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Siria, a fianco dei combattenti per la libertà

Esteri

Siria, a fianco dei combattenti per la libertà

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Umberto DE GIOVANNANGELI

Un tradimento consumato a metà. Ma quella mezza marcia indietro del “traditore della Casa Bianca” non ferma il Sultano di Ankara. "Nessun ritiro delle truppe Usa dalla Siria". Lo ha detto un funzionario dell'amministrazione Trump in una conference call con i reporter della Casa Bianca, secondo quanto riportano alcuni media. Solo tra 50 e 100 uomini delle forze speciali Usa nel nord della Siria - ha affermato il funzionario - sono interessati dall'ordine del presidente americano, che non vuole metterli in pericolo. Saranno quindi dispiegati in altre basi. "Non c’è

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nessuna luce verde nei confronti della Turchia per un massacro dei curdi. Dire questo è da irresponsabili": così nel corso di una conference call con i reporter della Casa Bianca si è espresso un funzionario dell'amministrazione statunitense, aggiungendo come "le azioni decise dal presidente sono solo mirate a proteggere i nostri soldati". A provocare la correzione di rotta è stata la reazione sorpresa del Pentagono e negativa degli stessi repubblicani che, in massa, hanno definito la decisione di Trump un "grave errore", una mossa "disastrosa", perché abbandona gli alleati che combattevano contro la jihad islamica. Il primo a manifestare preoccupazione è stato il senatore conservatore Lindsey Graham, fedelissimo di Trump e compagno di golf. Parlando a Fox News, il senatore ha commentato: "Se non avessi visto il nome di Trump sul tweet, avrei pensato che fosse la motivazione usata da Obama per giustificare l'abbandono dell'Iraq". "E' una grande vittoria per Iran e Assad, e per l'Isis - ha aggiunto il senatore - è una decisione miope e irresponsabile. Farò tutto ciò in mio potere per sanzionare la Turchia se faranno anche un solo passo per attaccare i curdi. Io sono pronto a tagliare le relazioni con la Turchia. Credo che gran parte del Congresso la pensi allo stesso modo". Graham ha minacciato sanzioni bipartisan e la richiesta di sospensione dalla Nato nei confronti del governo di Ankara. Se la repubblicana alla Camera, Liz Cheley, ha definito il ritiro un "errore catastrofico" e il senatore Marco Rubio un "grave errore con implicazioni che vanno oltre la Siria", il senatore Mitt Romney ha bollato l'annuncio di Trump come "tradimento". "E' come dire - aggiunge - che l'America non è un alleato affidabile, favorisce il risorgere dell'Isis e preannuncia un altro disastro umanitario". Sull'onda delle dure e compatte reazioni, il presidente ha corretto la propria posizione, minacciando Ankara: "Se la Turchia farà qualcosa che, nella mia grande e impareggiabile saggezza, considererò oltre il limite, distruggerò completamente l'economia turca (l'ho già fatto!)". Intanto il ministro degli Esteri iraniano Moham-

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mad Javad Zarif ha ribadito al suo omologo turco Mevlut Cavusoglu "l'opposizione" di Teheran a una "azione militare" turca in Siria. Lo riporta una nota del ministero degli Affari Esteri. Nel corso di una telefonata con Cavusoglu, avvenuta lunedì sera, Zarif ha anche chiesto "il rispetto dell'integrità territoriale e della sovranità" della Siria. Ma le reazioni internazionali non fermano i carri armati e l’artiglieria di Erdogan. Il ministero della Difesa turco ha annunciato di aver terminato i preparativi per la sua offensiva nel nord della Siria contro le milizie curdosiriane Pyg/Ypg e ha ha avvertito che Ankara "non tollererà mai la creazione di un corridoio del terrorismo lungo il confine". "La creazione di una safe zone è necessaria per dare una vita sicura ai siriani e contribuisce alla pace e alla stabilità nella nostra regione", scrive il ministero in un tweet. Una fonte citata dal quotidiano Hurriyet, ha assicurato che "i preparativi sono stati completati nel minimo dettaglio" e "le Forze armate sono pronte a partire non appena riceveranno l'ordine dalle autorità politiche. Se è oggi sarà oggi, se è domani sarà domani, inizieremo non appena arriverà l'ordine", ha aggiunto la fonte. Già nella serata di lunedì - artiglieria di Ankara ha iniziato a bombardare obiettivi delle milizie curde ad al- Malikiyah, località siriana situata nella provincia nordorientale di Hasakah, a ridosso del confine turco. Lo hanno riferito fonti locali citate dal sito del quotidiano 'Sabah', secondo le quali nel mirino dell'artiglieria sono finiti "elementi" delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg) curdo - che Ankara considera un'organizzazione terroristica - alle porte di al-Malikiyah. Nonostante l'accordo sul meccanismo di sicurezza - si legge in un tweet di Mustafa Bali, portavoce delle Forze democratiche della Siria (Fds) l'alleanza curdo-araba - le forze americane non hanno rispettato i loro impegni e hanno iniziato a ritirarsi dal confine tra Siria e Turchia, lasciando che l'area si trasformi in una zona di guerra". "Ma - aggiunge il tweet - le Fds sono determinate a difendere il nordest della Siria a tutti i costi". Poi: "Se ci

