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Le lotte operaie in Italia negli anni ‘60 del Novecento
Storia del Movimento Operaio
Le lotte operaie in Italia negli anni’60 del Novecento
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Giovan Giuseppe MENNELLA
Dopo un immobilismo durato dalla fine della guerra, negli anni ’60 ripresero con vigore le lotte operaie nelle fabbriche, e non solo. Fin dai primissimi anni ’60, nelle fabbriche italiane si produsse a ritmi sempre più frenetici, imposti anche dal nuovo ciclo produttivo della catena di montaggio, come si addiceva a una Nazione che stava producendo il più grande sforzo della sua
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storia di accumulo di ricchezza capitalistica e di miglioramento del prodotto interno. Come scrisse Ralf Dahrendorf nel suo prezioso libretto “Quadrare il cerchio”, nei periodi di accumulazione di ricchezza capitalistica la libertà politica e/o la coesione sociale tendono fatalmente a essere compresse. In Oriente la libertà politica (vedi tigri asiatiche) a causa della grande forza delle strutture familiari e di clan, in Occidente la coesione sociale, a causa della dichiarata adesione alla democrazia rappresentativa di stile inglese e statunitense. In Italia la libertà politica nel dopoguerra fu senz’altro garantita, vedi il rifiuto del Ministro dell’Interno Scelba alla richiesta dell’ambasciatrice americana Claire Booth Luce di mettere fuori legge il PCI, ma non certo la coesione sociale. Lo sviluppo economico fu assicurato dallo sradicamento delle masse contadine dal Sud per andare a lavorare nelle industrie del Nord, dalle condizioni di vita pessime degli immigrati interni nelle grandi città del triangolo industriale e, appunto, dalle condizioni di lavoro dure degli operai, con ritmi di lavoro massacranti e pochi diritti sindacali e politici. Il malessere operaio iniziò a trovare sbocco in lotte più dure e convinte proprio all’inizio di quegli anni ’60, in pieno miracolo economico, anche grazie all’apporto di nuove leve di operai giovani e combattivi, moltissimi provenienti dalle regioni meridionali. Gli obiettivi: usufruire di ritmi di lavoro meno massacranti, riduzione dell’orario di lavoro, maggiori diritti sindacali, salari più alti. Insomma, i lavoratori chiedevano di ottenere la parte che spettava loro della accresciuta ricchezza del Paese, visto che questa era stata accumulata soprattutto con il loro sudore. Anche la crisi economica del 1964, la Congiuntura, fu recuperata sulla pelle degli operai, tagliando il salario di produttività. In un’inchiesta del quotidiano “Il Giorno” sulla
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condizione operaia, Giorgio Bocca parlò di quegli operai dei primi anni ’60 come della generazione “corta”, nel senso che invecchiava prestissimo per le condizioni proibitive in fabbrica. Un aspetto importante della questione fu che il Sindacato, grazie alle prime lotte più convinte, riuscì a entrare anche nelle fabbriche, mentre fino ad allora si era limitato a partecipare solo alle trattative di carattere nazionale a Roma. Cominciarono a verificarsi mobilitazioni spontanee, esplosive, difficili da governare, perché era appunto cambiata la composizione sociale degli operai. Era nato l’operaio-massa, non specializzato, che lottava duramente, alzava l’asticella, voleva tutto, come del resto recitava il titolo di un romanzo di avanguardia di Nanni Balestrini del Gruppo ’63. Il ’68 degli operai ebbe il suo prodromo nel luglio 1962 con i disordini e gli scontri con la polizia a Piazza Statuto a Torino, dove gli operai protestarono sotto la sede della UIL che si era ritirata all’ultimo momento dalle trattative per miglioramenti salariali intraprese con le industrie della zona. Piazza Statuto si caratterizzò, oltre che per la nuova composizione sociale degli operai partecipanti, anche per la divisione intercorsa all’interno delle Organizzazioni Sindacali che, già di per sé, erano piuttosto refrattarie ad ascoltare le esigenze e le richieste della base operaia che si rivelò essere più avanti dei Sindacati. Si potrebbe pensare che i fatti di Piazza Statuto stiano al ’68 degli operai come alcune opere artistiche dell’inizio del decennio, pensiamo al film di Bernardo Bertolucci “Prima della Rivoluzione” o a quello di Marco Bellocchio “I pugni in tasca”, stiano alla protesta e al malessere ideologico di molti studenti e intellettuali borghesi che pure si sarebbero manifestati apertamente nel 1968. Comunque, non solo i Sindacati, ma anche l’opinione pubblica e i Partiti politici non compresero appieno ciò che stava accadendo. Non si capì che il ribellismo non
