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Imitatori e falsari nel mondo

Storia e Arte

Imitatori e falsari nel mondodell’arte. Parte prima

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Giovan Giuseppe MENNELLA

Nel mondo dell’arte figurativa alcuni personaggi hanno incarnato la parte di abili imitatori dei lavori altrui, spesso sono stati veri e propri falsari. Gli imitatori sono quelli che copiano lo stile di qualche grande maestro, ma non pretendono di spacciare i loro manufatti per autentici. Considerano il loro lavoro come manifestazione della loro abilità, per aumentare la propria notorietà e ottenere commissioni in prima persona. Viceversa, i falsari pretendono di spacciare i loro manufatti come autentico prodotto di qualche grande maestro del passato o dell’antichità classica per venderli ad amatori d’arte o mercanti con pochi scrupoli.9

Spesso, proprio gli stessi grandi maestri si sono fatti imitatori, per dimostrare la loro abilità e avere il gusto di ingannare qualche esperto. Talvolta si sono fatti veri e propri falsari, di se stessi per aumentare il fatturato commerciale, o di altri artisti per puro guadagno in periodi di scarso lavoro. Sarà interessante tracciare una storia d’imitatori e falsari d’arte nel corso del tempo. Marcantonio Raimondi (1480-1534) fu un abile artista padovano, incisore sopraffino nel periodo di massimo fulgore della Repubblica di Venezia. Avendo un grande interesse per l’incisione d’arte nel mondo germanico, e anche per motivi commerciali, tradusse su rame numerose xilografie del grande pittore tedesco Albrecht Durer. Riprodusse 17 tavole della vita della Vergine, forse acquistate a Venezia, e la Piccola passione, tutte opere di Durer. Poiché le riproduzioni delle xilografie originali furono realizzate a bulino, apparvero addirittura più belle e dal tratto più definito degli originali. Giorgio Vasari ha scritto che erano tutte belle e Raimondi ne vendette moltissime, tanto che Durer, messo sull’avviso da alcuni conoscenti, lasciò immediatamente le Fiandre dove risiedeva e andò a Venezia per querelare Raimondi davanti alla magistratura della Repubblica, chiedendo che venisse impedita la copia dei suoi lavori. Però ottenne solo che al Raimondi fosse vietato di riprodurre nelle copie il famoso monogramma AD. Michelangelo Buonarroti (1475-1564) già da ragazzo usò copiare alcuni lavori del suo maestro Domenico del Ghirlandaio, facendoli tanto veritieri che neanche il vero autore se ne accorse. Ancora da giovanissimo, trovandosi a frequentare il giardino di San Marco, dove Lorenzo il Magnifico aveva sistemato le collezioni di famiglia di arte classica, scolpì, secondo la concorde testimonianza dei biografi Vasari e Condivi, una testa di fauno da un antico originale frammentario e la mostrò al Magnifico che la apprezzò ma gli disse che i denti erano troppo perfetti per un sogget-

