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Il triste compleanno del 1980

Storia e Territorio

Il triste compleanno del 1980

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Raffaele FLAMINIO

Il 23 novembre 2019 ricorrerà il trentanovesimo anniversario del terremoto che colpì vaste aree della Campania, della Puglia e della Basilicata.

Alle 19.34 di domenica 23 novembre 1980 la terrà tremò. I numeri raccontano di una tragedia immane. Un’area geografica di 17.000 kmq fu squassata dalla furia della natura, sei milioni di persone coinvolte.

687 comuni delle tre regioni colpite, rasi al suolo. 362.000 abitazioni distrutte, 300.000 sfollati, 10.000 feriti, 3.000 morti. Novanta secondi di terrore. I comuni di Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Laviano, Conza della Campania, Conza, Muro Lucano, furono cancellati.

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Quel 23 novembre, di trentanove anni fa, faceva caldo. La meteorologia aveva regalato uno scampolo di primavera inaspettata. Molte famiglie avevano approfittato dell’occasione per organizzare, nonostante l’autunno inoltrato, una gita fuori porta o passeggiate all’aperto. Quello strano fenomeno stagionale svanì in un boato lungo un minuto e trenta secondi. Travolgendo vite, stravolgendo esistenze, luoghi testimoni di storie ancestrali. La lingua antica e dialettale di quei luoghi si arricchì di nuove parole, ci fu un’osmosi forzata per rappresentare la paura.

Il linguaggio tecnico della magnitudo si accompagnava alle nenie di veglia nell’attesa dell’arrivo di notizie sui cari dispersi o morti sotto le macerie. Magnitudo 6.9 della scala Richter. Quel numero accompagnato da un cognome, si faceva strada nella lingua antica dialettale sicura, comprensibile, fino ad allora, fatta di termini come moggio, quarte, palmi, pertiche, parole utili per secoli, per definire spazi e ordine, in novanta secondi erano state cancellate da magnitudo, sciami sismici, un arsenale sconosciuto e mortale. Il boato dell’aria calda accompagnava il collasso di case, scuole, chiese, piazze che avevano segnato la vita di milioni di persone. La nebbia maligna lasciava il posto a una desolazione senza limiti, fatta di disperazione ed incredulità. La luna in terra. Crateri profondi e ammassi di detriti famelici avevano inghiottito ogni forma di vita. Non ancora si erano spente le cronache sportive di quella domenica di calcio che gli sfottò del rito domenicale erano rimasti soffocati dallo sgomento della tragedia che si andava consumando.

Napoli era un ininterrotto lamento di sirene di soccorsi, la gente fuggiva dalle case senza curarsi di ciò che serviva, i luoghi pubblici vomitavano, verso le uscite sulla strada, moltitudini stordite, i bambini increduli cercavano conforto negli occhi smarriti degli adulti.

Le edizioni dei Telegiornali di allora parlarono di lievi scosse che non avevano

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procurato alcun danno alle persone e alle cose. La notizia si diffuse, la calma sembrò ritornare. Il fuggi, fuggi, generale scomposto e caotico sembrò trovare, un suo ordine naturale ma, provvisorio. Tra le ore 20 e le 20.30 la terra si assestò. Venti, forse, trenta secondi interminabili. La paura strinse il suo pugno. Il Kaos.

In quei comuni disgraziati quello che ancora restava in piedi come la speranza si sgretolò. Il freddo sopraggiunto nei cuori, si materializzò in fiocchi di neve e gelo che composero un’istantanea indelebile.

I soccorsi partirono con immenso ritardo. Un’intera comunità abbandonata a se stessa, preda della disperazione e del freddo.

I primi che valutarono correttamente le dimensioni della tragedia, a parte i VV.FF, poliziotti e carabinieri locali, furono i cronisti che recatisi per prima cosa all’ospedale di Avellino poterono misurare, dal numero di feriti ed emergenze, le effettive dimensioni della tragedia. Arrivare su quei paesi tra gli Appennini fu impresa titanica.

Tutte le direttrici stradali erano chiuse, i centri abitati collassati erano impraticabili al transito di mezzi e persone. I più, accompagnati, da guide improvvisate locali, scalarono pendii montuosi fra boscaglie e neve, solcando le orme dei cacciatori e gli animali della montagna.

Lo scenario che apparve ai loro occhi è riportato nelle cronache di allora. Interi agglomerati urbani falciati al suolo dalla potenza sismica che non aveva risparmiato nulla. Lo stiramento della falda appenninica aveva aperto e poi richiuso, sotto i piedi delle persone, le voragini che avevano inghiottito tutto. Gli uomini scavavano a mani nude tra i detriti, le donne a squarcia gola ripetevano come un litania i nomi dei cari seppelliti. Le anziane vestite di nero si prendevano cura dei bambini smar-

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riti, terrorizzati, affamati, recitando antiche nenie contadine. I corpi esamini, ricuperati, allineati nel fango prodotto dalla neve che cadeva. I falò improvvisati, alimentati dal legno di suppellettili, diffondevano un po’ di calore e luce in quella notte di pece fredda.

