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Israele: la maledizione delle urne
Esteri
Israele: la maledizione delle urne
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Umberto DE GIOVANNANGELI
Un record mondiale di cui non menar vanto: tre elezioni anticipate in nemmeno un anno. Israele, cronaca di una crisi politica che sta assumendo sempre più i caratteri di una crisi di sistema che va ormai ben oltre la vecchia divisione tra destra e sinistra. Dopo settimane di trattative da “suk”, sia il premier in Carica, Benjamin “Bibi” Netanyahu sia il suo rivale più accreditato, l’ex capo di stato maggiore di Tsahal e leader del partito centrista Kahol Lavan (Blu-Bianco) hanno gettato la spugna: nessuno dei due è riuscito a mettere assieme i 61 voti necessari per avere la maggioranza alla Knessset (il parlamento israeliano, 120 deputati) per dar vita a un nuovo esecutivo. E allora si torna al voto: data prevista, 2 marzo 2020. Se i sondaggi danno conto di una incertezza sull’esito del voto (Blu-Bianco viene dato in
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leggero vantaggio sul Likud), una cosa è assodata: sarà una campagna intrisa di veleni, di odio, nella quale non esisterà l’avversario ma il “Nemico” da additare come “traditore”, “golpista” (accusa scagliata da Netanyahu contro il procuratore generale d’Israele, Avichai Mendelblit), reo di averlo incriminato per corruzione, frode e abuso di potere in tre casi giudiziari. Una cosa è certa: Israele si prepara a una campagna elettorale ancora più avvelenata, se è possibile, di quelle che l’hanno preceduta nei mesi scorsi. “Tenete i vostri bambini lontani dalla tv, ci saranno nuove elezioni e saranno un festival di odio, violenza e disgusto”, avverte Yair Lapid, numero due di Kahol Lavan (Blu-Bianco) che ha condotto assieme al leader Benny Gantz le trattative per la formazione dell’esecutivo. Il fallimento delle trattative tra Likud e Blu-Bianco, ha reso inevitabile lo scioglimento del Parlamento e il ritorno alle urne: confermata la data del 2 marzo su cui c’era già l’intesa da giorni. Saranno elezioni decisive per l’attuale premier Netanyahu, incriminato per corruzione, frode e abuso di potere in tre casi giudiziari. Ma sarà un voto decisivo anche per Benny Gantz, che dopo due elezioni sul filo di lana spera di dare la spallata finale a Netanyahu con la promessa di cambiare, se vincerà, l’intera politica israeliana degli ultimi anni dominata dal più longevo primo ministro in carica, Ben Gurion compreso. Ora “Bibi” deve passare al vaglio delle primarie del suo partito, in programma il prossimo 26 dicembre. A contendergli la premiership è Gideon Saar, l’avversario di sempre. Se sarò eletto a capo del Likud lo porterò alla vittoria – ha dichiarato Saar martedì, citando i sondaggi che gli attribuiscono maggiori probabilità di costruire una coalizione stabile – È molto chiaro, d’altra parte, che se andiamo avanti come adesso non otterremo una posizione migliore di quella che abbiamo ottenuto nelle ultime due elezioni”. Siamo solo alle prime schermaglie di una campagna dell’uno contro l’altro armati. Ecco, ad esempio, l’intrepido Lapid paragonare la retorica di Netanyahu a quella di un seguace del medico-colono di estre-
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ma destra Baruch Goldstein che il 25 febbraio 1994 aprì il fuoco contro un gruppo di musulmani in preghiera nella Tomba dei Patriarchi a Hebron, uccidendone 29 e ferendone altri 125. “Le parole che sono uscite dalla bocca di Netanyahu negli ultimi giorni sono istigazione alla violenza”, ha scandito Lapid davanti ai giornalisti israeliani. “Sono parole pronunciate da un seguace di Baruch Goldstein, non da un primo ministro. Finirà male. Anche lui sa che finirà male”. Ed ecco Yuval Steinitz, uno dei ministri più vicini a Netanyahu, ribattere che “Gantz ha intenzione di consegnare il futuro d’Israele agli arabi, portandoli al governo”. Stavolta, concordano gli analisti politici a Tel Aviv, non basterà per tenere unito il Paese, agitare lo spettro del nemico esterno (l’Iran, Hezbollah, Hamas). Quel sentire comune, quel vivere in trincea, non metaforica, che ha rappresentato per decenni il solido collante nazionale, è saltato. “Con ipocrisia, cinismo e veleno, è iniziata la terza stagione elettorale di Israele in un anno”, titolava Haaretz a commento dell’ennesima trattativa fallita. “Al peggio non c’è mai fine verrebbe da dire assistendo alla miserabile