
tera. La diagnosi della causa di sincope si basa su una accurata valutazione clinica iniziale e, se questa non è sufficiente, sull’esecuzione di una serie di indagini strumentali mirate. Molto importante è raccogliere da eventuali testimoni informazioni dettagliate inerenti le modalità con le quali si è verificata la sincope e notizie accurate riguardanti la storia clinica del paziente. Gli esami utilizzati nello studio della sincope comprendono l’elettro-cardiogramma, la valutazione della pressione arteriosa in clino e in ortostatismo, il massaggio del seno carotideo, il tilt test, l’ecocardiogramma, il monitoraggio elettrocardiografico prolungato (holter, loop recorder). Sarà il medico curante, se necessario con l’aiuto del cardiologo, ad indirizzare correttamente il paziente, perciò va subito informato in caso di episodio sincopale. E’ bene invece recarsi al Pronto soccorso in caso di: trauma importante, comparsa di deficit motori o del linguaggio, cardiopatia nota, dolore toracico associato, lento risveglio, palpitazioni o dispnea. * Dirigente medico Uoc Cardiologia S. Spirito
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4 Sul web sei schede: come e perché accedere ai servizi d’urgenza, che cosa fare in attesa di soccorso, quando chiamare l’emergenza
Promemoria per il buon uso del Pronto Soccorso e del 118 di Flavio Caruso*
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ssere pronto aiuta il soccorso”: è lo slogan con cui è partita la Campagna nazionale d’informazione sul corretto uso dei servizi sanitari di emergenza. L’info è promosso dal ministero della Sanità d’intesa con l’Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas), e in collaborazione con regioni, province autonome, ordini e associazioni professionali di settore, società scientifiche. Perché la campagna? Per le due facce della stessa medaglia: da un lato per dare ai cittadini informazioni chiare e precise su quando chiamare il 118 e quando è davvero necessario rivolgersi al Pronto soccorso; e dall’altro lato per (tentare di) organizzare in modo più razionale gli accessi ai Pronto soccorso, sempre più intasati, con ormai notissimi, gravi disagi per i pazienti. Si stima che l’anno scorso siano stati circa 23 milioni gli accessi ai Pronto soccorso: ma il 15-20% degli arrivi era costituito da casi risolvibili dai medici di famiglia, dai servizi sanitari di base. Da qui la decisione di predisporre un progetto, a disposizione delle regioni, per realizzare interventi nelle scuole di educazione alla salute e per l’uso corretto dei servizi di emergenza. E da qui la creazione di un sito web appositamente dedicato alla campagna: http://emergenzaurgenza.agenas.it. Sul sito si possono consultare sei schede in italiano e in altre otto lingue. In linguaggio chiaro si spiega come e perché accedere ai servizi di emergenza-
urgenza; che cosa fare in attesa dei soccorsi; quando, in assenza del medico di famiglia, è il caso di rivolgersi ai servizi di continuità assistenziale (la ex guardia medica); che cosa sono i codici-colore in base ai quali si stabilisce la priorità nell’accesso alle cure in Pronto soccorso: il codice rosso ha la precedenza su tutto il resto. Ma gl’interrogativi più importanti cui il sito risponde con chiarezza riguardano il rapporto tra il cittadino, il 118 e il Pronto soccorso. Quando chiamare tassativamente il 118? In caso di dolore al petto (può essere il primo segnale di un attacco di cuore); di difficoltà di respirare o di segni di soffocamento; di prolungata perdita di conoscenza; di trauma e di ferite con evidenti emorragie; di avvelenamento, ustione, annegamento; di difficoltà di parlare o di usare uno o entrambi gli arti dello stesso lato (ictus). Altrettanto tassativo il divieto di chiamare il 118 in situazioni manifestamente non urgenti come richiedere consulenze specialistiche o avere informazioni su prenotazioni di visite o farmacie di turno. No, in questi casi è proibito chiamare il 118 per non intasare le linee, per non impegnare gli operatori in inutili perdite di tempo, ecc. Discorso analogo per il Pronto soccorso. Lì ci si deve andare per problemi acuti e urgenti che non possono essere risolti dal medico di base, dal pediatra, o dai medici della continuità assistenziale. Quindi, anche qui: vietato andarci per fare i furbi (evitando liste di attesa) per visite specialistiche non urgenti, per ottenere ricette o certificati, per usufruire di prestazioni che potrebbero essere erogate in ambulatorio. Perché dev’essere chiaro che ogni visita inutile in Pronto soccorso è un ostacolo alla cura di chi invece abbia bisogno di cure davvero urgenti.
