PARTE LA CAMPAGNA
“ELISIR DI LUNGA VITA” ALL’INTERNO:
INFARTO: QUALITÀ DELLE CURE L’ECOSTRESS ALTERNATIVA ALLA PROVA DA SFORZO COLESTEROLO, L’HDL È DAVVERO BUONO? LE CAUSE E LA NATURA DELL’EMBOLIA POLMONARE
OPERAZIONE TERMINILLO
TUTTI OK ALLA META
Periodico di informazione dell’Associazione Cuore Sano – Anno X VII - n.3 luglio-settembre 2012
PILLOLE DI SALUTE… PEPERONCINO SALVACUORE – Oramai è un dato scientifico accertato: il peperoncino (verde o rosso, purché piccante) è un vero salvacuore. E’ il risultato di uno studio a vasto spettro presentato all’ultimo congresso della American Chemical Society. Studio focalizzato sulla capsaicina (il composto piccante) e sulle sostanze affini correlate, i capsaicinoidi. Oltre ad abbassare la pressione, diminuire la probabilità di trombi e ridurre il colesterolo “cattivo”, i cibi e/o i condimenti con peperoncino bloccano anche l’attività di un gene che produce la ciclossigenasi-2, sostanza che permette ai tessuto muscolari attorno ai vasi sanguigni di contrarsi. Attenzione, però: il peperoncino è un coadiuvante e non un sostituto dei farmaci.
C’È UN GENE DELLA LONGEVITÀ? – A Campodimele (paesino in provincia di Latina, 150 km da Roma) c’è un numero assai alto di ultracentenari. Così alto da impegnare un gruppo di ricerca dell’università romana della Sapienza. Già l’Organizzazione mondiale della sanità si era interessata al fenomeno dando una risposta semiscontata: stili di vita ottimi, ancor migliore alimentazione. Ma dalla nuova ricerca è emersa una mutazione del gene che sintetizza la proteina Angptl3. Questa molecola funziona da “freno” all’eliminazione del colesterolo e dei trigliceridi nel sangue. E infatti gli ultracentenari del paese hanno livelli bassissimi di colesterolo. Ambizioso obiettivo dei ricercatori: lo studio di farmaci inibitori di questa molecola.
POSSIBILE RIGENERARE IL CUORE? – Un cuore colpito da infarto o scompenso può essere “aggiustato” o, più correttamente, rigenerato? Si viaggia (nello spazio di tre, cinque anni) su due binari: da un lato la terapia genica, con farmaci che iniettati nel cuore ne fanno rigenerare i tessuti; e dall’altro le staminali (embrionali, “riprogrammate” o del cuore stesso). Questa seconda strada è ancora molto lunga anche se è la più promettente, mentre per la prima ci sono già alcune sperimentazioni umane: a San Diego, negli Usa, dove è stato prodotto un virus ingegnerizzato per esprimere un fattore che aumenta la contrazione cardiaca e che è stato iniettato nel cuore di uno scompensato.
…E SALUTE IN PILLOLE IL GRANA “CURA” L’IPERTENSIONE – Un motivo in più per sostenere i produttori di grana e di parmigiano vittime del terremoto: al meeting europeo su ipertensione e protezione cardiovascolare (svoltosi a Londra prima del sisma) sono stati presentati i risultati di una ricerca dell’ospedale Saliceto di Piacenza sugli effetti protettivi del famoso formaggio. Campione di 29 pazienti cinquantenni con ipertensione lieve-moderata. La loro dieta è stata integrata con 30 grammi di grana per due mesi. Altri 16 pazienti, in analoghe condizioni, sono stati “usati” come controllo (senza dieta integrata). Risultato: chi si è cibato del formaggio ha fatto registrare una
riduzione media di 8 mm della pressione sistolica e di 7 della diastolica rispetto ai pazienti di controllo.
IL MAGNESIO PROTETTORE – Sinora trascurato, il magnesio si sta rivelando un nutriente che ha un potenziale ruolo protettivo nei confronti delle patologie cardiovascolari. Nell’ordine, ne forniscono notevoli quantità le mandorle secche, i fagioli secchi, il riso integrale, la farina di frumento integrale, il cioccolato fondente, l’orzo perlato, gli spinaci. In Giappone hanno fatto uno studio su 58mila adulti dai 40 ai 79 anni seguiti per 15 anni mettendo a confronto individui con i consumi di magnesio più alti con quelli con consumi più bassi. Il rischio di mortalità cardiovascolare tra chi ha fatto il “pieno” di magnesio era più basso del 36%.
CHI RISPETTA LE 7 REGOLE D’ORO – L’Associazione americana del cuore (AHA) ha fissato da tempo le “sette regole d’oro” per salvare il cuore e la vita: non fumare, mantenersi fisicamente attivi, pressione arteriosa nei limiti della norma, normali livelli di colesterolo, normali livelli di glicemia, mantenersi normopeso e, infine, alimentazione sana (possibilmente mediterranea). A questo punto il giornale dell’Associazione medica americana ha fatto un’inchiesta su 44.959 persone di almeno vent’anni, per sapere quanti di loro rispettassero tutte e sette le regole. Risultato sconvolgente: non più del 2% (capito? due per cento) degli adulti americani rispetta tutte e 7 le regole, ma la percentuale tende a calare. Se le regole fossero state rispettate si sarebbero potuti evitare il 59% di decessi il 64% di infarti e altri malanni cardiaci…
Periodico di informazione dell’Associazione Cuore Sano • Anno XVII - n.3 - luglio/settembre 2012 • Reg. Trib. di Roma n.00323/95 • Direttore responsabile Giorgio Frasca Polara • Comitato scientifico Roberto Ricci (presidente), Alessandro Carunchio, Antonio Cautilli, Alessandro Danesi, Gabriella Greco, Francesca Lumia, Alessandro Totteri, Marco Renzi • Redazione Lungotevere in Sassia n.3 • 00193 Roma Ospedale Santo Spirito • Recapiti: Cardiologia-reparto terapia intensiva (Utic) tel. 06.68352579; Cardiologia-reparto Subintensiva (Usic) tel. 06.68352213; Segreterie Cardiologia, Associazione Cuore Sano e redazione Cuore Amico tel. 06.68352323. • E-mail: cuoresano@yahoo.com • www.cuore-sano.it • Stampa Tipolitografia Visconti - Terni
Il ministero si mobilita per le buone abitudini: alimenti sani, movimento, corretti stili di vita
“Guadagnare salute”: lanciata la campagna sugli elisir di lunga vita di Andrea Porzio*
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ana alimentazione, movimento, corretti stili di vita. Ecco gli elisir della prevenzione e quindi della longevità, della riduzione drastica dei mali e quindi di un forte risparmio delle spese del Servizio sanitario nazionale. E son questi gli elisir indicati dalla campagna “Guadagnare salute” lanciata dal ministero della Salute e dall’Istituto superiore della Sanità di concerto con regioni ed enti locali, con il coinvolgimento del Ssn (anche attraverso medici di base e farmacie), del dicastero della Pubblica istruzione (per l’educazione alimentare sin da piccoli) e di altri otto ministeri. Ma la novità di questa campagna è anche l’entrata in scena di soggetti non sanitari, a partire dalla grande distribuizione – non è un caso che la prima adesione sia venuta dalle Coop –, di aziende alimentari, ristoratori, distributori di tabacco e di alcolici. ALIMENTAZIONE? UN DISASTRO. Sottolinea uno dei capitoli-chiave del dossier che “un aspetto cruciale della campagna è promuovere la consapevolezza che l’alimentazione è un determinante fondamentale dello stato di salute della popolazione, che abitudini alimentari più sane determinano un guadagno di salute, e che una dieta sana e equilibrata rappresenta un obiettivo di sanità pubblica importante. Il compito di informare ed educare, sia per le dimensioni della domanda e sia per le caratteristiche specifiche della strategia necessaria, non può essere delegato unicamente agli operatori sanitari”. Come dire, e si sottolinea, che “alimentazione corretta e buona salute sono un binomio indissolubile” non solo nei riguardi delle malattie cardiovascolari ma già per fronteggiare il sovrappeso (tre adulti su dieci) e l’obesità (uno su dieci) che ovunque sono in crescita. Il fenomeno
minuti di riscaldamento, 20-30 minuti di fase aerobica, e una fase di recupero di 510 minuti. Questi livelli di attività (ben noti a quanti frequentano regolarmente la palestra, ndr) sono sufficienti per ridurre il rischio cardiovascolare e di diabete, e garantire la funzionalità neuromuscolare anche con l’avanzare dell’età”.