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to anziano. Allora Michelangelo tolse via un dente e rimosse la relativa gengiva. Quando Lorenzo tornò dal suo giro intorno al giardino, mostrò di apprezzare la prontezza e l’abilità del giovane artista e lo ammise nella sua accademia di artisti. Poi, la testa di fauno andò perduta nel saccheggio del 1494 dopo la seconda cacciata dei Medici. Ma l’episodio più famoso riguardante Michelangelo imitatore dell’arte antica fu quello relativo al cosiddetto Cupido dormiente, oggi perduto. I suoi biografi Paolo Giovio, Ascanio Condivi e lo stesso Giorgio Vasari, nella edizione del 1568 delle sue Vite dei pittori e scultori, ricordarono la sua statua di Cupido, di età tra sei e sette anni, scolpita su commissione di Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici, dopo il ritorno da Bologna dove aveva preso parte giovanissimo al cantiere dell’arca di San Domenico. Era un’opera che, insieme al Cupido-Apollo pure ormai disperso, si ispirava all’arte antica, ma non in modo filologicamente consono. Su istigazione dello stesso Lorenzo, e forse all’insaputa di Michelangelo, si prese la decisione di sotterrare il Cupido per patinarlo come se fosse stato un reperto archeologico e poterlo rivendere sul ricco mercato delle opere d’arte dell’antica Roma. La frode riuscì, grazie all’intermediazione del mercante Baldassarre Del Milanese che convinse il cardinale Raffaele Riario, un ricco collezionista, ad acquistare l’opera, per la somma di 200 ducati, quando invece Michelangelo ne aveva ricevuti solo 30 da Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici. In questo frangente entrò in luce, come fulcro di molti inganni, la figura ambigua dell’intermediario privo di scrupoli, che con il passare del tempo sarebbe stata sempre più importante in materia di imitazioni e falsificazioni nell’arte. La storia del Cupido di Michelangelo si concluse male per i truffatori, perché il cardinale Riario, insospettito, riuscì a risalire a Michelangelo grazie alla cui sincera testimonianza smascherò l’inganno e si fece restituire i ducati. Tuttavia, ammirato dell’abilità di chi aveva saputo imitare così perfettamente gli

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antichi, lo portò a Roma e lo introdusse nell’ambiente cardinalizio, dove il giovane scultore avrebbe conosciuto alcuni dei suoi grandi committenti e spiccato il volo per la gloriosa carriera di autentico gigante dell’arte figurativa. Il Cupido passò in mani sempre più illustri, da Cesare Borgia a Guidobaldo da Montefeltro fino a Isabella d’Este, marchesa di Mantova, che, dopo averne rifiutato l’acquisto anni addietro come imitazione dell’antico, alla fine coronò il suo sogno, lungamente accarezzato, di avere nel suo studiolo un’opera di quello che ormai era diventato il più grande Maestro del Rinascimento. Già ai tempi di Isabella d’Este, come del resto oggi, se si trovasse un’opera di Michelangelo che imitasse l’antichità classica, certo sarebbe valutata molto di più di un’opera autenticamente antica. Per la cronaca, anzi per la storia, l’opera fu acquistata nel 1632 da Carlo I Stuart, re d’Inghilterra, insieme alla gran parte delle preziose collezioni d’arte dei Duchi di Mantova che ormai erano andati in bancarotta. Se ne persero poi le tracce, probabilmente andò perduta nell’incendio del Palazzo di Whitehall a Londra nel 1698. Annibale Carracci (1560-1609), insieme al fratello Agostino (1557-1602), ebbe la commissione di affrescare Palazzo Farnese a Roma. I due si trovarono a disquisire con alcune illustri personalità del mondo artistico e culturale al piano nobile del Palazzo circa il vero e il falso nell’arte. Agostino parlò con passione e competenza da un punto di vista puramente teoretico. Al che Annibale si avvicinò al muro della stanza e cominciò a disegnare con un carboncino, dicendo ad alta voce “li dipintori habbino a parlare con le mani”, volendo significare che gli artisti manuali non possono e non debbono perdersi in teoria ma dedicarsi a fare praticamente le figurazioni artistiche come imitazione del vero. Fu un anticipo della polemica e dell’opposizione tra artefici pratici e studiosi teorici che avrebbe occupato nel futuro tutta la storia dell’arte e delle stesse imitazioni e falsificazioni. Luca Giordano (1634-1705) riprodusse sempre vari capolavori dei suoi colleghi