40mila utenti-anno nel presidio pubblico nel centro di Roma
Come funziona il centro di emergenza del Santo Spirito di Flavio Caruso*
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l Pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito è attualmente l’unico riferimento pubblico dell’emergenza nel centro di Roma; ha come bacino di utenza, quindi, non solo i residenti dei quartieri romani limitrofi, ma anche tutte le persone che quotidianamente si recano al centro per studio, lavoro, oltre che la moltitudine di turisti che affluiscono al Vaticano, cui fornisce collaborazione anche nell’assistenza sanitaria durante i grandi eventi che periodicamente si svolgono in piazza S. Pietro. Il risultato è un afflusso di 40.000 utenti all’anno, equivalenti a 105/110 prestazioni al giorno. In un ospedale che, per struttura architettonica e per vincoli dei Beni Culturali, ha evidenti problemi di spazio, questo afflusso comporta un carico di lavoro non indifferente che è stato necessario fronteggiare con il miglior utilizzo possibile delle risorse umane e con procedure di intervento che rendano il lavoro più efficiente possibile. Sono presenti e dedicati esclusivamente al Pronto soccorso, 24 ore su 24, un internista, un chirurgo, un ortopedico e un ginecologo coadiuvati da un pool di infermieri e ausiliari. Questi operatori si avvalgono, sempre nell’arco delle 24 ore, dei servizi di laboratorio, radiologia, emotrasfusione e della collaborazione di un pool di specialisti che possono essere chiamati in qualsiasi momento a fornire il loro supporto. Durante le ore diurne gli utenti possono usufruire anche di una serie di servizi specialistici ambulatoriali e di Day Hospital. La presenza di questi operatori da sola non è però in grado di fronteggiare le richieste. La risposta che viene fornita deve essere modulata in base a varie possibilità: dal ricovero in urgenza all’invito a
usufruire di servizi alternativi al ricovero. L’alternativa è resa ancora più impellente dal fatto che nel corso degli anni la disponibilità di posti letto si è via via ridotta sia per motivi di politica sanitaria sia per le necessarie ristrutturazioni dell’ospedale che, nell’intento di fornire servizi più confortevoli ai pazienti, ha sostituito con stanze a due o tre letti le storiche corsie in cui si affollava un gran numero di pazienti Si è quindi resa necessaria una organizzazione del lavoro attraverso percorsi, condivisi da tutti gli operatori coinvolti, che siano in grado di fornire all’utenza la miglior risposta possibile in termini di efficacia/efficienza: operazione tanto più necessaria quando – ad esempio nelle emergenze cardiovascolari – il fattore tempo assume importanza vitale. Collaborando con le autorità sanitarie regionali preposte all’organizzazione dei servizi di emergenza, e adattando i protocolli alla specificità locale in termini di professionalità e servizi presenti, il Pronto soccorso e la Cardiologia del Santo Spirito hanno elaborato un protocollo di intervento che consente il trattamento più rapido possibile dell’infarto del miocardio. Analogo protocollo è in vigore per emergenze neurovascolari e traumatologiche, anche con il ricorso, in questi casi, a procedure di
trasferimento assistito verso i centri specialistici di riferimento. Oltre ad affrontare le situazioni di urgenza il Pronto soccorso di una metropoli deve anche fronteggiare e supplire alle carenze di altre strutture sanitarie (assistenza sociale, assistenza ad anziani, disagi sociali). Tanto più in un quartiere a popolazione prevalentemente anziana, spesso con problemi di solitudine e abbandono; e dove, per la sua centralità nel cuore di Roma, affluiscono per giunta homeless ed emarginati italiani e stranieri. In sintesi, cercando di rispondere in maniera adeguata alle emergenze e assicurando per i casi non urgenti tempi di attesa largamente entro gli standard (come dimostra il dato, inferiore alla media regionale, di utenti che lasciano il Pronto soccorso prima della visita), il servizio sia di un buon livello, con l’impegno di tutti gli operatori di avvicinarlo sempre di più alle attese dall’utenza. * Dirigente medico Pronto Soccorso S. Spirito
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6 La sinergia Villa Betania-Santo Spirito ha protetto un paziente di 77 anni
“La palestra mi aiuta ad essere ragazzo”
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arcello Notarantonio è la dimostrazione che un paziente cardiopatico può essere curato (angina, duplice stent) e poi sistematicamente seguito e assistito in varie circostanze e in varie forme presso strutture pubbliche gestite con responsabilità ed efficienza. Marcello ha 77 anni, è sposato, ha due figli, era viaggiatore di commercio. Un bel portamento, una salute apparentemente di ferro. Nulla insomma che facesse prevedere qualche guaio. Ma..
«Un giorno, nel 2009, decido che è tempo di una visita di controllo. Vado a Villa Betania (importante centro-satellite del S. Spirito, ndr). Faccio una prova da sforzo e mentre pedalo ecco un dolorino al centro del petto. Primo allarme: mi spediscono immediatamente al Santo Spirito. Ho due arterie bloccate, e gli emodinamisti mi applicano due stent. Poi la dimissione con scorta di farmaci e molte raccomandazioni sullo stile di vita. I medici di Villa Beta-
nia mi terranno poi sotto controllo per un anno.» Poi è andato tutto bene? «Sì, tutto bene sinora. Anche perché dopo Villa Betania (visite programmate e,
Marcello Notarantonio in pausa durante una passeggiata nei boschi
quando necessario, regolazione della terapia di salvaguardia farmacologica), sono passato sotto la – come dire? – sorveglianza di una cardiologa del S. Spirito, la dottoressa Greco, che mi segue tuttora. Ed è stata lei, naturalmente, a suggerirmi di frequentare regolarmente i corsi in palestra. Li faccio tuttora, con evidenti benefici.» Puoi descrivermi questi benefici? In che cosa consistono? «Anzitutto mi sento bene, mi accorgo che non sono più nella fase di ripresa ma già in quella della stabilizzazione. Sono più elastico, il fisico ne ha guadagnato: insomma la palestra mi aiuta ad essere più sciolto, e alla mia età anche questo conta molto. Ma, in parallelo, c’è un altro beneficio importante: lo stare in palestra insieme ad altri pazienti cardiopatici mi sprona a far meglio e mi libera dalle angosce. La vuoi detta tutta? Mi aiuta a tornare, anzi ad essere ragazzo.»
Qualche prudenza solo per gli scompensati
Acqua, berne più di un litro e non solo d’estate
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ai sete? Bevi, ma soprattutto acqua, possibilmente acqua del rubinetto, inutile ricorrere alle minerali se non prescritte dal medico per specifiche patologie. Non hai sete? A maggior ragione bevi lo stesso: la maggior parte delle persone tende a sottovalutare il gesto del bere, ritenendolo naturale e obbligato dall’esigenza. Ebbene, non è completamente vero. Se entriamo – come avviene oggi – nella stagione estiva, la soglia della sete è più alta, con rischi di disidratazione. Ma deve essere norma, e non solo d’estate, il bere un litro e mezzo-due litri d’acqua al giorno. Non soggiacere cioè allo stimolo della sete, ma bere anche indipendentemente dalla sete, per favorire il ricambio, per impedire bruschi cali di pressione, stipsi. Questa che dovrebbe essere una norma costante in tutte le stagioni e in ogni occasione (naturalmente anche di più se si va in montagna o al mare, se
si cammina a passo spedito, se si è impegnati in uno sforzo moderato ma prolungato) non vale, o vale con prudenza, per chi soggiace a scompenso cardiaco: una eccessiva ingestione d’acqua potrebbe premere sul sistema cardiaco. Lo scompensato si consulti con il medico di base o, ancor meglio, con il suo cardiologo e ne segua i consigli sulla quantità del consumo. Acqua al primo posto, dunque. Ma ci sono altri mezzi di idratazione. Un gruppo di nutrizionisti ha formulato una sorta di “piramide” dell’idratazione suggerita per la popolazione adulta sana. In cima l’acqua: almeno un litro come fabbisogno minimo giornaliero; ma poi si considera anche l’assunzione di tè (non zuccherato), di infusi, di orzo, di latte, di centrifugati di frutta e vegetali, di caffè (non zuccherato), in coda le altre bibite non alcoliche e light – tranne una, la più famosa e chiacchierata, la cui formula non è stata mai resa nota.
