Franz Servaes. Giovanni Segantini: la sua vita e le sue opere

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In collaborazione con


A cura di Alessandra Tiddia Traduzione di Andrea Pinotti



Sommario

Alessandra Tiddia

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Vienna, la Secessione e Segantini. Un libro viennese per un artista europeo

Andrea Pinotti

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Nota sul linguaggio critico di Franz Servaes

Franz Servaes

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Giovanni Segantini. La sua vita e le sue opere



Alessandra Tiddia

Vienna, la Secessione e Segantini. Un libro viennese per un artista europeo Il volume di Franz Servaes, oggi tradotto per la prima volta in italiano, è sicuramente l’edizione più prestigiosa fra le varie monografie di Segantini. Quando apparve, a Vienna, nel 1902, fu definito come uno degli apici conquistati dall’editoria artistica di quegli anni, sia dal punto di vista tecnico che dei contenuti. Il libro era stato commissionato a Franz Servaes dall’Imperial Regio Ministero per il Culto e l’Istruzione, in seguito alla formazione di uno specifico comitato voluto dallo stesso Ministero al fine di celebrare uno dei figli più geniali della terra austriaca, dopo il grande successo dei quadri del maestro alla mostra della Secessione viennese del 1901. Il comitato si era insediato a Vienna il 1° marzo 1901, presieduto dall’Imperial Regio Consigliere ministeriale R. v. Wiener, ed era composto da Franz Wickhoff, fondatore della Scuola di Storia dell’arte viennese, allora Consigliere di corte, come Josef Eder, direttore dell’Imperial Regio Istituto di Ricerca e di Educazione per le Arti Grafiche, presidente della Photographischen Gesellschaft e docente all’Università di Vienna, inventore del fotometro e specialista di tecnica fotografica riconosciuto dalla Royal Photographic Society di Londra, e infine dagli artisti delle Wiener Wekstätte, Koloman Moser, Ferdinand Andri e da Franz Servaes. Franz Servaes1, conosciuto anche con gli pseudonimi di Max Haese, Albrecht Schütze, era nato a Cologna il 17 giugno 1862: formatosi alle Università di Tubinga, Lipsia, Strasburgo e Bonn, aveva pubblicato i suoi primi saggi a Berlino e aveva iniziato la sua carriera di corrispondente come critico teatrale per il “Vossche Zeitung” così come per la “Neue Freie Presse” nel 1899, anno del suo trasferimento a Vienna. Come corrispondente della “Neue Freie Presse”, nel 1900, fu inviato a Parigi per la Grande esposizione internazionale. Allo scoppio della guerra, nel 1914 si trasferì a Berlino dove rimase fino al 1940, anno del suo ritorno a Vienna, dove scomparve il 14 luglio 1947. Di lui si conservano due ritratti molto espressivi, il primo, datato 1904, oggi perduto, ma esposto a Venezia alla Biennale del 1910, si deve al pennello del pittore tedesco Oskar

1 O. Wichtl, Leben und Werk von Franz Servaes, in Wiener Geschichtsblätter. Wien, Verein für Geschichte der Stadt Wien 39 , Wien 1984, p. 13; G. Renner, Die Nachlässe in der Wiener Stadt und Landesbibliothek. Wien 1993. 7


Zwintscher2, mentre l’altro, fotografico, fu realizzato nel 1908 dalla fotografa più famosa della società viennese d’inizio secolo, Madame D’Ora.3 Le sue pubblicazioni riguardavano il mondo delle arti figurative e quello letterario4: fra i suoi primi scritti la raccolta Präludien. Ein Essaybuch, pubblicata da Schuster & Löffler a Berlino nel 18995 ma anche lo studio su Munch (Das Werk des Edvard Munch, Berlin 1894) a cui faranno seguito i volumi monografici dedicati a Hans Thoma (1900), Max Klinger (1902) e quindi quello di Segantini nel 19026. Nella Biblioteca Nazionale Austriaca a Vienna (ÖNB, Teilnachlaß Franz Servaes) si