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pittori del passato, come Tiziano e Tintoretto, senza scopo commerciale ma solo per dimostrare la sua bravura artistica. Era tanto abile a dipingere qualunque soggetto in brevissimo tempo che si meritò il famoso soprannome di “Luca fa presto”. Su istigazione di un priore, fece un Durer così più vero del vero che lo fece acquistare dallo stesso committente per 600 scudi. Il priore, accortosi dell’inganno, gli fece causa ma perse. Giuseppe Guerra (1697-1761) era un pittore e restauratore napoletano, allievo di Francesco Solimena, che nel 1750 si offrì a Carlo di Borbone come restauratore delle pitture antiche venute fuori dagli scavi archeologici di Ercolano e Pompei. Non ritenendo sufficiente il compenso propostogli, rifiutò l’incarico e si trasferì a Roma dove intraprese la più redditizia attività di falsario delle pitture pompeiane ed ercolanesi che vendette a personaggi importanti, come il Re d’Inghilterra Giorgio II, Alessandro Albani, l’ambasciatore danese a Roma barone Gleichen, tutti collezionisti appassionati di antichità, di cui erano sempre alla ricerca, come del resto molti altri personaggi europei alle prese in quel periodo con il tradizionale Gran Tour in Italia. Guerra aveva aperto uno studio di pittore-restauratore nelle stalle di Palazzo Chigi, dove ingannava i committenti dicendo che le pitture ad affresco che vendeva loro a caro prezzo, in realtà dipinte da lui, erano quelle che gli arrivavano clandestinamente da Pompei su carri di fieno e che lui restaurava. Dovevano giungere a Roma clandestinamente perché Carlo di Borbone aveva posto un severo divieto all’esportazione dei capolavori antichi che andavano emergendo dagli scavi. I falsi erano realizzati con la tecnica dell’encausto su un intonaco durissimo e un arriccio bianco. Il procedimento sedicente antico aveva indotto Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) e altri studiosi a dubitare dell’autenticità delle opere, in quanto contenevano caratteri poco chiari che non sembravano derivare né dal greco, né dal latino. L’abate Mattia Zarillo, custode del Real Museo di Capodimonte e

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accademico ercolanese, fu invitato da alcuni acquirenti dei falsi di Guerra a stimarli. Lo Zarillo li giudicò autentici e informò il governo borbonico delle esportazioni clandestine da Pompei verso lo Stato Pontificio. Un’inchiesta ordinata dal primo ministro borbonico Bernardo Tanucci identificò come spacciatore delle pitture il Guerra che fu arrestato. Si trovò così nella scomoda posizione di essere considerato un ladro mentre era un falsario. Tra le due accuse quella che gli avrebbe procurato meno danni giudiziari era quella di falsario, per cui dimostrò praticamente, dipingendo un affresco antico davanti agli stessi inquirenti, che di falso e non di furto si era trattato. Guerra anticipò di due secoli il più famoso caso del falsario olandese Van Meegheren che, accusato di avere rubato e poi venduto un dipinto di Vermeer a Goering, cosa per cui rischiava la pena di morte, fu costretto a dipingere di nuovo lo stesso quadro, Cristo e l’adultera, mai esistito nel catalogo di Vermeer, per dimostrare che era un falso spacciato da lui e non un autentico del grande artista olandese. Nel 1764 Johan Joachim Winckelmann (1717-1768) credette di riconoscere in un encausto rappresentante Giove e Ganimede un autentico affresco ercolanese. Infatti, nella sua “Storia delle arti e del disegno presso gli antichi” scrisse che “tornò alla luce un giorno del settembre 1760 una pittura che oscurava tutte le pitture ercolanesi conosciute”. Si riferiva a una immagine in cui il fanciullo Ganimede bacia Giove assiso in trono. Tuttavia, con il passar del tempo iniziò ad avere qualche sospetto. Infatti, in una nuova edizione del libro soppresse il passo sul dipinto. I sospetti che non fosse autentico furono corroborati dal fatto che il bacio di Ganimede a Giove non era stato ricordato da alcun testo classico e solo Raffaello lo aveva effigiato in un affresco della villa La Farnesina a Roma. Inoltre, la pedana del trono di Giove era avvolta da volute baroccheggianti tutt’altro che classiche. Alla fine, grazie alla confessione dello stesso autore della contraffazione, si scoprì la verità.

