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Gaza

Esteri

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Umberto DE GIOVANNANGELI

Lo schema si ripete: quando si è in crisi o in passaggi cruciali del proprio destino politico, ovvero quando la tua capacità di attrarre consensi, e finanziamenti, per la resistenza al nemico (sionista) viene messa in crisi, ecco le “eliminazioni mirate”, ecco i razzi che piovono su Israele. Un primo ministro che cerca di sopravvivere politicamente alle inchieste giudiziarie che lo chiamano in causa direttamente e che cerca di rimanere in vita politica riportando il paese in trincea. Un movimento eterodiretto che, per non essere scalzato dalle cellule dello Stato islamico trapiantate nella Striscia, ripropone il peggio di una tragedia già vista. C’è tutto questo dietro l’uccisione di Baha Abu al- Ata, il comandante militare della Jihad islamica palestinese nella Striscia. E la popolazione di Gaza torna ad essere una popolazione in

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gabbia, ostaggio di due nemici che si sorreggono l’uno con l’altro, perché, da fronti opposti, conoscono e praticano lo stesso linguaggio: quello della forza. È la storia insanguinata (34 i morti nell’operazione “Cintura nera”) di tre guerre, di bombardamenti, razzi, invocazione al diritto di difesa (Israele) e a quello della resistenza armata contro l’“entità sionista” (Hamas e Jihad islamica). È la storia di punizioni collettive, di undici anni di assedio. Ma è anche la storia di un movimento islamico che, fallita l’esperienza di governo, cerca nuova legittimazione nell’indirizzare contro l’occupante con la Stella di David, la rabbia e la sofferenza di una popolazione ridotta allo stremo. Una storia insanguinata che chiama in causa i due “Nemici”, ognuno dei quali, per il proprio tornaconto, ha lavorato assieme per recidere ogni filo di dialogo e per distruggere ogni possibile compromesso. Perché “compromesso” è una parola che non esiste né nel vocabolario politico della destra israeliana né in quello di Hamas e della Jihad islamica. Perché compromesso significa incontro a metà strada, il riconoscere le ragioni dell’altro. Compromesso significa rinuncia ai disegni della “Grande Israele” come della “Grande Palestina”. Compromesso è ammettere che non esiste né una scorciatoia militare né una terroristica per veder riconosciuti due diritti egualmente fondati: la sicurezza per Israele, uno Stato indipendente per i Palestinesi. Combattere costa meno che fare la pace. Perché “fare la pace”, tra israeliani e palestinesi, non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significa molto di più: ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri. Significa immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell’altro e, per quanto riguarda Israele, guardare ai Palestinesi come un popolo e non come una moltitudine ingombrante. Nello schema dei “resistenti” di Gaza e in quello della destra israeliana non esiste il “centro”: chiunque si pone in questa ottica, altro non è che un ostacolo da rimuovere, con ogni mezzo, anche il più e- stremo. La destra israeliana ha bisogno di Hamas e della Jihad per coltivare

