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Italia 1968. Il processo ad Aldo Braibanti
Storia e Diritti
Italia 1968. Il Processo ad AldoBraibanti
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Giovan Giuseppe MENNELLA
Il 13 luglio del 1968 si celebrò in Corte d’Assise a Roma, in un’aula affollatissima, l’ultima udienza del processo ad Aldo Braibanti, uno degli episodi più emblematici di quell’Italia degli anni ’60, sospesa tra aneliti alla modernità e tratti di arretratezza sociale, culturale e del costume. L’imputato era un uomo di quarantacinque anni, non alto di statura, mingherlino, occhiali a pince-nez e corta barbetta. Era stato definito il filosofo comunista, semplicemente il filosofo o il professore, da giornali divisi tra quelli in maggioranza di
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destra, dai commenti ostili, beffardi e sarcastici e quelli, pochi, che non andarono oltre un generico sostegno di facciata non essendo neanche totalmente informati sui fatti. L’unica eccezione, l’unica voce solitaria contro, fu quella di Marco Pannella che lo definì chiaramente un processo da Santa Inquisizione. In realtà era il processo a un intellettuale originale, disorganico, che non aveva una collocazione precisa in alcuno degli schieramenti che si confrontavano in quel momento e, soprattutto, all’omosessualità che in Italia ancora era oggetto di ostracismo e di vergogna. Braibanti era accusato del reato di plagio nei confronti del giovane ma maggiorenne Giovanni Sanfratello, in base all’art. 603 del Codice Penale fascista di Alfredo Rocco del 1930, ancora pienamente in vigore a quell’epoca. Il reato si riferiva a chiunque, con atti e parole, sottoponesse una persona al proprio potere riducendolo in totale soggezione. Era prevista una pena da un minimo di cinque anni a un massimo di quindici, ma nessuno era mai stato condannato per quel reato, anche se c’erano stati alcuni altri processi, l’ultimo pochi mesi prima, a carico dell’attore Maurizio Arena, accusato di plagio nei confronti della principessa Maria Beatrice di Savoia, che si era concluso con un’assoluzione. Il Pubblico Ministero chiese in quell’udienza la condanna dell’imputato a ben quattordici anni di carcere, solo uno in meno del massimo della pena, definendolo un diabolico e raffinato seduttore di spiriti che plasmava le menti per sete di possesso e dominio prima ancora che per perversione sessuale e, comunque, caratterizzato da omosessualità intellettuale. L’avvocato difensore si appellò al rispetto dell’articolo 21 della Costituzione che tutelava il diritto di parola e la libertà di e- spressione del pensiero, affermando che se si metteva fuori legge e si condannava la possibilità di seguire dei maestri e degli esempi, allora si sarebbe dovuta abolire tutta l’arte, tutto il cinema, il teatro, la televisione, la pubblicità, le opere letterarie.
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L’attesa per la sentenza era vivissima. Ma chi era Aldo Braibanti e quali erano state le opinioni e le presunte azioni per cui era stato messo sotto processo? Aldo Braibanti era nato il 17 settembre 1922 a Fiorenzuola d’Arda, vicino Piacenza. Figlio di un medico condotto e di una maestra elementare, con un fratello, Lorenzo, medico ginecologo che sarebbe diventato il fautore del parto dolce, cui rimase sempre molto legato affettivamente. Frequentò il liceo a Parma e poi s’iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia all’Università di Firenze. Nella città toscana fece le prime prove artistiche e letterarie, con alcuni componimenti poetici e alcuni collage. Durante la guerra aderì al movimento politico di Giustizia e Libertà, ma poi, per partecipare più attivamente alla Resistenza armata di stampo popolare, entrò nella clandestinità nelle fila del Partito Comunista. Fu arrestato nel 1943 insieme a Ugo La Malfa e sottoposto alle torture della famigerata banda Carità. Liberato con un falso ordine di scarcerazione nel Maggio 1944, fu partigiano in Toscana come Commissario politico delle formazioni combattenti del Partito Comunista e partecipò agli scontri per la liberazione di Firenze. Nel dopoguerra, dopo i fatti d’Ungheria, uscì da Partito Comunista non accettando il centralismo democratico e le scelte staliniste di quel Partito. La separazione fu dovuta anche al suo spirito indipendente e anarchico, che non sopportava linee politiche e ideologiche imposte dall’alto. Però, come testimoniato da lui stesso, rimase sempre una sorta di compagno di strada del grande Partito rosso, militando in quelle formazioni di sinistra in cui di volta in volta poteva riconoscersi. Nel dopoguerra i suoi interessi furono sin da subito la poesia, l’arte, la natura. Si ritirò a Castell’Arquato, nel piacentino, dove fondò un laboratorio di pratica artistica, di poesia, di ceramica, di fratellanza e discussione, “Il Torrione Farnese”,
