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Imitatori e falsari nella storia

Arte e Storia

Imitatori e falsari nella storiadell’arte. Parte terza

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Giovan Giuseppe MENNELLA

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In alcune culture del passato copiare non costituì un reato. Solo quando l’opera d’arte diventò un manufatto individuale, copiarla divenne un pericolo per la società. Le opere d’arte acquistarono quella che Walter Benjamin definì l’aura. Le opere d’arte più importanti tesero a essere banalizzate, a essere considerate da tutti uniche e irripetibili e acquistarono l’aura. Solo la modernità ha concepito l’ossessione per l’originalità delle opere. Nel dicembre del 1913 terminò il più clamoroso furto d’arte del XX secolo; dopo molti mesi di infruttuose ricerche, costellate di sorprese e avvenimenti clamorosi tra cui l’arresto di Picasso e Apollinaire, fu ritrovata a Firenze la Gioconda di Leonardo Da Vinci. Il ladro, l’operaio italiano Vincenzo Peruggia, affermò di averlo rubato per riportarlo finalmente in Italia dopo tanti secoli, visto che era stato rubato da Napoleone. Peruggia per molti italiani diventò un eroe nazionale, peccato che il dipinto non era stato rubato da Napoleone ma acquisito legalmente da Francesco I alla morte dell’artista. Subito dopo il ritrovamento, si affacciò negli inquirenti il sospetto che il dipinto ritrovato potesse essere una copia, prodotta apposta per fuorviare le indagini. Il direttore delle Belle Arti italiane, Corrado Ricci, e il direttore della Galleria degli Uffizi, Giovanni Poggi, interpellarono l’esperto d’arte e restauratore Luigi Cavenaghi che, per fortuna degli inquirenti e del pubblico ansioso, ne confermò l’autenticità. Del quadro della Gioconda esposto al Louvre esistono altre versioni: la Monna Lisa tra le colonne di San Pietroburgo, la Gioconda giovane che è in Svizzera, la Gioconda di Oslo, la Gioconda del Prado a Madrid. Lo stesso Leonardo aveva l’abitudine di dipingere varie versioni di uno stesso soggetto. La Gioconda del Prado ricalca perfettamente quella del Louvre e forse fu dipinta nello stesso periodo da un allievo di Leonardo o addirittura con la supervisione dello stesso maestro. Il filosofo statunitense Nelson Goodman (1906-1998), in un suo saggio contenuto12

nell’ampia opera “La filosofia dell’arte”, distingue due tipi di forme d’arte, quelle autografiche, come la pittura, e quelle allografiche, come la letteratura e la musica. Nel secondo caso, per fruire e godere dell’opera letteraria o musicale, non è necessario avere a disposizione il manoscritto, è sufficiente una copia. L’opera pittorica è irriproducibile perché è composta, oltre che dall’ispirazione dell’artista, anche da pigmenti colorati e da supporti tipici del periodo in cui, magari secoli addietro, sono stati utilizzati dalle mani dell’artista. La distinzione tra copia e originale è importante e determinante o meno a seconda dei periodi storici e culturali in cui un’opera d’arte è prodotta e anche di quelli in cui è ammirata. Nell’antichità la distinzione era meno importante e sensibile. Il console romano Lucio Mummio Acaico nel 146 Avanti Cristo conquistò Corinto e ne saccheggiò moltissime opere d’arte per portarsele a Roma. Le fonti ci hanno tramandato le parole che rivolse a un suo servo incaricato di imballarle: se anche uno solo di quegli oggetti fosse andato infranto o, comunque, perduto, avrebbe dovuto farne una copia con le sue mani. Per gli antichi romani la copia o l’originale erano uguali, purché i manufatti fossero appropriati all’ambiente in cui dovevano essere situati. Nel 1781 fu rinvenuta a Roma la statua che sarebbe stato conosciuto come discobolo Lancellotti. Giovanni Battista Visconti (1722-1784), succeduto a Winckelmann come commissario alle antichità di Roma, affermò che era una copia in marmo del discobolo in bronzo di Mirone, ritenendola comunque un’opera importante e preziosa. Tuttavia, altri appassionati e studiosi d’arte ne contestarono il giudizio, proprio perché, essendo una copia, non era degna di stare al pari dell’originale. Le statue greche che sono state ritrovate nella modernità sono quasi tutte copie romane. Le cariatidi della villa di Adriano a Tivoli furono scolpite ispirandosi alle Cariatidi del Partenone, allora ancora esistenti e visibili. Tuttavia, la maggior parte