Terapie complesse per quanti vivono con disagio il ricovero
Per i degenti in ospedale spesso non basta il medico: va curata anche la psiche di Giulio Scoppola*
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embrerebbe un paradosso. Curare la psiche, le emozioni ed i pensieri di persone malate di cuore non solo per gli esiti della malattia cardiologica ma anche per i possibili effetti negativi della degenza ospedaliera sulla salute. Diversi articoli, recentemente apparsi anche sulla grande stampa, sottolineano – qui sta il paradosso – i possibili effetti negativi delle terapie ospedaliere su un piano strettamente medico e chirurgico. Tra le conseguenze: reazioni farmacologiche avverse (+ 5,5%), ulcere da decubito (+ 3%), infezioni ospedaliere resistenti (+ 17%). Questo è riferito ad una degenza di 5 giorni. Con un aumento progressivo delle percentuali al crescere dei giorni. Ma la degenza ospedaliera, ed è questa l’esperienza del nostro Servizio di Psicologia Clinica-Ospedaliera del S.Spirito, deve essere anch’essa letta come se fosse una possibile “condizione patologica aggiuntiva”, che può incidere anche e soprattutto sulla sfera psicologica dei malati. E, come ben sanno anche i medici e gli infermieri, un ricoverato non collaborativo, depresso, a disagio o fortemente contrariato è come se producesse delle tossine che nel tempo determinano una condizione di disturbo che si va ad aggiungere alla patologia specifica. Alcuni fattori sono intrinseci alla condizione di ricovero ed alle regole e prassi ospedaliere, altri dipendono dalla buona o cattiva organizzazione e gestione relazionale del malato (e nella nostra esperienza incidono sulla salute complessiva per un buon 20%-30%). Ecco allora che parlare di terapia psicologica in ospedale, in regime di degenza, ci costringe ad allargare il campo di intervento, comprendendo quadri sintomatologici
multifattoriali. Ai tradizionali aspetti depressivo-ansiosi, legati nel nostro caso alla “condizione di cardiopatico”, si sommano gli aspetti depressivi-passivi ed aggressivi-reattivi relativi alla necessità di un adeguamento alle regole ospedaliere, alla separazione dal ritmo della propria esistenza, alla mancanza di informazione, alla modificazione del vissuto del tempo. Comprendendo nella osservazione anche la capacità di resilienza dell’individuo stesso, cioè il grado individuale di ripristino della “forma” psicologica originaria una volta esposti a differenti stress. Quale terapia per affrontare questa condizione, che apparirebbe riduttivo definire iatrogena? La psicologia clinica da tempo ci mostra la strada fondamentale capace di attraversare le molte ricette organizzative che in questi anni si sono alternate e succedute in modo spesso magico od opportunistico. Essa consiste nella preziosa e specifica capacità di relazione. Il fatto che tutti gli individui utilizzino la relazione inconsapevolmente non vuol dire che la sappiano utilizzare come strumento. Ma cosa intendiamo per relazione; e quali i settings di lavoro? La relazione tra il clinico ed il paziente; la relazione tra lo psicologo del lavoro e delle organizzazioni ed il reparto; la relazione tra l’équipe di psicologia ed i familiari, la relazione dell’operatore con il suo Sé. Essa appare come il vero strumento attivo nelle mani dello psicologo clinico e dello psicoterapeuta (paragonabile al farmaco dell’internista, al bisturi e al filo del chirurgo). Ma la relazione per poter essere maneggiata richiede una lunga ed onerosa formazione. Una formazione che include il soggetto stesso che la maneggia; il suo corpo la
sua psiche le sue relazioni interne ed esterne, la sua storia relazionale analizzata e ricategorizzata: in una parola il suo Sé bio-psico-sociale. Allora potremmo concludere che il curare può essere la metafora dell’allenamento sportivo. Richiede consapevolezza dei limiti, delle paure; richiede un rapporto di fiducia per affrontare un percorso impegnativo. Richiede, come ci ricorda Platone, che la persona del malato venga concepita innanzitutto come una entità indivisibile e in continua relazione interna: “il nostro Zalmosside, che è un Dio, vuole che come non si deve cominciare a sanare gli occhi senza tener conto del capo, né il capo senza il corpo, così neppure si deve cominciare a sanare il corpo senza tenere conto dell’anima; anzi questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fanno franca ai medici greci, perché essi trascurano il tutto di cui invece dovrebbero prendersi cura, quel tutto che è malato e dunque non può guarire in una parte”. (Platone, Carmide) * Psicologo-psicoterapeuta, responsabile Uos psicologia clinica-ospedaliera Asl Rm E
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8 Rispetto agli uomini c’è un continuo aumento dei decessi femminili per mali cardiovascolari
Se dici (cuore di) donna dici danno. La morte da infarto è per lei maggiore di Rita Lucia Putini*
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l rischio di malattia legato al genere femminile è sempre stato valutato nella donna secondo una modalità cosiddetta “a bikini”, concentrando l’attenzione clinica di prevenzione e di cura sulla patologia mammaria e sulla sfera delle malattie genitali. Tuttavia dai dati della letteratura internazionale sappiamo come la mortalità per le malattie cardiovascolari sia, nelle donne, in costante e continuo aumento rispetto al sesso maschile. Le donne presentano, dopo un infarto miocardico, una mortalità maggiore ed una prognosi a distanza peggiore rispetto agli uomini, nonostante una malattia aterosclerotica delle coronarie meno grave ed estesa ed un’analoga risposta per la regressione della malattia coronarica ad un intenso programma di riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare mediante una variazione dello stile di vita. Dopo una sindrome coronarica acuta, il rischio di mortalità ospedaliera è maggiore nella donna rispetto all’uomo sia per l’infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST all’elettrocardiogramma (infarto miocardico “classico” che interessa la parete del muscolo cardiaco a tutto spessore) e sia per l’infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST (queste sono due delle definizioni dell’infarto miocardico acuto secondo la Nuova Definizione Universale dell’Infarto Miocardico Acuto). Rispetto al trattamento, le donne usufruiscono della rivascolarizzazione miocardica – la riapertura