– denuncia il rapporto – “è più spiccato nelle regioni meridionali dove si assiste anche ad un consumo minore di frutta e verdura rispetto al resto del paese e che è più rilevante nei settori con livello culturale, sociale ed economico più basso”. Gli errori più comuni? Non rispettare la regola aurea delle cinque porzioni giornaliere di frutta e verdura (regola che solo il 10% della popolazione dichiara di rispettare), saltare la prima colazione, abusare con gli zuccheri (in particolare con quelli che si nascondono nelle bevande) e con il sale, di cui son pieni i cibi precotti e confezionati. Il consumo medio di sale tra gli italiani è di 10 grammi al dì, basterebbe ridurlo alla metà e sai quanto risparmio anche economico di terapie antipertensive che spesso portano a infarti e ictus… MUOVERSI, CAMMINARE! Diamo per scontati i riferimenti ai danni del fumo e dell’abuso di alcolici o anche solo di vino (un bicchiere solo ai pasti, e non di più), e puntiamo sul capitolo della lotta alla sedentarietà, che cresce di pari passo con il sovrappeso. L’attività fisica è una vera e propria panacea, e cura più di qualsiasi medicina. Peccato che il 40,6% degli italiani non svolga alcuna attività sportiva; e che solom il 21% lo faccia in modo costante: sia questa attività il calcetto o le bocce o il semplice camminare a buon passo: l’ex primario del S. Spirito, prof. Vincenzo Ceci, fondatore di questo giornale, ama ancor oggi raccomandare: “Camminare senza correre, ma così speditamente da non vedere che cosa c’è nelle vetrine dei negozi”. “Per ottenere benefici nella salute degli adulti – incalza il dossier – bisogna praticare attività fisica moderata per almeno 30-45 minuti quattro o cinque giorni la settimana. L’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda di comprendere nei tre quarti d’ora circa 5-10
Gli ultimi tre corsi dell’anno per familiari dei cardiopatici Nel prossimo trimestre sono in programma, per i familiari di pazienti cardiopatici, ancora tre corsi di rianimazione cardiopolmonare (Bsld). Durante i corsi – come già sanno centinaia di familiari che negli anni e nel mesi scorsi hanno partecipato a questa iniziativa – viene insegnato in modo semplice e pratico tutto quanto occorre fare nel caso ci si dovesse trovare a fronteggiare una emergenza cardiologica: riconoscimento dei segnali di allarme, allertamento del sistema di emergenza (il 118), le prime manovre di rianimazione di base (anche con manichino), l’uso (se disponibile) del defibrillatore semiautomatico. Ed ecco le date degli ultimi tre corsi di quest’anno: martedì 16 ottobre, dalle 14,30 alle 19,30; martedì 20 novembre, stessi orari; martedì 4 dicembre, stessi orari. All’inizio dei corsi – durante i quali gli allievi si potranno esercitare su un manichino della fattezze umane – verrà consegnato un manuale con le istruzioni di base, e al termine ciascuno riceverà un attestato di partecipazione che abilita anche, a norma di legge, all’uso del defibrillatore automatico. I corsi, diretti e coordinati dal cardiologo dr. Antonio Cautilli, si svolgono nella sala teatro del S.Spirito.
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4 Uno strumento alternativo alla tradizionale prova da sforzo
Cos’è l’elettrocardiogramma da stress farmacologico di Guglielmo Vitaliani*
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eco-stress farmacologico è un esame ecocardiografico eseguito durante e attraverso l’infusione di farmaci. Lo scopo di questo esame è quindi quello di evidenziare o escludere la presenza di una malattia delle coronarie, cioè le arterie del cuore. Con l’ecocardiogramma è possibile riconoscere e localizzare anomalie del movimento e dell’ispessimento delle pareti cardiache. Quando le arterie coronariche (vasi sanguigni che forniscono il sangue al cuore) sono ammalate o stenotiche, cioè ristrette, il flusso di sangue è spesso
sufficiente per consentire al muscolo cardiaco di contrarsi in condizioni di riposo; ma durante uno sforzo il flusso diviene insufficiente e le zone del muscolo cardiaco inadeguatamente vascolarizzate si contraggono meno o addirittura si fermano. Con l’ecocardiografia è possibile valutare la contrazione di tutte le regioni del muscolo cardiaco a riposo e durante uno stimolo farmacologico (stress farmacologico). PER CHI E’ INDICATO. L’ecostress è indicato nei pazienti in cui non è possibile effettuare il test da sforzo (portatori di protesi all’anca o al ginocchio, impossibilità di pedalare o camminare sul tappeto per patologia ortopedica e/o muscolare); nei pazienti con test da sforzo dubbio/suggestivo di ischemia miocardica indotta; nei pazienti con test da sforzo interrotto precocemente o comunque sotto-massimale negativo per ischemia miocardica (FC<85% della frequenza cardiaca massima teorica per età). COME SI ESEGUE. Il paziente viene fatto sdraiare sul lettino, sul fianco sinistro come per un normale esame ecocardiografico. Vengono applicati gli elettrodi al torace per monitorizzare l’elettrocardiogramma ed uno sfingomanometro per valutare la pressione arteriosa. Quindi si applica una fleboclisi per somministrare, in dose controllata, il farmaco. L’esame viene eseguito previa l’eventuale sospensione di alcuni farmaci nei giorni precedenti, decisa dal cardiologo che richiede l’esame. E’ molto importante inoltre che il paziente non assuma the, coca cola, caffè o cioccolata da almeno 48 ore. Ed è fondamentale che il paziente porti con sé tutta la documentazione clinica relativa al problema che deve essere valutato. I TIPI DI STRESS. I farmaci utilizzati in questo esame sono sostanzialmente due: la do-
butamina e il dipiridamolo. La dobutamina provocherà aumento della frequenza cardiaca, il dipiridamolo indurrà variazioni del circolo coronario; entrambi i farmaci sono capaci di provocare una ischemia cardiaca acuta. L’esame consiste nell’eseguire l’ecocardiogramma mentre viene iniettato il farmaco. Il cardiologo che esegue l’esame utilizzerà l’uno o l’altro farmaco a seconda delle caratteristiche cliniche del paziente e quali informazioni si vogliono ottenere dall’esame. Durante lo stress farmacologico viene monitorato ecocardiograficamente il movimento del cuore valutandone la funzione contrattile. L’esame viene interrotto quando è stata iniettata la dosa massima del farmaco o viene interrotto dal cardiologo prima del completamento del protocollo di somministrazione per la comparsa di alterazioni della motilità delle pareti del cuore all’ecocardiogramma o di significative alterazioni del tracciato elettrocardiografico, per variazioni significative della pressione arteriosa o quando il paziente lamenti dei sintomi significativi (angina, affanno, calo presso rio, aritmie). LE POSSIBILI COMPLICANZE. Durante il test possono comparire aritmie, crisi di angina, uno scompenso acuto, un infarto del miocardio, un arresto cardiaco ed in casi estremamente rari (meno di 1 caso su 10.000 test) il decesso del paziente. Per questo nel laboratorio dove si esegue il test sono sempre disponibili farmaci e strumenti in grado di far regredire ognuna di queste rare complicanze nel minor tempo possibile. L’incidenza delle complicazioni è comunque la stessa di una normale prova da sforzo al tappeto rotante o al cicloergometro o di una scintigrafia. * Dirigente medico Uoc Cardiologia S. Spirito
Indagine a largo raggio dell’Associazione cardiologi ospedalieri
Qualità delle cure per l’infarto? Ancora non ci siamo di Roberto Ricci*
