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Afghanistan, un fallimento lungo diciotto anni
Esteri
Afghanistan, un fallimento lungo diciotto anni
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Umberto DE GIOVANNANGELI
La sanzione di un fallimento, Lungo diciotto anni. Afghanistan, il “cimitero” dell’Occidente. Un pantano insanguinato dal quale sarà impossibile uscire senza una severa riflessione sulla genesi di una guerra che avrebbe dovuto abbattere il terrorismo qaedista e spazzare via il “regno” dei talebani, ma che, diciotto anni dopo il suo inizio, registra l’affermarsi non solo dei talebani ma dei signori dell’oppio ed anche del vero competitore dei talebani al controllo del territorio e delle rotte della droga: lo Stato islamico. “Sono morti, per quanto mi riguarda sono morti.
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Credevano che uccidere delle persone li avrebbe messi in una migliore posizione negoziale. Quando hanno ucciso 12 persone. Per quanto mi riguarda sono morti. Negli ultimi quattro giorni abbiamo colpito i talebani più forte che negli ultimi 10 anni. E continueremo": così Donald Trump sanziona un fallimento. Non solo il suo, ma anche dei suoi predecessori alla Casa Bianca, Repubblicani e Democratici, che in quella guerra si sono spesi. Un fallimento condiviso dagli alleati occidentali, Italia tra essi, che in quella guerra si sono fatti trascinare. Ora Washington è in un vicolo cieco. Perché il ritiro, sia pur parziale, delle sue truppe dal campo avrebbe il sapore acre della fuga. Eppure l’intesa sembrava oramai a portata di mano, nonostante nei giorni scorsi fosse trapelata l’indiscrezione sullo scetticismo del segretario di Stato americano, Mike Pompeo. E si che — ricorda la Bbc — il negoziatore statunitense per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, aveva annunciato un accordo di pace “in linea di principio con i talebani. Come parte centrale dell’intese che erano state raggiunte a Doha (dopo quasi un anno di colloqui tra Khalilzad, e la delegazione talebana guidata da Abdul Ghani Baradar, è che almeno 5.400 soldati americani avrebbero dovuto lasciare 5 basi in Afghanistan aentro venti settimane. . Altre migliaia, oltre a circa 6.000 alleati Nato (tra cui 700 italiani), avrebbero però dovuto restare nel Paese per accompagnare il nodo molto più controverso dei tentativi di dialogo tra la delegazione di 15 membri organizzata lo scorso luglio dal presidente afghano Ashraf Ghani - che gli “studenti del Corano” non riconoscono come legittimo, considerandolo un “pupazzo Usa” - e i talebani.Tuttavia, Khalilzad aveva precisato che l’approvazione finale del piano spettava al presidente Trump. E quel piano The Donald alla fine l’ha bocciato. Costretto dall’offensiva del terrore scatenata dai talebani. Che oggi rilanciano. I talebani hanno avvertito che se gli Stati Uniti cessassero il ritiro delle loro truppe dall'Afghanistan, come ha deciso Trump, "lo rimpiangeranno presto". "Avevamo due modi per porre fine all'occupa-
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zione dell'Afghanistan, la jihad e i combattimenti, i colloqui e i negoziati. Se Trump vuole fermare i colloqui, prenderemo la prima strada e se ne pentiranno presto", ha detto uno dei portavoce degli “studenti del Corano” , Zabihullah Mujahid. Ed è in questo scenario che domenica scorsa si è votato per eleggere un presidente che controlla neanche la metà del territorio sul quale dovrebbe governare. Su 35 milioni di afghani alle liste elettorali se ne sono iscritti 9,6 milioni, ma la partecipazione è stata molto minore. Un flop annunciato. Un primo turno delle presidenziali che vedeva come candidati principali il presidente uscente Ashraf Ghani e il capo dell'esecutivo Abdullah Abdullah. I due hanno condiviso il potere negli ultimi cinque anni in un governo di unità dopo che le precedenti elezioni sono state travolte dalle accuse di brogli. I risultati ufficiali del voto di domenica non saranno noti per diverse settimane, ma molti temono che un'altra crisi politica possa spezzare la già fragile democrazia di questo Paese. Duellanti più che altro di facciata, visto che i due condividono un esperimento istituzionale dal 2014, un governo di unità nazionale che tuttavia si è presto bloccato. Finora le elezioni presidenziali sono sempre state la cronaca di un insuccesso annunciato. Macchiate da frodi, brogli, colpi bassi tra i candidati. Le ultime poi, che rivestivano una particolare importanza – si sono svolte nell'anno, il 2014, in cui si stava completando il ritiro del contingente militare della Nato (Isaf) - sono state particolarmente difficili. Nel novembre 2015 il governo di Kabul sosteneva di avere il controllo del 72% del territorio nazionale. Dalla seconda metà del 2016 altro terreno è stato perso, con il governo afghano che arrivava a solo il 57% del Paese, ma questa percentuale di controllo si è ridotta ulteriormente con la caduta del distretto di Sangin, nell’Helmand, una perdita simbolica per tutta la coalizione anti-talebani. In particolare, i talebani hanno una significativa influenza su una fascia di territorio che dalla provincia di Farah attraversa le provincie di Helmand, Kandahar, Uruzgan,
