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Napoli non è una carta sporca
Sud
Napoli non è una carta sporca
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Raffaele FLAMINIO
Questa settimana ho ospitato in città un caro amico, Mario.Ci siamo incontrati per portare a termine un lavoro. Mario mi ha chiesto però, se
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nel tempo residuo disponibile, gli facessi da guida in giro per la città. Parlo di Napoli, naturalmente. Mario è una persona amabile ed estremamente colta, un appassionato giurista e storico dilettante. Un gentiluomo d’altri tempi. I suoi natali sono marchigiani ma, la sua vicenda umana si è svolta prevalentemente a Torino, da cui è stato adottato e coltivato.
Il sospetto di un napoletano è sempre forte nei confronti di un sabaudo e per giunta juventino. Inoltre, la storia patria è stata fatta dai vincitori e noi ancora oggi ne patiamo le interpretazioni e ne sopportiamo le distorsioni. I grandi viaggiatoti dei Gran Tour calavano dal freddo ed efficiente Nord, tutti allineati e coperti nel perimetro rigido di regole, vincoli dettati da regolamenti e codici. Il paesaggio rapiva, il clima abbracciava amorevolmente ma la gente, che orribile umanità! Fatta di poveri, pezzenti e lazzari, il più basso ordine antropologico che un Regno potesse offrire. Le corrispondenze degli ambasciatori, in particolare quelli di sua maestà Britannica, sono state quelle che hanno maggiormente contribuito alla creazione di questo luogo comune che tuttora resiste.
E che anche Mario, pur nel suo essere uomo colto e scevro dai pregiudizi, sentiva persistere nel suo animo.
La conferma mi è giunta quando abbiamo cominciato a bighellonare per la città.
La luce chiara e azzurra dell’ottobre partenopeo l’ha stordito. Il tepore l’ha coccolato, la moltitudine umana vociante e numerosa è stata percepita, inizialmente, come una minaccia. Il cliché del Gran Tour si è ripetuto. E la domanda è nata spontanea nella mente di Mario. Era scattato il Timer. «Perché una grande città come Napoli, con le sue tradizioni e la sua storia millenaria, ricca di musicisti, di artisti e letterati tra i quali anche il mio conterraneo Giacomo Leopardi, non ha la forza di
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riscattarsi e di porre ordine nelle cose? » Come dice Totò “e qui che casca l’asino”, caro Mario.
Allora io lo guardo sorridendo benevolmente e gli dico: «Perché la nostra origine è greca, perché anche sotto i Romani la prima lingua era il greco, perché noi viviamo di Agorà. Noi abbiamo bisogno del contatto fisico che è fatto di gestualità anche nel parlare. Tu, quando la giornata e bella dalle tue parti che fai?»
Pensandoci un po’, mi risponde: «esco mi godo il sole, la luce, vado a oziare, osservo guardo meglio la città, mi godo un panorama».
«Noi lo facciamo tutti i giorni, - gli dico - l’ordine deve cedere per forza qualcosa alla fantasia e alla creatività. La grande arte, pure quella del Nord, da dove nasce? Dal Kaos. La moltitudine, le piazze, le taverne, la promiscuità, la luce, sono gli elementi che colpiscono. Il passaggio dalle tenebre alla luce acuisce la curiosità, l’immaginazione, come pure la solidarietà, l’integrazione, l’economia di sussistenza».
La nostra passeggiata per via Toledo lo rapiva, indeciso se guardare i palazzi nobili che incorniciavano la via o la folla di turisti, napoletani, giovani che come un fiume incessante affollava il percorso. Il mio appassionato amico rifletteva. Eccome se rifletteva!. Osservava e si dava risposte strada facendo.
