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Jazzisti americani in missione diplomatica
from l’Unità Laburista - Egitto, la nuova Primavera contro il faraone - Numero 13 del 26 settembre 2019
Musica e Politica
Jazzisti americani in missione diplomatica
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Giovan Giuseppe MENNELLA
Nel 1955 si svolse a Bandung, in un’Indonesia da non molto indipendente dal dominio coloniale dei Paesi Bassi, la Conferenza mondiale dei Paesi che si dichiaravano non allineati né con gli USA né con l’URSS. Erano i Paesi, per lo più extraeuropei ma non solo, che avevano ritenuto di non fare parte di alcuno dei due schieramenti che si andavano fronteggiando, in alleanze militari e non, nella Guerra Fredda tra le due superpotenze.
Vi si imposero, con la loro presenza carismatica, alcuni Capi di Stato ormai mitici nei loro Paesi per la partecipazione alle lotte di liberazione e che dovevano caratterizzare, nel bene ma spesso anche nel male, la politica mondiale di là a venire. Si parla di personaggi come Tito, Nasser, Nehru, Sukarno, nonché di parecchi leader carismatici africani che si accingevano ad assumere la guida dei loro popoli nell’imminenza della conquista dell’indipendenza dal dominio coloniale, in quell’anno mitico 1960 che doveva presto arrivare e passare alla storia come quello16
della liberazione dell’Africa. E proprio di origine afroamericana, sia pure con ascendenze anche europee e amerinde, era un altro politico che si trovava anche lui a Bandung, anche se come semplice osservatore inviato dal Congresso degli Stati uniti d’America. Stiamo parlando di tale Adam Clayton Powell. Chi era costui, avrebbe detto Don Abbondio. Eppure è stato un personaggio particolare, degno di nota per alcune non banali iniziative che lo caratterizzarono, tra cui quella di cui parleremo tra poco.
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Adam Clayton Powell jr. nacque il 29 Novembre 1908 in Virginia, fu pastore battista, politico ed eletto alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti nel collegio di Harlem a New York, primo discendente di etnia afroamericana ad essere eletto al Congresso come rappresentante di New York. Era del Partito Democratico e sostenne sempre i diritti civili degli afroamericani e le cause sociali. In quanto abbastanza influente presso il Presidente Eisenhower, cercò di convincerlo ad aiutare le nazioni e i popoli emergenti dell’Africa e dell’Asia una volta che avessero ottenuto l’indipendenza. In effetti, gli anni ’50 del Novecento furono gli anni del processo di decolonizzazione, in cui si sfaldarono come ormai anacronistici gli imperi coloniali di Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi. Moltissime nazioni, che allora erano chiamate del “Terzo Mondo”, diventarono indipendenti. Fu come un primo passo verso la globalizzazione, un terzo del Mondo passava da regimi coloniali in tutto asserviti al mondo imperialista si incamminava a essere potenzialmente non allineato e quindi soggetto attivo e non passivo della politica e dell’economia mondiali.
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Powell in quella conferenza internazionale fece un’ottima impressione con i suoi discorsi, in quanto espresse il malessere degli afroamericani nel contesto della società statunitense ma non attaccò il Governo degli Stati Uniti, anzi difese la propria nazione contro gli attacchi dei Paesi del blocco comunista e dei loro simpatizzanti. Perciò, quando tornò in patria, aveva acquisito un’autorevolezza e una credibilità che gli consentì di avere successo in una particolare proposta che espresse al Dipartimento di Stato. Poiché aveva notato a Bandung, nel corso dei lavori, dei discorsi, degli incontri informali, un’avversione per l’intera società degli USA, anche nei confronti delle sue arti figurative, della sua musica del suo balletto, tutte ritenute espressioni di una cultura bianca e dominante, propose che da quel momento in poi gli USA dovessero essere rappresentati culturalmente nel Mondo da espressioni di arte nativa e popolare. Propose quindi che la cultura americana dovesse essere rappresentata nel mondo dal jazz, la forma di arte che più popolare e spontanea, oltretutto spesso suonato da formazioni multietniche. Il progetto fu accettato e fatto proprio dal Dipartimento di Stato che propose come obiettivo appunto quello di dare un segnale culturale e diplomatico filo-americano a nazioni le cui simpatie est/ovest non erano state ancora esplicitate. Così nel 1956 fu creato dal Governo “The jazz ambassadors” un gruppo di jazzisti famosi come Dizzie Gillespie, Dave Brubeck, Benny Goodman, Louis Armstrong, che ebbero il compito di svolgere il ruolo di ambasciatori culturali nei Pa-
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esi d’oltremare, per migliorare l’immagine pubblica degli USA alla luce delle critiche formulate dall’Unione Sovietica circa le disuguaglianze razziali. Fu contattato anche Duke Ellington che però non si disse disposto a collaborare almeno fino a quando non si fosse avviato a soluzione il problema dell’integrazione tra bianchi e neri. Lo stesso Dizzie Gillespie ebbe dei dubbi, ma poi accettò di partecipare a patto che non gli si imponesse di dire o fare nessuna cosa esageratamente propagandistica che non condividesse.
