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Bruno Buozzi, un sindacalista per tempi di ferro

Politica e Storia

Bruno Buozzi, un sindacalista pertempi di ferro

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Giovan Giuseppe MENNELLA

La fine dell’Ottocento era un periodo davvero buio per i lavoratori e le classi meno abbienti. Le fabbriche e campi da coltivare erano luoghi di lavoro durissimo, e malsani, dove ci si ammalava e si moriva frequentemente d’incidenti, di malnutrizione, di malattie professionali. I lavoratori non avevano neanche il diritto al voto e le manifestazioni di protesta organizzate dalle prime associazioni di tutela e di difesa, erano represse nel sangue dalle forze di polizia o dell’esercito. Le prime organizzazioni sindacali e il neonato partito socialista agivano per instillare nei lavoratori la coscienza dei loro diritti e del ruolo politico che avrebbero dovuto assumere nella società, gettando il seme dell’instaurazione di un socialismo liberale che doveva essere il pilastro degli Stati veramente moderni. Ma questa è una storia che allora era veramente lontana dall’essere pienamente realizzata. In quest’ambiente difficile e travagliato, nel 1881 a Pontelagoscuro, nella bassa ferrarese, nasce Bruno Buozzi, il personaggio che doveva diventare proprio un leader e un alfiere del socialismo. A differenza di altri esponenti del sindacalismo e del socialismo, Buozzi ha le medesime umili origini dei soggetti che avrebbe difeso e di cui avrebbe tutelato i diritti. Infatti, a causa della povertà della famiglia, è costretto come tanti altri ragazzi dell’epoca a lavorare in officina fin dall’età di undici anni. Si distingue ben presto per intelligenza, sensibilità, forte desiderio di imparare e per la consapevolezza dei problemi e delle sfide da affrontare per migliorare le condizioni dei lavoratori. Fre-10

quenta le scuole serali come studente lavoratore. Diventa operaio specializzato ed entra nel Sindacato dei metallurgici milanesi. Nella grande città, da giovane preparato, intelligente e pacato, non solo affina i suoi studi presso la filantropica Società umanista milanese, dove ha una borsa di studio, ma si mette in luce anche come valido esponente del Sindacato.

Per il suo impegno ha anche modo di suscitare l’ammirazione e il plauso non solo di un intellettuale importantissimo del mondo socialista come Antonio Gramsci, ma anche di esponenti del mondo dell’alta cultura borghese, come l’economista e futuro Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Gino Castagno, suo amico e compagno di lotta di allora, ebbe a testimoniare che la

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capacità principale di Buozzi era di saper indicare efficacemente ai lavoratori che il metodo di lotta doveva essere indirizzato non solo verso il semplice riscatto dalle peggiori condizioni di miseria umana ma soprattutto verso concrete e realizzabili rivendicazioni di miglioramenti economici e normativi. In pratica, comincia a elaborare un metodo di contrattazione con la controparte padronale basato sulla statistica, sullo studio delle condizioni e dei fatti concreti, per squadernarli in argomentazioni chiare, da porgere con la diplomazia della bonomia e del sorriso. Questo modo di procedere suscita sempre una certa simpatia da parte di compagni e avversari, lo stesso Mussolini lo considerò sempre uno degli avversari più validi e preparati, ma anche attacchi violenti e subdoli da parte di molti detrattori, in prima fila i sindacalisti rivoluzionari e gli stessi comunisti, che per minarne la credibilità non esitarono a ricorrere alla calunnia e a illazioni non provate. La sua efficace e concreta azione sindacale, unita alle qualità umane, lo portano nel 1909 a diventare, a soli ventotto anni, Segretario della Fiom, la Federazione degli operai metallurgici, in un periodo assai difficile, giacché quel Sindacato viveva un periodo di crisi e di scarso potere rivendicativo, anche per le accuse di appropriazione indebita rivolte al Segretario uscente. In soli due anni la guida di Buozzi porta la FIOM non solo a riprendersi dalla crisi, ma a influire concretamente nella vita sociale e politica dell’intera Nazione. Quelli sono anni importanti e decisivi, il giovane Benito Mussolini è diventato un massimalista e vociferante capo del Partito Socialista, ben presto è concesso il diritto di voto agli operai di età superiore ai trenta anni, cominciano a nascere i partiti di massa, tra cui lo stesso Partito socialista. E prendono forza anche le rivendicazioni di potenza e di espansione imperialista dei nazionalisti, con alla testa come punte di lancia alcuni movimenti intellettuali, tra cui degno di nota il Futurismo.