La monnezza, perché è sempre questo il cruccio di chi viene a Napoli, è raccolta ordinatamente dentro e vicino ai cestini colmi, ai bidoni della raccolta differenziata pronta per essere asportata, la gente è tanta è impossibile che non c’è ne sia. Questo pensava Mario. Poi d’improvviso mi chiese di attraversare i Quartieri Spagnoli, non osavo proporglielo. Suppongo che la sua passione per la storia e la voglia di rompere un tabù contemporaneo sui quei luoghi, lo abbia spinto ad assecondare
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questo suo desiderio. Le vie anguste e l’altezza dei palazzi lo incuriosivano, ogni tanto lo coglievo a sbirciare nei bassi. La sua soddisfazione principale stava nel fatto che osservando, il pregiudizio calava e il sorriso appena accennato stampato sul suo viso corrispondeva all’esperienza personale senza filtri che stava vivendo. I Quartieri Spagnoli nel 1500 erano gli alloggiamenti delle truppe vicereali e dunque per difendere la città e facilitare l’ordine pubblico le vie, come quelle di un castello, dovevano essere anguste, tali da poter essere difese anche da un numero ridotto di militi; la pianta dei quartieri è quella a reticolo come gli accampamenti romani, l’altezza dei fabbricati era resa necessaria dalla demografia cittadina e dalla morfologia del territorio che prevalentemente risulta collinare e quell’insediamento giace ai piedi della collina del Vomero. Dunque Mario si dava risposte scaturite dalla conoscenza esistente e dall’osservazione diretta. Le tortuose e strette strade, le improvvise piazze e le ricche chiese che ci apparivano d’improvviso davano a Mario, senza che io parlassi, la soddisfazione della comprensione, Napoli non butta niente, contiene e rigenera, trovando una forza ostinata nel volersi rinnovare nelle sue immense difficoltà.
Prima di continuare per la Pignasecca, mercato popolare all’aperto nel centro città, ci siamo concessi la pausa di una “tazzulella ‘e cafè” per rifocillarci e rendere o- maggio alla tradizione. La tazza di caffè è un modo di scambiare quattro chiacchiere in breve su gli argomenti più svariati. L’ultima formazione del Napoli calcio, le alte temperature che consentono di andare ancora al mare in autunno inoltrato, i commenti dei turisti sulla città. Un micro cosmo di comunicazione e di contatto di cui la città non può fare a meno. Le commedie di De Filippo e i film di Totò sono pieni di “tazzulelle ‘e cafè”, mi ricorda Mario che, a questo punto, ne ha ben chiare le ragioni e le origini. La conversazione scivola poi su alcune considerazioni che la
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influencer Selvaggia Lucarelli, con evidente intento polemico, ha postato su alcuni social accusando i napoletani di appropriarsi del caffè, del pomodoro, delle patate e non ricordo di quale altro prodotto della terra, proveniente dalle Americhe o dall’oriente. Noi siamo ironici per natura, discendiamo dai Greci, siamo acuti osservatori e sappiamo valorizzare e conservare gelosamente ciò che riceviamo e che possediamo. Il caffè è straniero come pianta, non è napoletano, eppure è qui che si è nobilitato, diventato leggenda, un po’ come il tè nel mondo anglosassone. Neanche il tè è britannico, eppure i sudditi di sua maestà lo hanno trasformato in un’ occasione sociale. Il pomodoro non è napoletano, però sono i napoletani che l’hanno collocato sulla pizza. Nonostante fossimo profondamente attaccati alle nostre origini e al nostro regno, la pizza per eccellenza, la Margherita, l’abbiamo dedicata alla prima regina del regno d’Italia.
Mario rifletteva e condivideva questi miei ragionamenti entrando sempre più nello spirito cittadino.
Gustato il caffè, giungemmo alla Pignasecca: un esplosione caotica di colori, bancarelle, negozietti per turisti e indigeni, una contaminazione continua, anche scenografica, tra modernità e tradizione. Gli americani non producono film sui set costruiti, la loro fortuna non nasce dall’epopea del west? Noi abbiamo la nostra sceneggiatura e scenografia naturale, quotidiana.
I prezzi delle merci di questo luogo sono molto contenuti, Mario lo ha notato subito facendo un confronto con quelli di Torino. Gli ho spiegato che questo è solo uno dei tanti mercati che in città svolgono una funzione sociale. uelloqqqqqqqqqqQuella dell’economia di sussistenza e di resistenza. Napoli è, forse, l’unica città che vede coesistere in ambiti ristretti gli ambienti sociali più disparati e questa coesistenza facilità la convivenza e la solidarietà, consente di vivere e di esistere secondo le
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possibilità di chiunque. Quando si è agito diversamente, con le “deportazioni” in periferia, è nata Scampia.
«Ma la camorra?» mi chiede Mario. La camorra sappiamo che esiste, non neghiamo la sua esistenza ma cerchiamo di farci i conti quotidianamente, arginandola con le armi della cultura e della pazienza, aprendo i luoghi della città, facendola vivere. Ogni giorno, ogni mese dell’anno, in città ci sono migliaia di occasioni passepartout che costringono la camorra a indietreggiare di un passo e quel piccolo spazio libero lo occupiamo noi. Le occasioni si chiamano Napoli Teatro Festival, Maggio dei monumenti, il San Carlo con i suoi spettacoli, Cinema d’estate nei parchi cittadini, spettacoli teatrali, esposizioni d’arte nelle case private del centro o nei bassi, visite guidate nella Sanità, i musei che si trasformano, divenendo luoghi di libri e di musica, festival di artisti di strada. Caro Mario, esiste una forte consapevolezza ma è necessaria tanta pazienza e prudenza.