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era un’azione di provocatori, magari fascisti mascherati da rivoluzionari ma spia di un reale malessere sociale. Più tardi nel decennio, durante le lotte del 1968, operai e studenti rivendicarono insieme cambiamenti non solo nei luoghi di lavoro e di studio ma anche, se non soprattutto, nei rapporti sociali. Anche i Partiti, si diceva, non compresero le esigenze delle lotte operaie e studentesche che si andarono addensando. In realtà i Partiti stessi, specialmente dal 1962 al 1968, attraversarono serie crisi. Andò in crisi innanzitutto la formula di governo del Centrosinistra, dalla Congiuntura economica del 1964 e anni seguenti, che pretese un ridimensionamento delle sperate riforme cosiddette “di struttura”, nonché rumori di colpi di Stato, il famoso tintinnare di sciabole di cui parlò Nenni, per bloccarle. Non solo, ma anche il PCI attraversò anni difficili: innanzitutto era avvenuta la fine dell’alleanza con il PSI; poi nel 1964 la morte di Togliatti che privò il Partito della sua guida storica, quindi l’unificazione dei due tronconi del Partito socialista nel PSU. Il Partito di Botteghe Oscure diede troppa attenzione a queste emergenze di politica politicante, dimenticandosi di cogliere gli umori e i fermenti che s’innalzavano dalla società, dai giovani operai e dai giovani studenti. Finché non si arrivò all’espulsione dei dissidenti del Manifesto, che rivendicarono proprio questo maggiore ascolto, con il Partito diviso tra un Longo che voleva andare più verso i giovani, un Amendola decisamente ostile alla proposta di Longo e un Ingrao che, pur aderendo a parole alle posizioni più innovative, lasciò espellere i dissidenti senza prendere posizione. Insomma, il PCI non produsse nessuno sforzo per comprendere ciò che stava accadendo nella società, non comprendendo in tempo la trasformazione neocapitalista degli anni ’60. Tuttavia, più tardi, ripristinò l’abitudine di mandare i militanti e i
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funzionari di partito ai cancelli delle fabbriche e alle porte delle scuole per condividere le loro lotte. Su questi ritardi e questa crisi dei Partiti tradizionali si innestò la nascita dei gruppi extraparlamentari di sinistra. Gli studenti cominciarono a conoscere gli operai delle fabbriche e i due gruppi cominciano a manifestare insieme. Nella primavera del 1968 irruppe la contestazione studentesca, con la sua ansia di cambiamento portata fuori dalle aule per saldarsi con gli operai che già si erano proiettati fuori dalle fabbriche. Per gli operai il Movimento studentesco fu un’occasione per unire le lotte verso la trasformazione del sistema e posero in chiaro la loro esigenza di essere a- scoltati e non colonizzati intellettualmente dagli studenti. Nacquero così i CUB, Comitati Unitari di Base delle aziende e le Assemblee spontanee degli studenti. Il 19 aprile del 1968 a Valdagno fu abbattuta dai manifestanti, soprattutto operai, la statua del senatore dell’800 Gaetano Marzotto, il fondatore dell’omonima azienda di filati e tessuti. Fu un evento straordinario, la caduta di un simbolo di un certo modo di fare azienda, basato sul paternalismo di un sistema dove vigeva una repressione durissima, di lavoro basato sul cottimo e su ritmi frenetici. Furono arrestati molti operai, ma il Consiglio comunale di Valdagno si dimise in blocco per ottenerne la scarcerazione. I nuovi operai chiesero non solo miglioramenti salariali, ma le trasformazioni delle modalità di lavoro, come il superamento della durissima catena di montaggio, tipica del fordismo, ormai spinta al suo massimo. Nel dicembre del 1968 scesero in lotta anche i braccianti. Il 2 dicembre ad Avola, in Sicilia, i braccianti manifestarono contro le gabbie salariali. L’ultimo contratto bracciantile era stato rinnovato nel 1966 con la divisione dei salari e delle ore di lavoro in zone e ad Avola, per le medesime mansioni, i braccianti per contratto lavoravano per più ore e percepivano meno salario orario rispetto ad altre zone limitro-