della coronaria ostruita dalla trombosi coronarica che determina l’infarto mediante angioplastica coronarica – nella stessa misura del sesso maschile sia in senso qualitativo che quantitativo riguardo il trattamento di lesioni coronariche complesse, l’uso di stent che rilasciano farmaci che contrastano la richiusura nel tempo dello stent stesso (stent medicati), senza che si evidenzino differenze tra i due sessi nella mortalità a distanza per l’angioplastica primaria (terapia per l’infarto acuto). Tuttavia nelle donne è presente un altro aspetto importante nella patologia coronarica: la malattia coronarica non ostruttiva. Le arterie coronarie delle donne, a differenza di quella degli uomini, determinano spesso malattia coronarica, dall’angina all’infarto miocardico acuto, senza che vi siano lesioni che ostruiscono le coronarie come le placche aterosclerotiche che impediscono il normale flusso del sangue. Coronarie “sane” ma al tempo stesso malate! Un aspetto questo del cuore delle donne che sembra allinearsi a tutte le credenze popolari che nei secoli hanno visto la donna come un essere misto di normalità e di magia. Questo ci fa comprendere come le nostre conoscenze legate alle differenze di genere maschile e femminile nell’infarto miocardico siano ancora incomplete e come migliorandole potremo, in futuro, ottimizzare le possibilità terapeutiche per la cura delle malattie ischemiche del cuore nella donna. Studi recenti dimostrano come anche nelle donne con infarto miocardico a coronarie “sane” sia
Si ringrazia la Abbott Vascular Knoll-Ravizza per il sostegno economico per la pubblicazione di questo giornale
sempre il meccanismo di rottura della placca aterosclerotica responsabile del danno coronarico e dell’interruzione di un flusso di sangue adeguato che determina ischemia e morte della cellula miocardica. Pertanto, ancora una volta, viene dimostrato come gli interventi forti che modificano lo stile di vita (abolizione del fumo, controllo del peso corporeo e dieta
adeguata, attività fisica regolare) riportino nei termini del reale quello che sembrava solo magia: coronarie “sane” che si ammalano all’improvviso. L’infarto miocardico è un evento improvviso che nella donna, per i molti ruoli che esercita nella vita sociale, ha un impatto emozionale profondo e a volte di difficile recupero nella realtà di una vita quotidia-
na attiva e normale. Ma il cuore delle donne è forte proprio dove le emozioni sono grandi e per questo proprio dopo un infarto miocardico la ripresa della vita quotidiana ha ritmi più rapidi… come un’altra ennesima vittoria. *Dirigente medico I Uoc Cardiologia Ospedale S. Camillo-Forlanini
La scomparsa della giovane fisioterapista
Manca nella palestra il sorriso di Manuela Mentre lo scorso numero di Cuore Amico era già in distribuzione, il 28 marzo scorso la famiglia della Riabilitazione cardiologia del S. Spirito è stata colpita da un grave lutto: la scomparsa – a soli quarantadue anni – della dott.ssa Manuela Michetelli, una delle fisioterapiste addette alla gestione dei turni in palestra. Qui la ricorda la dott.ssa Clara Amari, responsabile del servizio
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i era presentata il primo settembre del 1999 – il suo primo giorno di lavoro – nella sala della Riabilitazione cardiologica. Celava l’evidente timidezza dietro un gran sorriso, fresco e giovane, com’era lei. Un sorriso che conserverà sempre, per tutto il tempo che è stata con noi, e che ha dedicato a tutti i pazienti con una impareggiabile e sempre allegra dedizione sul lavoro. Ecco, la sua capacità di avere una parola per ciascuna e ciascuno di loro, un pensiero sempre personalizzato acquisito con una confidenza costruita sulla gentilezza, su piccole confidenze (il suo cagnolino…la sua piccola casa…), su una disponibilità e una dedizione straordinarie alla riabilitazione clinica ma anche umana, psicologica. Questo, per tutto il tempo che è stata con noi. Troppo poco tempo, però, strappata alla vita dal male incurabile che l’aveva aggredita nella primavera del 2007. Eppure, nonostante le lunghe e sofferte terapie, Manuela non solo non aveva mai perso la
gioia e la voglia di vivere, ma nelle pause dei tormenti si affacciava – sempre sorridente – in palestra per dirci: sono sempre qui, con voi; e per farci capire: non mi dimenticate. E’ sempre molto difficile scrivere di un’amica che non c’è più, di una collega presente tutti i giorni nella tua vita, di una persona con cui condividi tutto: lo spazio fisico, la collaborazione, il confronto, i momenti piacevoli della vita e anche i conflitti che possono insorgere. Così, oggi, Manuela manca al nostro affetto, al nostro quotidiano. E manca alle centinaia di pazienti che si sono succeduti in palestra in questi anni, che l’hanno amata, che hanno sentito il suo calore e l’hanno certamente ricambiato. E’ un lutto che nessuno di noi, e di voi, avrebbe voluto mai sopportare. La ricorderemo sempre, la nostra e vostra Manuela, perché resterà un esempio di correttezza, di umanità, di grande dignità, di forza. Clara Amari
10 L’attività agonistica sottopone l’organismo a stress importanti ma il nostro Paese è all’avanguardia nei controlli degli atleti
Quando l’attività sportiva genera morte improvvisa di Francesco Biscione*
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Il calciatore Piermario Morosini e il pallavolista Vigor Bovolenta, entrambi stroncati da un malore sui campi di gioco
