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Beppe Fenoglio, gli scrittori e la

Cultura e Politica

Beppe Fenoglio, gli scrittori e laResistenza

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Giovan Giuseppe MENNELLA

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Le opere letterarie e storiche aventi come soggetto l’epopea resistenziale vennero solo dopo le opere cinematografiche sul medesimo argomento. Non era neanche finita la seconda guerra mondiale che film come “Paisà” o “Roma città aperta” erano già usciti nelle sale o, almeno, erano in uno stadio avanzato di produzione. La ragione fu che per le opere di scrittura, soprattutto per quelle storiche, era necessario che fossero prima acquisiti e studiati i documenti e la memorialistica dei protagonisti. Ovviamente, i primi a essere pubblicati furono gli scritti letterari basati soprattutto sull’invenzione artistica oltre che sulla memoria. Così, il primo romanzo resistenziale fu “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino, uscito nel 1947, seguito poco dopo, nel 1949, da “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò. Poi si susseguirono negli anni successivi altri lavori letterari. “Il clandestino” di Mario Tobino nel 1962, racconti sulla Resistenza, ripresentato da Einaudi con prefazione di Gabriele Pedullà, importante per la prima parte della Resistenza, con il problema delle scelte individuali dei partigiani. “I piccoli maestri” di Luigi Meneghello nel 1964.” Negli anni ’80 “Il labirinto”, una delle rare prove non poetiche di Giorgio Caproni, il secondo di tre racconti compresi in un libro dal medesimo titolo, che raccontava la crudele caccia fratricida alla fine della fuga verso la salvezza di quattro partigiani. Gli storici iniziarono a scrivere sulla Resistenza nel 1953, con la “Storia della Resistenza” di Roberto Battaglia, testo per lungo tempo fondamentale. Poi seguirono le Storie di Giorgio Bocca e Guido Quazza, tutti accomunati, peraltro, dal fatto di essere stati essi stessi partigiani e quindi depositari di una memoria diretta. Due diari scritti nel momento stesso in cui si svolgevano gli avvenimenti della Resistenza sono molto interessanti e furono scritti da due partigiani entrambi ebrei. Uno è il diario di Emanuele Artom, giovane storico e intellettuale torinese nato nel 1915, Commissario politico di Giustizia e Libertà in Val Pellice e in Val Germana-7

sca, morto sotto tortura alle Carceri Nuove di Torino. Il diario fu pubblicato nelle edizioni CDEC nel 1966 e ripubblicato da Bollati Boringhieri nel 2008. Il secondo è il diario, in nove quaderni, scritto dal partigiano piemontese Giulio Bolaffi, comandante di una formazione del tutto autonoma, organizzata da lui stesso, apolitica, che solo in un secondo momento confluì nelle formazioni di Giustizia e Libertà. È particolarmente interessante perché scritto giorno per giorno, in presa diretta, non destinato in un primo tempo alla pubblicazione. Fu stampato dalla figlia Stella, in seconda edizione. Si è rivelato prezioso per gli studi storici, soprattutto per la conoscenza della minuta vita quotidiana e dei problemi concreti delle bande partigiane, nei rapporti tra loro e con la popolazione. Giulio Bolaffi era un imprenditore filatelico che, per la sua attività, conosceva molte persone e poteva disporre di luoghi di raccolta e ricovero per i suoi partigiani, tra cui la clinica Villa Turina del professor Carlo Angela, padre di Piero Angela. Nel 1952 la Casa editrice Einaudi pubblicò ”I 23 giorni della città di Alba” di Beppe Fenoglio e le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”. L’Einaudi era stata una casa editrice importante per l’antifascismo fin dagli anni ’30; i principali collaboratori di Giulio Einaudi erano stati Leone Ginzburg e Cesare Pavese e vi gravitarono intorno altri antifascisti come Vittorio Foa, Carlo Levi, Adriano Olivetti. Quindi era particolarmente pronta a cogliere la temperie del dopoguerra, con le testimonianze di prima mano dei resistenti. Già nell’anteguerra Fernanda Pivano aveva tradotto per la casa editrice torinese “Addio alle armi” di Ernest Hemingway ed era stata arrestata per il chiaro contenuto antimilitarista e pacifista del romanzo. Beppe Fenoglio è stato l’autore di quello che la critica ritiene ormai unanimemente il più bel romanzo sulla Resistenza, cioè “Una questione privata”. Il romanzo fu pubblicato postumo da Garzanti nell’aprile 1963, insieme ad altri sei racconti, due