2 Cfr. A. Tiddia, Orfei moderni, dalla Biennale al Vittoriale: Oskar Zwintscher, Luigi Bonazza, Gabriele d’Annunzio, in Quaderni della Donazione Eugenio Da Venezia, a cura di G. Dal Canton, 21, Fondazione Querini Stampalia, Venezia 2014, pp. 61-68. 3 Vienna, ÖNB, Bildarchiv, n, inv. 204690. 4 Come ad esempio: Goethe am Ausgang des Jahrhunderts. Fischer: Berlin, 1897; Heinrich von Kleist. Seemann: Leipzig, 1902. 5 Präludien. Ein Essaybuch. Schuster & Löffler: Berlin, 1899; Der neue Tag. Drama in 3 Akten. Seemann: Leipzig, 1903; Michael de Ruyters Witwerjahre. Der Roman eines Lebensdilettanten. Fleischel: Berlin, 1909;Wenn der Traum zerrinnt. Fleischel: Berlin, 1911; Im Knospendrang. Ein Stück Jugend. Rowohlt: Leipzig, 1911; Agnes und Albrecht. Ein Liebesdrama aus alten Tagen. Deutsch-Österreichischer Verlag: Wien, 1918. 6 Fra il 1900 e il 1918 Servaes pubblicò regolarmente su questioni storico artistiche come una delle principali firme delle riviste d’arte tedesche: F. Servaes,Die farbige Litographie, Verband der Kunstfreunde in den Ländern am Rhein, in “Die Rheinlande, Vierteljahrsschr. d. Verbandes der Kunstfreunde in den Ländern am Rhein”, 1.1900-1901; Aus Wien Verband der Kunstfreunde in den Ländern am Rhein, in “Die Rheinlande,Vierteljahrsschr. d. Verbandes der Kunstfreunde in den Ländern am Rhein”, Oktober 1901, p. 76; Dezember 1901, pp.75-76; Januar 1902, pp. 67-68; Februar 1902, pp. 42-46; Maerz 1902 pp. 52-56; Die Wiener Kunstgewerberschule, in “Kunst und Künstler”, 1902-1903, pp. 431-440; Ferdinand Hodler, in “Kunst und Künstler”, 1905, pp. 47- 60; Rudolf Alt (1812-1905), in “Kunst und Künstler”,1905, pp. 490-500; Ferdinand Georg Waldmueller (1793- 1865), in “Kunst und Künstler”, 1906, pp. 410-424; Ein Streifzug durch die Wiener Malerei, in “Kunst und Künstler”, n. 8, 1910, pp. 576-598; Wert und Aufgaben der Kunst-Zeitschriften, in “Deutsche Kunst und Dekoration” 1907-1908, pp. 328-334; Über künstlerische Vision, in “Deutsche Kunst und Dekoration” 1907-1908, pp. 34-58; Pflege und Leitung moderner öffentlicher Galerien, in “Deutsche Kunst und Dekoration” 1908-1909, pp. 102-114; Anders Zorn, Velhagen & Klasing, Leipzig 1910; Etwas über Kunstbesitz, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, n. 27 (1910), pp. 8-21; Richard Teschner - Wien, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, XII, 1911, pp. 391-402; Maler, Dichter, Kritiker, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, 29 (1911), pp. 9-14 ; Das Kunstwerk in der Wohnung, in “Innendekoration”, 22, 1911, pp. 18-20; Alte Städte und moderne Architekten, in “Deutsche Kunst und Dekoration” n. 31, 1912, pp. 468480; Wiener Kunst. Ein Brief an den Herausgeber, in “Kunstwart und Kulturwart”, 271, 1913, pp. 268-273; Kunst und Gesellschaft, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, n. 33, 1913, pp. 131-139; Neue Theaterpuppen von Richard Teschner, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, n. 33, 1913, pp. 169-173; Lenbendige Kunst und toten Sammlungen, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, 35, 1914, pp. 12-22; Der Krieg und der Kunstmarkt, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, n.35, 1914, pp. 343-350; Etwas über Kunstbesitz, in “Innendekoration. Deutsche Kunst und Dekoration”, n. 26, 1915, pp. 421-424; Wiener Kunstschau in Berlin, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, XIX, April 1916, pp. 41-55; Berliner “Freie Sezession”, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, XIX, Juni 1916, pp. 157-180; Fritz Burger, in “Kunst für Alle”, nn.19/20, Juli 1917, pp. 392-400; Ausstellung der Berliner Sezession, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, XXI, Februar 1918, pp. 241-251; Ausstellung der Berliner Sezession, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, XXI, Maerz 1918, pp. 363-367; Antike Wohnräume, in “Innendekoration. Deutsche Kunst und Dekoration”, 1918, pp. 181-187; Robert F.K.Scholtz-Berlin Grunewald. Seine schwarzweiss-Kunst, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, XXI, August 1918, pp. 239-251; Neue deutsche Tapeten, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, n. 41, 1917, pp. 363-365. 8