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el 2010 periodo 2010-2011 l’Associazione nazionale cardiologi ospedalieri ha condotto un’indagine sulla qualità delle cure per infarto miocardico acuto nelle Cardiologie italiane. Hanno aderito al progetto (Studio Blitz-4) 163 strutture cardiologiche. Sono stati valutati diversi indicatori: variabili relative a diversi aspetti della cura, la cui misurazione, confrontata con uno standard di riferimento, fornisce informazioni indirette sulla qualità dell’assistenza. Gli indicatori tradizionalmente vengono distinti in indicatori di struttura (che cosa si possiede?), indicatori di processo (come si lavora?) e indicatori di esito (che cosa si ottiene?). Le criticità principali relative agli indicatori di processo sono: l’insufficiente utilizzo dell’elettrocardiogramma nella fase di soccorso extraospedaliero (sistema di emergenza medica 118) ad un paziente con dolore toracico e sospetto infarto miocardico acuto; l’insufficiente rispetto dei tempi raccomandati per l’erogazione delle terapie riperfusive (trombolisi farmacologica o angioplastica coronarica primaria), soprattutto per i pazienti con infarto acuto che vengono trasferiti da un ospedale ad un altro; l’insufficiente ricorso alla terapia educazionale e motivazionale (counselling) nella fase predi missione; l’insufficiente invio a programmi di riabilitazione in regime di degenza o ambulatoriale. Le criticità principali relative agli indicatori farmacologici sono: l’insufficiente utilizzo dell’aspirina nelle prime tre ore di ricovero per infarto; il frequente sovradosaggio dell’eparina sodica e di farmaci antiaggreganti per via endovenosa (inibitori delle glicoproteine IIb/IIIa) nei pazienti con insufficienza renale Le criticità principali relative agli indicatori di esito sono anch’esse diverse. Anzitutto circa il 20% dei pazienti dimessi dopo un infarto avrà almeno un altro ricovero nei successivi 6 mesi, in primis per ulteriori procedure di rivascolarizzazione coronarica, seguite da cause non cardiologiche in relazione alle frequente coesistenza di altre patologie di rilievo nei pazienti, specialmente anziani, affetti da infarto miocardico acuto. Nel followup, durante la fase post-acuta (primi 6 mesi dalla dimissione) una quota non irrilevante di pazienti sospende alcune terapie prescritte alla dimissione. Il maggior tasso di sospensione si osserva a carico delle tienopiridine (Ticlopidina, clopidogrel - Plavix ®), seguite dai betabloccanti (metoprololo - Lopresor ® Seloken ®; carvedilolo Dilatrend ® Carvipress, ecc) e dagli Ace inibitori/ Bloccanti recettori angiotensina (enalpril - Enapren ® Naprilene ®; ramipril - Triatec ® Unipril ®). Inoltre, nei primi sei mesi dopo un infarto (STEMI o NSTEMI), il 75% dei fumatori smette di fumare; le abitudini di vita tendono a migliorare nel follow-up rispetto a quanto dichiarato dal paziente al momento del ricovero. Ma poi... circa un quarto dei pa-
zienti non assume frutta/verdura a sufficienza, circa tre quarti dei pazienti mangia pesce al massimo una volta alla settimana, quasi due terzi dei pazienti non svolgono attività fisica. Almenoun quarto dei pazienti sopra gli 80 anni presenta valori pressori elevati; nei pazienti diabetici, l’obiettivo terapeutico di un emoglobina glicata minore di 7, viene raggiunto in meno della metà dei casi; in oltre un quarto dei casi LDL rimane al sopra del valore di 100 mg/dl e in oltre la metà dei casi al di sopra del valore di 80 mg/dl. Infine, sempre per quanto gli indicatori di esito, si evince che a fronte di dati molto bassi di mortalità intraospedaliera (4,1%) per l’infarto STEMI e 2,1% per l’infarto NSTEMI, a 6 mesi dalla dimissione la mortalità è raddoppiata nei pazienti con infarto STEMI e quasi quadruplicata nei pazienti con infarto NSTEMI. Nell’interpretazione di questi dati va detto, che essi derivano da centri cardiologici italiani mediamente di alta complessità: prevalentemente strutture dotate di Unità di Terapia Intensiva Coronarica e di Emodinamica. I dati di processo e di esito in studi che hanno compreso anche strutture meno complesse o non specialistiche (esempio, i reparti di medicina interna) hanno dimostrato un minore qualità della assistenza ai pazienti con infarto, in diversi ambiti del percorso di cura, come il ritardo di trattamento riperfusiva, mancata somministrazione delle terapie farmacologiche raccomandate alla dimissione, maggiore incidenza di abbandono delle terapie prescritte durante la fase post-acuta, maggiore re-ospedalizzazione e mortalità. In generale gli aspetti più critici della cura al paziente con infarto miocardico acuto sembrano riguardare principalmente quello che accade prima del ricovero e dopo la dimissione. Nella fase pre-ospedaliera la mancata registrazione di un elettrocardiogramma da parte dell’equipe di soccorso 118 e gli elevati tempi di trasferimento di un paziente da un ospedale ad un altro comportano ritardi nella tempestività della somministrazioni delle terapie salvavita (esempio trombolisi o angioplastica coronarica). Nella fase post-dimissione vi è un elevata incidenza di sospensione dei farmaci raccomandati, un non sufficiente controllo dei fattori di rischio e un non adeguato cambiamento dello stile di vita. In questo senso è possibile che un intervento educazionale e motivazionale già prima della dimissione (semmai ripetuto anche a breve distanza dalla dimissione) e un maggiore accesso ai programmi di riabilitazione cardiologica possano contribuire ad una maggiore adesione alle prescrizioni terapeutiche e a stili di vita salutari e quindi a ridurre la elevata incidenza di re-ospedalizzazioni e di mortalità nei primi sei mesi dopo l’infarto. * Primario Uoc Cardiologia, Ospedale S. Spirito
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6 Nilde Zonno, paziente di 75 anni che sprizza vitalità da tutti i pori
“Che soddisfazione vivere e continuare a vivere”
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ettantacinque anni portati alla grande. E’ appena salita a duemila metri, sul Terminillo: è un’assidua della Montagnaterapia. Da ragazza era una campionessa di salto in alto. Poi il matrimonio e tre figli. Tutto sembrava filar liscio nella sua vita quando anche lei si è ammalata di cuore e operata per una grave forma di valvulopatia. Ma non per questo ha perso verve e voglia di vivere. Ride spesso, parla sempre. E’ Nilde Zonno-De Leo,
Nilde Zonno De Leo
una delle più fedeli e vivaci animatrici del primo turno dei giorni dispari nella palestra del Santo Spirito. Come e perché sei arrivata qui in palestra? «Eh, lunga storia di tante esperienze, tra cui yoga: fa bene, sai, anche al cuore? Solo da cinque anni sono approdata qui, in palestra grazie ad un prezioso suggerimento…una immediata simpatia per il luogo, per la fisioterapiste e per l’infermiera…e allora ho deciso subito: questa è la mia tana.» Che cosa ti porti dietro dei tuoi guai cardiaci? «Assolutamente nulla. Vivo normalmente, e anzi la palestra mi rinnova ogni giorno. Non è tanto e soltanto una questione di muscoli: quelli li ho coltivati sin da ragazza quando facevo tanto sport. E’ una questione anche (o soprattutto?) di socializzazione del proprio stato: chi più e chi meno, siamo
tutti cardiopatici, e tutti vogliamo dimostrare anzitutto a noi stessi che questo stato non è un handicap. La prova? Mi hai visto su in montagna…credo di essermela cavata, nevvero?» Sprizzi vitalità da tutti i pori. Perché allora la palestra? Non ti basterebbe camminare e mantenere i tuoi ottimi stili di vita? «Già, ma non hai fatto i conti con la mia (o la nostra?) pigrizia. Sarò pure assai vitale, ma in qualche misura anch’io devo in qualche modo obbligarmi a fare tutt’una serie di esercizi che da sola, in casa, non farei mai. E forse non è nemmeno solo pigrizia, quel che mi spinge in palestra. Il segreto vero è lo stare insieme, la complicità e anche un’ombra di competitività. Non sono stata forse una campionessa di sport? Ma mi guardo bene dal vantare una stagione che è tramontata ma di cui comunque non ho rimpianti passatisti. La soddisfazione è vivere oggi, e di continuare a vivere.»
