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Un Cristoforo Colombo dello spa

Spazio e Politica

Un Cristoforo Colombo dello spaziointerplanetario

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Giovan Giuseppe MENNELLA

Il personaggio del titolo, che è morto l’11 ottobre scorso, non era un cantante famoso che aveva venduto milioni di dischi, non era un grandissimo calciatore che aveva segnato centinaia di reti in tutti i maggiori campionati d’Europa, ma era veramente un Cristoforo Colombo, il primo astronauta, anzi cosmonauta perché cittadino dell’allora Unione Sovietica, che il 18 marzo del 1965 uscì dalla navicella Soyuz e camminò a corpo libero nello spazio interplanetario, in un periodo in cui, come si scoprì più tardi, si conosceva davvero pochissimo sulle tecniche e sui pericoli connessi alle passeggiate spaziali nel vuoto cosmico.

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Stiamo parlando di Aleksej Archipovic Leonov, che fu veramente un Cristoforo Colombo dello spazio. Quel giorno del 1965, Leonov schivò la morte miracolosamente, per pochissimo, come avrebbe fatto altre volte nella vita, per poi incontrarla ineluttabilmente, come tutti gli esseri viventi, in un giorno di ottobre da poco trascorso, anche se alla rispettabile età di ottantacinque anni. Leonov nacque nel 1934 nella Siberia occidentale per poi trasferirsi nel 1948 con la famiglia a Kaliningrad. Iniziò l’addestramento da pilota nel 1953 a Kremencuk in Ucraina e fino al 1957 si perfezionò come pilota da caccia. Fece parte del primo gruppo di venti piloti che sarebbero diventati cosmonauti, nominati ufficialmente il 7 marzo 1960. Nella primavera del 1964 fu deciso dai responsabili dei progetti spaziali sovietici che le missioni future sarebbero state eseguite con capsule spaziali del tipo precedente Vostok, che avevano già volato nello spazio, ma modificate opportunamente e che erano capaci di portare fino a tre uomini di equipaggio, ufficialmente denominate Voskod. Il secondo volo di questa capsula fu programmato per un impiego che previde per la prima volta l’uscita di un cosmonauta per attività esterna nello spazio. Per la passeggiata spaziale fu designato proprio Leonov, insieme a Pavel Ivanovic Beljaev come comandante. La corda di sicurezza che doveva tenere legato Leonov alla capsula era lunga quattro metri e mezzo e la passeggiata sarebbe durata dodici minuti. La tuta spaziale era una speciale tuta Berkut. Ci furono difficoltà già per compensare l’atmosfera interna con il vuoto esistente all’esterno, utilizzando un sistema in uso sui sottomarini sovietici. Il comandante Beljaev testimoniò che quando il suo compagno d’avventura stava

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per uscire vide che i suoi occhi erano assolutamente calmi e tranquilli, cosa inusuale perché di solito aveva un carattere estroverso e nervoso. Una volta nello spazio, accadde un fenomeno non previsto. La tuta, in assenza di pressione esterna, cominciò a gonfiarsi così che Leonov rischiò seriamente di non riuscire più a rientrare. Ci riuscì solo allentando la valvola di pressurizzazione della tuta e riuscendo a rientrare in extremis prima di soffocare per l’esaurirsi della provvista di aria, giacché aveva già perso troppo tempo a guardare estasiato le stelle e i pianeti, quasi colto da ebbrezza di profondità. Un altro imprevisto e un’altra avventura pericolosa attendevano Leonov e il suo compagno di viaggio al ritorno sulla terra. Per la prima volta era stata cambiata la modalità di atterraggio delle navicelle spaziali sovietiche. I cosmonauti non si sarebbero stati più paracadutati da circa mille metri, ma la capsula sarebbe atterrata direttamente, con i suoi occupanti comodamente all’interno. Ma, a causa della mancata accensione manuale dei razzi frenanti, la capsula finì notevolmente fuori settore, in una zona boscosa e selvaggia a oriente dei monti Urali. Prima che le forze di soccorso riuscissero a localizzarli fortunosamente, Leonov e Beljaev passarono due giorni chiusi nella capsula, con un freddo “siberiano” e circondati da lupi e orsi in amore e quindi pericolosissimi. Prima del salvataggio vero e proprio avvenne anche un episodio tragicomico, con un aereo di soccorso che lanciò dall’alto verso il luogo dove si trovavano i piloti, una bottiglia di liquore, che naturalmente andò in mille pezzi quando arrivò al suolo. Comunque, il nostro Leonov se la cavò anche questa volta, ma quello si sarebbe rivelato solo uno dei suoi mancati appuntamenti con la morte. Durante una delle cerimonie ufficiali di festeggiamento dei cosmonauti, Leonov e i suoi colleghi incapparono incredibilmente sulla traiettoria dei proiettili di un clamoroso attentato contro la vita del Segretario del PCUS Leonid Breznev.