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mesi dopo la morte prematura di Fenoglio. Il testo definitivo era stato trovato da Lorenzo Mondo tra le carte dell’autore, che ne aveva fatto tre stesure. Le prime due furono poi utilizzate da Einaudi per l’edizione del 1978, nella quale il romanzo fu pubblicato da solo, senza gli altri sei racconti dell’edizione Garzanti del 1963. La terza stesura non è stata più trovata, per cui oggi non è possibile dire con certezza se il titolo sia da attribuire all’autore, né se il romanzo sia rimasto incompiuto o meno. Che fosse il migliore romanzo di argomento resistenziale lo intuì quasi subito Italo Calvino che, ripubblicando nel 1964 per Einaudi il suo “Il sentiero dei nidi di ragno”, scrisse una lunga prefazione in cui espresse un giudizio lusinghiero sul libro di Fenoglio, uscito appena l’anno precedente. “E fu il più solitario di tutti noi che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se lo aspettava”. Questo il memorabile incipit di Calvino. Beppe era stato tra i badogliani, Santiago con i comunisti delle Brigate Garibaldi. Beppe era Fenoglio, Santiago altri non era che Italo Calvino, che aveva assunto quel nome di battaglia in omaggio alla sua nascita a Santiago de Cuba, dove i genitori dirigevano l’orto botanico. Nella sua prefazione del1964, Calvino si dimostrò affascinato dal personaggio Fenoglio, un uomo duro, di poche parole, virile, timido, abbastanza ombroso, cha assomigliava alla sua città, Alba, una specie di paese della frontiera americana. Inoltre apprezzò in “Una questione privata” la descrizione della Resistenza come era veramente, senza mitizzazioni, con i sui errori, i suoi difetti, i suoi pericoli e incertezze, la furia e la fierezza, i dubbi, la paura, l’incubo della morte, come un grande romanzo cavalleresco. Invece, L’Unità, giornale del Partito Comunista, considerò Fenoglio un autore con-

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troverso e criticabile, proprio perché aveva mostrato la Resistenza com’era, con i suoi difetti, un fenomeno anche pittoresco e confuso, soprattutto nel suo libro “I ventitré giorni della città di Alba”. E lo si può capire dall’incipit memorabile di quel libro “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944” e poi “Fu la più selvaggia parata della storia moderna, solamente di divise ce n’era per cento carnevali”. Nei libri di Fenoglio i partigiani appaiono vestiti nei modi più strani, oltre a morire per la libertà fanno anche carnevale, hanno virtù ma anche vizi, sono coraggiosi ma anche disorganizzati e confusionari. La Resistenza non era stata tutta bella e tutta da consacrare nel mito. Le perplessità della cultura comunista sull’opera di Fenoglio furono dovute anche alla circostanza che lo scrittore si era allontanato dalle Brigate Garibaldi perché non era un comunista. Se ne era andato con le formazioni badogliane di Enrico Martini Mauri, con cui si riconosceva maggiormente da un punto di vista politico e sociale, perché erano caratterizzate da una disciplina militare e non erano composte solo da operai e contadini, come le Garibaldi, ma anche da borghesi e studenti come lui. Su L’Unità Carlo Salinari ne stigmatizzò il tono ironico in materia di accadimenti resistenziali. Un amico operaio di Salinari gli confidò che per colpa di Fenoglio non avrebbe più comprato libri in vita sua. Sull’edizione torinese de L’Unità anche Davide Lajolo lo criticò ma in seguito cambiò idea e scrisse che era stato accecato dalla disciplina di partito perché Fenoglio non era stato un partigiano comunista e aveva dissacrato la Resistenza raccontandola per come era stata veramente, per come l’aveva vissuta. Lajolo aveva l’entusiasmo e l’inflessibilità del convertito perché, a differenza di Fenoglio, aveva aderito al fascismo e se ne era allontanato all’ultimo momento. Su quell’esperienza personale scrisse il romanzo autobiografico “Il voltagabbana”