Uno studio Usa-Italia smentirebbe che alti livelli di Hdl proteggano dal rischio infarto
Ma l’HDL è davvero “buono”? di Antonella Chiera*
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ell’ambito dei fattori di rischio per le patologie cardiovascolari parliamo spesso di ipercolesterolemia e in modo particolare si parla di colesterolo “buono” e “cattivo”. Ma il colesterolo è uno solo. Ciò che varia è la lipoproteina che lo trasporta nel sangue. Infatti i grassi sono molecole insolubili in acqua e quindi per circolare devono essere trasportati da altre molecole che invece possono sciogliersi nel flusso sanguigno. Le lipoproteine che trasportano il colesterolo sono soprattutto le LDL e le HDL. Le prime, le LDL, portano il colesterolo dal fegato ai tessuti, dove viene utilizzato; mentre le HDL svolgono una funzione opposta, cioè “spazzano” il colesterolo dai tessuti e lo riportano al fegato do-
ve, successivamente, viene metabolizzato e escreto con la bile. Le LDL tendono insomma a depositare il colesterolo sulla parete delle arterie, facilitando la formazione delle placche aterosclerotiche ed è per questo che, quanto è trasportato da queste proteine, viene considerato “colesterolo cattivo”, mentre quello trasportato dalle HDL, vista la loro funzione di “pulizia”, viene definito”colesterolo buono”. Questo tipo di conoscenza sulle lipoproteine, però, potrebbe ormai essere superata. Uno studio eseguito da ricercatori dell’Università di Boston, in collaborazione con alcune Università italiane e pubblicato sulla più prestigiosa rivista scientifica internazionale, ipotizza infatti che vi siano delle persone geneticamente predisposte a produrre colesterolo HDL, e quindi in teoria a minor rischio di pre-
sentare un infarto miocardio, che però non sarebbero protette da questi alti livelli di HDL. La ricerca si basa su campioni di DNA prelevati a circa 120 mila persone (circa 21.000 casi di pazienti con infarto e 95.000 di controllo), ricercando una variante del gene “Lipg”. La popolazione che presentava questa variante genetica presentava livelli più elevati di HDL e quindi ci si attendava una minor incidenza di infarto cardiaco, cosa che non si è invece verificata. Si è quindi ipotizzato che certi meccanismi genetici che aumentano i livelli di colesterolo “ buono” nel sangue non sembrano abbassare il rischio di patologie cardiovascolari. Secondo questo studio l’ipercolesterolemia, sia LDL che HDL, aumenta il rischio cardiovascolare e quindi si tornerebbe a dare molta importanza alla “colesterolemia totale”. Questo studio non risponde
comunque ad una domanda fondamentale “se alti livelli di HDL non proteggono dall’infarto miocardio, bassi livelli rimangono un fattore di rischio per le patologie cardiovascolari?“. E’ chiaro che il paziente a rischio è un insieme unico che non è dato dal solo HDL ma anche dal suo peso corporeo, dall’abitudine al fumo, dal diabete, da fattori coagulativi, dalla sedentarietà, ecc. Certo è, che tutti i consigli medici che vengono forniti per aumentare il colesterolo HDL, come la perdita di peso e il raggiungimento del peso forma, l’attività fisica regolare aerobica, la dieta ricca di acidi grassi monoinsaturi e di omega-3 rientrano nel prototipo una vita”sana” e quindi forniscono vantaggi che vanno ben oltre il solo aumento dei livelli di HDL. * Dirigente medico Uoc Cardiologia S. Spirito
La conferma suggerita da uno studio che ha coinvolto venticinque ospedali
Per l’ictus acuto meglio la trombolisi via arteria invece che per vena? di Angelamaria Santoro*
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o studio italiano Synthesis Expansion, che ha coinvolto venticinque centri ospedalieri italiani, si è da poco completato e la pubblicazione dei risultati è attesa per questo stesso mese. I pazienti, selezionati tra quanti ricoverati per ictus acuto, sono stati randomizzati (con scelta casuale predeterminata) verso la trombolisi endovenosa entro 4.5 ore dal manifestarsi dei primi sintomi, o endoarteriosa entro 6 ore dall’inizio dei sintomi. I risultati preliminari, illustrati in un recente congresso, sembrano confermare (in sintonia con dati già pubblicati) che con la trombolisi endoarteriosa si ottengono risultati migliori della tradizionale terapia endovenosa nella riduzione della mortalità e della disabilità grave. Bisogna ancora attendere il dettaglio dei risultati definitivi dello studio, i commenti e le osservazioni degli esperti; e tuttavia ci sono tutti gli elementi per alcune considerazioni generali: – la terapia trombolitica endovenosa è stata approvata dalla FDA da molti anni e nel 2006 ha ricevuto l’indicazione definitiva anche dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), mentre la terapia trombolitica endoarteriosa ancora non ha ricevuto indicazioni al
cora pochi ospedali si sono organizzati per fornire le cure adeguate nelle primissime ore. Non parliamo dell’approccio endoarterioso (che non ha ancora ricevuto approvazione definitiva) ma anche per la trombolisi endovenosa che rappresenta una terapia approvata, in Italia l’accesso alla cura non è garantito in modo uniforme e la maggior parte dei pazienti eleggibili rimangono fuori dalla possibilità di ricevere questo trattamento. I risultati brillanti di uno studio clinico stimolano nell’opinione pubblica aspettative miracolistiche nei confronti di una terapia innovativa quale la trombolisi endoarteriosa. In realtà, non dobbiamo dimenticare che, in generale, il trattamento ottimale di un paziente è il frutto di un processo precedentemente disegnato, di procedure codificate, di professionalità dedicate, di protocolli applicati, in definitiva di organizzazione ottimizzata nell’uso delle risorse. Se realmente la trombolisi endoarteriosa si dimostrerà superiore a quella endovenosa, sarà ancora più impellente per la sanità pubblica organizzare e coordinare in modo economico e ottimale il processo diagnostico-terapeutico dell’ictus. * Dirigente medico Uoc cardiologia, S. Spirito
