15 minute read

Imitatori e falsari nella storia

Arte e Storia

Imitatori e falsari nella storiadell’arte. Parte seconda

Advertisement

Giovan Giuseppe MENNELLA

16

Nel ‘900, specialmente nella prima metà del secolo, l’Italia pullulò di botteghe di falsari di opere d’arte antiche. Sul mercato c’era una grandissima richiesta di capolavori italiani, specialmente del periodo d’oro del Rinascimento. Le richieste provenivano soprattutto dall’estero, segnatamente dal mondo anglosassone della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Il falsario di talento riusciva a cogliere gli elementi artistici e compositivi dei capolavori da contraffare, ma i veri vantaggi economici li realizzavano gli intermediari, spesso personaggi privi di scrupoli e abituati a navigare a cavallo della zona grigia tra artisti e malavita. Negli anni ‘20 del ‘900 la richiesta di capolavori italiani era al suo massimo. Quasi non passava giorno che non comparisse sul mercato un nuovo capolavoro, soprattutto del ‘400, che placasse la fame degli acquirenti che rischiavano davvero di comprare qualsiasi cosa a occhi chiusi. Nel 1922 il Fine Arts Museum di Boston acquistò per 400.000 dollari un monumento sepolcrale di Maria Caterina Savelli attribuito a Mino da Fiesole, datato intorno al 1430. Peccato che Maria Caterina nel 1430 avesse solo un anno di età, essendo nata nel 1429. Poi uscì sul mercato anche una statua presunta di Simone Martini, ispirata a un dipinto dello stesso artista raffigurante una Annunciazione. Anche in questo caso, ben presto fu chiarito dagli studiosi che Simone Martini non realizzò mai una scultura. Poiché alla fine di quegli anni ‘20 del Novecento ormai il mercato era saturo di o- pere del ‘400 italiano, fu chiaro che doveva operare un falsario- artista particolarmente abile che le produceva. Dario Del Bufalo, architetto allievo di Bruno Zevi, archeologo e organizzatore di molte mostre tra cui una sezione della Biennale di Venezia nel 1986, raccolse al Castello della Cecchignola a Roma, da lui restaurato, una collezione di quei falsi del misterioso personaggio. Si scoprì che era Alceo Dossena (1878-1937), di Cremona, un artista con atelier in17

via Margutta a Roma. Fu lo stesso Dossena a svelarsi perché nel dicembre del 1928 citò in tribunale Alfredo Fasoli e Alfredo Pallesi, due intermediari che gli pagavano pochissimo i suoi falsi, per poi rivenderli, secondo lui a sua insaputa, a collezionisti sprovveduti a un prezzo maggiorato di 100 volte. I due contrattaccarono e accusarono Dossena di essere un mitomane e anche un antifascista che usava sputare su una statua di Mussolini che teneva nella sua bottega. Però Dossena spiegò in modo convincente il metodo che usava per rendere fintamente antiche le opere che realizzava. Immergeva le statue semifinite in fosse nelle quali aveva versato acqua, sterco di cavallo e urina di stalla. Le statue erano prima scaldate per assorbire le materie della fossa a macchie, diventando così simili a quelle del Rinascimento. Dossena fu difeso da un avvocato davvero importante, nientemeno che Roberto Farinacci, gerarca fascista e concittadino di Dossena, che strumentalizzò la vicenda a favore del fascismo e del proprio giornale Il Regime. Farinacci sottolineò abilmente che Dossena era un artista italiano talmente abile da ingannare gli americani del Museo di Boston e quindi un grande personaggio e un grande italiano. Dopo la guerra furono rinvenute nella casa della figlia di Farinacci a Cremona una Mater dulcissima e una Musa seduta, opere di Dossena che evidentemente erano state una parte del compenso pagato al fascistissimo avvocato. Dossena fu assolto e ne uscì come vincitore. Tuttavia, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, documenti d’archivio, contenenti i rapporti delle spie dell‘Ovra che lo sorvegliavano, svelarono che Dossena sapeva benissimo che le sue opere erano vendute dagli intermediari ai collezionisti come autentiche del ‘400 italiano Ma chi era stato Alceo Dossena? Era nato povero e si era formato da autodidatta presso uno scalpellino di Cremona che scolpiva tombe al cimitero. Poi aprì bottega a Parma. Trasferitosi a Roma, iniziò nel 1916 il rapporto con Fasoli e Pallesi. Tenne mostre in vari paesi, tra cui una a New York all’Hotel Plaza e molti musei chie-

