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Domenico Barbaja, un milanese

La Storia degli Italiani

Domenico Barbaja, un milaneseche fece fortuna a Napoli

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Giovan Giuseppe MENNELLA

Nella prima metà del XIX Secolo era ancora possibile che il percorso delle opportunità e del successo non portasse da Napoli a Milano ma seguisse il percorso inverso. Fu quello che capitò a Domenico Barbaja, milanese nato alla fine del XVIII Secolo, nel 1778. Barbaja fu insieme milanese, napoletano, europeo. Passò da ragazzo poverissimo a

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caffettiere, inventore di una nota bevanda calda, a impresario teatrale, a talent scout. Vide farsi grandi a Napoli Rossini e Donizetti, tra i grandi artisti ingaggiati o proprio scoperti da lui stesso, con geniali intuizioni. Arrivò alla musica lirica grazie al gioco d’azzardo. Da ragazzo poverissimo, a Miano, era stato garzone di caffettiere e aveva inventato una bevanda calda, corroborante, che fu definita “barbajata” che molti oggi cercano di riprodurre. Probabilmente a base di caffè, cioccolata, panna, dalle moltissime calorie, una mescolanza tra un cappuccino rinforzato e un “bicerin” che si beve ancora a Torino nell’omonimo caffè. Comunque, nel caffè dove aveva inventato la bevanda di successo, si giocava anche d’azzardo grazie al fluire dei denari che avevano portato gli occupanti francesi. Domenico si diede da fare con la gestione del gioco e diventò ricco esercitando la sua attività anche nel ridotto del Teatro alla Scala, nato, per la cronaca, sette giorni prima di lui, il 3 agosto del 1778. All’epoca, nei teatri lirici non si cantava solo, si mangiava, si giocava d’azzardo, si tenevano convegni amorosi nei palchi riservati. Nel 1809 si trasferì a Napoli con un contratto per la privativa del gioco nei teatri napoletani, non solo il San Carlo, ma anche il Fondo (l’attuale teatro Mercadante), il Nuovo e il Fiorentini. Anche nei teatri di Napoli si giocava d’azzardo, certamente anche al San Carlo e ben presto Barbaja, come gestore della privativa, accumulò una grossa fortuna. Quei soldi sarebbero fluiti ben presto, come vedremo, anche nelle tasche di grandi artisti, a cominciare da Rossini. Acquistò anche numerose proprietà immobiliari, vicino al San Carlo, a Chiaia, a Posillipo, a Ischia, e anche queste furono messe a disposizione dell’attività teatrale e dell’arte, ospitandovi grandi interpreti, dando sontuose feste promozionali dell’attività dei teatri. Rimise in piedi rapidamente, in sei mesi, il San Carlo dopo l’incendio del 1816, da

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perfetto imprenditore creativo, utilizzando metodi sbrigativi, oggi forse impossibili, grazie alla sinergia instaurata con Ferdinando IV di Borbone, sovrano assoluto di Napoli. Anche in forza di quel successo fenomenale, divenne il signore incontrastato del San Carlo e dei teatri napoletani fin quasi al giorno della morte. Di lui ci ha lasciato un ritratto, non troppo lusinghiero, lo scrittore Philipp Eisenbeiss,. Tra i personaggi illustri che lo conobbero, Dumas padre disse che la testa era comune, ma gli occhi sprizzavano intelligenza e malizia, Stendhal testimoniò….Rossini disse che era il più calvo e il più cattivo degli impresari teatrale. Probabilmente quella di Rossini fu una ripicca per le questioni in sospeso e i contrasti che sempre sorgono tra persone che condividono un’attività creativa e difficile. Ma il ritratto che si trova nel Museo del Teatro alla Scala lo mostra diverso, con i capelli lisci e neri e con una barbetta risorgimentale, quindi o Rossini ha mentito per astio o i capelli erano posticci, oppure ancora, più probabilmente, quello scaligero deve essere un ritratto giovanile. Non fu mai un uomo di cultura, anzi piuttosto sbrigativo e quasi rozzo, si espresse sempre in un gergo metà milanese e metà napoletano. Ma seppe sempre mettersi al servizio della grande cultura, usando i proventi del gioco d’azzardo per ingaggiare i più grandi cantanti. In termini artistici e manageriali l’intuizione più felice fu quella di ingaggiare Rossini, già famosissimo e al massimo della maturazione espressiva. La cosa fu fattibile perché i proventi dei ricavi furono utilizzati per dotare il San Carlo di una grande orchestra e di una grande compagnia di canto. Gioacchino Rossini ebbe l’incarico di direttore artistico del San Carlo e del teatro del Fondo, con il conferimento di tutte le mansioni possibili e fu pagato moltissimo. Andò ad abitare in uno dei palazzi acquistati da Barbaja, com’era d’uso in quel periodo, nella centralissima via Toledo. Ancora oggi il palazzo è indicato nella to-