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A realizzare il dipinto era stato Anton Rafael Mengs, uno dei più rappresentativi artisti del tempo. D’accordo con Giovan Battista Casanova, fratello meno noto di Giacomo e intenditore e commerciante di antichità, aveva pensato di dimostrare la sua abilità a rifare l’antico ingannando il più grande storico dell’arte del tempo che oltretutto gli era anche amico. Mengs non lo fece certo per ragioni economiche, era uno degli artisti più accreditati sul mercato, ma probabilmente per segnare un punto a favore in quell’antica diatriba, tra “li dipintori”, cioè gli artisti manuali e i teorici e critici, di cui si erano visti gli esempi con i Carracci e con Luca Giordano e che si sarebbe aggravata a partire dall’800 e fino ai giorni nostri. I primi convinti del loro “mestiere” e i secondi sempre più lontani dalla realtà delle tecniche e sempre più arroccati in un mondo autoreferenziale delle teorie e delle ipotesi. Hans Holbein il giovane (1497-1543) dipinse una Madonna che gli era stata commissionata dal borgomastro di Basilea Jacob Meyer. Il quadro raffigura il committente, la sua prima moglie e la seconda moglie con le figlie attorno a una composizione con la Madonna e il Bambino. Il quadro fu commissionato probabilmente per testimoniare la fede cattolica del borgomastro, in opposizione alla Riforma protestante che stava guadagnando terreno in città; oppure, secondo un’altra ipotesi, per ringraziare la Madonna per l’aiuto prestatogli per uscire assolto da un processo per malversazione. L’opera può essere datata tra il 1526 e il 1528. Dopo i primi passaggi di mano, fu acquistata nel 1626 dal mercante d’arte di Amsterdam Michel Le Bon che ne fece realizzare una copia dal pittore seicentesco Bartholomeus Sarburgh, presumibilmente per incrementare i suoi profitti. Nel prosieguo del tempo, dopo altre vicende, dall’inizio del XIX secolo, le due versioni si trovarono una alla Gemalderie di Dresda e l’altra nel Palazzo reale del Principe d’Assia a Darmstadt. Da allora si accese una lunga e famosa disputa su quale delle due Madonne fosse l’originale, se quella di Dresda o quella di Darmstadt. Durante il procedimento di

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riconoscimento, la pittura di Dresda fu identificata come l’originale perché la maggior parte dei contemporanei e degli artisti la considerò la più bella e compiuta. In realtà, l’originale si sarebbe rivelato essere la pittura di Darmstadt. Evidentemente il copista della pittura di Dresda nel XVII secolo aveva apportato al lavoro di Holbein alcune modifiche che sembrarono corrispondere più al gusto delle epoche successive a quella dell’originale. La disputa interessò artisti, storici dell’arte e soprattutto gran parte del pubblico tedesco. Nel 1871 si tenne a Dresda una mostra di Holbein realizzata per offrire al pubblico l’opportunità di esprimere un’opinione e scriverla su registri forniti dall’organizzazione. Quella partecipazione del pubblico alla disputa fu il primo studio empirico nel campo dell’estetica abbinata alla psicologia, in quanto, contrariamente all’opinione del pubblico e degli artisti, prevalse alla fine l’opinione degli studiosi di storia dell’arte che identificarono l’originale nella Madonna di Darmstadt. Un altro esempio di discrepanza di opinione tra gli artefici manuali e i critici. Le moderne indagini a raggi X e infrarossi hanno confermato che l’originale del XVI secolo è quello di Darmstadt, come intuito dai critici, mentre il dipinto di Dresda è la copia fatta da Bartholomeus Sarburgh ,databile al 1635/1637. Giovanni Morelli (1816-1891) fu un anatomopatologo e appassionato conoscitore di arte italiano. Studiò materie scientifiche in Germania e Svizzera, diventando un esperto conoscitore della lingua e della cultura germaniche. Durante gli studi scientifici maturò anche una grande passione e competenza per la storia dell’arte, il disegno e lo studio del corpo umano. Partecipò al Risorgimento e nel 1861 fu eletto deputato del Regno d’Italia. In questa funzione pubblica intraprese importanti iniziative per la tutela e valorizzazione del patrimonio artistico italiano. Mettendo insieme le sue competenze di anatomopatologo e conoscitore dell’arte, elaborò il “Metodo Morelli” per riconoscere i falsi capolavori. Il metodo si basava