conserva un suo lascito che comprende varia corrispondenza, fra cui due lettere scritte da Giovanni Segantini nel 1889 e nel 18977, ma anche le lettere di Bice Bugatti (registrata come Beatrice Segantini) a Servaes (13 agosto 1901 e 4 settembre 1901) scritte forse in occasione della preparazione del libro e altra corrispondenza successiva con i figli di Segantini, Gottardo e Bianca (1907-1909). È molto probabile che i precedenti contatti di Servaes con Segantini, oltre alla sua indubbia esperienza di critico e letterato, abbiano potuto indicare in lui l’autore della prestigiosa monografia in cui il governo austriaco, nel 1901 spese le sue risorse migliori e più innovative nel campo dell’editoria, della fotografia, della fotocomposizione. Infatti il libro si presenta con una veste grafica sontuosa: a parte la prestigiosa copertina di cui diremo a breve, ben 63 delle opere catalogate nel volume (in tutto 132 dipinti e 108 opere su carta) sono riprodotte in illustrazioni che corredano il testo, alcune delle quali sono héliogravures in quadricromia, una novità per un’edizione datata 1902. Il volume si avvaleva di professionalità d’eccezione: dallo stampatore di corte Adolph Holzhausen, docente presso la k.u.k. Hof- und Universitäts-Buchdrucker, membro del comitato ordinatore e fondatore della stamperia universitaria a Martin Gerlach, l’editore che trasferitosi da Berlino a Vienna nel 1874, aveva fondato, in collaborazione con Ferdinand Schenk, la Martin G. & Co, poi dal 1882 Gerlach & Schenk. Il numero maggiore di riproduzioni del volume si deve al fotografo di corte Josef Löwy, che tramutò, attraverso la tecnica dell’heliogravure, le fotografie dei quadri segantiniani in riproduzioni fotomeccaniche a stampa. Per ottimizzare la lettura con caratteri grandi ma soprattutto per agevolare la visione delle immagini, sia quelle dei dipinti dal formato verticale appartenenti al primo periodo della produzione segantiniana, sia quelle dei quadri dal grande formato orizzontale che il pittore adotta a partire da Alla stanga, venne scelto un formato ad album, che peraltro consentiva una disposizione del testo su due colonne con i capilettera ad inizio del capitolo ingranditi e inquadrati in campo rosso. Ogni riproduzione è separata da una velina con un diverso motivo ornamentale disegnato da Koloman Moser, che sviluppa, stilizzandolo, il monogramma della S di Segantini e si raccorda alla copertina, anch’essa scaturita dall’ingegno di Koloman Moser, che l’ha concepita come una sorta di fondo a mosaico in bianco e oro, su cui campeggia, al centro, il titolo stilizzato del volume. Gli antecedenti stilistici possono essere ricercati nell’altrettanto splendido volume pubblicato a Vienna nel 1901, intitolato Ars Nova8, un capolavoro dell’editoria secessionista disegnato anch’esso da Kolo Moser, che raccoglieva 45 riproduzioni delle opere esposte nell’anno 1901, con cui il libro di Servaes condivide la stessa impostazione grafica della copertina, con cartiglio al centro di una decorazione e con un motivo che