Il primo tour partì nel Marzo 1956 e durò dieci mesi. La band, formata da diciotto elementi, era guidata da Dizzy Gillespie e si esibì Iran, Pakistan, Libano, Turchia, Yugoslavia e Grecia. Un ambasciatore americano disse che con i costi della tournée si sarebbe potuto costruire forse un nuovo carro armato ma non si sarebbe potuto ricavare tanta simpatia per gli Stati Uniti come quella che si era ottenuta con le esibizioni della Dizzy Gillespie band. Nel 1964, forse ricordando il suo ruolo di Ambasciatore del 1956, Dizzy dichiarò scherzosamente che si sarebbe candidato a Presidente degli Stati Uniti e che, se fosse stato eletto, avrebbe rinominato la Casa
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Bianca “Blues House”. Nel 1958 fu la volta di Dave Brubeck con il suo quartetto a partire per un tour diplomatico- musicale nell’Europa dell’Est, in Medio Oriente e nel Sud-est asiatico. In questo e altri tour sponsorizzati dal Governo, lui e il suo quartetto presentarono il jazz come un distillato e una riflessione sui più alti ideali e aspirazioni culturali dell’America. Brubeck aveva avuto già una lunga esperienza di impegno civile per la causa dell’uguaglianza dei diritti sociali ed etnici. Mentre era sotto le armi aveva organizzato “The Wolf pack”, un gruppo musicale già integrato razzialmente tra bianchi e neri quando nelle Forze Armate statunitensi vigeva ancora la segregazione razziale. Anche dopo, rimase sempre fermo nel suo obiettivo di favorire l’uguaglianza razziale, rifiutandosi di esibirsi dove non accettavano la presenza di un componente afroamericano della sua band e e per tutti gli anni ’50 e ’60 non suonò mai nel Sud segregazionista ed evitò di farlo anche nel 1976 nel Sud-Africa razzista. Comunque, tutti questi jazzisti furono sempre tormentati dal dilemma di come potevano promuovere nel Mondo l’immagine di un’America aperta e tollerante quando nel Paese si praticava ancora la segregazione razziale e l’uguaglianza rimaneva per il popolo afroamericano un sogno irrealizzato.
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Così la moglie di Brubeck, Lola, scrisse nel 1961 un musical intitolato appunto “The Real Ambassadors”, in cui mise alla berlina la segregazione razziale e che era ispirato appunto all’esperienza dei tour propagandistici del marito. Il musical è notevole non tanto per il successo che ebbe, scarso in verità, ma perché vi partecipava una vera e propria squadra di “all stars” con tre quarti del quartetto di Dave Brubeck – manca il sax di Paul Desmond – accanto nientemeno che a Louis Armstrong con alcuni suoi fedelissimi come Trummy Young e alle voci di Carmen Mc Rae e del trio Lambert, Hendricks e Ross. E nel 1962 proprio a sua maestà “Satchmo “Armstrong toccò di partire per il tour successivo. Suonò in Congo, nell’ambito di un più ampio giro nell’Africa nera, che lo vide spesso attraversare le strade in trionfo assiso su un vero e proprio trono, con tamburini e ballerini che lo accompagnavano in parata. Quando suonò nella provincia secessionista del Katanga di Moisè Ciombè, fu proclamata una tregua nella guerra civile che insanguinava quel disgraziato paese, per consentire ai miliziani delle opposte fazioni di assistere alle sue esibizioni. Purtroppo la tournée fu anche funestata dalla morte della cantante che da tanto tempo accompagnava le performance di Armstrong. Nel 1962 fu la volta di Benny Goodman di intraprendere il giro di concerti nell’Est che lo portarono con la sua band alla mitica esibizione a Mosca. Dalla registrazione dal vivo di quel concerto è stato tratto un famoso disco. Pare che Krusciov stesso, ascoltando la musica di Goodman, abbia detto “è solo musica da ballo”. Il leader sovietico voleva diminuire l’importanza di quella musica tipicamente americana, ma senza volerlo aveva dato un giudizio critico non lontano dal vero, visto che il jazz era stato fini ad allora anche una musica per ballare. I sovietici scelsero Goodman e non Ellington o Armstrong perché ritennero che quella del clarinettista fosse “musica organizzata”, suonata su uno spartito e non improvvisata, più vicina
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alla musica classica, di cui Goodman pure era apprezzato interprete. Inoltre, ricordavano che la famiglia di Goodman veniva proprio dalla Russia, anche se è probabile che ne fosse scappata con alle calcagna alcuni cosacchi che li volevano far fuori per completare l’ennesimo pogrom. Finalmente, nel 1964 toccò a Duke Ellington, che si risolse ad accettare l’incarico di condurre un tournée “diplomatica” all’estero solo dopo che il Presidente Johnson gli ebbe assicurato che stava per far votare al Congresso la legge sui diritti civili degli afroamericani. Tuttavia, ben presto scoppiarono tumulti razziali in molte città americane e il “Duke” ci ripensò. Si concluse così quasi un decennio di giri musicali per il mondo dei jazzisti americani, afroamericani e non solo, che si svolse sempre in equilibrio precario tra il desiderio di far conoscere nei Paesi del Terzo Mondo le cose positive e innovative degli Stati Uniti e le perplessità suscitate in loro dal perdurare dell’emarginazione, nella società e nella politica, del popolo afroamericano e in genere dei meno abbienti. Comunque questo interessante esperimento socio-culturale era nato dall’intuizione di quel particolare personaggio politico che era Powell, di ritorno dalla Conferenza di Bandung. Da notare infine che recentemente, nell’Aprile 2018, è stato presentato all’Harlem International Film Festival il documentario “The Jazz Ambassador”, per la regia di Hugo Berkeley, con Bill Crow, Quincy Jones e altri, che tratta in modo approfondito proprio della storia che abbiamo raccontato. Non sappiamo se è stato o sarà proiettato nelle sale italiane, o almeno in televisione, ma sarebbe molto interessante visionarlo, anche solo per il valore musicale dei pezzi suonati.
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