Alla luce dei fuochi ogni tanto la speranza prendeva corpo, urla di gioia e pianti commossi indicavano un fortunato ricongiungimento familiare, di un parente, un conoscente che, narrava la sua esperienza. Quel tempo non era di internet e social, le notizie viaggiavano sui fili; il fili erano tranciati. Solo le radio militari erano in grado di diffondere notizie e solo il genio militare era in grado di ripristinare le comunicazioni. I cronisti si davano il cambio e le notizie cominciavano a transitare.

Solo il 26 novembre, tre giorni dopo il sisma, il giornale “IL MATTINO” apre con un titolo che ha fatto storia. “FATE PRESTO”. Warhol ne farà un’opera d’arte visibile nella metropolitana di Napoli, fermata Museo, corridoio di collegamento tra la linea 2 e la linea 1.

La macchina dei soccorsi si mosse lentamente e male. Il sisma friulano, di pochi anni prima, non aveva lasciato memoria storica nella testa dello Stato. Le prime riprese televisive dettagliate compaiono, in quei giorni nei telegiornali televisivi RAI. Solo allora, l’intero Paese comprese la dimensione tragica del sisma che aveva colpito le tre regioni meridionali. La macchina della solidarietà si mise in moto. Saranno circa 8.000 i volontari che, da tutta Italia si mobiliteranno per prestare assistenza ai connazionali colpiti a morte. Milioni di tonnellate di alimenti, coperte, tende, stufe e tutto quanto era necessario, furono recapitate in quei territori a conforto di quegli italiani provati e sofferenti. Il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, dopo aver preteso di visitare le zone del disastro, nonostante il parere contrario del suo staff di sicurezza tuonò: “VERGOGNA”.

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Fu, solo, in questi tre frangenti che la macchina dello stato cominciò a mobilitarsi. L’autostrada del sole A1, a partire da Napoli e in direzione sud, fu aperta esclusivamente al transito dei mezzi di soccorso scortati dalla nascente autorità di Protezione Civile, pensata dal Commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, i soli mezzi autorizzati a raggiungere le zone terremotate. Quei soccorritori giovani, in particolare, videro direttamente e senza filtro ciò che significava morte e distruzione. Impressi nei loro occhi videro materializzarsi i racconti dei genitori e dei nonni sulle distruzioni della II guerra mondiale. Molti testimoni delle due sciagure vissute, narrarono loro l’immane e superiore sgomento provocato dal sisma che non risparmiò, peggio dei bombardamenti, nulla. Nei pressi delle chiese e dei cimiteri sventrati, giacevano le centinaia di morti che, le comunità contavano e riconoscevano per nome e cognome, ricordando e piangendo scampoli di vite vissute in comunione con gli estinti. Le bare presenti non bastavano, ne servivano molte di più. I morti avvolti nei teli di fortuna a evitare contagi da decomposizione. La neve e il gelo che erano visti come un’ulteriore calamità furono accolti con benevolenza. Il gelo conservava i vivi e i morti. Le grandi tende dormitorio recarono temporaneo conforto ai bimbi e gli anziani. Per fortuna la natura spensierata dei bimbi regalava, in quell’atmosfera di morte, qualche sorriso per gli improvvisati giochi dei più piccoli. Fuori da quei luoghi tutto era lugubre è spento. Il rumore della rimozione delle macerie sovrastava tutto, gli ordini dei capi squadra improvvisati erano secchi e assecondati. Nello stordimento e sconforto generale ora c’era una direttiva certa e sicura. I fornelli da campo dell’esercito cominciavano a sbuffare fumo che spandeva odore di pietanze calde. Un barlume di condivisione cominciava a farsi strada. Nei turni di mensa le parole, i racconti, transitavano da una bocca a un orecchio come una immensa terapia di gruppo. Neanche quando calava la notte c’era silenzio e immobilismo, dopo la paura e lo sgomento c’era voglia di rialzarsi.

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I sindaci, memoria storica e civica, dei territori erano impegnati a fare la meschina conta, dovevano fornire i dati per indirizzare gli interventi e le procedure, l’unica appartenenza sentita era quella con la comunità d’origine.

Le case, le piazze, le chiese, le scuole, ricostruite dovevano avere impressa la memoria della comunità.

La ricostruzione come la storia ci illustrerà, sarà altra cosa. La speculazione, i personalismi, le mazzette faranno da corollario. La reazione della natura sarà direttamente proporzionale alla stupidità nazionale. I terremoti delle Marche, dell’Abruzzo e dell’Emilia Romagna, sono moniti ancora sanguinanti come ancora sanguina la memoria di quel 23 novembre di trentanove anni fa.

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