18

sero di comprare sue opere nello stile italiano del ‘400, così richiesto e quasi bramato in quel primo Novecento. Una troupe cinematografica tedesca riprese il suo lavoro facendogli pubblicità come se fosse una specie di reincarnazione di uno scultore rinascimentale. Ben presto l’ondata di quel successo svanì e Dossena rientrò nell’anonimato, perché non poteva essere valutato come un importante e originale artista contemporaneo, ma solo come un, sia pur abile, imitatore. Morì nel 1937. Attualmente alcune sue opere sono esposte al Museo Ala Ponzone di Cremona. La vicenda di Dossena, ma se ne potrebbero citare altre consimili, dimostra che il falsario è importante e ricercato quando incarna e soddisfa con la sua opera i gusti di un momento storico in cui gli appassionati e i collezionisti desiderano possedere opere di uno specifico periodo del passato. Passata quella moda, finito quel gusto, anche il falsario perde di interesse, di appeal, e rientra nell’anonimato. Il critico d’arte Max J. Friedlander ebbe a dire che i falsi devono essere serviti caldi, appena sfornati. Tra la fine dell’800 e i primi del 900, la città di Siena e l’arte senese assursero a grande fama presso gli intenditori e i collezionisti. Dai musei d’oltreoceano proveniva una grande richiesta di capolavori senesi e si riscontrava altrettanto fervore di esportazioni da parte di mercanti d’arte e intermediari italiani. Fino alla seconda guerra mondiale furono esportate moltissime opere dalla città toscana, specialmente dipinti a fondo d’oro, alcuni autentici, molti falsi. Lo scrittore Federigo Tozzi, nel romanzo “Tre croci”, narrò gli accadimenti e le persone legate a quell’ambiente, soprattutto il mondo degli antiquari e dei commercianti di antichità false che lavorarono a soddisfare quella fame di opere senesi presso gli appassionati stranieri. Molti storici dell’arte, catalogatori e mercanti d’arte si impegnarono a stimare e ac-

19

creditare le opere toscane da vendere. Personaggi come il grande critico Bernard Berenson e il suo allievo Frederick Mason Perkins non poche volte credettero vere e acquistarono alcune opere contraffatte. Si scoprì che le produceva Federico Ioni (1866-1946), capo di una banda di falsari di dipinti senesi, tra cui dittici, trittici e polittici. Ioni alla fine della carriera scrisse un libro di memorie in cui si dilungò anche sugli errori di attribuzione commessi da Bernard Berenson. Anche Ioni, come del resto Dossena, volle riscattare le sue umili origini, provenendo da una famiglia in cui il padre si era ucciso ancora prima della sua nascita. Fu abbandonato all’ospedale senese di Santa Maria della Scala e poi, da adolescente, fu messo a bottega per imparare il mestiere da un artigiano. Ben presto acquisì una particolare maestria nel restaurare opere malconce che erano restituite come nuove. Riuscì a restaurare particolarmente bene una Madonna col Bambino di Benvenuto di Giovanni, usando un procedimento che si valse di un particolare liquido. Il successo fu tale che la Madonna restaurata fu acquistata da Frederck Mason Perkins, esperto e cultore d’arte americano, allievo di Bernard Berenson. Oggi il dipinto è rovinato, probabilmente corroso dal famigerato liquido di Ioni. Un’altra Madonna di Benvenuto di Giovanni è oggi in una collezione privata di New York. Ioni per i suoi ritocchi di restauro si ispirò ai maestri senesi. Poi, il passo dai ritocchi ai quadri autentici fino alla costruzione di falsi del tutto nuovi fu breve e, tutto sommato, logico e facile. Acquisì una tale abilità e conoscenza nel campo della pittura senese antica, o sedicente tale, che fu nominato soprintendente dell’Istituto di belle arti, con il compito di occuparsi anche della galleria dei dipinti e della formazione degli studenti. Oggi quella galleria è diventata la Pinacoteca di Siena. Ben presto in città scoppiarono polemiche, riprese dalla stampa, sulle sue dubbie attività e sugli incarichi ufficiali rivestiti. Aveva prodotto una Madonna che fu attribuita