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ritirassimo come vuole la Turchia lasceremmo un vuoto enorme tra i principali centri abitati, che favorirebbe il ritorno dell'Isis". Erdogan vorrebbe avere il controllo di una fascia di territorio piuttosto ampia: sarebbe un corridoio profondo una trentina di chilometri e lungo più di 400 chilometri lungo il confine tra Turchia e Siria, a est del fiume Eufrate, dove si trovano i curdi (a ovest dell’Eufrate ci sono già forze alleate con la Turchia). Quell’area è in buona parte controllata dalle milizie curde delle Unità di protezione popolare (Ypg) sostenute dagli Usa, sulle quali Washington fece affidamento per combattere l'Isis. Erdogan ha anche annunciato la creazione di nuove città e villaggi dove reinsediare un milione di rifugiati siriani arabo-sunniti per trasformare i curdi in una minoranza lungo la frontiera. La politica di arabizzazione dei territori curdi e annessione strisciante alla Turchia marcia già a pieno regime nel Nord-Ovest della Siria, dove apriranno tre facoltà dell’università di Gaziantep e da dove i curdi vengono espulsi. Nei fatti, quella che si sta configurando è la creazione di un protettorato “ottomano” nel Nord della Siria, che minerebbe l’unità territoriale dello Stato siriano, o di ciò che ne resta dopo oltre otto anni di una devastante guerra per procura, il che potrebbe portare ad uno scontro armato tra la Turchia e il regime di Bashar al-Assad, che pure Ankara, assieme a Russia e Iran, ha fino ad oggi sostenuto. L’invasione turca, supportata nei fatti dall’inerzia della comunità internazionale, è il sintomo di una paura che unisce autocrati di diversa estrazione: che una utopia possa diventare realtà. Che un percorso di autodeterminazione, intriso di sofferenza, sangue, passaggi tragici, possa finalmente raggiungere un primo, storico obiettivo. Un sogno chiamato libertà. Una libertà che si fa Stato: il Kurdistan. Uno Stato plurale, laico, e per questo vissuto come una minaccia, non solo geopolitica, ancor più grave del “Califfato” islamico, da autocrati e teocrati che imperano nella regione, a cominciare dal “Gendarme di Ankara”, il presidente Erdogan. Nessuno ha mai regalato qualcosa al

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popolo curdo. Un popolo disperso in più Stati, minoranza nel migliore dei casi mal tollerata e più spesso repressa brutalmente, ieri da Saddam Hussein oggi da Erdogan. Un popolo ancora senza Stato ma con una forte, radicata, identità nazionale. Sono state anzitutto le milizie curde a combattere a Mosul, a Raqqa, come hanno fatto eroicamente a Khobane, contro gli oscurantisti tagliagole al soldo di Abu Bakr al-Baghdadi. E mentre combattono (le donne in prima linea) i curdi costruiscono le fondamenta di una entità statuale o comunque di istituzioni politiche che non discriminano in base all’etnia o alla fede professata. Il loro è un pluralismo reale, nel quale la diversità è vissuta come ricchezza e non come minaccia. I curdi, il popolo più grande al mondo senza uno Stato. Repressi ma mai domi. Sono le milizie dell’Ypg ad essere accorse per prime a difesa dei yazidi sterminati dai naziislamisti dell’Isis. Sono loro, i curdi in armi ad essersi opposti per primi all’avanzata del califfato in Iraq e a condurre l’assedio alla “capitale” siriana del Califfato, Raqqa. Nel nord della Siria, l’obiettivo è quello di “creare un sistema sociale autonomo”, come ha detto all’agenzia di stampa curda Firat, Nesrin Abdullah, comandante dell’unità femminile delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg), che in questi mesi hanno portato avanti una dura lotta contro il Califfato Eppure, per Erdogan restano il nemico principale, ancor più di Bashar al-Assad. E Ciò che spaventa gli autocrati e ai teocrati mediorientali non è la forza militare dei curdi (poca cosa rispetto all’esercito turco, il secondo, dopo quello americano, quanto a dimensioni in ambito Nato) ma la capacità attrattiva del modello politico e istituzionale che propugnano: un Confederalismo democratico che ridefinisca in termini di autonomia (in particolare in Turchia e in Siria) gli Stati centralistici ed etnocentrici. In un Grande Medio Oriente segnato da una deriva integralista o da controrivoluzioni militari, il “modello curdo” va in controtendenza. Perché si ispira all’idea che più spaventa califfi, sultani, teocrati e generali: l’idea della democrazia. Sentirsi parte