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Il Partito socialista e le stesse Associazioni sindacali sono spaccate tra Massimalisti e Riformisti. La spaccatura è significativa soprattutto sul metodo da seguire per ottenere una società socialista, un metodo rivoluzionario violento per i Massimalisti e un metodo democratico, rivendicativo e gradualista per i Riformisti. Il nostro Buozzi è fautore non della lotta di classe rivoluzionaria in sé e per sé, ma dei progressi che la lotta più indurre in una società democratica nel suo complesso. La battaglia vera deve essere quella del Sindacato, un Sindacato democratico, aperto a tutte le tendenze, per ottenere quei miglioramenti e quelle conquiste che disegnino una società democratica e un socialismo umanista e positivista. Insomma, per Buozzi l’obiettivo decisivo e fondamentale deve essere quello di una più equa distribuzione delle risorse economiche della Nazione. La prima forma di democrazia deve essere instaurata nella fabbrica. Esemplare per capire il suo metodo è un suo discorso in un’accesa riunione con gli industriali proprietari, nell’ambito di una difficile vertenza riguardante i metallurgici. Nel suo discorso Buozzi ebbe a sottolineare che aveva sempre avuto una posizione possibili-

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sta, consigliando agli operai di tenere conto anche delle condizioni economiche delle industrie, che non si era mai ritenuto infallibile ascoltando seriamente quanto emergeva nelle trattative, ma che pretendeva una reciprocità da parte degli industriali che pure dovevano sforzarsi di comprendere le esigenze e necessità vitali dei lavoratori. Poi viene la Grande Guerra; Buozzi fa propaganda contro la guerra, come tutti i socialisti e la gran parte dei sindacalisti. I nazionalisti e i militari lo prendono di mira, lo pedinano, probabilmente fanno piani per ucciderlo, ma il Governo ferma tutto, per non perdere l’appoggio dei lavoratori allo sforzo bellico. E lui approfitta della situazione nuova, quella dei comitati per la mobilitazione a fini bellici dei lavoratori, per farne un’opportunità per nuove forme di contrattazione organizzata che nel corso del conflitto riesce anche a ottenere alcuni aumenti salariali e migliori condizioni di sicurezza nelle fabbriche. Finita la guerra, le condizioni del Paese rimangono molto difficili, per il grave debito pubblico accumulato, per la disoccupazione causata dalla riconversione dell’industria bellica e la smobilitazione di centinaia di migliaia di militari ormai resi estranei al mondo produttivo per la lunga assenza dalla società. Nel 1920 il conflitto sociale porta all’occupazione delle fabbriche metallurgiche. Buozzi è alla testa del movimento e cerca di governarlo e indirizzarlo in positivo. Ottiene le otto ore lavorative giornaliere, il minimo salariale, l’istituzione delle Commissioni interne. Propone anche, a livello politico, la cogestione delle risorse tra datori di lavoro e lavoratori che però non passa, anche se suscita l’interesse dello stesso Mussolini. C’è un incontro tra i due, in cui Mussolini chiede a Buozzi se con l’occupazione delle fabbriche se intendesse fare non solo delle rivendicazioni ma anche della politica, proponendogli di appoggiarlo per un tentativo rivoluzionario. Buozzi rifiuta