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delle copie pervenute alla modernità non sono più paragonabili agli originali, ormai andati perduti per sempre. L’arte classica non fu caratterizzata dall’originalità, dall’unicità, ma dalla ripetizione. Lo ha ricordato la mostra “Serial Classic”, svoltasi a Milano alla Fondazione Prada dal 9 maggio al 24 agosto del 2015, curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola, dedicata alla scultura classica e al rapporto ambivalente tra originalità e imitazione nella cultura romana e il suo insistere nella diffusione di multipli come omaggio all’arte greca. Anche i bronzi di Riace furono assemblati utilizzando matrici prodotte da artistiartigiani, specializzati ognuno nel produrre una parte specifica del corpo. Si trattò di un’arte seriale. Oggi questo modo di procedere non sarebbe più accettabile. La questione odierna è se si possa parlare o meno di un’ossessione solo europea, e occidentale in genere, sulla distinzione del vero dal falso. In Cina e Giappone si ricostruiscono tranquillamente interi templi del passato. Nel 2007 si tenne ad Amburgo una mostra di esemplari dell’esercito di terracotta dell’imperatore cinese Qi Yang. Un visitatore sospettò che i guerrieri fossero in realtà delle copie e protestò vibratamente. In seguito alla protesta, le autorità tedesche interpellarono quelle cinesi, le quali confermarono che si trattava di copie. Niente di strano per la Cina e in genere per le nazioni dell’Oriente, per la cui cultura e sensibilità le copie sono valide quasi quanto gli originali. Anche in Italia, a Pietrasanta, si fanno copie di statue famose. Si fanno copie delle copie del David di Michelangelo e si esportano in tutto il mondo. In Oriente anche i musei, come quello di Taiwan, le acquisiscono senza problemi e la più richiesta è la statua della Pietà di Michelangelo. In Giappone, un sindaco prese l’iniziativa, per moralismo, di mettere perfino le mutande a un David e solo la protesta unanime e fermissima di alcuni critici d’arte riuscì a farlo recedere dal bizzarro proposi-

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to. Le gipsoteche, raccolte di copie di statue assemblate nelle accademie d’arte, sorsero in passato per scopi didattici in periodi in cui le foto degli originali erano rare e potevano circolare con difficoltà. La prima nazione che inaugurò l’uso delle gipsoteche fu la Germania, dove l’archeologia era praticata da tempo con rigore scientifico. In Italia la prima gipsoteca fu introdotta a Roma, non a caso per iniziativa proprio di uno studioso tedesco, quell’Emmanuel Lowe che ebbe l’incarico di direttore delle Belle Arti appena dopo l’Unità d’Italia. Al Museo di Bassano del Grappa sono presenti molti bozzetti preparatori di Antonio Canova (1757-1822) che sono materialmente accessibili ai visitatori. Ma nel Gabinetto delle stampe e anche nei magazzini del Museo sono presenti oltre duemila disegni di mano di Canova non accessibili al pubblico. Da qualche tempo quei disegni originali sono stati scansionati ad altissima definizione, per tramandarne la memoria, nel caso dovessero iniziare a deteriorarsi nonostante tutti gli sforzi di corretta conservazione. Ne sono stati realizzati due album in fac-simile, del tutto uguali agli originali, anche disponibili alla visione e consultazione del pubblico. La carta è stata ricostruita da un artigiano inglese con il medesimo spessore e le medesime imperfezioni degli originali. Si può dire che con le nuove tecniche si possono creare copie che non si distinguono dall’originale. Le medesime tecniche possono consentire di rivedere opere ormai perdute, perché certamente distrutte o rubate e mai più ritrovate. Un altro fenomeno interessante è quello di opere che avrebbero una loro dignità e bellezza, ma hanno finito per essere totalmente trascurate e diventate quasi invisibili per la loro contiguità con opere famosissime e mitiche. Un esempio curioso che può aiutare a capire di cosa si tratta è quello di una figurina dei calciatori dell’editore Panini in cui sono effigiati due calciatori del Padova nel campionato di