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Zabul, fino alla provincia di Ghazni. I talebani hanno adesso il controllo completo di 5 distretti su 18 della provincia di Ghazni e del 60% di altri 9 distretti I talebani conquistano territori e comprano equipaggiamento, armi, munizioni e carburante direttamente dai soldati dell’esercito afghano. i loro attacchi sono quotidiani.. A contendere loro la leadership jihadista sono i foreign fighters dell’Isis. L’Afghanistan non è l’Iraq o la Siria, dove gli affiliati all’Isis combattono i curdi, i cristiani e gli sciiti. Qui il potere è conteso ad altri sunniti, i talebani, e più che per conquistare nuovi territori al “califfato”, si combatte per assicurarsi il controllo delle rotte del commercio dei narcotici. La “fabbrica” talebana di oppiacei mantiene salda la prima posizione mondiale, infatti l’eroina afghana raggiunge quasi tutto il globo. Due dati particolarmente indicativi: copre il fabbisogno del 90% del Canada e dell’85% circa delle richieste mondiali. La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. Un traffico enorme, fortemente consolidato nella sua catena di produzione-venditaincasso di milioni di dollari di profitti. Il prodotto viaggia sfruttando tutti i mezzi di trasporto: le rotte aeree e marittime permettono all’eroina afgana di giungere ovunque (eccetto il Sud America, qui vi sono i cartelli narcos che hanno il ‘loro’ prodotto). Le vie terrestri coinvolgono pesantemente Iran e Pakistan, costretti ad impiegare sempre più risorse per contrastare questi flussi. Lo Stato islamico è entrato in questa partita. La provincia di Nangarhar, nella parte orientale del Paese, al confine con il Pakistan, e ora è in buona parte occupata dall’Isis. L’invasione è cominciata nell’estate del 2014, quando dal confine sono arrivati un centinaio di talebani pakistani che, dopo essere scappati dall’esercito, si sono uniti a una fazione di talebani afghani. Nel gennaio 2017, l’Isis ha annunciato la nascita di una nuova fazione locale in Afghanistan, alla quale hanno velocemente aderito molti fuoriusciti dai talebani: gli afghani di Nangarhar non lo sapevano, ma si trattava proprio dei pakistani
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rifugiati nelle loro case. Dopo un anno di alleanza con i talebani afghani, in estate, l’Isis è venuto allo scoperto predicando in moschea un islam rigidamente wahabita (lo stesso professato in Arabia Saudita). A luglio sono cominciati i primi scontri a fuoco tra i talebani afghani e i pakistani, passati all’Isis. Dopo un mese circa di combattimenti, l’Isis si è impossessato della zona, nonostante gli americani bombardassero sia loro che i talebani. Passando villaggio per villaggio e casa per casa, i jihadisti hanno rubato i mezzi di sostentamento ai residenti, distruggendo scuole e madrasse talebane, imponendo una nuova legge. Le abitazioni dei talebani sono state bruciate e chi veniva sospettato di essere loro alleato è stato rapito e seviziato. Dopo diciotto anni di guerra, lo Stato afghano appare oggi una entità fallita. Diciotto anni di guerra, ovvero oltre 140 mila morti, tra cui almeno 26 mila civili. A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati Nato (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri. Una guerra costata 900 miliardi di dollari, 7,5 per l'Italia. Afghanistan, 2001-2018: storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli. Sul terreno si assiste ad una competizione per la leadership del terrore tra l’Isis, che sta arruolando i pashtun, e al Qaeda 2.0. Una concorrenza che non oscura il dato di realtà: l’idea del “califfato” prende sempre più piede, e territori, in Afghanistan. E il “futuro” assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento militare dell’ottobre 2001: un Paese-santuario dell’islam radicale armato. Dall’avvio della “guerra al terrorismo” qaedista, nell’ottobre 2001, l’Afghanistan è un Paese che non sa cosa sia la pacificazione, dove a prosperare sono solo i traffici di armi e di droga. Un Paese dove imperano milizie jihadiste, “signori della guerra” e califfi eterodiretti; un Paese dove nessuno può dirsi al sicuro. Per il giornalista francese Jean-Pierre Perrin, autore del libro Le djihad contre le
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rêve d’Alexandre, una storia dell’Afghanistan dal 330 a.C. ai giorni nostri, gli occidentali hanno già perso: “I Paesi occidentali non vogliono riconoscere questa umiliante sconfitta. E ancora meno sono disposti ad accettare che sia stata inflitta loro da bande di irregolari male armati, male addestrati, poco equipaggiati e dieci volte meno numerosi.
Questa sconfitta ci riporta ai fallimenti degli invasori precedenti: gli inglesi in tre occasioni – e la prima volta risaliva a qualche anno dopo la vittoria su Napoleone – i russi e prima di loro altri eserciti stranieri meno importanti come gli iraniani.
Del resto non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il ‘cimitero degli imperi’”. Un “cimitero” dal quale tutti vorrebbero andarsene. Senza, però, dare l’idea di una fuga dalla sconfitta.
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