di fuori degli studi sperimentali; – nell’ictus acuto la grande limitazione delle terapie di rivascolarizzazione è dovuto al rischio sempre presente dell’emorragia intracranica, che può essere anche grave e per la quale sostanzialmente non c’è terapia. I dati, tuttavia, dimostrano che, nonostante ciò, la trombolisi offre al paziente maggiori possibilità di guarigione; – la trombolisi endovenosa è fattibile entro 60 minuti dall’ingresso in ospedale, mentre l’accesso endoarterioso necessita di tempi più lunghi e comunque richiede la disponibilità di un radiologo interventista e una certa complessità assistenziale; – per l’infarto acuto l’approccio endoarterioso (PTCA oppure PCI) ha mostrato facilmente maggiore efficacia della trombolisi endovenosa: nel cuore è quasi sempre la placca autoctona a provocare l’interruzione del flusso del sangue al muscolo cardiaco, mentre l’ictus è più spesso causato da embolie che partono dalle arterie o dal cuore, oppure da occlusioni di arterie troppo piccole per essere disostruite meccanicamente. Perciò le tecniche di rivascolarizzazione non danno risultati sovrapponibili; –nonostante risultati così incoraggianti, an-
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8 Importante successo dell’ottava edizione della due-giorni di Montagnaterapia
Operazione Terminillo Tutti OK alla meta di Rita Lucia Putini*
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a oggi possiamo definirci ex cardiopatici. una camminata che si avvale della successione fisiologica dei moEra ora!”. Per quanto paradossale, la battu- vimenti alternati di braccio e gamba opposti cercando una spinta ta di un by-passato, esplosa mentre si di- efficace (col bastoncino appunto) che porta a ottenere una maggioscendeva dall’anticima del Terminillo re lunghezza del passo senza abbandonare la naturale fluidità del (2.060 metri), rende perfettamente l’idea movimento. E poi perché il Nw è anche un’ efficace tecnica di ridella soddisfazione dei cardiopatici stabi- scaldamento preparatoria di un’escursione in montagna. E giusto a lizzati che, in due giornate splendide di giugno, hanno partecipato questa ci si è preparati col trasferimento nella splendida Leonessa all’ottava edizione di Montagnaterapia. Soddisfazione, dicevamo, (a proposito ancora di paradossi, una curiosità: malgrado sia a dei diciotto “pazienti”: con tutta evidenza il buono stile di vita e nord-est di Roma, sino all’Unità faceva parte del Regno delle Due l’allenamento in palestra rendono in benessere, fanno sì che sia an- Sicilie!) da dove l’indomani ci si è mossi in direzione del complesso delle cime del Terminillo. cora una volta sfatata la leggenda che il carSacco in spalla, quasi tutti “indossando” i diopatico non può andar per monti. Ma sod“Da oggi possiamo definirci bastoncini, si parte in tradizionale fila indisfazione anche dei medici e paramedici ex cardiopatici. Era ora!” diana dallo storico rifugio Sebastiani. Diche li scortavano e li tenevano sotto costante controllo. Infatti i valori (di pressione, di sbotta il più giovane dei diciotto ciotto pazienti: diciotto storie umane, mediche hanno preso parte alla che, psicologiche. C’è il decano (di palestra frequenza cardiaca, di ossigenazione del sperimentazione. e di Montagnaterapia), il solido Santo Lui, sangue, di saturazione arteriosa) via via rePrima la “conoscenza di sé” 87 anni; e c’è la quasi-matricola (il più giogistrati (grazie alla generosa dedizione di con lo psicoterapeuta vane del gruppo, e appena alla sua seconda tre infermieri professionali: Bozena, Anna Giulio Scoppola, poi la lezione esperienza in montagna), Nino Bertoloni e Massimiliano) confermavano la validità di Nordic Walking con l’istruttore Meli, 61 anni. Un filo rosso, sconosciuto a dell’esperienza in sé e – scusate il bisticcio Enrico Faraglia, infine la salita loro stessi sino a un anno fa: il primo tipo– della sperimentazione: servirà sul piano a oltre 2.000 sul Terminillo grafo e il secondo redattore, in stagioni discientifico. con la cardiologa verse, dello stesso quotidiano, Il MessaggeTutto è cominciato secondo tradizione: apFrancesca Lumia e ro. Ci sono dodici infartuati, ben sette bypuntamento di auto e pulmino sulla Salaria, l’emodinamista Alessandro passati (uno dei quali operato due volte) più e prima tappa nel rietino, a Pian di Rosce. Danesi. Il ruolo prezioso degli un elenco eloquente di angine, di sostituCerto, lì c’è un ottimo ristoro, ma non era infermieri professionali. zione valvole, di stent. Eppure tutti, chi più questo lo scopo della sosta che peraltro si chi meno, marciano senza fastidi, sotto protrarrà sino al pomeriggio avanzato. l’occhio discretissimo ma vigile della carDapprima, con la “regìa” dello psicoterapeuta Giulio Scoppola. Ci si conosce e, soprattutto, si realizza una diologa Francesca Lumia, dell’emodinamista Alessandro Danesi e certa “conoscenza di sé” in un confronto a più voci: si raccontano dei medici della Asl di Rieti. Al più qualcuno dei pazienti avvertirà le proprie esperienze non solo strettamente mediche. Poi, con la talora stanchezza muscolare, ma solo quella: i test confermano che “regìa” di Enrico Faraglia, versatile e generoso campione sporti- solo di questo si tratta. vo, in quest’occasione nelle vesti di istruttore di Nordic Walking: Ed è proprio solo un problema di muscoli – ma soprattutto un geci si allena (o, in qualche caso, si scopre questo sport originario sto autonomo di autoregolazione responsabile – quello che sugdella Finlandia) con i classici bastoncini lungo uno splendido sen- gerisce a una metà del gruppo di pazienti di fermarsi un centinaio tiero tra i boschi. Non è casuale il collegamento tra Nw e monta- di metri prima dell’anticima: poche spanne in lunghezza, ma tangna. Intanto perché la tecnica fondamentale di questa disciplina prende spunto dai movimenti propri dello sci di fondo attraverso segue alla pagina successiva
All’ottava edizione di Montagnaterapia hanno partecipato diciotto cardiopatici stabilizzati: Berardino Amici, Paola Arduini, Giovanni Bellini, Nino Bertoloni Meli, Giorgio Buonopera, Pino Capocchia, Giorgio Frasca Polara, Eugenio Galanti, Francesco Gasparoli, Maria Gesualdi, Luciano Iotti, Santo Lui, Vera Letizia Marra, Maurizio Mastruzzi, Oscar Molinari, Vittorio Petrone, Giuseppe Rotundi e Nilde Zonno-De Leo. Con loro anche due compagne di pazienti: Daniela Bellucci e Verena Konig. Preziosa, e ben solida, la presenza, a fianco dei cardiopatici, della squadra dei sanitari del S. Spirito: la cardiologa Francesca Lumia, lo psicologo Giulio Scoppola, l’emodinamista Alesssandro Danesi; gli infermieri professionali Bozena Krakowska, Anna D’Alessandro e Massimiliano Rocci. Al Terminillo si sono aggiunti lo psicologo Paolo Di Benedetto e la cardiologa Isabella Marchese, della Asl di Rieti con cui la Cardiologia del S. Spirito va realizzando un importante rapporto di collaborazione; e infine la preziosa guida del Cai Rosella Carotti.