7 ÖNB, Teilnachlaß Franz Servaes, Autogr. 498/13-2 Handschriften, Wien: Giovanni Segantini, 22.08.1897; ÖNB, Teilnachlaß Franz Servaes, Autogr. 498/13-1 Handschriften: Giovanni Segantini, 02.12.1889. 8 Ars Nova: Hervorragende Werke der bildenden Künste des Jahres 1901 in Heliogravure, Unter der künstlerischen Redaktion von Felician Freiherrn von Myrbach. Herausgegeben v. Max Herzig. Verlag v. Max Herzig, Wien, Leipzig, Budapest. 9


si ripete, secondo un modello che poi troverà sviluppo in moltissimi manifesti delle Wiener Werkstätte. Tutta l’impostazione grafica del volume ribadisce lo stretto collegamento fra Segantini e l’ambiente secessionista viennese, del quale l’artista aveva fatto parte come ricorda lo stesso Servaes: “Un rapporto particolarmente affettuoso lo legava a Vienna: in quella città si sentiva compreso nel modo più adeguato e più sottile, come riconobbe in più di un’occasione sia nelle conversazioni sia nelle lettere. Perciò partecipava con calorosa cordialità agli avvenimenti artistici viennesi, soprattutto allo sviluppo del movimento moderno innescato dalla Secessione”. Ludwig Hevesi, uno fra i cronisti più consapevoli della Vienna secessionista, ricordava come “dapprima nel 1896 (Vienna) rimase scioccata alla vista della sua grande opera Le due madri. La vacca nella stalla a grandezza naturale, del cui manto si vedeva ogni singolo pelo, così come si vedeva ogni singolo filo di paglia sotto di lei (…). L’Accademia si fece il segno della croce, i professori della giuria si indignarono, ma proprio in quei giorni al Künstlerhaus furono i giovani ad avere la parola e Segantini ottenne la medaglia d’oro. Quando poi i giovani fecero la Secessione, l’uomo di Maloja entrò con entusiasmo nelle loro primissime fila.”9 Segantini era stato socio corrispondente della Secessione fin dalla sua fondazione nel 1898, anno in cui aveva esposto ben diciannove opere. Le cattive madri (1894), nel 1903 andranno a formare il nucleo primario della Moderne Galerie, al Belvedere, aperta nel 1903, accanto alle opere di Klimt, Rodin e Van Gogh. Un suo scritto era apparso anche nel 1899 in “Ver Sacrum”10, organo ufficiale della Secessione e nel gennaio del 1901 la Secessione gli tributa una grande esposizione al centro della palazzina secessionista, allestita da Alfred Roller11. Le sue opere vengono esposte accanto a quelle di Rodin e Klinger. Il catalogo della mostra stampato da Holzhausen elenca ben 38 opere che impressionano il pubblico viennese e che orienteranno la decisione di costituire, nel marzo dello stesso anno, un comitato per redarre la prima monografia austriaca di Segantini. In poco meno di un anno il volume vedrà la luce. Alcune annotazioni a margine Il testo di Franz Servaes si apre e si chiude con l’immagine di Arco, località che l’autore conosceva bene per averla visitata in più occasioni, come molti dei cittadini dell’Impero asburgico fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che ad Arco si rinfrancavano grazie alla salubrità dell’aria e al clima mite. L’incipit quasi manzoniano rivela da subito, oltre ad un’affezione particolare verso questo luogo descritto da un’estrema dovizia di particolari, il metodo di lavoro di Servaes condotto attraverso le perlustrazioni personali dei luoghi segantiniani, Arco come Pusiano, come Savognino, come Maloja.

9 L. Hevesi, Giovanni Segantini, in Acht Jahre Secession. Kritik, Polemik, Chronik, Wien 1906, p. 184, citato da C.Dal Cin, La fortuna critica di Giovanni Segantini nei paesi di lingua tedesca a cavallo tra i secoli XIX e XX, in “Quaderni grigioni italiani”, n. 68, 1999. Cfr. htpp//dx.dol.org/10.5169/seals -52215. 10 G. Segantini, Betrachtungen über die Kunst, in “Ver Sacrum”, II Jhg., Heft V, Wien 1899. 11 Katalog der IX Kunstausstellung der Vereinigung bildender Künstler Österreichs Secession, Wien 1901, pp. 17-24, 43-45. 10