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serie B dell’annata sportiva 1991/92. I due calciatori, allora sconosciuti, sono Gaetano Fontana e Alessandro Del Piero. Gaetano Fontana sarebbe diventato presto invisibile in quella figurina perché il suo vicino sarebbe assurto a una statura calcistica tale da poter essere considerato una Monna Lisa del calcio italiano. Un destino analogo è toccato alla Crocifissione del pittore milanese Donato Montorfano (1460-1502), situata nella parete del refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, opposta a quella in cui si trova l’Ultima cena di Leonardo Da Vinci. Il dipinto di Montorfano nessuno lo guarda più, ormai da secoli, a parte qualcuno che nella nostra epoca dei telefoni cellulari si scatta un selfie girando la schiena al Cenacolo per pura necessità fotografica. Al Museo del Louvre di Parigi, la Gioconda di Leonardo da Vinci è situata di fronte alle Nozze di Cana di Paolo Veronese (1528-1588). La sorte della tela del pittore veneto si è rivelata abbastanza simile a quella della Crocifissione di Donato Montorfano. La collocazione originaria del dipinto del Veronese era nel refettorio del Convento dei Padri Benedettini nell’isola di San Giorgio a Venezia. Un dipinto di 70 metri quadri sulla parete di fondo del refettorio costruito da Andrea Palladio. Quando Napoleone Bonaparte entrò da conquistatore a Venezia nel 1797, ordinò di trasportarla a Parigi, una delle tante opere d’arte che sottrasse all’Italia. I soldati francesi lo strapparono dal muro e, per trasportarlo più agevolmente, lo tagliarono in tre fasce orizzontali, alterandone le proporzioni. L’opera era stata concepita per essere osservata senza fretta, per ore e ore, quelle trascorse nei giorni, nei mesi e negli anni dai frati benedettini mentre consumavano tranquillamente i loro pasti. La calma e la lentezza nell’osservazione erano necessarie anche per cogliere tutte le centinaia di minuti particolari presenti in quel dipinto enorme. Nel 2007 la Fondazione Cini ha affidato all’artista inglese Adam Lowe il compito di riprodurre perfettamente “Le Nozze di Cana”. La Società Factum Arte fondata

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dall’inglese utilizza tecnologie d’avanguardia per digitalizzare e poi riprodurre, a fini di studio, capolavori del passato. Per quanto riguarda “Le Nozze di Cana” del Veronese, il Museo del Louvre pretese che la squadra di tecnici riproduttori fotografici di Lowe lavorasse all’interno dell’edificio solo di notte, senza montare impalcature e rimuovendo ogni volta gli attrezzi per non lasciarli nella stanza. Lowe e i suoi lavorarono ogni notte per cinque settimane, utilizzando riprese a elevata risoluzione, a luce radente, con tecnologie d’avanguardia per quel 2007, ma meno perfezionate di quelle dei nostri giorni. Il lavoro per finire completamente l’esatta riproduzione ha richiesto sei mesi, lo stesso tempo impiegato dal Veronese e dalla sua squadra per portare a termine l’originale. La tela è stata intessuta in Irlanda per essere uguale a quella del Veronese. Lowe ha riprodotto anche i tagli fatti dai soldati napoleonici, quindi è una copia dello stato in cui il capolavoro si trova oggi, non di quando uscì dalle mani del Veronese e dei suoi aiutanti. L’opera è stata clonata, ma allora che differenza c’è tra l’originale al Louvre che è in un contesto diverso da quello per cui fu dipinto e il fac-simile che però è nel luogo originale per cui era stato concepito? L’importante è sapere a che cosa si è di fronte. Il dipinto originale è situato al Louvre a un’altezza sbagliata, entro una cornice dorata che non ha alcun senso, tra due porte e con la folla, che si assiepa davanti alla Gioconda, che impedisce di vederlo bene. Anche in questo caso, come per la Crocifissione di Montorfano, i visitatori vi gettano uno sguardo solo nel momento in cui si fanno un selfie dando le spalle all’opera di Leonardo. La fruizione deve essere in linea con quello che si ha di fronte e accedere all’originale spesso è molto difficile, se non impossibile. In Cina moltissimi pittori copiano su scala industriale capolavori occidentali. Se ne può comprare, per una cifra da 15 a 150 dollari, una copia fatta a mano. In Italia la situazione è diversa. Non esiste un albo professionale dei pittori, abolito nel 1948.