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nell’ambito del quale avviò una proficua collaborazione artistica con intellettuali del livello di Renzo e Sylvano Bussotti. Studiò anche la natura, appassionandosi particolarmente allo studio del mondo delle formiche, perché, come disse egli stesso, nessun essere vivente gli era così distante da non fargli capire quello che poteva esserci in comune. L’esperienza del Torrione Farnese durò sei anni, dal 1947 al 1953, e produsse come significativo risultato artistico un testo di poesia e altro, intitolato Il Circo, pubblicato in 4 volumi nel 1960. In quel periodo ebbe un’esperienza di teatro con il giovane Carmelo Bene, a cui insegnò come leggere in versi, con cui progettò esibizioni spettacolari e fantastiche, come fare degli spettacoli su palloni aerostatici volando per provocazione sulle teste dei ricchi borghesi residenti nelle ville di Portofino. Carmelo Bene disse sempre che, in quelle poche settimane, aveva conosciuto una persona geniale e originale con cui aveva progettato come demolire le convenzioni letterarie e teatrali. Nel 1953 tornò a Fiorenzuola d’Arda e diede vita a un cenacolo di poeti, musicisti, critici, artisti. Durante questo periodo conobbe Agostino Sanfratello che nel 1958 gli presentò il fratello diciottenne Giovanni. Braibanti prese Giovanni sotto la sua guida, perché gli sembrava il più seriamente e profondamente interessato all’arte figurativa. Entusiasta di quell’esperienza intellettuale e artistica, Giovanni, alla soglia dei venti anni, comunicò alla famiglia di voler abbandonare gli studi per dedicarsi all’arte e alla cultura. I familiari, molto conservatori e cattolici, non giudicarono con favore la decisione del figlio di abbandonare gli studi. Vedendolo esaurito e depresso, lo fecero visitare da uno psichiatra a Padova e poi in un ospedale psichiatrico di Modena. Giovanni se ne andò per qualche tempo a Parigi, ma poi ritornò in Italia, iscrivendosi alla facoltà di Architettura a Milano.
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Ed è qui, nel 1962, che Braibanti e Giovanni Sanfratello si rividero e riannodarono i rapporti. Ormai, oltre alla comunanza di interessi artistici e letterari, Giovanni Sanfratello trovò in Aldo Braibanti un compagno di vita, con un rapporto sentimentale omosessuale che, per quanto vissuto con discrezione, non avrebbe potuto non suscitare la riprovazione e lo scandalo in un’Italia ancora in larga misura cattolica, conservatrice, bigotta e patriarcale, I due andarono a vivere insieme a Roma, dove Braibanti lavorava come sceneggiatore, per allontanarsi dalla famiglia di Giovanni. Ma non sfuggirono per molto tempo alle reazioni familiari. Il 12 ottobre del 1962 Ippolito Sanfratello, il padre di Giovanni, presentò un esposto-denuncia alla Magistratura in cui accusava Braibanti di tutte le deviazioni del figlio dalla retta via familaire, dai genitori, dallo studio, dalla vita morigerata e di averlo assoggettato totalmente a sé, accusandolo appunto del reato di plagio. Alla denuncia allegò una dichiarazione di Pier Carlo Toscani, un elettricista che pure era stato allievo di Braibanti ma se ne era staccato, in cui accusava l’intellettuale piacentino di generiche pratiche turpi. Non contento della denuncia, Ippolito Sanfratello il primo novembre del 1964 fece irruzione nell’appartamento romano dei due e rapì letteralmente il figlio, peraltro maggiorenne (aveva ormai ventiquattro anni) e lo fece internare nel manicomio di Verona dove fu sottoposto a cure durissime e invasive, da cui uscì solo nel 1966, sottoposto peraltro a numerosi obblighi, tra cui quello particolarmente bizzarro di non leggere libri che avessero meno di cento anni. Intanto, l’istruttoria penale condotta dal giudice Antonino Loiacono continuò, sia pure con tempi lunghissimi, fino al 5 dicembre 1967 quando Braibanti fu arrestato per l’accusa del reato di plagio e portato a Regina Coeli. Il processo si aprì il 12 giugno 1968, dopo ben sei mesi di carcerazione preventiva, con le accuse di essere un degenerato, un ladro di anime, un satana a caccia di gio-
