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L’inferno in Terra
Ambiente e Sfruttamento
L’inferno in terra
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Raffaele FLAMINIO
Dede mi tiene per mano. La sua pelle è nera e lucente come l’ebano. Non parla. Mi indica la strada con lo sguardo rivolto all’orizzonte. La lascio fare docilmente, mi lascio accompagnare. Ho ancora il fiato corto, la mia tshirt bianca che uso per dormire è inzuppata di sudore. Sarà la mia coscienza sporca di occidentale che mi ha rigurgitato nella mente le immagini di Sodoma e Gomorra. Luoghi infernali.
Dede avverte il mio malessere, mi stringe la mano, mi sussurra di stare calmo non c’è nulla temere. Lei è la mia guida, mi proteggerà. Io sono un visitatore che deve
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conoscere. Proseguiamo ancora di qualche chilometro. La pianura è ampia ed estesa. Il sole è alto come le verdeggianti erbe che accompagnano il nostro percorso. Gli alberi di acacia, di tanto in tanto, ci accarezzano con la loro confortevole ombra. Li in fondo alla pianura il fiume Odawa si riversa nella azzurra Korle Lagoon; siamo in Ghana. Le rive della laguna brulicano di vita. Il villaggio è adagiato sulle placide rive della laguna. Le barche armate da pesca, solcano la superficie di zaffiro delle pescose acque della laguna di Korle. Il pesce è abbondate così come i raccolti incoraggiati dalle piene dello Odawa.
Dede finalmente mi parla: «vedi qui regna un grande spirito. Uno spirito generoso e operoso, pacifico. Mi ha sposata perché io convincessi questa gente a rimanere qui in questo luogo di pace e prosperità».
Mi lascia la mano, Dede.
L’aria si fa irrespirabile, colonne di fumo nero si alzano nel cielo che prima era chiaro e terso. Gli occhi si stringono, le lacrime sciolgono la nera fuliggine depositata sulle orbite. La Korle lagoon placida e mite non esiste più. Intorno a me ci sono montagne di rifiuti elettrici ed elettronici. Mi avvicino alla riva che è tutto un fetido acquitrino; il mefitico fango si aggrappa ai piedi, alle caviglie. Non mi vuole abbandonare. Sull’acqua nera galleggia di tutto. Le schede cpu dei computer navigano indisturbate tra isole di frigoriferi ammassati e rugginosi, selve di tubi catodici carbonizzati vomitano fosforo. Le poche mucche presenti brucano la rada erba contaminata per sfamarsi, altre, invece, guidate da manipoli di ragazzini seminudi e denutriti trascinano in carretti di fortuna fili ricoperti di plastica variopinta destinati alla combustione per ricavare il rame sottostante. Un’umanità disperata ma vivace e laboriosa mi circonda. I bambini, che non perdono mai l’ottimismo in questo inferno in terra, regalano sorrisi. Loro si aggirano festanti tra queste macerie in-
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salubri. Scavano come se fosse un gioco, una caccia al tesoro, sciamano verso le baracche di fortuna dove i più grandi e gli adulti preparano i fuochi per la fusione delle plastiche dei nostri apparati digitali dismessi e inutilizzabili. Molti impugnano martelli che percuotono per un giorno intero, tutti i giorni della loro vita, i materiali da cui, una volta rottamati e bruciati, estraggono rare stille d’oro, argento, che poi rivenderanno per pochi spiccioli.
Mi guardo intorno, vedo un girone dantesco, donne, bambini e uomini condannati da una vita grama a lottare per la sopravvivenza. Afferro per un braccio uno dei tanti bambini, la voce non vuole uscire, la gola mi brucia come tutto il corpo e gli chiedo: «che cosa è questo?», lui mi guarda sorpreso e mi sorride, poi mi dice: «benvenuto ad Agbogloshie, qui sei a Sodoma e Gomorra. Come ci sei arrivato? Tu non sei di qui?» Penso che io sia causa di ciò anche inconsapevolmente.