rappresentazione che il ceto, perché tale si è ridotto ad essere, politico sta offrendo al paese – dice Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano – Non c’è uno straccio di visione, un benché minimo confronto di idee, di programmi, tutto si riduce ad inappagate ambizioni personali, ad una insaziabile voracità di potere. Ci sarebbe bisogno di una rivolta morale, di uno scatto d’orgoglio nazionale, ma forse è solo un’illusione. La politica non deve sperare che a risolvere la crisi di sistema in atto sia la magistratura, aggiunge Sternhell. Quanto alla sinistra, “se vuole ancora ragione d’esistere – rimarca lo storico israeliano – deve smettere d’inseguire la destra sul suo terreno, ma farsi portatrice di una idea di cambiamento che sappia unire, mobilitare, creare entusiasmo soprattutto tra i giovani”. Comunque vada a finire, una cosa è certa: gli arabi israeliani hanno conquistato uno spazio centrale nella vita politica d’Israele. “Non siamo più una riserva indiana, chiunque intenda
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governare il paese deve fare i conti con noi. Siamo diventati l’ossessione di Netanyahu e della destra più integralista. Per noi è una medaglia”, ribadisce Ayman O- deh, presidente della Joint List, la Lista Araba unita che nelle elezioni del 17 settembre ha ottenuto tredici seggi, diventando la terza forza parlamentare alla Knesset. Odio, colpi bassi. Accuse velenose come quelle scagliate non solo da Netanyahu, ma anche dal leader di Yisrael Beiteinu, (destra nazionalista) Avigdor Lieberman, che ha definito l’alleanza dei partiti arabi israeliani una “quinta colonna”, aggiungendo che questa definizione non va messa tra virgolette, ma intesa letteralmente. “Quinta colonna di chi? – ribatte Odeh – Dei palestinesi, che la destra oltranzista vorrebbe spazzare via dalla West Bank, come se milioni di persone potessero essere cancellate con un tratto di penna o deportate in massa verso dove peraltro… Una pace giusta e duratura con i palestinesi, fondata sulla soluzione a due Stati, non è una concessione che Israele fa sulla base di un astratto principio di giustizia e legalità internazionale, tanto meno un cedimento ai “terroristi”. Riconoscere il diritto del popolo palestinese a vivere in uno Stato indipendente a fianco dello Stato d’Israele, è un investimento sul futuro che Israele fa per se stesso. Non esistono scorciatoie militari per dare soluzione al conflitto israelo-palestinese, l’unica via praticabile è quella del dialogo, del negoziato, del compromesso. Se questo per qualcuno vuol dire essere una “quinta colonna”, allora sì, lo siamo. Siamo la “quinta colonna” di una pace tra pari. Noi vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, sulla creazione di uno stato palestinese accanto allo Stato di Israele, sulla vera uguaglianza, a livello civile e nazionale, sulla giustizia sociale e sicuramente sulla democrazia per tutti. Un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata se al governo ci saranno ancora Netanyahu e le destre razziste. C’è bisogno di una discontinuità netta col passato. L’uscita di scena di Netanyahu è importante ma non basta per imprimere una svolta radicale nel governo
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d’Israele. Noi arabi israeliani non vogliamo essere tollerati, ma considerati cittadini d’Israele a tutti gli effetti, né più né meno degli ebrei israeliani. È questa la sfida che lanciamo. Ed è una sfida che investe l’essenza stessa della democrazia e dell’idea di nazione. A votarci, il 17 settembre, non sono stati solo gli arabi israeliani, ma tanti ebrei israeliani che condividono la nostra idea di democrazia, che si battono perché lo Stato d’Israele sia, a tutti gli effetti e su ogni piano, lo Stato degli Israeliani, ebrei e arabi. È la rivendicazione di un diritto di cittadinanza che supere le appartenenze comunitarie. Un governo che lavorasse per questo, sarebbe davvero un governo del cambiamento. Ed è su questa linea che andremo, di nuovo uniti, alle elezioni di marzo”. Con ipocrisia, cinismo e veleno, è iniziata la terza stagione elettorale di Israele in un anno,
titolava Haaretz a commento dell’ennesima trattativa fallita. È la notte della democrazia. I tempi dei “Grandi d’Israele” sono finiti. Oggi la scena è dominata da mezze figure. E’ la notte della democrazia. Una notte che si preannuncia molto lunga e oscura.
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