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vani. Dietro tutto questo aleggiava da un lato il fantasma dell’omosessualità che in quella società italiana ancora largamente arretrata era uno stigma intollerabile, tanto che c’era un solo omosessuale dichiarato, l’intellettuale Giò Staiano, dall’altro la paura della borghesia benpensante verso gli squilli di rivolta contro le gerarchie e i valori costituiti che andava ormai montando in quell’avventurso anno 1968. Pasolini disse che gli italiani piccolo borghesi si scatenarono facilmente di fronte allo scandalo di un uomo debole e solo, ma indipendente, non appartenente ad alcuna conventicola Ovviamente, il processo destò un’eco vivissima nella società italiana, ma non molti si schierarono subito a favore dell’imputato, a cominciare dal Partito Comunista che tradì molti imbarazzi, anche più di quelli che andava tradendo verso i movimenti spontanei di contestazione dal basso di studenti e operai. Durante il processo, Braibanti fu difeso pubblicamente da Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Dacia Maraini. Solo dopo la condanna ci fu un maggiore impegno di intellettuali e movimenti politici, a cominciare dal tardivo interessamento del PCI, tanto che Pannella definì vile e stupido il silenzio di tanti intellettuali di fronte all’odissea di quell’uomo. La sentenza fu pronunciata il 13 luglio, con la condanna a nove anni di carcere. Immediatamente scoppiarono grida di protesta e tumulti tra gli spettatori presenti in aula, proseguiti per tutta la sera fuori dal Palazzo di giustizia. La cosa che appare oggi stupefacente è che in quel 1968 italiano si era potuto condannare un uomo per avere avuto relazioni sessuali con una persona maggiorenne e consenziente che peraltro era anche stata rinchiusa in manicomio e sottoposta a trattamenti pesantissimi per due anni. Quest’ultimo particolare pone l’accento su come fosse anche maturo il tempo per innovare la gestione e la legislazione dei manicomi e della malattia mentale in genere, come avevano già capito Franco Ba-
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saglia e i suoi collaboratori. Braibanti cominciò a scontare la pena e naturalmente presentò appello contro la sentenza. Intanto, nel 1969 fu edito da Bompiani un volume collettivo di protesta e di solidarietà con il condannato, redatto da Cesare Musatti, Umberto Eco, Alberto Moravia, Virginia Bompiani e altri. In seguito, uscito dal carcere, Braibanti li ringraziò collettivamente con un suo articolo molto dignitoso e sobrio sul giornale L’Europeo. Alla fine del 1969 la sentenza d’appello realizzò un compromesso, abbastanza penoso, riducendo la condanna a quattro anni, di cui due furono condonati per i meriti resistenziali di Braibanti, che quindi fu immediatamente scarcerato per aver già scontato i due anni residuali, compresa la carcerazione preventiva. Braibanti sarebbe passato alla storia per essere stato il primo e unico condannato per il reato di plagio. Infatti, il 9 settembre del 1981 la Corte Costituzionale abrogò il famigerato articolo 603 del Codice Rocco per l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma e per l’impossibilità di conferirle un contenuto oggettivo e sensato. Braibanti si ritirò nella sua modesta casetta al Portico di Ottavia a Roma, in un dignitoso silenzio e anche in una certa povertà. Mise in scena spettacoli teatrali e sceneggiati radiofonici; scrisse anche un libretto d’opera, “Le stanze di Azot”, musicato da Sylvano Bussotti. Nel 2002 espose i suoi collage composti con i rifiuti, come pezzi di bambola, fili elettrici, microchips. Nel 2006 gli fu assegnato il vitalizio per meriti artistici previsto dalla legge Bacchelli, quasi un tardivo riconoscimento, anzi un risarcimento, per l’ingiustizia subita. Nel 2012 si trasferì a vivere definitivamente a Castell’Arquato, sede della sua prima esperienza artistica, dove si spense il 6 aprile 2014, a novantadue anni. La vicenda umana, giudiziaria e politica di Braibanti ci fa capire che quegli anni
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’60 in Italia, specialmente l’anno mirabile 1968, non furono solo gli anni della contestazione, del miracolo economico, del progresso della civiltà. Furono gli anni in cui vigeva il delitto d’onore, lo stupro era un reato contro la morale, il successivo matrimonio riparatore sanava legalmente la violenza carnale sulle donne, studenti che scrivevano di problemi sessuali su un giornaletto del liceo potevano essere arrestati, spogliati e perquisiti in caserma, si poteva essere sbattuti in manicomio e tenuti in catene per una denuncia di chiunque e per un nonnulla e magari condannati con sentenza passata in giudicato per avere avuto rapporti sessuali con un maggiorenne consenziente. I progressi più importanti e durevoli che hanno portato le vicende sociali, politiche e giudiziarie di quegli anni sono stati quelli della modernizzazione del costume e dei diritti individuali, cosa che nel tempo presente si tende a dimenticare e sottovalutare, a causa anche del mezzo secolo trascorso da allora, quasi che quei favolosi anni ’60 ci appaiono oggi ormai più lontani del medioevo.
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