20

alla scuola di Duccio di Buoninsegna e un altro dipinto riconducibile a Benozzo Gozzoli, il miracolo di San Nicola di Bari. In particolare, quest’ultimo dipinto non fu riconosciuto come falso neanche da Federico Zeri che riuscì a rendersi conto del suo errore soltanto più tardi, riflettendo su alcune incongruenze iconografiche e quando fu in grado di confrontarlo con una tavola simile, pure realizzata da Ioni, in possesso di un amico. Produsse anche la contraffazione di una tavola di Francesco di Giorgio Martini, che ingannò molti critici. La tavola non fu mai ritoccata da un restauratore e la superficie ancora oggi è quella manipolata da Ioni. Produsse una Imago pietatis, cioè Cristo morto tra due dolenti, in uno stile prossimo ad Andrea Mantegna, una specie di prototipo dello stesso Mantegna, ispirandosi a uno consimile, veramente esistente, di Giovanni Bellini. Il procedimento di invecchiamento per fingere una patina che simulasse l’antichità consisteva nel sottoporre i lavori da lui dipinti al caldo, al freddo, alle intemperie. Tuttavia commetteva anche errori banali che con le tecniche odierne sarebbero facilmente riconoscibili. La vicenda di Ioni fu quella di un falsario di successo, anche di talento. Lui scrisse che voleva ingannare il mondo intero e ci riuscì anche; acquistò la villa detta dell’Annuncio, dove morì. Nelle sue memorie si definì un pittore di quadri antichi, non un falsario. Secondo lui i falsari sono quelli fanno i biglietti di banca, uno che rifà i quadri antichi è un imitatore e sono poi le lobby affaristiche dei mercanti internazionali d’arte che inquinano il mercato, spacciando per autentiche le imitazioni. Il 4 giugno del 1940 giunse al Museo Archeologico di Napoli un dono di Mussolini. Erano sette ritratti policromi dipinti su tondi di terracotta, di età ellenistica, risalenti al III Secolo avanti Cristo, con volti di uomini e donne provenienti dagli scavi archeologici di Centuripe, in provincia di Enna, in Sicilia. In precedenza erano stati acquistati per una somma notevole sul mercato antiquario da Giovanni Rosini che li aveva appunto donati al Duce per ottenere il titolo di conte di Castelcampo. Al

21

Museo si tenne una cerimonia ufficiale per l’acquisizione delle opere, alla presenza di Giuseppe Bottai, Ministro dell’Educazione nazionale e di Pietro Fedele, presidente dell’Istituto poligrafico dello Stato. Da allora i sette manufatti giacciono in un deposito e nessuno li ha più visti, salvo gli spettatori di un recente documentario televisivo. La ragione è che dopo molte peripezie sono stati riconosciuti come falsi. Era stato Giulio Emanuele Rizzo, cultore di arte antica a procurarli al conte di Castelcampo, alias Giovanni Rosini. Le immagini femminili riprendevano le caratteristiche delle donne degli anni ‘20 e ‘30 e non avevano nulla di quelle del terzo secolo avanti Cristo. Erano tutti dipinti fatti male e facilmente individuabili come contraffatti, ma non si seppe o non si volle capire l’imbroglio per quella sempre incombente esigenza di procurarsi opere di un certo periodo di cui ci fosse scarsità. Oltretutto, il grande archeologo Paolo Orsi (1859-1935) che aveva scavato a Camarina e Piazza Armerina, quando nel 1924 fu nominato sovrintendente di Centuripe, aveva messo sull’avviso che circolavano pezzi sedicenti di quella località ma di dubbia provenienza e autenticità. Rizzo aveva anche inviato in visione quei pezzi, insieme ad altri, a Guido Libertini, un intenditore e collezionista di antichità, che li espose nel Museo di Siracusa di cui era direttore. Anche alcuni illustri critici d’arte e sovrintendenti come il già citato Bernard Berenson e Amedeo Maiuri direttore degli scavi di Pompei, li ritennero autentici. Rizzo commise un errore dando in visione alcune terrecotte simili a Carlo Albizzati, un archeologo molto esperto, dall’occhio infallibile e anche un antifascista sprezzante nei confronti di quelli che definiva archeologi in orbace. Dopo la pubblicazione delle opere nella serie dei “Monumenti della pittura antica scoperti in Italia” nel 1940, Albizzati si rese conto che i manufatti datigli in visione da Rizzo erano della stessa mano delle ceramiche di Centuripe e ne mise energicamente in dubbio l’autenticità. Guido Libertini, che ne aveva esposti alcuni al Museo di Siracusa, sicuro della loro autenticità, attaccò