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ponomastica comunale come il palazzo di Domenico Barbaja abitato da Rossini, di fronte alla stazione della Funicolare centrale che porta al quartiere del Vomero. La leggenda, ma forse la realtà, narra che una volta fu segregato da Barbaja nel palazzo per costringerlo a rispettare i tempi per la composizione dell’opera Otello. Finalmente, l’opera fu completata e andò in scena per la prima volta 4 dicembre del 1816 al teatro del Fondo e non al San Carlo che era ancora in ricostruzione dopo l’incendio che l’aveva distrutto completamente. Come si è detto, la ricostruzione del massimo teatro cittadino fu compiuta a tempo di record per iniziativa di Barbaja stesso, che divenne perciò affidabile anche agli occhi del Sovrano, nonostante avesse nominato Direttore artistico un murattiano come Rossini. Tanto che gli affidò l’appalto della costruzione della basilica di San Francesco di Paola in quella che è l’attuale Piazza del Plebiscito, che attira ancora oggi la curiosità e le fotografie di residenti e turisti. Né il Re né Barbaja videro completata la chiesa, ma l’opera fu ugualmente notevole. Si aprì così il vero periodo d’oro di Barbaja. Era di immensa prodigalità, ospitava gli artisti nei suoi palazzi, gli ospiti stranieri in una villa dotata di tutte le comodità, organizzava feste splendide con finalità promozionali e diplomatiche. Il contratto e quindi il ruolo esercitato da Barbaja come gestore dei teatri era all’avanguardia e sarebbe auspicabile, ma quasi impossibile, che anche oggi fossero previste le modalità di quel contratto: era tenuto a mettere in scena 110 rappresentazioni all’anno, con almeno tre titoli nuovi, di cui uno scritto da un compositore di primo livello, aveva l’obbligo di mettere in scena opere tradotte dal francese. Il rapporto tra Barbaja e Rossini fu di sinergia artistica. Il compositore pesarese, pur con tutti i contrasti e gli scontri che contraddistinsero il loro rapporto, lo definì un uomo geniale, che realizzava le cose con magnificenza e metteva sotto contratto grandi esecutori. Non può non venire in mente, a tal proposito, il film del 1992 sul-

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la vita di Rossini, nel bicentenario della nascita, in cui il ruolo di Barbaja fu magistralmente interpretato da un simpaticissimo Giorgio Gaber, che aveva tutto sommato, se non il fisico, almeno lo spirito del ruolo, visto che era milanese e aveva partecipato alcune volte al festival della Canzone napoletana, con l’interpretazione divertentissima di quella buffa canzone che era “Ma tu vuliv’ a pizza”, in coppia con Aurelio Fierro. La stella più fulgida tra i cantanti ingaggiati fu quella di Isabella Colbran, soprano spagnolo che era stata allieva del famoso castrato napoletano Girolamo Crescentini. Stendhal scrisse che aveva occhi spagnoli belli e terribili. La fece debuttare nel 1811 ne “La vestale” di Gaspare Spontini. Non esistono documenti che attestino che ci fosse tra loro una relazione amorosa, ma è certo che ci fu tra lei e Rossini. Barbaja si consolò sentimentalmente con il soprano Annamaria Cecconi. Nell’opera di Rossini “Zelmira” cantarono entrambe. L’opera fu l’ultima composta da Rossini per i teatri di Napoli. Lo stesso Barbaja si trasferì per un periodo a Vienna, per dirigervi il teatro di Porta Carinzia e l’Hoftheater, con grande rammarico dei napoletani. A Vienna, un compositore allora particolarmente in auge, un certo Ludwig van Beethoven, ebbe a dire che Barbaja faceva solo balletto e non vera musica; evidentemente pesarono le differenze di gusto e sensibilità tra la cultura musicale italiana e quella tedesca. Comunque, la stessa Zelmira di Rossini fu l’anello di congiunzione tra Napoli e Vienna perché fu la prima opera che Barbaja fece mettere in scena nella capitale austriaca solo due mesi dopo il suo arrivo. Ebbe anche attenzione al repertorio mozartiano e portò a Napoli La clemenza di Tito. In Austria scoprì il grande Carl Maria von Weber, con i suoi Freischutz ed Euryante, dimostrando di avere una sensibilità e un gusto mitteleuropei, anche se il compositore tedesco non gli fu mai molto riconoscente, parlandone spesso male.

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Nel 1826 assume la gestione della Scala di Milano, del teatro vero e proprio e non del solo foyer. Per Napoli, andato via Rossini, sceglie di investire sul giovane Donizetti, allievo a Bergamo di Giovanni Simone Mair, impegnandolo per quattro opere. Mette sotto contratto anche il Giovane Vincenzo Bellini, appena diplomato al Conservatorio di San Pietro a Majella. L’impegno viennese terminò nel 1828, quello alla Scala nel 1832. Quindi òa lavorare solo a Napoli, dove continuò per altri anni a ingaggiare sempre i più grandi artisti, anche tra gli esecutori, come Giovan Battista Rubini, Lablache e altri. Nel 1839 Rossini lo venne a trovare nella casa di Posillipo. Stavolta non con la Colbran, ma con la Pellissier con cui si sarebbe sposato ben presto. Il soprano definì l’incontro e l’atmosfera in casa Barbaja come abbastanza malinconici. Il contratto con il San Carlo venne a scadenza nel 1840 per non essere più rinnovato e il nostro Barbaja si ritirò a vita privata. Il 16 ottobre 1841 era in scena al San Carlo l’opera Ulrico di Oxford quando la recita fu interrotta poi annullata per annunciare la notizia della morte di Barbaja. Ci fu tra il pubblico moltissima emozione e nessuna protesta per l’annullamento dello spettacolo. I funerali si tennero nella chiesa napoletana di Santa Brigida, con via Toledo chiusa al traffico delle carrozze, mentre si innalzavano al cielo le note del Requiem di Mozart, diretto da Saverio Mercadante. L’elogio funebre fu pronunciato dall’illustre giurista Pasquale Borrelli che sottolineò come le intemperanze e le maniere sbrigative di Barbaja, rispetto al suo fiuto di grande intenditore di musica e di spettacolo, erano state come la polvere che ricopre l’oro antico. Scompariva così quel milanese che si era fatto soprattutto napoletano di genio.

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