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e più tardi racconta che in quel frangente Mussolini sembrava non sapesse esattamente dove voleva arrivare, ma dava l’idea di voler comunque arrivare al potere in qualunque modo e con qualunque programma. In realtà non c’erano le condizioni per un movimento rivoluzionario e alcuni ne erano consapevoli, come ha appurato anche la storiografia successiva. E’ interessante però riflettere sull’atteggiamento che in quel momento e anche in seguito assuma Mussolini nei confronti di Buozzi. E’ di grande considerazione per la statura e le capacità del personaggio e cercherà sempre di contrattare con lui e di portarlo dalla propria parte, come vedremo in seguito. Durante l’occupazione delle fabbriche s’inaugura il metodo di lotta dell’ostruzionismo, alternativo allo sciopero. Buozzi lo giustifica, rispondendo a Luigi Einaudi che lo criticava, in quanto con uno sciopero prolungato gli industriali avrebbero consumato notevoli risorse finanziarie e gli operai si sarebbero ridotti alla fame. Il suo rapporto con i deputati del Partito Popolare passa da una prima fase di aperta critica, in cui li accusa di fomentare la guerra civile contro i socialisti, a una proposta di alleanza in funzione antifascista e antinazionalista. Quanto questa posizione fosse preveggente sta a dimostrarlo l’alleanza antifascista successiva che durante la Resistenza portò al Comitato di Liberazione Nazionale, con tutte le forze antifasciste, foriero della rinascita democratica della Nazione nel dopoguerra. Nell’ambito di quest’azione politica di ricucitura delle forze antifasciste, propone la previdenza sociale per i lavoratori e la promulgazione di un Codice del Lavoro, anch’essi istituti che dovevano svilupparsi proficuamente nella Italia democratica risorta dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale.

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Ma in quell’epoca, questi sviluppi non si realizzano e anzi, nel 1921, con il fallimento politico del movimento di occupazione delle fabbriche, maturano sia la conquista violenta delle piazze da parte delle squadre paramilitari del fascismo agrario dell’Italia settentrionale, sia, all’interno del movimento socialista, la scissione di una parte dell’ala massimalista socialista che fa nascere, nel Congresso di Livorno, il Partito Comunista d’Italia, composto dalle due frange dei bordighisti, contrari al metodo parlamentare, e dei gramsciani dell’Ordine Nuovo favorevoli alla lotta di base dalle fabbriche. E’ proprio dall’interno del PCd’I che, in adesione ai ventuno punti di Lenin richiesti per l’ammissione all’Internazionale Comunista, tra cui quello dell’obbligo di critica ed espulsione dei socialisti riformisti, fioccano critiche durissime e ingenerose contro Buozzi, definito servo dei padroni perché non aveva dato sbocco rivoluzionario all’occupazione delle fabbriche.

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Così il nostro protagonista fonda insieme a Giacomo Matteotti e Sandro Pertini il Partito Socialista Unitario. Dopo la Marcia su Roma, quando Mussolini ha formato il suo primo Governo ma vigono ancora il sistema parlamentare e le elezioni rappresentative, Buozzi e Matteotti prendono più di una volta la parola esprimendo la ferma opposizione al Governo, considerandolo chiaramente contro gli interessi dei lavoratori.

Dal canto suo, Mussolini vorrebbe avere proprio l’appoggio dei lavoratori e propone a Buozzi, in quanto ormai riconosciuto come il loro più ascoltato leader sindacale e politico, di diventare Ministro del Lavoro. Siamo alla fine del 1922, ma quest’opzione dura poco, sia perché rifiutata decisamente da Buozzi, sia perché il Capo del Fascismo si orienta ben presto verso l’alleanza con gli industriali e le classi proprietarie dominanti e, con gli sviluppi del caso Matteotti, arrivano le leggi liberticide e la dittatura. Filippo Turati, il padre nobile del socialismo riformista e umanitario, deve lasciare l’Italia dopo la famosa e rocambolesca fuga preparata da Aldo Rosselli e Adriano Olivetti e dopo avere dormito per una notte nascosto nella casa del professor Giuseppe Levi, come ricordato in “Lessico familiare” dalla figlia del professore, l’allora adolescente Natalia Ginzburg.