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l’insicurezza, per alimentare nell’opinione pubblica la sindrome di accerchiamento, divenuta psicologia nazionale. E per la Jihad islamica e Hamas sparare missili su Israele è riaffermare la propria leadership nel variegato fronte della resistenza palestinese. Hamas può al massimo contemplare una “hudna” (tregua) con Israele ma mai un riconoscimento della sua esistenza. La tragedia di due popoli è racchiusa in questa drammatica, voluta, ripetitività. "L'eliminazione di Israele significa che i palestinesi, musulmani, cristiani ed ebrei, veri proprietari della terra palestinese, devono poter decidere il loro destino". “”L’assassinio di Abu al-Ata non ha alcuna u- tilità. Che cosa abbiamo ottenuto da esso? In che modo la sua uccisione e quella di altre persone è servita agli interessi israeliani? Se anche questa domanda non diventerà mai oggetto di discussione, significa che siamo vittime di una grave paralisi mentale. Israele gode di maggiore sicurezza all’indomani di quest’assassinio? Le comunità nel sud se la passano meglio? L’organizzazione Jihad islamica è indebolita? L’esercito israeliano si è rafforzato? La risposta è no, no, e ancora no. Nessuno dei generali o degli analisti è riuscito a spiegare quale vantaggio abbia tratto I- sraele da tutto questo. Meritava la pena di morte. D’accordo, vi abbiamo ascoltato, ma che vantaggio ne abbiamo tratto? Ecco una valutazione provvisoria: più odio a Gaza, ammesso che ci sia spazio per altro odio verso quanti hanno distrutto le vite di cinque generazioni di persone, e non si sono ancora fermati. Molto sangue è stato versato e continua a essere versato: più di 30 palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza, distruzione e paura seminate da ambo le parti, e che non porteranno a nulla. E naturalmente c’è la chiara consapevolezza che emergerà un erede di Abu al- Ata, molto più estremo e pericoloso, come è stato per quanti hanno sostituito le centinaia di leader e comandanti che Israele ha ucciso nel corso degli anni, il tutto invano. A nulla hanno portato le celebrate eliminazioni di Khalil al Wazir, Ahmed Yassin, Abdul Aziz Rantisi, Thabet Thabet, Ahmed Jabari o Abbas Musawi.

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L’eroica uccisione di queste persone è stata vana. Israele non ha ottenuto niente, da alcuno di essi, se non altro sangue versato. Perché Israele continua a effettuare altri omicidi mirati? Perché può farlo. Perché queste storie diventano eroiche. Perché adora vedere combattenti palestinesi morti. Perché la sete di vendetta e di punizione lo fa impazzire. Perché è così che si fa vedere alle persone che si sta facendo qualcosa e non si hanno esitazioni. Perché è così che si uccidono le persone continuando a dire che Israele non ha la pena di morte. Perché è il modo di evitare la vera soluzione: così scrive Gideon Levy, icona del giornalismo progressista israeliano, in un articolo su Haaretz tradotto e pubblicato in Italia da Internazionale.In un momento particolarmente critico del conflitto israelo-palestinese in cui l’escalation di violenza sui civili non accenna a fermarsi, qualsiasi nuovo passo in avanti nel processo di pace, compresa la proposta Usa, sembra destinato a fallire, se gli attori in campo non apprenderanno dai gravissimi errori commessi nell’ultimo quarto di secolo. E’ l’allarme lanciato da Oxfam, attraverso un nuovo rapporto che a 26 anni dalla firma degli accordi di Oslo, raccoglie le testimonianze di tanti che hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti del fallimento di un processo di pace, che sarebbe dovuto durare cinque anni, ma che si è trasformato in una situazione di stallo, compromettendo il presente e il futuro di intere generazioni. Un dossier che fotografa quindi gli errori commessi e le possibili strade da intraprendere per raggiungere una pace duratura. Mai risolta rimane, nei Territori Occupati Palestinesi, una crisi umanitaria dimenticata, con 2,5 milioni di persone – di cui oltre 1 milione di bambini – che dipendono dagli aiuti per la propria sopravvivenza e 1,9 milioni di persone senza regolare accesso a acqua pulita e servizi igienico sanitari In una situazione di permanente tensione fatta di scontri, manifestazioni e rappresaglie: negli ultimi due giorni (successivi all’uccisione da parte israeliana del comandante della Jihad islamica palestinese nella Strscia, ndr) i bombar-