Visitare e conoscere di persona i luoghi vissuti da Segantini raccogliendo informazioni visive, interviste e materiale documentario è il metodo di ricerca che consente a Servaes di articolare successivamente la sua scrittura su tre livelli: sullo sfondo del racconto sta la vicenda biografica di Segantini, documentata dalle varie fonti interrogate da Servaes (da Bice Bugatti alla bibliografia precedente), spesso narrata in prima persona dallo stesso artista attraverso dei brani tratti dalla Autobiografia, nota dalle pagine de “Il Focolare” o attraverso le parole che la scrittrice Neera aveva pubblicato su “Emporium”. Su questa trama si innestano i pensieri di Segantini a proposito dell’arte e della pittura dichiarati nei suoi scritti o nelle lettere a Vittore Grubicy, a Domenico Tumiati, a Ugo Ojetti che offrono a Servaes lo spunto per commentare le opere segantiniane. Le sue fonti principali sono dichiarate sia nel corso del testo, sia nella postfazione finale: esse sono costituite in primis dalla famiglia di Segantini che “ha amorevolmente sostenuto l’impresa, arricchendola in maniera fondamentale con informazioni relative a dati biografici, documenti scritti, racconti orali e riproduzioni fotografiche” e quindi dal “mercante d’arte signor A. [Alberto] Grubicy di Milano”, che ha concesso “i diritti di riproduzione per un numero significativo di opere, rendendo possibile la visione di lavori conservati in collezioni private milanesi, e fornendo preziose notizie statistiche”. Agli inizi del ‘900 Servaes può contare inoltre su una rete di amicizie e collezionisti che avevano ammirato e stimato il lavoro dell’artista, in tutt’Europa: “Molti amici dell’artista scomparso hanno parimenti assicurato il loro appoggio: in particolare il medico ospedaliero di Samedano dott. Oskar Bernhard e la signorina Elise Königs di Berlino; quindi il banchiere e proprietario di hotel signor R. Bavier e il signor parroco Camill Hoffmann di St. Moritz; il signor Pianta, proprietario di hotel a Savognino; il signor Enrico Dalbesio e il pittore e scrittore signor Vittore Grubicy di Milano; il signor Consigliere di commercio August Zeiss di Berlino.” Lo scritto di Servaes comprende un testo biografico e critico che si dipana attraverso quattordici capitoli, per concludersi con una rassegna bibliografica, commentata in ogni sua singola voce e un catalogo delle opere, che l’autore spera possa “approssimarsi alla completezza e risultare affidabile nelle precisazioni cronologiche” anche se egli è consapevole che “un regesto delle opere di Segantini che sia completo e pienamente affidabile sotto il profilo cronologico risulta impossibile”. Raramente Segantini datava le opere e la monografia di Servaes costituisce il primo tentativo di sistematizzazione cronologica della produzione segantiniana. Di ciascuna opera riporta misure e tecnica, ma soprattutto la collocazione o l’eventuale riproduzione sulle riviste dell’epoca (da “Ver Sacrum” a “Kunst für Alle”), quando non era stato possibile rintracciarle e fotografarle direttamente. Ne esce così una sintesi che già a partire dal 1902, a tre anni dalla scomparsa del maestro, registra come molte delle opere segantiniane fossero conservate presso le principali istituzioni museali europee (Amburgo, Berlino, Budapest, Lipsia, Liverpool, Monaco, San Francisco) e presso prestigiose collezioni private, da Rotterdam a L’Aja, Brussel, Parigi, Francoforte, Londra, San Pietroburgo. Fra i collezionisti Servaes cita il gallerista milanese Lino Pesaro, che possedeva il pastello intitolato Maggio o l’artista Hendrik Willem Mesdag che aveva comperato La stalla e numerosi pastelli (nn. 11-12 e 29-30). Fra i collezionisti citati ovviamente anche alcune prestigiose collezioni viennesi, quella del dottor Hermann Eisler, del dottor Kohn, ma soprattutto quella di Karl Wittgenstein che possedeva La fonte del male (Die Quelle des Übels) oggi di proprietà del Kunstmuseum di Zurigo o quella di Magda Mautner von Markhof, cognata di Koloman Moser, e grande 11