22

violentemente Albizzati sostenendo che era un folle, un antifascista e un cattivo i- taliano. Furono probabilmente queste polemiche e questi dubbi che convinsero i responsabili del Museo Archeologico di Napoli, a cui erano pervenute tramite Mussolini, a non esporre le ceramiche. Nel dopoguerra fu ormai chiaro che erano dei falsi. In effetti, sottoposti a più moderne indagini scientifiche, i vasi donati a Mussolini si rivelarono dei supporti di materiale antico e provenienti dall’ambiente centuripino, ma dipinti in epoca moderna. Tuttavia, restò sconosciuta l’identità del falsario, o dei falsari, che fu svelata solo molti decenni dopo, addirittura nel 2014. Si trattava di Antonino Biondi, un restauratore, tombarolo, falsario, ricettatore, morto nel 1961, che ancora nel 1951 disse di avere acquistato il corredo di una tomba di Centuripe riuscendo a rivenderlo al Museo di quella località. Comunque, era stato anche un artista di talento, definito il re degli “anticari”, com’erano definiti in dialetto siciliano gli artigiani bravi a manipolare i reperti antichi, capo di una vera e propria “banda degli anticari”. Nel 2014 è stato smascherato come autore dei falsi di Centuripe da Giacomo Biondi, suo omonimo, archeologo dell’Istituto per i beni archeologici e monumentali (Ibam) del CNR che svolge le sue ricerche presso l’Università di Catania, alla quale Libertini prima di morire aveva donato gli esemplari simili da lui esposti al Museo archeologico di Siracusa. Giacomo Biondi, lavorando alla collezione Libertini donata all’Ateneo catanese dall’appassionato collezionista, è entrato in possesso del taccuino di lavoro di Antonino Biondi dal quale ha potuto comprendere il suo metodo che consisteva nel modificare e migliorare i reperti anche di poco valore venuti fuori dagli scavi di Centuripe e a rivenderli come capolavori o poco meno. Gli esperti dell’Ibam del CNR hanno anche esaminato l’epistolario di Paolo Orsi e Guido Libertini e hanno ricostruito alcuni retroscena del periodo di quella vicenda, in cui nuove leggi vietarono scavi e compravendite di materiali archeologici da parte di privati, leciti fino