Gli propongo una visita per le strade e i luoghi del Vomero, voglio dargli un po’ di fiato, farlo sentire un po’ più a suo agio. Prendiamo la funicolare di Montesanto .
Mario ripassa sorprendentemente la toponomastica delle strade percorse. Montecalvario, Vico Lungo Gelso, Pignasecca, Toledo. Me ne chiede ragione.
La zona dei Quartieri Spagnoli prima dell’avvento del viceré Pedro de Toledo era una porzione fuori le mura della città aragonese. Posta ai piedi della collina di Sant’Elmo che dal Vomero precipitava in città, era assai verde e piena di pini marittimi e alberi di gelso. Nei pressi si praticavano mercati, era una zona salubre e amena. Quando si decise di costruire l’attuale via Toledo, asse viario che conduceva la città interna verso il mare, fu necessario abbattere i boschi di pino e gelso e gli orti fecondi. La leggenda narra che nell’attuale Pignasecca, chiamata Bianco-
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mangiare per la sua salubrità, rimase in piedi un solo albero di pino, in napoletano, appunto, Pigna, dal frutto prodotto, sui suoi rami. Le gazze che precedentemente abitavano il bosco, si rifugiavano sull’albero superstite portando sui suoi rami i gioielli, che loro stesse avevano rubato dalle abitazioni circostanti. Le proteste della popolazione procurarono una scomunica da parte di un arcivescovo nei confronti dei volatili. L’editto fu inchiodato sul fusto del pino che in seguito morì. La denominazione Pignasecca trae origine dalla morte dell’albero e del suo frutto, la pigna, che inaridì, in dialetto “seccò”.
La storia di vico Lungo Gelso, trae origine dal bosco dello stesso albero che consentiva l’allevamento del baco da seta, fondamentale per la produzione delle sete napoletane. Gli alberi si estendevano dalla collina di Salt’Elmo fino agli attuali quartieri spagnoli, e furono dati in gestione ai monaci Certosini dell’abbazia di San Martino al Vomero. Il bosco, inoltre, procurava ristoro dalla calura estiva e conforto per gli innamorati che si incontravano in quella zona, in barba ai principi del pubblico decoro. Tale ragione, accompagnata alla costruzione della nuova via, fu sufficiente per tagliare le piante dal luogo. A cui, però, è rimasto il nome nella toponomastica cittadina.
Giunti al Vomero, dopo la corsa nella funicolare di Montesanto, Mario si è immerso nella calma borghese del quartiere collinare, attraversato dallo scintillio delle vetrine eleganti degli esercizi commerciali, apprezzando i viali alberati e il panorama offerto dal belvedere della Certosa di San Martino e dalla fortezza di Sant’ Elmo.
La presenza continua di riferimenti a Santi e Monti riconducibili alla religione ha svelato a Mario il profondo legame che la città possiede con la religione e la leggenda. Ma a Napoli hanno convissuto e convivono istanze diverse: il culto di San
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Gennaro e la caparbia laicità di Gennaro Serra di Cassano, eroe della rivoluzione Napoletana del 1799, rappresentano il forte intreccio tra religione e filosofia. Le avanzate tesi legislative di Gaetano Filangieri e Pietro Giannone hanno contribuito a influenzare lo spirito di libertà a cui la città e la sua gente ha sempre aspirato mentre lo spirito religioso, fatto di tradizionale adorazione per i morti, conduce alla liberazione dagli affanni terreni attraverso un percorso diverso.
Mario si è goduto le passeggiate in riva al mare, i piatti della tradizione culinaria, la visita solitaria a Capodimonte e ai sui tesori, visitato la tomba del suo amato Giacomo Leopardi che finì i suoi giorni nella città che più rappresentava il suo delicato animo. Mario, si è sorbito il mio enorme orgoglio partenopeo. Povero Mario!
Il mio Caro Amico ha liberato l’animo, gli occhi e la mente dai pregiudizi centenari, mi ha ringraziato per la breve visita e mi ha salutato con la voglia di ritornare.
Benvenuto Mario e a presto rivederci.
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