Dede è andata, forse mi ha fatto incontrare lei questo ragazzino, forse nonostante tutto il grande spirito e la sua sposa ancora abitano questo che fu un luogo salubre.
Chiedo al ragazzino il suo nome e di farmi da guida nell’inferno. Si chiama Kofi. Mi dice di seguirlo, mi racconta quello che non so.
Siamo in un sobborgo di Accra, la capitale del contemporaneo Ghana, qui arrivano tutti i rifiuti “E – Waste” del cosi detto primo mondo, quello ricco. Milioni di container pieni di p.c., stampanti, schermi, tastiere, frigo usati e quasi sempre guasti giungono a Tema, il porto di Accra. Dicono che sia un’opera benemerita, una sorta di alfabetizzazione digitale per gli indigeni. Le strade della capitale pullulano di negozietti e bancarelle che propongono ogni sorta di “comodità”, poi dopo un breve utilizzo finiscono a Sodoma e Gomorra. La mia giovane guida mi dice che qui hanno la certezza, con l’esperienza fatta tutti i giorni, che questi apparecchi digitali
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abbiano una data di scadenza programmata. Siamo una manica di fessi, le Corporation ci hanno fuso il cervello, paghiamo pure lo smaltimento nel prezzo. Nel prezzo però non è compreso lo scempio ambientale e umano che questa stupidità comporta.
Lui viene dal nord povero e, tutto sommato, qui sta meglio che lì. Il sacrificio comporta molta sofferenza ma, almeno 100/200 cedi al giorno riesce a guadagnarli e, risparmiando un po’, può anche mandare qualcosa a casa.
Mentre racconta, mi guardo intorno, alcuni fuochi si sono estinti, chini sulle braci decine di anime luride raccolgono il rame, briciole d’oro e argento che ripongono in piccoli sacchetti che poi rivenderanno in cambio di pochi cedi, corrispondenti a 3,5 euro giornalieri. Ci sono mercati di ortaggi e frutta in questa città dannata, tutto é contaminato dai metalli pesanti così come l’acqua che serve per farli crescere. Intuisco, però, che la disperazione altrove va ben oltre la visione di quello che ho davanti e allora è meglio questo. Ho ripreso a sudare copiosamente, sento le smanie è come se fossi in un incubo che non mi fa dormire.
Kofi mi dice ancora che qui le malattie gastrointestinali, il cancro, e quelle polmonari la fanno da padrone. Lui lo sa perché molti suoi amici e conoscenti sono stati visitati dai medici delle ONG; non dovrebbero più lavorare, ma come si fa? Lui dai medici sfugge, ritiene che sia più importante lavorare per imparare e acquisire conoscenze utili al riciclo efficace. Mi conduce in una “scuola” che non è altro che una fatiscente baracca di lamiera ingombra di componenti elettronici e taniche di plastica; non capisco la relazione tra quegli oggetti. Tira fuori da un angolo una tanica colorata, un lato è tagliato a modo di sportello, mi dice: «vedi questa è un’unità centrale ricostruita da quella che voi chiamata spazzatura! E’ bella non credi? Poi funziona. Ecco, qui, si fa anche questo. E al diavolo quella legge che vi
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siete fatti voi ricchi». Capisco che si riferisce alla Convenzione di Basilea del lontano 1989, che tutti i paesi europei hanno sottoscritto per poi infischiarsene. Gli U.S.A, poi, neanche l’hanno sottoscritta, loro ergono i muri per non vedere.
Altri falò ardono e insieme a loro il mio corpo; non ho più volontà sono stremato.
A un tratto mi sento stringere la mano, Dede, è tornata, la sposa dello spirito della Korle lagoon mi guarda, nel suo sguardo c’è soddisfazione.
Apro gli occhi, osservo sulle mie ginocchia il p.c. portatile, dal quale mi rimbalza un titolo di una pagina web: “Agbogbloshie: la città -discarica più grande dell'Africa”.
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