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Negli anni ’70 cambiò idea sui libri di Fenoglio, spiegando che nell’immediato dopoguerra quelli come lui che avevano creduto alla propaganda fascista si sentirono obbligati a passare all’eccesso opposto, glorificando tutto l’antifascismo e la Resistenza. In realtà, nella Resistenza avevano convissuto il fiore e la feccia e doveva essere descritta in modo realistico, per non farla cadere nella retorica. Quella retorica era stata adottata anche come difesa dagli attacchi cui era stata sottoposta durante la Guerra Fredda dagli anticomunisti viscerali e dai fascisti amnistiati. I critici letterari di sinistra sentirono l’obbligo di fare quadrato contro il vento contrario che spirò dagli anni ’50 in poi contro tutto ciò che significava Resistenza. C’era stato grande sconcerto, perché sembrò loro sminuita e oltraggiata. La prima stesura de “I 23 giorni della città di Alba” era stata presentata nel 1949 da Fenoglio alla casa editrice Einaudi con il titolo “Storia della Guerra Civile”. Per Fenoglio, quegli accadimenti erano stati anche una guerra civile tra italiani fascisti e italiani antifascisti. Ne “Il partigiano Johnny” fa dire al protagonista “Noi ci facciamo del male tra noi italiani. Io, se vedo un tedesco e poi un fascista, me la prendo solo con il fascista, lascio il tedesco e inseguo solo il fascista”. Questa idea di Fenoglio era in anticipo sugli studi storici, perché solo a partire dall’inizio degli anni ’90, grazie al libro di Claudio Pavone “Una Guerra civile. Studio sulla moralità della Resistenza”, fu accreditato il concetto che nel periodo 1943-1945 si erano intrecciate una guerra di liberazione, una guerra civile e una guerra di classe. In quei primi anni ’90, quando i partiti tradizionali erano ormai in crisi, Claudio Pavone fu in grado di porre l’accento sul conflitto civile, anche grazie al fatto che, in omaggio alla complementarietà delle fonti, prese in esame anche i diari e i romanzi scritti dai protagonisti, mentre Renzo De Felice e gli storici precedenti si erano basati esclusivamente sui documenti ufficiali dell’Archivio centrale dello Stato.

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“Il partigiano Johnny” tra i romanzi di Fenoglio sulla Resistenza è forse quello più conosciuto, anche perché era stato letto avidamente e con totale immedesimazione dalla generazione dei contestatori degli anni ’60 e ’70. Ma il migliore è “Una questione privata”, perché intreccia il destino individuale con la grande Storia. Gabriele Pedullà ha scritto che è piuttosto la grande Storia che vi intercetta la questione privata. In realtà, nel romanzo quello che risalta è la Resistenza osservata da un punto di vista non comune, non ortodosso, con la luce indirizzata verso problemi non scontati, come il rapporto con il nemico, la legittimità o meno della violenza, la scelta individuale, i rapporti con la popolazione civile. Un fatto curioso riguardante il mondo dell’editoria, dei premi letterari e delle gelosie autoriali accadde nel 1959, quando Anna Banti convinse Beppe Fenoglio a presentarsi al premio Strega con il libro edito dalla Garzanti “Primavera di bellezza”, una specie di antefatto dei suoi libri concernenti la Resistenza vera e propria. Tuttavia, quell’anno con la Garzanti si presentò al premio Strega anche Pasolini, con “Ragazzi di vita”. Il premio lo vinse “Il Gattopardo”, Pasolini arrivò terzo e Fenoglio non fu compreso neanche nella cinquina finale. Pasolini si risentì molto che Fenoglio si fosse presentato anche lui con la Garzanti e anni dopo stroncò “Una questione privata”, quando uscì in libreria dopo la morte dell’autore.

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