23

ad allora. Sono state anche ritrovate statuine in terracotta ricavate da matrici appartenute ad Antonino Biondi e usate dai suoi discendenti per produrre lecitamente copie destinate ad appassionati e turisti. Il caso più emblematico è una maschera di sileno, autentica, venduta negli anni ’30 al Museo Archeologico di Siracusa; una replica è esposta nel Museo di Centuripe che la acquistò negli stessi anni. Altre copie prodotte lecitamente circolano tuttora. Livorno, autunno 1909, Amedeo Modigliani ritorna nella sua città. La leggenda vuole che lavorasse ad alcune sculture che poi mostrò agli amici del caffè Biondi. Agli amici non sarebbero piaciute e lo avrebbero incitato, con il solito spirito sarcastico dei livornesi, a gettarle in acqua. La figlia Jeanne negò sempre che il padre potesse aver gettato le opere nel canale, perché nessun artista elimina da sé le proprie opere. All’inizio dell’estate del 1984 si stava tenendo a Livorno al Museo Progressivo di Arte contemporanea di Villa Maria una grande mostra su Modigliani, in occasione del centenario della nascita. I curatori erano i fratelli Dario e Vera Durbè, il primo Direttore della Galleria Nazionale di Arte Modena di Roma, la seconda direttrice del Museo Progressivo di Arte Moderna di Villa Maria a Livorno. La mostra riguardava il periodo dal 1908 al 1915, che comprendeva quindi proprio quel 1909 quando l’artista era ritornato in città e avrebbe gettato in acqua le sculture non finite. La città non lo aveva mai amato particolarmente, perché se ne era andato a Parigi, perché lo considerava ormai un francese e perché non era mai piaciuto il suo stile non troppo naturalistico e paesaggistico, essendo stata Livorno una città importante per i macchiaioli dell’800. In quell’inizio d’estate 1984 la mostra si stava svolgendo non destando un grande interesse. Così Vera Durbè si ricordò dei racconti sulle opere gettate nei fossi medicei e, per infervorare l’interesse sull’esposizione, cominciò a chiedere alle autorità cittadine di dragare il canale, detto “fosso reale”, per ritrovare qualcosa o quantomeno per tenere desta l’attesa

24

su qualche clamoroso ritrovamento. Il fosso reale fu effettivamente dragato e a quel punto accadde il colpo di scena. Il 4 agosto 1984 fu trovata una testa scolpita. Allora la leggenda era vera? Ma la sorpresa ancora più grande fu che quello stesso giorno fu ripescata una seconda testa Molti critici esperti le esaminarono e diedero risposte affermative, le teste scolpite erano proprio opere di Modigliani. La prima più rifinita, la seconda più semplice e stilizzata e la critica disse che quella seconda testa sembrava una pittura. Lo confermarono Vera Durbè, ma anche i grandi critici d’arte Giulio Carlo Argan, Carlo Ludovico Ragghianti, Cesare Brandi. Ma Carlo Pepi affermò categoricamente che non potevano essere affatto nello stile di Modigliani; si presentavano come padelloni schiacciati, senza volume, senza nulla di artistico, spigolosi. Modigliani non era una specie di cialtrone come la città lo qualificava. Altro stupore quando il 10 agosto venne fuori dal fosso una terza testa, più simile nello stile alla prima ripescata il 4 agosto. Il 2 settembre la rivista settimanale Panorama pubblicò le rivelazioni di tre ragazzi livornesi, Luridiana, Gherarducci e Ferrucci che dissero che la testa definita con il numero 2 l’avevano fatta loro per uno scherzo goliardico, con martello, cacciavite e trapano elettrico, nello stile dell’umorismo livornese espresso dal giornale satirico “Il Vernacoliere”. Produssero anche una foto che scattata mentre la scolpivano. In puro stile Giuseppe Guerra e Van Meegheren, anche loro furono invitati a rifarle davanti alla stampa e ai mezzi di comunicazione di massa, cioè anche in diretta televisiva a Speciale Tg 1. Poi, il 13 settembre arrivò anche la rivelazione di Angelo Froglia, un artista performer che confessò che le teste 1 e 3 le aveva scolpite lui per dimostrare l’incompetenza dei critici d’arte. Ormai la mostra di Villa Maria che aveva perso ogni interesse e credibilità chiuse i battenti in sordina. Dario Durbè gridò al complotto, la sorella Vera si sentì male e fu ricoverata in ospedale, mentre proliferarono vignette in cui Giulio Carlo Argan si gettava nel Fosso reale con una delle false teste di Modì le-

25

gata al collo. Anche questa vicenda dimostrò che i falsi, o addirittura le burle, vengono fuori sull’onda della pressione generale, anche del mondo della cultura, che chiede di possedere e ammirare opere di un periodo artistico o di un autore di cui si avverte la mancanza e quindi il desiderio. Paul Valery scrisse che tutti gliel’hanno con i falsari, ma esistono personaggi più bravi dei falsari e sono i loro ispiratori.

26

This article is from: