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Rojava, quella di Erdogan, e dei suoi sponsor, è anzitutto una pulizia politica
Esteri
Rojava, quella di Erdogan, e dei suoi sponsor, è anzitutto una “pulizia politica”
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Umberto DE GIOVANNANGELI
Non è “solo” una pulizia etnica. Non è solo l’invasione di uno Stato da parte dell’esercito di un altro Stato. Quella compiuta dal “Sultano” di Ankara in Rojava è soprattutto una “pulizia politica”. Diciamolo con chiarezza, usando termini che per qualcuno posso suonare “arcaici” ma per quanti, a sinistra, non rinnegano la propria storia, racchiudono valori e una comunanza assolutamente positivi e assolutamente attuali. Il dittatore turco, con il suo nazionalismo-islamista, ha inteso spazza-3
re via, con l’avallo di Donald Trump, la compiacenza della Nato, la vergognosa latitanza dell’Europa e la copertura di Vladimir Putin, non le combattenti e i combattenti delle Ypg e Ypj, ma le compagne e i compagni che nel Rojava avevano costruito un modello di società, una idea di comunità senza Stato, fondata su principi e valori che, essi sì, rappresentano una minaccia mortale per tutti coloro che, a diverso titolo e con una gradazione di complicità, hanno sostenuto l’invasione turca. Quel modello, socialista, libertario, fondato sulla crescita dal basso di istituzioni realmente rappresentative, rappresenta una minaccia mortale per regimi teocratici, militari, sessuofobici, per élite corrotte e predatrici. “In Rojava il popolo curdo ha attuato un progetto profondamente democratico di autogoverno diverso da qualsiasi cosa mai vista in Medio Oriente e in tutto il mondo. E’ la società più democratica e rivoluzionaria che abbiamo visto sin dalle collettività anarchiche in Spagna nel 1936”, annota Debbie Bookchin, riflettendo sul bel libro di Norma Santi e Savio Vaccaro “La Sfida anarchica nel Rojava”. “E’ stato per me un onore – aggiunge Debbie – sapere che le strutture politiche del Rojava sono state costruite su molte idee elaborate da mio padre, Murray Bookchin e che hanno influenzato il leader curdo Abdullah Ocalan. Bookchin le ha denominate ‘municipalismo libertario’, rivendicando le idee di cittadinanza attraverso la partecipazione attiva alle decisioni che riguardano il nostro quartiere, i nostri paesi e le nostre città...L’esempio del Rojava è cruciale per orientarci verso un futuro più razionale, democratico ed ecologico. E’ molto importante che questo progetto continui a realizzarsi”. Ed è proprio questo progetto che la Turchia di Erdogan ha provato a spezzare, a spazzare via. Ecco allora che pulizia politica e pulizia etnica si fondono, in un progetto che non nasce con l’invasione. Ma molto prima. Una nuova ricerca di Amnesty International ha rivelato che, nei mesi che hanno preceduto la sua incursione militare nel nordest della Siria e prima del tentativo di creare la cosiddetta “zona sicura” ol-
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tre i suoi confini, la Turchia ha rimpatriato forzatamente rifugiati siriani. Amnesty International ha incontrato o parlato con rifugiati che hanno denunciato di essere stati picchiati o minacciati dalla polizia turca affinché firmassero documenti in cui attestavano di aver chiesto di tornare in Siria. In realtà, le autorità turche li hanno costretti a tornare in una zona di guerra e hanno posto le loro vite in grave pericolo. “L’affermazione della Turchia secondo le quali i rifugiati siriani stanno scegliendo di tornare indietro in mezzo al conflitto è pericolosa e disonesta. La nostra ricerca mostra che queste persone sono state ingannate od obbligate a tornare in Siria”, ha dichiarato Anna Shea, ricercatrice di Amnesty International sui diritti dei migranti e dei rifugiati. In assenza di statistiche ufficiali, stimare il numero delle persone rimpatriate a forza è difficile. Ma sulla base di decine di interviste realizzate tra luglio e ottobre del 2019, Amnesty International ritiene che negli ultimi pochi mesi i rimpatri siano stati centinaia. Le autorità turche parlano di un totale di 315.000 persone tornate in Siria in modo del tutto volontario. Amnesty International ricorda che rimpatriare rifugiati siriani è un’azione illegale che li espone a gravi rischi di subire violazioni dei diritti umani.
“L’accordo tra Turchia e Russia dei giorni scorsi fa riferimento al ‘ritorno volontario e sicuro’ dei rifugiati in una cosiddetta ‘zona sicura’ ancora da realizzare. La cosa agghiacciante è che i rimpatri ci sono già stati e in modo né sicuro né volontario. Ora altri milioni di rifugiati siriani sono a rischio”, ha sottolineato Anna Shea. Il governo turco sostiene che tutti i siriani che tornano in patria lo fanno in modo volontario, ma la ricerca di Amnesty International mostra che molti di loro sono stati obbligati o ingannati allo scopo di firmare la documentazione sul cosiddetto “rimpatrio volontario”. Alcuni hanno dichiarato di essere stati picchiati o minac-
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ciati di violenza affinché firmassero. Ad altri è stato detto che si trattava di un modulo di registrazione della propria presenza, dell’attestazione di aver ricevuto una coperta dalla direzione di un centro di detenzione o di una dichiarazione sull’intenzione di rimanere in Turchia. Amnesty International ha verificato 20 casi di rimpatrio forzato attraverso autobus zeppi di decine di altre persone ammanettate coi lacci di plastica che a loro volta sembravano vittime di rimpatrio forzato. Qasim*, un padre 39enne di Aleppo, ha riferito di essere stato trattenuto per sei giorni in una stazione di polizia di Konya dove gli è stato detto: “Scegli: un mese, due mesi o anche un anno in prigione oppure vai in Siria”.