crivo queste riflessioni pochi giorni dopo la morte del calciatore Morosini e del pallavolista Vigor Bovolenta, che hanno suscitato vasta eco nella opinione pubblica. Dopo Morosini altri due atleti hanno perso la vita durante competizioni sportive fuori dall’Italia. Poi la notizia del decesso di un ragazzo di 17 anni durante l’ora di ginnastica in una scuola di Roma. Ciò sta a dimostrare che la morte improvvisa durante lo sport è evento tutt’altro che infrequente: sapevate che la probabilità che un atleta muoia all’improvviso durante l’attività sportiva risulta in Italia di 2,3 casi per anno ogni centomila soggetti, circa il triplo rispetto alla popolazione generale, e che nei maschi è dieci volte più frequente che nelle femmine? Fatto è che l’attività agonistica sottopone l’organismo a stress importanti, sia per l’apparato loco-motore che per quello cardio-circolatorio, e può danneggiare l’organismo anche in modo non transitorio: ne sanno qualcosa i cervelli dei pugili, le articolazioni e le costole dei rugbisti, i gomiti dei tennisti, le ginocchia e le caviglie dei calciatori, eccetera (figuriamoci poi se ci mettiamo in mezzo il doping!). Ma qui parliamo di morte improvvisa, di arresto cardiaco. E allora bisogna dire che l’Italia è il migliore posto al mondo dove fare agonismo: per una volta, possiamo dire con giustificato orgoglio di essere i più bravi di tutti. Infatti, la probabilità che gli atleti non italiani muoiano per morte improvvisa durante lo sport è circa tripla rispetto a quella degli italiani. Questo non dipende dalla superiorità della razza italica, né dalla dieta mediterranea, e neanche dai nostri allenatori e preparatori atletici. E’ tutto merito dei nostri medici dello
sport, e devo dire anche dei nostri politici che hanno promulgato una buona legge per valutare lo stato di salute e di rischio di ogni atleta prima che cominci ad impegnarsi nello sport agonistico e per effettuare nuovi controlli ogni anno durante l’attività. Questa pur dispendiosa opera di screening di massa ha consentito di identificare i soggetti a rischio di aritmie maligne, e quindi di abbattere drasticamente il numero di eventi fatali sui campi di gioco. A costo (c’è sempre un costo da pagare) di allontanare dallo sport, e magari dal successo, dalle vittorie, dalle medaglie, fino al due per cento degli atleti per il dubbio rischio di eventi che forse non si sarebbero verificati mai. Molte altre comunità, come quella americana, rifiutano questa filosofia, decidendo spesso di accettare un rischio in vista della possibilità di conseguire un più importante successo. Altri due aspetti meritano di essere considerati: il primo è quello del costo economico. Anche in epoca di recessione e di contrazione della spesa, mi pare giustificato continuare ad investire in questo campo, tanto più dopo l’estinzione della funzione di prevenzione che un tempo era legata alla visita per il servizio militare o alla medicina scolastica. La seconda considerazione da fare è che, nonostante tutti gli sforzi e tutte le risorse impiegate, la morte improvvisa durante lo sport continua a verificarsi: abbiamo allora sbagliato qualcosa? Il fatto è che esistono condizioni non identificabili con qualunque programma di prevenzione che possono comunque provocare eventi fatali: ad esempio, una intercorrente infezione virale, magari senza sintomi o avvertita solo come un raffreddore, può provocare una morte aritmica per una miocardite;
oppure, una banale palla vagante può indurre una fibrillazione ventricolare se colpisce il torace in condizioni particolari; o un trauma; o qualcosa che ancora non conosciamo. Insomma, non basta lo screening: è necessaria una capillare diffusione di defibrillatori automatici ed una più vasta formazione di operatori per la rianimazione cardiopolmonare e la defibrillazione precoce. E infatti, negli Stati Uniti, nonostante il maggior numero di eventi di arresto cardiaco durante lo sport, grazie alla maggio-
re disponibilità di defibrillatori fino al 60% delle vittime viene rianimata con successo, contro il 5-10% in Italia. E’ indispensabile, dunque, coordinare i programmi di prevenzione con la capillare diffusione della defibrillazione precoce nei campi di gioco, nelle scuole, nelle manifestazioni sportive o culturali, per salvare i nostri giovani, e noi stessi, dai drammatici eventi di morte improvvisa, anche da sport. * Dirigente medico Uoc Cardiologia S. Spirito
Una delle specialità più faticose dell’atletica leggera
La maratona fa bene o male al cuore? di Francesca Lumia*
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l povero Filippide la maratona costò la vita. Erodoto narra che fece appena in tempo ad annunciare la vittoria e poi cadde a terra morto, stremato, dopo aver percorso, correndo a perdifiato, i 37 chilometri che separano Maratona da Atene. Era l’anno 490 a.C. e a Filippide era stato affidato il compito di annunciare la vittoria dei Greci sui Persiani di re Dario, avvenuta proprio nella piana di Maratona. Da questa leggenda nasce la moderna maratona che non è di 37 km, ma di ben 42 km e 195 m., cioè la distanza che separa il Castello di Windsor dallo stadio di White City o, per rimanere in luoghi a noi più conosciuti, praticamente la distanza tra il centro di Roma e Cisterna di Latina o tra il centro di Roma e Canale Monterano, Manziana. La maratona è una delle specialità più faticose dell’atletica leggera e si può definire come una corsa di resistenza nella quale viene coinvolto quasi esclusivamente il metabolismo aerobico. Infatti la caratteristica più evidente della maratona è proprio la durata, il riuscire a correre per un tempo molto lungo. Il record del mondo attuale appartiene al keniota Makau Musyoki con il tempo di 2h 03’ e 38” stabilito a Berlino