servizio fotografico di Luciano Iotti
10 te in altezza. Gli altri su, (anche le due “infiltrate” compagne sane di pazienti), su sin oltre i duemila: passi piccoli, respiro cadenzato, occhi fissi sul sentiero ghiaioso per evitare sgradevoli scivolate. L’aria è fina, a est sembra di essere ad un passo dal Gran Sasso e dalla Majella. Alla (simbolica) mèta si scolano le borracce, si consuma un poco di frutta e cioccolata amara, e giù verso il rifugio dove per tutti è pronto, ed è già pomeriggio, un piatto di polenta. I polpacci e le braccia di più di qualcu-
no non sembrano ancora esausti? Ecco per loro la parete del rifugio attrezzata a climbing wall: ci si arrampicano disinvolti in parecchi, pazienti, medici, infermieri (anche gli amici medici della Asl di Rieti che sono oramai una presenza costante a fianco dei loro colleghi del S. Spirito). Un successone, insomma, prima che Francesca Lumia e Giulio Scoppola traggano dall’esperienza alcune considerazioni non solo positive ma ottimistiche sul futuro della Montagnaterapia, oramai così adulta da
imporre per il futuro qualche ulteriore variante e/o migliorìa. Intanto Nino Bertoloni Meli migliorerà il suo personale primato di velocità: come l’anno passato si trasformerà da matricola montanara in ben più sperimentato ciclista correndo sulle sue due ruote da corsa la discesa vertiginosa di ventidue chilometri, dal Sebastiani a Rieti, a oltre trenta di media, seguito in auto dal suo improvvisato trainer, un altro paziente armato di partecipe pazienza.
Importante successo dell’ottava edizione della due-giorni di Montagnaterapia
Il rapporto tra ipertensione e montagna di Francesca Lumia*
L’
ambiente montano presenta caratteristiche che variano in funzione della quota: densità e umidità dell’aria, presenza di aereoallergeni e aereoinquinanti, irraggiamento solare, pressione barometrica. Con l’aumentare della quota vi è una progressiva riduzione della pressione atmosferica e della pressione parziale di tutti i gas contenuti nell’atmosfera, quindi anche dell’ossigeno che è quello che ci interessa di più. Le risposte dell’organismo all’ipossia, con ovvio coinvolgimento dei sistemi cardiocircolatorio e respiratorio, dipendono dall’entità, dalla rapidità di insorgenza e dalla durata dello stress ipossico. Per quote inferiori a 3.000 metri la saturazione di ossigeno del sangue arterioso non è mai inferiore al 90%, quindi gli adattamenti che l’organismo deve mettere in atto sono trascurabili, mentre per quote superiori a 3.000 metri i livelli di saturazione si riducono molto e in maniera esponenziale in virtù della particolare forma della curva di dissociazione dell’emoglobina ed allora le risposte che l’organismo deve mettere in atto sono rilevanti. Durante le prime ore di esposizione alla
quota, il sistema respiratorio cerca di “respirare di più e meglio” tramite un incremento della ventilazione e una vasocostrizione delle arteriole polmonari, mentre il sistema cardiovascolare, cerca di far “circolare il sangue di più e meglio” tramite un incremento della frequenza e della gittata cardiaca e della pressione arteriosa. L’incremento della pressione arteriosa viene controbilanciato, sempre nelle prime ore da una vasodilatazione sistemica come risposta diretta all’ipossia, che talvolta può portare come risultante ad un effetto finale di riduzione della pressione nelle prime ore di esposizione alla quota. Perdurando la permanenza in montagna, persiste l’attivazione del sistema simpatico e durante i primi giorni, anche fino a sette giorni, si può rilevare un incremento della pressione arteriosa rispetto ai valori rilevati in pianura. Non esistono molti studi in letteratura riguardanti il comportamento della pressione arteriosa in quota. Dai pochi dati esistenti possiamo trarre alcuni concetti, che hanno trovato riscontro anche nella nostra esperienza ormai quasi decennale con i pazienti della riabilitazione cardiologica dell’ospedale Santo Spirito. Un maggior incremento della pressione arteriosa si ha nei
soggetti ipertesi o con pressione border-line rispetto ai normotesi. L’incremento di solito è moderato e molto variabile da individuo a individuo. Nella nostra esperienza, durante esposizione acuta ad una quota tra 1.000 e 2.000 metri in pazienti cardiopatici ipertesi e normotesi con terapia ottimizzata e valori pressori stabili a livello del mare, raramente abbiamo rilevato un incremento e le differenze non hanno mai ecceduto i 20 mmHg per la sistolica e 10 mmHg per la diastolica. L’aumento della pressione si può verificare anche a partire dai 1.200 metri di quota e l’incremento può essere accentuato dall’esercizio. I pazienti con pressione non ben controllata non dovrebbero andare in quota. In conclusione, considerando la prevalenza dell’ipertensione nella popolazione mondiale e il continuo incremento di viaggi, soggiorni e trekking anche a quote elevate e la ancora diffusa persistente convinzione che l’iperteso non può andare in montagna, è auspicabile effettuare studi su un numero più ampio di soggetti e soprattutto a quelle basse e medie quote che sono le più accessibili per la maggioranza della popolazione. * Dirigente medico Uoc Cardiologia S. Spirito
Soprattutto quelli notturni, non regolari o che mutano
Se i turni di lavoro fanno male al cuore di Francesca Lumia*
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n’indagine internazionale che ha coinvolto più di due milioni di lavoratori e che ha registrato i risultati, più parziali, di 34 ricerche precedenti, documenta come i turni di lavoro (serali, notturni, non regolari, comunque spesso mutanti) non solo provochino disturbi come l’insonnia o salti di pressione ma rappresentino anche e soprattutto un danno al sistema cardiovascolare. I risultati dello studio sono apparsi sul prestigioso British Medical Journal e ripresi dal corriere.it/ salute: tra 2.011.935 individui con mestieri diversissimi (baristi e infermieri, medici e operai, marinai e controllori di volo, ecc.) si sono verificati 17.359 eventi coronarici tra cui 6.598 attacchi di cuore e 1.854 ictus. Ora attenzione: l’incidenza percentuale è nettamente più frequente tra quanti sono sottoposti a turnazione. Più in dettaglio, tra i turnisti si registra una crescita del 23% dei rischi di infarto, un aumento di 24% di eventi coronarici e un 5% in più di incidenza di ictus rispetto ai lavoratori normali che seguono orari diurni, prestabiliti e sempre uguali. Le condizioni peggiori riguardano chi pratica turni notturni: qui il rischio di malattie cardiovascolari raggiunge il 41% in più rispetto alle altre categorie. Il rimedio? Per fronteggiare una condizione lavorativa così disagevole e insana (ma mai mortale, sottolinea l’indagine) è la sensibilizzazione dei lavoratori e dei datori di lavoro: gestire al meglio possibile il proprio stile di vita anche abituandosi a controlli frequenti, e a riconoscere per tempo qualsiasi sintomo di una condizione di non normalità. Ve ro è che non c’era bisogno di indagini così ampie per confermare che i turni lavorati-
vi (e quindi per loro natura cangianti) non giovano comunque alla salute: stravolgimento del ritmo sonno-veglia e mancanza di regolarità dei tempi di vita stravolgono anche psicologicamente un’esistenza. Ed erano già notissimi almeno tre dati: l’aumento della pressione, l’aumento del colesterolo, la propensione al diabete. E pare che esista – è sensazione diffusa negli osservatorii epidemiologici, ma non ci sono dati esaustivi – un nesso significativo anche con alcune patologie tumorali. Il primo allarme era stato dato nel 2007 dall’International Agency for Research on Carcer che definì il lavoro notturno come un possibile agente cancerogeno; e precedenti ricerche evidenziarono come i turni lavorativi delle donne fossero collegati ad una maggior propensione al tumore al seno. Sballando il ritmo circadiano è infatti probabile una interferenza sulla produzione di alcuni ormoni a sua volta all’origine di alcune forme tumorali.