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fe. La Polizia sparò ad altezza d’uomo e due manifestanti furono uccisi. Altri due morti ci furono a Battipaglia il 9 aprile del 1969, in scontri con le forze dell’ordine causati dalle proteste per la chiusura di alcuni stabilimenti e la perdita di posti di lavoro. Entrambe le proteste e le vittime erano nate da proteste del tutto spontanee per rivendicare diritti. Anche in questi casi spiccò la latitanza delle organizzazioni di rappresentanza istituzionale di braccianti e operai. Il Movimento studentesco unificò le due stragi e ne fece un simbolo dell’esigenza stringente di cambiare la società a colpi di proteste rivoluzionarie. Il gruppo musicale di Antonio Infantino e dei Tarantolati di Tricarico compose una canzone allora giustamente famosa per ricordare le vittime di Avola e qualcuno non giovanissimo la ricorderà sicuramente. Ma i tempi erano ormai maturi perché si ottenessero risultati tangibili da quelle proteste spontanee, anche perché i Sindacati e i Partiti della Sinistra capirono che ormai non si poteva tardare ulteriormente a dare risposte istituzionali, legislative e contrattuali, alle giuste e non più rinviabili esigenze di miglioramento della vita delle classi fino ad allora subalterne e sfruttate. Nell’autunno del 1969 vennero a scadenza numerosi contratti nazionali di lavoro di svariate categorie pubbliche e private che coinvolgevano circa cinque milioni di lavoratori. Quello più importante e che si rivelò anche decisivo per trascinare dietro di sé altre categorie, fu quello dei metalmeccanici. Le richieste vertevano sulle condizioni di lavoro in fabbrica, sul diritto di assemblea, sulla parità tra impiegati e operai, sulla riduzione dell’orario di lavoro, oltre che sui miglioramenti salariali. Le trattative tra Sindacati e Datori di lavoro pubblici e privati iniziarono nel mese di settembre di quell’anno così importante e furono caratterizzate immediatamente da forti tensioni. Il 19 novembre a Milano ci furono
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scontri violenti per il diritto alla casa e fu ucciso l’agente di polizia Annarumma. In quello stesso novembre, fu firmato con l’Intersind il contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici dipendenti dalle aziende pubbliche che previde l’ottenimento delle quaranta ore lavorative settimanali. Con la Confindustria la situazione appariva di più difficile soluzione, ma con la mediazione decisiva del Ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, il 21 dicembre, fu firmato anche il contratto dei metalmeccanici privati. Era tempo, non si poteva attendere ulteriormente, anche perché il 12 di quel mese era scoppiata la bomba di Piazza Fontana cambiando tutte le prospettive della politica e, come si capì dopo, della storia italiana. Fu una grande conquista per la classe lavoratrice, che giunse all’epilogo di quel decennio di lotte operaie e poi anche studentesche, iniziato a Torino a Piazza Statuto. A Torino, all’inizio dell’autunno caldo, si svolse anche un’altra vicenda epocale: la vertenza FIAT. A seguito di uno sciopero non autorizzato la FIAT sospese dapprima tremila lavoratori per ragioni disciplinari e poi ben ventottomila per problemi di produzione. A quel punto furono inaugurate nuove modalità di scioperi spontanei. Lo sciopero articolato, nel quale un piccolo gruppo di operai della catena di montaggio si fermava e bloccava tutta la produzione. O quelli senza preavviso, a gatto selvaggio. Con queste azioni fu chiaro quanto ormai gli operai si rendessero conto di essere forti, di quanta visibilità avessero ormai acquisito per portare all’attenzione dell’opinione pubblica il loro bisogno di miglioramenti normativi sostanziali. La conquista finale di quel decennio di lotte, forse la più importante, fu la legge numero 300 del 20 maggio 1970, lo Statuto dei Lavoratori, dovuta all’azione soprattutto dei Ministri del Centrosinistra di area socialista, in particolare del Ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, predecessore di Donat Cattin, che firmò il contratto di lavoro dei metalmeccanici e che comunque pose mano anche allo Sta-
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tuto. La legge fu anche un punto di partenza sul piano dell’attenzione politica verso Sindacati e operai. In conclusione, si può dire che le lotte operaie degli anni ’60 marciarono per qualche periodo di conserva con quelle degli studenti e degli intellettuali, ma forse produssero un’eredità e risultati anche maggiori. In Italia la saldatura tra movimenti operai e movimenti studenteschi fu più evidente che in altri Paesi, ad esempio la Francia, e il ciclo delle lotte operaie che hanno prodotto conseguenze fruttuose è stato più lungo, ponendosi grosso modo dal 1968 fino al1973.
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