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L’attentatore scambiò l’auto dove avevano preso posto Leonov e gli altri cosmonauti per quella dove era Breznev. L’autista fu ucciso e alcuni cosmonauti, tra cui Valentina Tereskova, rimasero lievemente feriti, ma il nostro eroe uscì ancora una volta illeso. Dopo questa avventura, Leonov fu messo provvisoriamente da parte per le successive missioni, perché non convinsero le autorità sovietiche il suo stile di vita esagerato e sopra le righe, alcune dichiarazioni incaute e soprattutto tre incidenti stradali in cui incappò in breve tempo per la sua guida spericolata. Soprattutto uno degli incidenti fu terrificante perché piombò con l’automobile in un lago ghiacciato dopo due o tre capitomboli da brivido. Inutile dire che anche questa volta ne uscì miracolosamente vivo. Il suo salvataggio più fatale e romanzesco avvenne nel 1971. In quell’anno fu nominato comandante della Sojuz 11. Le Sojuz erano stazioni spaziali sperimentali a lunga permanenza nello spazio verso le quali si era ormai orientato il progetto spaziale sovietico dopo la rinuncia a mandare un uomo sulla luna, visto che gli americani c’erano arrivati per primi. Ma a soli due giorni dall’inizio della missione, poiché uno dei membri originari si era ammalato, tutto l’equipaggio, quindi anche Leonov, fu sostituito, come usavano fare i sovietici in questi casi. Il nuovo equipaggio migliorò il record di permanenza nel cosmo, ma al rientro nell’atmosfera tutti i suoi componenti morirono soffocati per il cattivo funzionamento di una valvola che provocò una rapida depressurizzazione. E così anche stavolta il nostro Leonov si salvò, davvero per uno scherzo del fato. La carriera di cosmonauta continuò onorevolmente fino al fatidico 15 luglio 1975 quando ebbe anche la soddisfazione, al comando della Sojuz 19, di effettuare il primo aggancio nello spazio con una stazione orbitante statunitense. Passò all’interno del corridoio di aggancio a visitare i suoi colleghi americani. La cosa non era faci-

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le, perché le atmosfere nelle due stazioni erano diverse. Sembra che Leonov, una volta nella cabina di comando americana, abbia notato entusiasta che in quella c’erano molte più finestre per ammirare le stelle e il cielo. Sulle passeggiate nello spazio abbiamo anche le testimonianze degli astronauti a- mericani. Eugene Cernan, l’ultimo uomo a essere stato sulla luna e l’unico ad aver compiuto due volte la discesa sulla Luna col LEM, disse che durante l’epoca spaziale l’attività più pericolosa e incognita era proprio uscire dalla capsula. Comunque il primo statunitense a uscire nel vuoto cosmico non era stato Cernan, ma Ed White, che lo aveva fatto tre mesi dopo Leonov e quindi non è stato particolarmente ricordato negli annali. Anche oggi gli astronauti fanno lunghi esercizi di addestramento per prepararsi alle passeggiate spaziali. Le tute sono di misura standard e si possono adattare pochissimo alle corporature degli astronauti, tanto che non hanno potuto partecipare ai progetti sia un’astronauta russa perché troppo bassa sia un astronauta americano perché esageratamente alto. Su queste particolarità delle tute spaziali abbiamo anche le testimonianze degli italiani Parmitano, Cristofoletti. Nespoli, Guidoni e altri. L’addestramento si esegue in acqua e non nel vuoto cosmico che sarebbe difficilissimo e comunque costosissimo da riprodurre in laboratorio. La cosa interessante è che il sistema di allenamento in acqua fu inventato da un italiano negli anni ’50 e ’60, il professore di chimica e fisiologia applicata allo spazio Rodolfo Margaria, oggi immeritatamente dimenticato. Queste notizie, e molto altro, sono contenute nel recente libro di Massimo Capaccioli “Luna rossa, la conquista sovietica dello spazio”, edito da Carocci. Anche Leonov, oltre che dedicarsi alla pittura nei suoi ultimi anni, ha scritto due libri: “Passeggiate nello spazio” del 1971 e “Le due facce della Luna” nel 2004 insieme allo statunitense David Scott.

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E così l’11 ottobre scorso la vita ha presentato il conto anche all’indistruttibile Leonov,già scampato alla morte tante di quelle volte che un suo collega disse che a-veva una fortuna davvero “cosmica”.

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