John*, un siriano di religione cristiana bloccato dalla guardia costiera turca mentre cercava di raggiungere la Grecia, ha riferito di essere stato minacciato in questo modo da funzionari dell’immigrazione turca: “Se ti rivolgi a un avvocato, ti terremo qui sei o sette mesi e ti faremo male”. Dopo essere arrivato in Siria è stato trattenuto per una settimana, nella città di Idlib, da Jabhat al Nusra, un gruppo armato islamista legato ad al-Qaeda. Ha dichiarato ad Amnesty International di “esserne uscito vivo per miracolo”. Ogni volta che i rifugiati siriani interagiscono con la polizia o con i funzionari dell’immigrazione della Turchia, rischiano l’arresto e il rimpatrio: può accadere durante un controllo di documenti in strada o nel corso di un’intervista per rinnovare il documento di soggiorno. La spiegazione più comune fornita per giustificare il rimpatrio è l’assenza di registrazione o la presenza fuori dalla provincia di registrazione. Ma sono stati rimpatriati anche rifugiati che avevano documenti validi per la provincia in cui erano residenti. Nella stragrande maggioranza dei casi, i rifugiati rimpatriati sono uomini adulti caricati su autobus nella provincia turca di Hatay e fatti scendere oltre il valico di Bab al-Hawa, nella pro-
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vincia siriana di Idlib.
Fa eccezione il caso di Kareem*, un 23enne di Aleppo, che ha denunciato di essere stato rimpatriato da Istanbul insieme a due minorenni di 15 e 16 anni privi di documenti. La loro madre aveva supplicato di farli scendere dall’autobus ma le era stato risposto che i due ragazzi avevano violato la legge e dunque dovevano essere rimpatriati. Nabil*, sposato e padre di un bambino di due anni, ha raccontato di essere stato arrestato, insieme alla moglie e al figlio e con oltre 100 persone, ad Ankara nel giugno 2019. Salvo tre uomini soli, si trattava di nuclei familiari. Dopo tre giorni, è stato detto loro che sarebbero stati trasferiti in un campo nella provincia di Hatay, ma invece sono stati caricati sugli autobus e rimandati nella provincia di I- dlib. “Le autorità turche devono cessare immediatamente i rimpatri in Siria e assicurare che tutte le persone rimpatriate possano fare rientro in Turchia e accedere nuovamente a servizi fondamentali”, ha sottolineato Anna Shea. “L’Unione europea e il resto della comunità internazionale, invece di spendere energie per tenere i richiedenti asilo alla larga dai loro territori, dovrebbero aumentare di molto gli impegni per il reinsediamento dei rifugiati siriani dalla Turchia”, ha concluso Shea. Tutto era stato preparato, pianificato. Ed ha avuto un precedente che la comunità internazionale ha fatto finta di non vedere. Per pavidità, perché, al di là delle lacrime di coccodrillo e di una diplomazia parolaia, a imporsi è la diplomazia delle armi, e la politica di potenza. Sono i bambini in divisa esibiti da Erdogan (come facevano quelli dell’Isis che per lungo tempo il “Sultano” ha protetto e non ha mai combattuto). Il precedente, quinque. L’anno scorso, ricorda sempre Debbie Bookchin, i turchi assediarono Afrin, una regione del Rojava: “Questo assalto era un monumento all’indifferenza capitalista, alla sofferenza umana, Trecentomila persone curde sono state espulse dalle loro abitazioni e dislocate nei campi profughi
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all’aperto dove se ne contano ancora centosettantamila. La Turchia ha usato metodi di rapimento, tortura, omicidio, ha bruciato ettari e ettari di terra coltivabile. La Russia, l’Iran, gli Stati Uniti che si preoccupano solo delle rispettive sfere di influenza e dei tesori economici, sono complici del genocidio del popolo curdo. Adesso la Turchia sta tentando di distruggere il resto del territorio del Rojava”. Ed ecco la Tv turca che immortala, con tanto di inni patriottici e retorica nazionalista, l’ingresso dei carri armati e dei suoi “eroici soldati” a Kobane, la città che le combattenti e i combattenti curdi avevano strappato a quelli dello Stato islamico pagando un tributo di sangue come nessun altro. Ora su Kobane conquistata da Erdogan sventola la bandiera turca. Nessuno può dire “non sapevo”, “non ho visto”...Se ha ancora un senso alto e nobile dirsi di sinistra, e agire da sinistra, essere a fianco delle compagne e dei compagni del Rojava è oggi il vero discrimine.
* Per proteggere le persone intervistate, sono stati usati nomi di fantasia
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