il 25 settembre 2011, ma nelle maratone amatoriali come quella famosissima di New York il tempo medio di percorrenza è di 4 h e 20’ e il tempo massimo di arrivo è 8 h e 30’. Il carburante per correre tutto questo tempo a queste velocità viene fornito dalle risorse energetiche sia alimentari che di deposito. Un maratoneta di circa 60/65 kg. di peso consuma nel corso della maratona circa 2000/2500 Calorie. Inoltre chi si prepara per una maratona, generalmente si sottopone ad allenamenti molto duri e specifici. Vi sono numerose evidenze che l’esercizio fisico prolungato è benefico per gli effetti sulla pressione arteriosa, sul profilo lipidico, sulla resistenza all’insulina e quindi sulla prevenzione del diabete e soprattutto nel ridurre il rischio di mortalità. D’altra parte vi sono alcuni studi che mostrano una alterazione della funzionalità cardiaca o una alterazione dei parametri biochimici nelle analisi del sangue, in sport di lunga durata. Un gruppo di ricercatori statunitensi ha voluto studiare cosa accade nei maratoneti apparentemente sani, non cardiopatici, da un punto di vista cardiocircolatorio. Nell’ambito dei partecipanti alla maratone di Boston del 2003, 2004 e 2005 sono stati individuati un
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gruppo di volontari, sia uomini che donne, per un totale di 90 soggetti che si sono sottoposti a questionari, controlli ematici ed ecocardiografici, i quali venivano effettuati pre-gara, entro i venti minuti successivi al termine della corsa e per il gruppo della maratona del 2003 anche a distanza di circa un mese. Durante un esercizio così strenuo e prolungato si perdono molti liquidi, nonostante si cerchi di bere ad ogni punto ristoro; in tutti i partecipanti allo studio si è evidenziata una significativa riduzione del peso corporeo alla fine della gara, che in alcuni soggetti arrivava anche a 3 chili. Inoltre lo studio ecocardiografico postgara evidenziava un incremento della pressione dell’arteria polmonare, una alterazione della funzione contrattile del ventricolo destro e un’alterazione della capacità di distendersi del ventricolo sinistro. Anche alcuni valori desunti dall’esame del sangue risultavano alterati, in particolare la Troponina cardiaca (per intenderci quella che aumenta nell’infarto miocardico) e un precursore del BNP (per intenderci la sostanza che può aumentare in caso di scompenso). La conclusione dell’analisi di questi dati sembrerebbe essere quella che la maratona influisce negativamente sulla funzione cardiaca e che durante tale gara è come se alcune cellule del cuore andassero in necrosi. Ma questa conclusione è forse troppo affrettata e superficiale. Infatti se è
Montagnaterapia: riconquistato il Terminillo (è l’ottava volta) Mentre questo numero di Cuore Amico andava in stampa un gruppo di cardiopatici stabilizzati partecipava all’ottava edizione di Montagnaterapia, l’iniziativa promossa dalla Cardiologia del S. Spirito per dimostrare che andar per monti non è vietato a chi ha avuto disturbi anche seri al cuore, pur con qualche cautela. Mèta tradizionale della due-giorni il complesso del Terminillo. Con i pazienti c’erano la cardiologa Francesca Lumia, lo psichiatra Giulio Scoppola, l’emodinamista Alessandro Danesi, altri medici della Asl di Rieti, due infermiere professionali del S. Spirito, la guida del Cai. Nel prossimo numero riferiremo dell’esperienza.
chiaro il tipo di sport e quindi di esercizio fisico di cui parliamo, non è altrettanto chiaro di quali atleti si tratta e che tipo di allenamento svolgono. Inoltre le altera-
zioni riscontrate sono temporanee o permanenti? Per quanto riguarda quest’ultima domanda, abbiamo pochi dati e si riferiscono solo ad un controllo a un mese di 20 soggetti partecipanti alla maratona di Boston del 2003. A quella data sembrerebbe esserci un ripristino della funzione contrattile del ventricolo destro ma non (ancora?) un ripristino della distensibilità del ventricolo sinistro. Per quel che concerne il tipo di atleti è bene dire che ci troviamo di fronte a persone che si allenano correndo circa 67-68 Km a settimana, da un minimo di 37 ad un massimo di 82 Km a settimana e che il tempo medio impiegato per correre la maratona è di circa 4 ore con una variabilità tra 3 e 6 ore. In considerazione della variabilità del carico di allenamento i ricercatori hanno poi diviso gli atleti per fasce di allenamento osservando dei risultati molto interessanti: i meno allenati (si fa per dire: circa 32 km/sett) avevano un maggiore incremento della pressione polmonare e una maggiore alterazione della funzione dei due ventricoli al termine della gara. In questo gruppo sono stati rilevati anche valori di Troponina cardiaca elevati tanto che il 50% dei soggetti “poco allenati” aveva un livello di Troponina pari a quello necessario per fare diagnosi di infarto miocardico! Nei più allenati, (circa 55 km/sett) invece, la Troponina non si modificava affatto. In conclusione, numerosi studi mostrano che l’esercizio di resistenza apporti numerosi benefici a breve e lungo termine ma, allenarsi e correre una maratona comporta un impegno cardiovascolare notevole e probabilmente (i dati sono ancora molto pochi) vi sono delle lievi modifiche della funzione cardiaca al termine della gara e ancora non è chiaro se siano transitorie o persistenti. Inoltre per affrontare una prova così dura bisogna essere molto molto allenati, altrimenti on è escluso che vi possa essere un microdanno delle fibre muscolari cardiache. Il nostro cuore non sopporta bene lo stress (in questo caso più fisico che psico), pertanto bisogna prepararlo, abituarlo, allenarlo al punto che l’evento stressante non costituisca più uno stress! * Dirigente medico Uoc Cardiologia S. Spirito
Ma se il diabete insorge in un basso numero di casi il farmaco salva un numero assai maggiore di cardiopatici
Il consumo delle statine può favorire il diabete? di Gabriella Greco*