committente di Josep Hoffmann, nella cui raccolta si conservava Alpenweide (Pascoli alpini), ma anche La speranza I di Klimt e Albero autunnale nell’aria mossa di Schiele. Nel regesto finale delle opere egli distingue fra la produzione di dipinti ad olio e quella grafica. Suddivide la produzione pittorica in quattro fasi, geografiche e cronologiche, riferite alle quattro residenze di Segantini: quella di Milano, dal 1878 al 1881 (con 14 opere); quella della Brianza, dal 1881 al 1886 (con 52 opere); di Savognino, dal 1886 al 1894 (con 41 opere) e quella di Maloja, dal 1894 al 1899 (con 22 opere). Su tale suddivisione si regge tutto l’impianto di analisi critica e interpretativa compiuto da Servaes. I punti di forza della sua analisi sono l’evoluzione della produzione segantiniana da una pittura dove l’oscurità è sinonimo di profondità di concezione verso la conquista di nuovi mezzi espressivi nella composizione e nel disegno, esercitati soprattutto nel periodo brianzolo, che poi lo porteranno verso una pittura di luce, raggiunta attraverso la declinazione personale della tecnica divisionista, applicata da Segantini attraverso una stesura per filamenti di colore. Rispetto al disegno Servaes è fra i primi a puntualizzare l’importanza di questo come esercizio autonomo, disgiunto dal valore di bozzetto. Servaes scrive di come Segantini, soprattutto nelle lunghe serate invernali riprendesse in mano “le fotografie dei suoi dipinti e cominciava a infondere in quelle composizioni una nuova vita, ridisegnandole. Così facendo, quasi sempre gli veniva una nuova idea e, a seconda dell’umore e del piacere del momento, si metteva a modificare le configurazioni precedentemente adottate nei quadri. Spesso intendeva fin dall’inizio migliorare ed elevare a un grado superiore i lavori precedenti ricorrendo a concezioni artistiche divenute nel frattempo più mature. Così sono stati man mano realizzati i numerosi disegni di Segantini, rivalorizzando composizioni precedenti, ora variandole di poco, ora modificandole anche notevolmente. Tutti i disegni hanno dunque la loro origine nei dipinti, e sarebbe del tutto errato spacciarli per studi preparatori a questi.” Interessante è anche il confronto con la pittura coeva, specie quella tedesca che Segantini apprezzava “quanto le gesta di Bismarck” in quanto espressione di una “razza forte nel fatto e nello spirito”. Grazie a Vittore Grubicy aveva potuto conoscere la produzione di Millet, ma anche Israels e Liebermann. “Fra tutti, però, e a ragion veduta, quello che sembrò sentire spiritualmente più affine fu il suo coetaneo Max Klinger, al quale lo legavano numerosi rapporti interiori, anche se i due non si conobbero mai personalmente”. Servaes propone anche degli interessanti confronti con Böcklin e Watts, dimenticati dalla critica successiva. Egli riporta fedelmente anche il pensiero teorico espresso da Segantini in più occasioni, a cui dedica un intero capitolo (Il poeta e il pensatore) in cui “il principe delle montagne” pur vivendo lontanissimo dal brusio mondano si rivela comunque “più vicino che mai al grande mondo moderno” Un’attenzione particolare, infine viene dedicata da Servaes alla questione della tecnica pittorica in Segantini, alla declinazione particolare del colore diviso, soffermandosi sull’esecuzione tecnica, la preparazione della tela e il tipo di colori e pennelli utilizzati e rivelandoci un segreto per raggiungere quella luminosità d’alta quota, propria dei dipinti di Segantini: “egli macinava delle lamine d’oro e d’argento, e ne spandeva la polvere così ottenuta nei solchi di porzioni del dipinto particolarmente esposte. L’oro sprofondava così fra i colori come una cipria brillante, emergendo poi dal loro fondo con il suo bagliore, così che nelle sue parti più luminose il dipinto si saturava di un indefinibile chiarore, che spesso produceva un effetto davvero incantevole.” 12