Ma c’è una causa oggettiva dei mali del turnismo: le cattive abitudini cui è costretto il lavoratore. Parliamo dei panini consumati con regolarità in luogo di un pranzo regolare o quanto meno di un monopiatto, il dormire poco e male, lo scarso o nullo esercizio fisico, e quant’altro crea disordine nell’alimentazione, nelle abitudini, in una corretta gestione del proprio essere.
Si ringrazia la Abbott Vascular Knoll-Ravizza per il sostegno economico per la pubblicazione di questo giornale
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Cause e natura dell’embolia polmonare
Quando si blocca l’arteria che conduce il sangue ai polmoni di Alessandro Totteri*
L’
embolia polmonare è una patologia dovuta all’ostruzione improvvisa di uno o più rami dell’arteria polmonare (vaso che trasporta il sangue dal cuore ai polmoni) da parte di materiale trombotico che proviene dalla circolazione venosa. Nella maggior parte dei casi, infatti, è presente una trombosi venosa del circolo profondo degli arti inferiori. Il materiale trombotico della vena può distaccarsi dal trombo principale e, seguendo il flusso venoso, attraversare le sezioni destre del cuore e propagarsi all’arteria polmonare occludendola parzialmente o completamente. Ne deriva un sovraccarico acuto del circolo polmonare con disfunzione di vario grado del cuore. In rari casi l’embolia può essere di diversa origine come nel caso dell’embolia gassosa. La prima definizione storica si deve a D. Hélie, un medico francese, che nel 1837 descrisse l’episodio di una lavandaia di 65 anni, di bassa statura e in sovrappeso, ricoverata per distorsione della caviglia ed immobilizzata per un mese. Dopo la dimissione, in pieno benessere, la donna manifestò improvvisamente affanno e cianosi del volto e morì alcuni minuti dopo. All’autopsia il medico descrisse un cuore ingrandito con presenza di coaguli all’interno del circolo polmonare. La precisa incidenza di questa malattia risulta difficile in quanto non sempre viene posto il sospetto clinico a causa della sintomatologia di presentazione che può essere estremamente variabile. Non esiste
quindi un sintomo specifico dell’embolia polmonare; il paziente infatti può presentare dispnea (affanno) ad insorgenza improvvisa, dolore toracico, sincope, tosse con espettorato ematico. Tra i segni più frequenti si evidenziano cianosi, turgore delle giugulari, tachicardia, ipotensione che se grave può determinare shock cardiogeno talora fatale. Non si devono peraltro dimenticare i segni di una eventuale trombosi venosa profonda, ovvero edema e dolore agli arti inferiori specialmente alla palpazione, che peraltro non sono presenti in più del 30% dei pazienti. La formazione di una trombosi all’interno del circolo venoso non è peraltro un evento
fisiologico. si deve infatti allo scienziato tedesco Rudolf Virchow il riconoscimento intorno al 1845 delle tre condizioni fondamentali (triade di Vichow) che causano la trombosi venosa: l’ipercoagulabilità del sangue, la lesione parietale e la stasi venosa. Il sospetto clinico di embolia deve essee comunque convalidato da un iter diagnostico preciso ed accurato. In questi casi
va effettuato: il dosaggio del D-DIMERO, esame peraltro scarsamente specifico ma molto sensibile (l’assenza di aumento del D-DIMERO indica l’assenza di trombosi) e una emogasanalisi che molto spesso dimostra una riduzione dei valori di ossigeno (ipossiemia) insieme a riduzione dell’anidride carbonica (ipocapnia). Comunque l’esame di riferimento è la TAC spirale con mezzo di contrasto, che permette la visualizzazione diretta dell’embolo nelle arterie polmonari. Esami utili o di supporto possono essere l’elettrocardiogramma, l’ecocardiogramma ed eventualmente la scintigrafia polmonare. Una menzione va riservata all’ecodoppler venoso che in molti casi evidenzia la trombosi venosa profonda delle gambe. Il paziente con embolia polmonare deve essere necessariamente ricoverato in terapia intensiva in quanto dovrà ricevere un corretto apporto di ossigeno e nel contempo correggere un eventuale deficit acuto del cuore, oltre ad essere seguito con un attento monitoraggio delle funzioni vitali. Gli ulteriori obiettivi sono di arrestare la formazione del coaugulo e prevenire le recidive emboliche mediante eparina per via endovenosa e successivamente con anticoagulanti orali per almeno 6 mesi. Nei casi di intabilità emodinamica possono essere utilizzati i fibrinolitici, farmaci che sciolgono il trombo nell’arteria polmonare con conseguente miglioramento degli scambi gassosi e della circolazione polmonare. * Dirigente medico Uoc Cardiologia S. Spirito
Nei pazienti portatori di stent coronarici
Problema pre-operazione: quando sospendere la terapia antiaggregante di Flavia Belloni*
L
a gestione della terapia antiaggregante nei pazienti portatori di stent coronarici, candidati a chirurgia, rappresenta un problema rilevante, che spesso vede contrapposti cardiologi e chirurghi. E’ stata stimato che una quota variabile tra 4% e 8% dei pazienti sottoposti ad impianto di stent coronarico andrà incontro ad intervento chirurgico entro il primo anno. La chirurgia rappresenta, peraltro, la prima causa di sospensione prematura della terapia antiaggregante, determinando un aumento significativo di mortalità di eventi cardiaci maggiori, specie la trombosi dello stent. È noto che il paziente portatore di stent necessita di una duplice terapia antiaggregante orale e che la prematura sospensione di uno o entrambi i farmaci comporta, specie nei primi mesi dopo l’intervento, un rischio significativo di trombosi di stent (ST), evento potenzialmente mortale. D’altra parte la terapia antiaggregante aumenta notevolmente il rischio emorragico in corso di procedure chirurgiche o endoscopiche. La gestione della terapia perioperatoria antiaggregante è spesso individuale e necessariamente condivisa tra chirurgo e cardiologo. La prematura sospensione di tale terapia, infatti, si è rivelata un importante fattore di rischio per la ST. La ST è spesso un evento drammatico, che presenta frequentemente come corrispettivo clinico un infarto miocardico acuto (IMA) o la morte, è gravato da una mortalità che varia dal 20% al 45%. Il problema della gestione della terapia antiaggregante non si limita al primo anno post PCI. Il rischio di ST e, più in generale, di un nuovo evento ischemico, non riconosce un limite temporale né una sola tipologia di stent, anche se l’entità