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damenti israeliani su Gaza hanno causato 34 vittime, tra cui 8 bambini e 3 donne. Lo scorso agosto in risposta ai razzi lanciati dalla Striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno imposto una riduzione del 50% delle forniture di carburante necessarie a tenere in funzione la principale centrale elettrica nella Striscia “Sino ad oggi il fallimento del “processo di pace”, definito nel ’93, ha di fatto consentito una sistematica violazione del diritto internazionale, culminata nell'atroce offensiva su Gaza del 2014, e la negazione dei diritti fondamentali di una buona parte del popolo palestinese, che non è mai stato davvero coinvolto nelle decisioni sul proprio futuro. - rimarca Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia - Ancora oggi 2 milioni di persone vivono intrappolate nella Striscia di Gaza, senza nessuna prospettiva. Tutto questo è il risultato di tantissimi errori da ambo le parti e di una politica quasi sempre unilaterale e imposta dall’alto, che ha portato alla paralisi dell’economia palestinese, al quadruplicarsi del numero di coloni negli insediamenti israeliani illegali (passati dai 116.300 del 1993 ai 427.800 attuali, escludendo Gerusalemme est) e alla cronicizzazione di un’occupazione che dura ormai da 52 anni senza nessuna reale prospettiva di pace per i palestinesi, gli israeliani e l’intera regione. Palestinesi e israeliani sono rimasti bloccati in un limbo che dura ormai da 26 anni e deve finire al più presto”. Nel contesto di un’economia paralizzata - con una produzione pro-capite cresciuta di appena lo 0,1% dal ‘94 al 2014, e quasi totalmente dipendente dagli aiuti internazionali - a pagare il prezzo più alto dello status quo sono le donne e i giovani nei Territoti Occupati Palestinesi. Basti pensare che, nonostante un alto livello medio di istruzione, nel 2017 la disoccupazione femminile è aumentata del 3,1% raggiungendo il 47,4%, il tasso più alto al mondo. Allo stesso modo, con oltre la metà della popolazione nell’area al di sotto dei 29 anni, un’intera generazione sta perdendo speranza nel proprio futuro. Giovani che nonostante un tasso di alfabetizzazione

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del 96% non hanno mai votato, non hanno un lavoro o sono occupati nel settore informale. Nei Territori Occupati Palestinesi la disoccupazione tra i 15 e i 29 anni arrivava nel 2017 al 43,3% (30,1% in Cisgiordania e 64,6% nella Striscia di Gaza), segnando il più alto livello di disoccupazione giovanile della regione. All’origine di condizioni tanto drammatiche, vi è la severità dei provvedimenti imposti dall’occupazione israeliana, che hanno portato a restrizioni della libertà di movimento delle persone, della forza lavoro e delle merci, alla sistematica erosione della base produttiva, alla confisca dei terreni, dell’acqua e delle altre risorse naturali, all’isolamento dai mercati internazionali, a oltre un decennio di blocco e di assedio economico della Striscia di Gaza, alla costosa frammentazione dell’economia palestinese in tre regioni separate e spezzettate tra Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. A Gaza il blocco imposto ai suoi quasi due milioni di abitanti, iniziato in maniera strisciante nei primi anni ‘90 e realizzato in pieno dal 2007, ha impedito lo sviluppo a un punto tale che nel 2018 l’attività economica di Gaza si è ridotta dell’8% e la disoccupazione ha raggiunto il 52%, con punte del 74,5% tra le donne e del 69% tra i giovani. “Il fallimento del processo iniziato a Oslo ha prodotto, seppur in proporzioni diverse, conseguenze negative sia per i palestinesi che per gli israeliani – continua Pezzati - Anche in Israele si registra un livello di disuguaglianza tra i più alti tra i paesi Ocse, con una percentuale di israeliani che vivono sotto la soglia di povertà cresciuta dal 2000, pari al 18.6% della popolazione nel 2016”. In questo contesto Oxfam ha lanciato un appello urgente alla comunità internazionale affinché non si ripetano gli stessi errori del passato. “La comunità internazionale ha una grandissima responsabilità per il fallimento del processo di pace. – conclude Pezzati - Per questo oggi non può restare ancora inerte e consentire che palestinesi e israeliani debbano sopportare il peso e gli effetti disastrosi di altri due decenni di false promesse e di un processo di pace che non è mai iniziato dav-

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vero. È necessario che ogni nuovo negoziato preveda prima di tutto il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, venga monitorato da terzi, preveda tempi chiari e certi, garantendo un progressivo processo di inclusione delle tante donne e giovani che vivono ai margini nei Territori Occupati Palestinesi”. Giovani senza pace. E senza futuro.

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