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a terapia ipolipemizzante con statine è diventata un componente fondamentale del trattamento dei pazienti con cardiopatia coronarica o a rischio cardiovascolare elevato dopo che numerosi studi hanno dimostrato l’elevata efficacia di questi farmaci nel ridurre l’incidenza di eventi sia in prevenzione primaria che secondaria. I principali effetti collaterali finora noti consistono in un aumento degli enzimi epatici, cui non sembra corrispondere un danno d’organo significativo, e soprattutto nella miopatia che può manifestarsi con quadri di variabile gravità, dal dolore muscolare alla rara miolisi. Questi eventi indesiderati possono essere tenuti sotto controllo valutando eventuali sintomi e attraverso esami di laboratorio (dosaggio delle transaminasi e della creatinchinasi, di origine muscolare) e sono reversibili con la sospensione della statina. Relativamente recente è invece l’osservazione che questi farmaci interferiscono con il metabolismo del glucosio e possono favorire il manifestarsi di diabete. L’allarme principale è derivato dallo studio JUPITER in cui si è osservata un’incidenza di diabete superiore del 25% tra i pazienti che assumevano rosuvastatina rispetto ai controlli. Questi risultati apparivano in contraddizione con osservazioni precedenti, in particolare il riscontro nello studio WASCOPS che l’incidenza di diabete era ridotta nei soggetti trattati con pravastatina rispetto ai non trattati. Per chiarire il problema alcuni autori hanno effettuato un’analisi dei dati disponibili in letteratura esaminando l’incidenza di diabete in diverse ricerche sulle statine unendo i dati di tutti i pazienti inclusi
in questi studi (metaanalisi) ed hanno confermato un aumento del 9% di nuovi casi di diabete in coloro che assumevano il farmaco. Gli studi inclusi prevedevano l’impiego di statine diverse (simvasatatina, pravastatina, atorvastatina, rosuvastatina e lovastatina): il fenomeno è stato riscontrato con tutte, apparentemente senza differenze significative dimostrando un legame con l’intera classe e non con singole molecole. Studi precedenti avevano invece suggerito un possibile minore effetto negativo di alcune di esse. In una successiva meta-analisi sono state confrontate dosi moderate e le dosi alte comunemente utilizzate nei pazienti dopo sindromi coronariche acute o interventi di rivascolarizzazione, e si è osservato che l’effetto aumenta con il dosaggio: nei pazienti che assumevano posologie maggiori la frequenza di diabete era del 12% superiore. Il meccanismo attraverso il quale viene compromesso il metabolismo glucidico non è noto e, per quanto possano essere formulate diverse ipotesi, non sono disponibili dati validi in proposito. Alcuni fattori potrebbero predisporre allo sviluppo di diabete durante terapia con statine. In un’analisi su 3 studi, comprendenti un ampio numero di pazienti, lo sviluppo di diabete nei soggetti trattati con statine risultava più frequente in presenza di alcuni fattori ed in particolare nei soggetti obesi
( IMC > 30 Kg/m2), con glicemia basale superiore ai limiti normali ( > 100 mg/dl), con livelli aumentati di trigliceridi ( > 150 mg/dl) e con ipertensione arteriosa. Inoltre lo sviluppo di diabete era più frequente nei pazienti che presentavano più di una di queste condizioni e tanto più frequentequanto maggiore era il numero di fattori di rischio. Queste osservazioni sollecitano a una maggiore attenzione al metabolismo del glucosio nei pazienti trattati con statine, in particolare in alcuni sottogruppi, ma non sono tali da modificare l’impiego di queste sostanze. I vantaggi ottenuti con le statine nel migliorare la prognosi di pazienti con cardiopatia ischemica infatti sono tali da non consentire di rinunciare a questa terapia considerato anche il numero basso di casi di insorgenza di diabete almeno relativamente al numero di vite che questi farmaci hanno dimostrato di poter salvare. Sono naturalmente necessari ulteriori studi che approfondiscano ancora meglio questa problematica indagandone i meccanismi e le possibilità di prevenzione. * Dirigente medico Uoc Cardiologia S. Spirito 13
14 A tavola un altro buon motivo per abbondare di vegetali
Aspirina: certamente in pillole e magari in frutta e spezie
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i sa che uno degli effetti fondamentali del consumo – continuativo, e a basse dosi – dell’Aspirina, ed in particolare della Cardioaspirina consiste nella protezione cardiovascolare per gli effetti antiaggreganti. Questo perché il popolare analgesico e antinfiammatorio, una volta ingerito, viene rapidamente metabolizzato dall’organismo in acido salicilico. La questione ora allo studio in diversi paesi europei è di verificare le potenzialità di una speciale “aspirina” (usiamo questo termine impropriamente dal momento che il farmaco è da sempre sotto brevetto), quella verde, contenuta cioè in alcuni frutti, in alcune verdure, in alcune spezie. Ci stanno lavorando per esempio – riferisce il Corriere della Sera, supplemento medicina – alcuni ricercatori scozzesi che, in uno studio pubblicato dal Journal of Agricultural and Food Chemistry, si sono chiesti se l’elevato contenuto di salicilati delle spezie, ed in particolare del curry (che detiene il primato: 218 mg/etto), molto usato soprattutto in India, non abbia appunto un potente effetto antinfiammatorio. Oltre al curry, hanno tra le specie contenuti forti o apprezzabili di salicilati la paprica forte (203), il cumino (45) e la cannella (15,2). E ci lavorano anche alcuni ricercatori del-