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di un popolo coraggioso, tradito da tutti. Condividerne le ragioni, lo spirito, il sacrificio. Ed essere disposti a pagarne il prezzo più alto: quello della vita. E’ la fascinazione delle nuove “Brigate internazionali” combattenti nella regione del Rojava, a fianco dei Curdi. Di esse faceva parte Giovanni Francesco Asperti, 53 anni, originario di Ponteranica, alle porte di Bergamo, sposato e padre di due figli (13 anni il ragazzino, 14 la ragazzina). I miliziani curdi, sul loro sito, hanno reso noto che l'uomo, conosciuto con il nome di battaglia di Hiwa Bosco, è rimasto vittima di uno "sfortunato incidente mentre era in servizio a Derik, il 7 dicembre" 2018 Sul sito della milizia, Unità per la protezione dei popoli (Ypg), che combatte contro l'Isis in Siria, si spiega che “Hiwa Bosco'” era uno delle "centinaia di rivoluzionari che si erano uniti alla lotta contro l'Isis nella regione curda di Rojava e nel nord della Siria" e "durante tutta la sua vita nella lotta di liberazione ha dato l'esempio di una vita rivoluzionaria". Il sito pubblica anche la foto di Asperti. Volontari da tutta Europa si sono uniti ai curdi nella lotta contro l’Isis a partire dal 2014. Chi scrive ha provato a scavare nelle storie di alcuni di loro: storie diverse, età diverse, ma u- na comune ricerca di senso, di sentirsi parte di una comunità cosmopolita che abbraccia la causa del più debole. In questa scelta di campo, non c’è niente di religioso, tanto meno di “jihadista”. Combattono, certo, ma non hanno il profilo dei foreign fighters che hanno ingrossato le fila dell’Isis. Non sono animati dall’odio, non intendono imporre uno stile di vita totalizzante, non sono alla ricerca di un riscatto sociale o in fuga da una vita di stenti ed emarginazione. Niente di tutto questo è presente nella vita di Asperti. L’orizzonte è quello della libertà. La Brigata internazionale ha combattuto con le forze speciali curde sul fronte di Raqqa, dove si era specializzata in assalti notturni. Nell’estate del 2017 contava su una decina di volontari italiani. Fra loro c’era anche Claudio Locatelli, di Curno, in provincia di Bergamo, che ieri ha espresso il suo “dolore dovuto a ogni combattente che ha

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scelto la via del campo”. Una battaglia in cui, in questi anni, sono morti al fianco dei siriani e dei curdi decine di giovani europei. Insieme a Locatelli sono infatti altri 17, comprese due donne, gli italiani considerati in forze allo YPG. il governo turco sta cercando di cancellare chi ha combattuto Daesh e lottato per una società egualitaria e antisessista, col suo esercito, il secondo della Nato, nostro alleato". Così racconta va all’Ansa quanto stava accadendo in Siria 'Gabar Carlo', nome di battaglia di un "combattente internazionalista" italiano. 'Gabar', come un monte del Kurdistan turco dove 40 anni fa è cominciata la lotta di quel popolo, e 'Carlo' per Carlo Giuliani: lui ha 30 anni, è di origini pugliesi, e nell’estate di due anni fa ha lasciato casa, lavoro e tutto il resto per unirsi come volontario combattente alle U- nità di protezione del popolo, Ypg, le milizie curdo-siriane in lotta contro l'Isis e per la rivoluzione confederale del Rojava. Gabar è arrivato in Basur, Kurdistan iracheno, l'1 agosto 2017, per poi passare in Rojava due settimane dopo ed è tornato in Italia un mese fa. "Vorrei tornare dai miei compagni in Siria, ora però non è possibile. Ho portato la rivoluzione con me - dice - e voglio raccontarla per far sentire la voce di chi non ha voce". Una voce di libertà che va sostenuta oggi più che mai. La voce di un popolo in lotta per la vita. Il popolo curdo.

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