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Inoltre, il concetto di copia è stato assimilato a quello di falso. Quando a Palermo, in una notte tra il 12 e il 17 0ttobre del 1969, fu trafugata dall’oratorio di San Lorenzo la Natività di Caravaggio, sorse l’esigenza di comporre almeno una copia da sistemare al posto del quadro originale. Ma il lavoro dei pittori che volevano cimentarsi con l’impresa fu compromesso fin dal principio dalla normativa italiana per la quale le copie fatte a mano devono essere ridotte di un terzo. Pertanto si ripiegò su un fac-simile, che ancora oggi consente almeno di riempire in modo abbastanza degno l’orribile vuoto che c’era prima nella chiesa e dare un’idea del capolavoro ai palermitani e ai visitatori. Il grande critico d’arte italiano Cesare Brandi, che nell’anteguerra aveva fondato, insieme con Giulio Carlo Argan, l’Istituto Centrale del Restauro, nel 1963 propose le linee teoriche che avrebbero dovuto guidare i restauratori delle opere d’arte. Il restauro non dovrebbe stravolgere l’opera, magari per aumentarne il valore di mercato; infatti, spesso i restauratori possono essere, e lo sono stati qualche volta in passato, i migliori falsari, perché conoscono tutte le tecniche degli artisti. Brandi impose che soggetti che facessero di professione i pittori non dovessero mai partecipare ai restauri essendo portati fatalmente ad alterare le opere. Tra le linee guida più importanti introdotte da Brandi, ci sono quella della reversibilità dell’intervento, quella del divieto di ricostruzione di parti mancanti e del divieto di dipingere sull’originale. Giovanni Urbani, il più importante direttore dell’Istituto Centrale del restauro, nei concorsi non assumeva mai i pittori. Oggetti autentici in partenza possono essere mistificati anche da un restauro fatto male. Ma alla fine torniamo da dove eravamo partiti, cioè alle varie versioni della Gioconda e ai capolavori ormai mitici e paradigmatici dell’arte occidentale. Nel 2010 il Museo del Prado ha restaurato la versione della Gioconda in suo possesso. Si sono svelati dei colori vivissimi, tanto che il pubblico ha pronunciato esclamazioni di

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meraviglia, come se fosse davanti a un’opera pop. Ha colpito soprattutto il cielo di un azzurro vivissimo. Invece la Gioconda del Louvre è grigia, il cielo dietro Monna Lisa è verde cupo e non certo blu. La ragione di questo grigiore è che la Gioconda del Louvre ormai non si può più restaurare, ormai è un meta-oggetto. Vincenzo Peruggia è stato il vero autore della popolarità mondiale della Monna Lisa del Louvre, che prima del furto non era conosciuta se non da pochi estimatori di Leonardo pittore. Peruggia, rubandola, l’ha trasformata in un’icona del nostro tempo, la prima icona del mondo occidentale, facendola diventare intoccabile, cioè non restaurabile. Anche Sigmund Freud, dopo essere riuscito finalmente ad andare ad Atene per vedere il mitico Partenone di cui aveva sempre sentito parlare, davanti ai resti, peraltro assai diroccati, ma intoccabili del tempio classico, pare abbia e- sclamato: “ma allora esiste veramente?”.

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