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Buozzi non si piega alle proposte di collaborare con il Regime, è aggredito dagli squadristi nel 1924 durante un’assemblea della FIOM, riesce a scappare fortunosamente, grondante di sangue. Nel 1925 è eletto Segretario della CGIL, la Confederazione Generale del Lavoro. Ma ormai il tempo della libertà e della libera azione sindacale e politica è scaduto. Deve scappare anche lui a Parigi. Nel periodo del suo esilio, Mussolini tenta ancora una volta di strappare la sua collaborazione al regime, cerca di farlo rientrare in Italia. Infatti, prepara la gestione corporativa del lavoro con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni e un diritto del lavoro e Organizzazioni dei lavoratori asservite. Buozzi ancora una volta rifiuta. Dice chiaramente in varie prese di posizione che non avallerà mai un regime che ha privato i cittadini della libertà, delle libere manifestazioni del pensiero, del diritto di associazione, ha istituito il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Non ha nulla da chiedere al Regime, meglio in esilio che in Italia per gentile concessione del Capo. Anche se, sempre ragionevole e saggio, non esprime alcuna condanna per chi resta in Italia, infatti, non può andare in esilio un intero popolo. Con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943, rientra in Italia ed è subito Ministro nel Governo Badoglio, ma con l’occupazione tedesca deve entrare in clandestinità e riprende ad organizzare la lotta antifascista a Roma. In questo periodo sigla con gli altri due leader sindacali, Di Vittorio per i Comunisti e Grandi per i cattolici, il Patto di Roma per l’unificazione dei rappresentanti dei lavoratori in un Sindacato unitario, di cui dopo la guerra sarebbe stato sicuramente il Segretario Generale.

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Ma è catturato dai nazisti per il tradimento di un giovane socialista, convinto da E- rich Priebke a collaborare con promesse di denaro e minacce. Gli avvenimenti si susseguono rapidamente, è rinchiuso a Regina Coeli dove dimostra ancora una volta il suo carattere cordiale e accogliente. Conforta gli altri detenuti, indifferente alle violenze e ai soprusi dei carcerieri, si priva della razione di pane per darla a chi è più affamato, è considerato dagli altri detenuti quasi come un padre e una volta rimane a parlare tutta la notte con un giovane prigioniero per convincerlo a non togliersi la vita. Al momento della fuga dei tedeschi da Roma quando il 4 giugno 1944 gli alleati stanno per entrare in città, i detenuti sono divisi in tre scaglioni, una parte è fucilata immediatamente, una parte rimane in carcere e una terza parte, tra cui Buozzi è

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messa sui camion per essere deportata al Nord e forse in Germania nei campi di concentramento. Si è ipotizzato che Buozzi fosse condotto a Nord per ordine di Mussolini che voleva ancora una volta tentare di convincerlo a collaborare con il nascente Fascismo repubblicano. Comunque, in località La Storta, a nord di Roma, il camion su cui si trova lui va fuori uso. Nella concitazione del momento un funzionario della Polizia germanica decide di far uccidere tutti gli occupanti.

Muore così a sessantatre anni il grande leader sindacale politico del socialismo riformista.

Si è molto discusso tra gli storici se la sua uccisione debba essere considerata fruttodella fatalità e del caso o non sia stata dovuta ad un preciso ordine venuto dall’alto.

La circostanza accertata che sul posto erano presenti anche Herbert Kappler ed E- rich Priebke farebbe propendere per la seconda ipotesi, non sembrando plausibile che un ordine per eliminare un personaggio così importante sia stato dato da un o- scuro funzionario di polizia in presenza dei vertici della Gestapo a Roma.

La perdita di un personaggio così importante per il sindacato e la politica è davverolamentevole, considerato quanto avrebbe potuto ancora dare in termini di intelligenzapolitica e diplomazia nell’Italia del dopoguerra.

Sarebbe stato sicuramente il Capo del Sindacato Unitario e un politico di grandelivello, un Di Vittorio socialista.

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