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sull’osservazione minuta di particolari anatomici, come le mani, le dita, le unghie, i nasi, le orecchie che i grandi maestri dipingevano sempre uguali e riconoscibili. Fu lodato come conoscitore d’arte da critici del calibro di Bernard Berenson, Abi Warburg, Franz Wickoff. Spesso i collezionisti si rivolgevano a lui prima di ogni acquisto. Insieme al grande studioso Cavalcaselle nel 1862 intraprese un viaggio di studio e catalogazione di opere d’arte in regioni meno conosciute come Umbria e Marche. Acquisì numerose opere per l’Accademia Carrara di Bergamo e scrisse gli articoli di identificazione delle opere con lo pseudonimo di Ivan Lermolieff. Il suo approccio può essere considerato come tipicamente positivistico e meccanicistico, tipico dell’800, perché si basava su minimi particolari esclusivamente anatomici. Un altro studioso Berenson, di lì a pochi anni, doveva inaugurare un approccio più moderno e completo, ispirantesi alla totalità dell’opera, alla sua iconografia e alla documentazione contenuta negli archivi. Nel 1887 a Roma, durante i lavori di demolizione e lottizzazione di Villa Ludovisi, nell’area corrispondente agli antichi Horti Sallustiani, fu ritrovato quello che sarebbe passato alla storia dell’arte come Trono Ludovisi. Opera singolare, priva di riferimenti simili, fu molto discussa fin dal tempo del suo rinvenimento a causa della forma inconsueta e della tipologia del suo rilievo. La parte superiore del manufatto è fratturata e quindi non è possibile stabilire con certezza la sua forma originaria e la sua funzione. Secondo la maggior parte degli studiosi era parte di un trono colossale, anche se altri hanno pensato alla balaustra di una scala o alla parte superiore di un tempio o di un’edicola. L’immagine è quella di una figura femminile sorretta da due ancelle, con un sottile velo che tende a nascondere la scena. La datazione è del V secolo avanti cristo, intorno agli anni 460 o 450. Secondo l’interpretazione più accreditata rappresenterebbe la nascita di Venere dalla spuma del mare a Cipro, oppure, secondo altri, Persefone che risale sulla terra dal mondo

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degli Inferi. Subito dopo il suo ritrovamento si scatenò una vera e propria guerra tra i collezionisti che volevano acquistarlo. Alla fine, con rammarico di alcuni miliardari tra cui Neil Warren, la acquistò lo Stato italiano. Qualche tempo dopo fu ritrovato un altro frammento simile da Paul Hartwig che lo notò in via Margutta. Questa volta Warren riuscì a completare l’acquisto, per 165.000 dollari. Questo secondo frammento si trova attualmente al Fine Arts Museum di Boston che lo acquistò come antico. Soprattutto su questo secondo pezzo ritrovato è forte il sospetto che si tratti di un falso, costruito per accontentare la grande richiesta di opere antiche che c’era sempre stata, ma ovviamente era aumentata sull’onda del primo ritrovamento del 1887. Sul secondo pezzo, quello scoperto da Hartwig a via Margutta, gli studiosi sono divisi, metà di essi lo considera autentico, l’altra metà un falso. Quasi unanime la considerazione del Trono Ludovisi come autentico, con l’importante eccezione di Federico Zeri che non si convinse mai che potesse essere veramente un’opera greca del V secolo avanti Cristo ma la considerava un manufatto ottocentesco. Anche alcuni esperti di area genovese hanno affermato che potrebbe essere di mano dello scultore Santo Varni.

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