l’Università statale di Milano che in un altro studio, pubblicato da Plant Foods for Human Nutrition, hanno valuto verificare se il consumo di frutta portasse effettivamente ad un aumento in circolo dell’acido salicilico, e se questo fosse sufficiente per creare un effetto antinfiammatorio. Qui la ricerca è stata supportata da un esperimento, di parziale portata certo ma in qualche modo indicativo delle potenzialità di sviluppo dell’indagine. E’ stato dunque dato, a rotazione, a ventisei volontari, un frullato di pesche (pari a due porzioni di frutta) o una soluzione acquosa contenente i soli zuccheri della frutta. Nel primo caso, i frullati, e solo in questo, nell’ora successiva alla somministrazione, la concentrazione di acido salicilico in circolo quasi raddoppiav e si manteneva elevata anche dopo tre ore. Di più: dopo l’assunzione del frullato, i livelli di interleuchina 6 (un indicatore dell’infiammazione) aumentavano meno rispetto a quel che accadeva con la soluzione zuccherata. Conclusione prudenziale di Alberto Battezzati, coautore dello studio e docente di Nutrizione: poiché l’aspirina si trasforma rapidamente nell’organismo in acido salicilico, è naturale pensare che anche i salicilati dei vegetali possano esercitare un’azione benefica. I livelli di salicilati in frutta e verdura sono però assai più bassi delle spezie: si va dai 7,8 mg/etto dell’uvetta sultanina al 3,14 dei lamponi, dal 2,58 delle albicocche e delle pesche, all’1,2 dei peperoni verdi. Allora, se l’effetto protettivo è evidente con le spezie ma ancora tutto da studiare con frutta e verdura, già queste le ricerche confermano non solo l’utilità ma la necessità di un consumo regolare, costante, di frutta e verdura: almeno cinque porzioni al giorno. E se ovunque e sempre i bambini, sin dalle mense scolastiche, fossero abituati ad una dieta ricca di frutta e verdura…
Dieci regole da seguire sempre
Come usare bene i farmaci
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ttenzione a seguire sempre e solo le istruzioni del medico, attenzione alla data di scadenza di un medicinale, e poi è giusto chiamare “bugiardino” il foglietto illustrativo del farmaco che si è appena acquistato? Quanti avvertimenti risuonano (e giustamente) nella mente del paziente consapevole quando si trova davanti all’armadietto delle medicine in uso in famiglia? E allora ecco un semplice decalogo: regole da seguire sempre. Non che esse siano esaustive, ma almeno – rispettandole – si sgombera il campo dagli equivoci e dagli errori più comuni. Dunque: Non modificare le dosi dei farmaci attenendosi sempre dalle prescrizioni del medico. Se il medico ha suggerito che quella pasticca sia presa a digiuno, avrà ben motivo per la sua raccomandazione. E se, al contrario, avrà raccomandato di prendere quell’altra a metà pasto, è per bloccare un effetto collaterale. Leggere il foglietto illustrativo e segnalare eventuali effetti collaterali facendo attenzione a tutti i sintomi. Chiedere un consiglio al medico, e comunque evitare sempre il fai-date soprattutto sei i disturbi non scompaiono in breve tempo. Conservare con attenzione: sulla confezione c’è sempre scritto il modo di conservare un medicinale e/o di proteggerlo (per esempio mettendolo in frigorifero). In generale riporre i farmaci in luoghi non accessibili ai bambini e in ambienti non esposti a troppo calore o a umidità. Non interrompere la cura prima del dovuto, o appena ci si sente meglio (raccomandazione tanto più necessaria per gli antibiotici). Non usare pomate, unguenti, sciroppi e soluzioni se hanno cambiato colore o sapore; e chiudere sempre bene le confezioni dopo l’uso. Non prendere un farmaco solo perché è già in casa o perché è stato utile per sintomi analoghi. Non aprire le capsule per facilitare l’assunzione del medicinale che vi è contenuto. La
capsula serve a fare assorbire il farmaco secondo tempi stabiliti scientificamente. Se non si riesce a inghiottire la capsula chiedere al medico un medicinale equivalente. Non usare i medicinali dopo la scadenza e non fare scorte di farmaci. Piuttosto, scrivere sulle confezioni in modo chiaro a che cosa servono insieme a dosi e tempi di somministrazione.
Rispettare l’orario di assunzione è importante soprattutto per antibiotici e antipertensivi. Se si dimentica una dose, evitare di raddoppiarla alla successiva occasione. Segnalare al medico se si stanno prendendo erbe, integratori o altri prodotti da banco perché potrebbero interagire con i farmaci prescritti. Informarsi anche delle possibili interazioni/controindicazioni con i cibi.
Ancora di recente due casi in Italia
Tanti “farmaci” pericolosi in vendita su internet
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n anziano muore a Venezia in un hotel di lusso dopo aver preso un Viagra taroccato…Una donna muore avvelenata in Puglia da un test antiallergico comperato (da un medico!) in una “farmacia” on line. Sono solo gli ultimi due casi di una serie allarmante di episodi prodotti dal consumo di farmaci acquistati via internet, ciò che pure in Italia è severamente proibito dalla legge. Perché questo divieto? Per due motivi. Intanto perché è stato accertato che una parte cospicua dei medicinali venduti on line a prezzi stracciati è taroccata, cioè costituita da principi attivi di bassa qualità; e poi perché gran parte del mercato dei farmaci contraffatti è gestito da organizzazioni criminali. Le dimensioni dello sporco affare sono documentate da uno studio effettuato da “LegitScript”, gruppo di controllo farmacologico statunitense con il più ampio database mondiale. Attraverso questo gruppo sono state monitorate 40.095 “farmacie su Internet”. Ebbene, solo 220 (appena lo 0,5%), sono risultate sicure. Altre 1.106 sono state considerate proprio al limite. Mentre le altre 38.768 vendono prodotti pericolosi che hanno causato la morte di molti pazienti tra cui la donna avvelenata dal test antiallergico costituito da un velenoso sorbitolo cinese. In Italia la lotta ai prodotti medicinali taroccati e venduti on line è condotta dall’Agenzia dei farmaci in collegamento con i Nas dei carabinieri; e proprio la collaborazione dell’Aifa con “LegitScript” ha portato alla chiusura di cinquanta pagine Internet scritte in italiano. Ma si tratta di una goccia nel mare dell’illegalità che prospera in altri paesi soprattutto in Cina e nell’Est europeo. Ed è attraverso questi canali che anche in Italia il prodotto più commerciato via Internet è il Viagra. C’è una spiegazione psicologica del boom dell’acquisto on line di questo stimolante sessuale: l’acquirente non deve recarsi in una normale farmacia, ma fa l’acquisto via Internet, in modo anonimo. Senza sapere (se si tratta di un cardiopatico, soprattutto se non consapevole di esserlo) quali rischi corre.