del rischio tende a ridursi con il tempo che intercorre tra la PCI e la sospensione della terapia antiaggregante. Uno dei problemi legato alla sospensione dell’aspirina riguarda l’effetto rebound, un aumento dell’attività del trombossano A2 ed una riduzione della fibrinolisi, con conseguente aumento dell’adesione e dell’aggregazione piastrinica. L’intervento chirurgico induce di per sé uno stato di ipercoagulabilità legato, a sua volta, ad un aumento del numero delle piastrine e della loro reattività, oltre che ad un aumento della concentrazione del fibrinogeno e di altre proteine della cascata della coagulazione. Inoltre la maggior parte degli interventi non cardiaci non differibili sono eseguiti in uno stato pro-infiammatorio e pro-trombotico, legato alla presenza di neoplasia, anemia o recente trauma. Indipendentemente dal rischio emoraggico intra e postoperaotorio specifico per un dato intervento, è noto che la doppia terapia antiaggregante si associa ad un aumento del rischio di sanguinamento. La stratificazione del rischio emorragico per i singoli interventi è fondamentale al fine di definire al meglio il rapporto rischio/beneficio in termini ischemici ed emorragici in relazione al mantenimento o sospensione della terapia antiaggregante. A tale proposito, è importante, inoltre, che la stratificazione del rischio emorragico sia fatta in termini assoluti, piuttosto che in termini relativi. Spesso, infatti, anche se la terapia antiaggregante si associa ad un aumento relativo del rischio emorragico, questo rimane in assoluto modesto, specie in relazione alla riduzione degli eventi ischemici che si ottiene con il mantenimento della terapia antiaggregante. Le attuali linee guida non forniscono protocolli operativi chiari 13
14 in relazione al rischio trombotico del paziente ed alle diverse tipologie di interventi chirurgici e rimandano per lo più, ad una valutazione dei singoli casi; raccomandano una terapia antiaggregante con aspirina e di un inibitore dei recettore P2Y, per almeno un mese dopo il posizionamento dei stent metallico e 612 mesi dopo il posizionamento di stent medicato. Al fine di decidere la terapia antiaggregante da mantenere nella fase perioperatoria, viene raccomandata un’attenta straficazione del rischio ischemico ed emorragico. Per quanto riguarda il rischio emorragico, alcuni tipi di chirurgia, come quella dermatologica od oftalmologia, sono ritenute a basso rischio e non dovrebbero richiedere la sospensione della terapia antiaggregante. Altre chirurgie a rischio moderato di sanguinamento come interventi ortopedici o addominali possono essere eseguiti in aspirina. Solo nei pazienti che devono essere sottoposti ad interventi chirur-
gici in cavità chiuse o quando si reputa elevato il rischio di complicanze emorragiche maggiori, la sospensione della terapia antiaggregante 5.-7 giorni prima dell’intervento andrebbe valutata nei singoli casi. E’ opportuna la valutazione del rischio trombotico di ogni paziente considerando i fattori clinici e di quelli angiografici. Qualora sia necessario sospedere al terapia antiaggregante per interventi ad alto rischio emorragico, il clopidogrel dovrebbe essere sospeso 5-10 giorni prima della chirurgia e reintrodotto il prima possibile dopo l’intervento. Nel caso di sospensione della terapia con clopidogrel, l’uso di eparina non frazionata o di eparina a basso peso molecolare è generalmente non raccomandato, in quanto tale terapia è associata ad un aumento del rischio dei sanguinamenti e non ha alcun effetto antiaggregante. * Dirigente medico Uoc Cardiologia S. Spirito
Un guscio che cela benefiche proprietà
Cuore più protetto con tre noci al dì di Gabriella Greco*
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n lettore ci ha scritto: mi hanno consigliato di mangiare tre noci al giorno per accrescere la protezione del cuore. Sarà vero? Sì è vero: tra le proprietà benefiche attribuite al consumo di (poche) noci ci sono la riduzione del colesterolo Ldl; la protezione da attacchi cardiaci e ictus; la riduzione della pressione e un rischio inferiore di sviluppare il diabete mellito. Queste proprietà sono confermate da numerosi studi, come spiega il biologo nutrizionista Massimiliano Matteoni. Intanto, le noci contengono oltre il 60% di grassi, ma soprattutto quelli buoni, mono e polinsaturi, tra cui il precursore degli Omega 3 che abbassano il colesterolo cattivo e migliorano il profilo lipidico del sangue. Non basta: le noci contengono anche discrete quantità di vitamina E, po-
tente antiossidante, e di magnesio, che aiuta a tenere sotto controllo la pressione. Infine, sono anche ricche di un aminoacido (l’arginina) che stimola la produzione di ossido nitrico, un classico vasodilatatore e inibitore dell’aggregazione piastrinica che contribuisce a migliorare il flusso sanguigno nelle arterie e a ridurre le cardiopatie. Attenzione, però: le noci sono molto caloriche, vale a dire che dieci grammi di gherigli forniscono circa 60 calorie. Quindi uso moderato, ok a tre noci al dì, come spuntino per esempio o in un piatto unico come quello descritto di seguito...
Noci + mela + formaggio + belga Gli ingredienti, anzitutto: 4 cespi di insalata belga, una mela, 70 gr. di gherigli di noce, 100 gr. di formaggio morbido magro, il succo di un limone, un po’ di olio extravergine di oliva, sale e pepe q.b. La preparazione è facilissima, dieci minuti al massimo, costo piuttosto modesto e – importante – solo 316 kl a porzione.
La preparazione: tagliare l’insalata per traverso; sbucciare la mela a cubetti e passarla nel succo di limone; aggiungere le noci non troppo sminuzzate e il formaggio light tagliato a cubetti. Ora mischiare delicatamente e condire il tutto con olio, sale e pepe. La dietista dirà che qualche noce al giorno toglie il medico di torno. E aggiungerà che questa ricetta è completa di tutti gli elementi nutritivi (frutta, verdura, frutta secca, latticini, grassi buoni) di un pranzo legge-
ro e sano da completare con una fetta di pane, magari integrale, e mezzo bicchiere di vino.Il pranzo è servito. (Ricetta fornita dalla Coop-Tirreno)
Inquietanti risultati di una indagine su studenti tra i 16 e i 18 anni
Prevenzione cardiaca utile (anzi necessaria) fin dai banchi di scuola
S
u ottomila ragazzi tra i 16 e i 18 anni di ottantacinque scuole di diverse regioni del Paese, solo la metà (esattamente il 52%) ha mostrato all’elettrocardiogramma parametri normali. Per un altro 27% il responso è stato prudente: giusto e solo “nei limiti della norma”. Ma nel 21% degli studenti esaminati sono state riscontrate delle sospette “alterazioni elettrocardiografiche” che rendevano necessario un approfondimento diagnostico. Così, in seguito ad ulteriori esami, è emerso che l’1% (precisamente 81 ragazzi) presentava malattie “pericolose”, degne della massima attenzione e urgenza, e quindi di esami di terzo livello. E grazie a questi nuovi controlli sono state individuate svariate patologie: cardiomiopatie dilatatorie e ipertrofiche, miocarditi, presenza di vie accessorie, sindromi di Brugada e del Qt lungo. L’indagine – “A Scuola di Cuore” – è stata condotta dalla Società italiana di cardiologia (Sic) effettuando una serie di Ecg a caso, in scuole d’ogni genere, da un capo all’altro dell’Italia: uno screening, dunque, attento e significativamente capillare. Dunque, condizioni ottimali per verificare come e perché possono accadere (a calcetto, in pallavolo, in podismo, anche
fuori della scuola) degli infortuni cardiaci in studenti apparentemente sani. I risultati confermano dunque almeno due cose. Intanto la necessità che la prevenzione cardiovascolare abbia inizio sin dai banchi di scuola, e già da quando le condizioni psicofisiche della crescita si sono almeno relativamente stabilizzate. E poi che lo screening è tanto più necessario in quelle scuole che hanno una palestra e dove quindi i ragazzi fanno obbligatoriamente sport.
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