Andrea Pinotti

Nota sul linguaggio critico di Franz Servaes A un primo sguardo, la monografia di Franz Servaes su Giovanni Segantini si presenta come una classica biografia intellettuale di un artista – La vita e le opere, come appunto recita il suo sottotitolo – che viene caratterizzato secondo il tradizionale binomio di eccezionalità esistenziale e genialità creatrice. Servaes segue cronologicamente Giovanni dalla nascita alla morte, senza mai trascurare di descrivere dettagliatamente il contesto naturale – sempre così decisivo tanto per l’uomo quanto per l’artista, dominato dal richiamo dell’alta montagna – sullo sfondo del quale si dipanano le vicende biografiche e professionali del pittore. Per i primi anni di vita si appoggia all’Autobiografia, che era uscita su «Il Focolare» nel 1896. Volentieri vengono richiamati stralci di documenti ufficiali (dal certificato di battesimo della Canonica Arcipretale di Arco agli annali del «Patronato pei ragazzi abbandonati e corrigendi» di Milano) e brani di scambi epistolari per sostenere l’argomentazione con pezze giustificative storicamente fondate, e compensare così almeno in parte l’afflato agiografico che ispira la scrittura del biografo. Il rapporto diretto con i famigliari, gli amici e i compagni di Accademia dell’artista consente a Servaes l’accesso ai materiali autografi e alle testimonianze dirette. È altresì attestato dalla bibliografia in calce al volume un confronto ravvicinato condotto con la letteratura critica dedicata a Segantini che era disponibile all’altezza del 1902. L’artista Segantini è presentato da Servaes come un’autentica forza della natura, che rimane fondamentalmente e indomabilmente autodidatta nonostante la frequentazione dell’Accademia di Brera e di altri maestri, una natura che per istinto e intuizione precorre delle soluzioni che la storia dei metodi artistici avrebbe guadagnato solo successivamente e mediante uno studio complesso e articolato; «presagisce» a Milano quel che si stava preparando a Parigi intorno alla scomposizione prismatica dei colori, senza intrattenere rapporti diretti con i movimenti artistici allora d’avanguardia; comprende vitalmente, di colpo, quel che l’amico Vittore Grubicy dispiega razionalmente nel susseguirsi ordinato dell’argomentazione teorica. Il suo metabolismo è talmente potente che qualsivoglia spunto ricavato da altri pittori con i quali entra in contatto diretto o indiretto (tramite riproduzioni) – siano essi Tranquillo Cremona o JeanFrançois Millet – viene assorbito, fatto proprio, e persino inverato al massimo grado. Servaes non ammette mai che Segantini possa contrarre un vero e proprio debito nei confronti di un altro artista: al massimo, l’altro può fungere da catalizzatore per porta13


re a espressione piena e consapevole qualcosa che comunque era già implicitamente presente, anche se solo oscuramente consaputo, in Segantini. Se ora ci volgiamo più da vicino alla natura del discorso critico di Servaes, possiamo individuare alcune caratteristiche tipiche del suo approccio, che mette conto evidenziare. Innanzitutto la nozione di Problem: l’evoluzione artistica di Segantini è interpretata come il susseguirsi di tentativi di soluzione concreta a un problema pittorico ideale che li trascende. Concepire un’opera d’arte storicamente determinata nella sua singolarità come una delle possibili soluzioni de facto a un problema di principio è un contrassegno caratteristico del metodo della Scuola di Vienna, e in modo paradigmatico di uno dei suoi principali rappresentanti, Alois Riegl, che lo adotta estensivamente tanto in Industria artistica tardoromana (1901) quanto nel Ritratto di gruppo olandese (1902). Sulla sua scia Edgar Wind ed Erwin Panofsky avrebbero poi sistematizzato questo approccio metodologico negli anni Venti: il primo nella dissertazione dottorale del 1922 Ästhetischer und kunstwissenschaftlicher Gegenstand e nel saggio del 1925 sulla sistematica dei problemi artistici, il secondo nel saggio dedicato ai concetti fondamentali e al rapporto fra la storia e la teoria dell’arte, sempre del 1925. Se per Riegl il “problema” principale dell’arte antica nel suo complesso era un Raumproblem (il problema di come rappresentare nello spazio l’individualità della figura), per Servaes il “problema” di Segantini è per lo più identificato come un problema di luce e di illuminazione. Non dimentichiamo che Servaes si era trasferito da Berlino a Vienna nel 1899, e che nel 1905 avrebbe pubblicato sulla rivista «Die neue Rundschau» un articolo significativamente intitolato Der Wille zum Stil (La volontà di stile), che fin dal titolo sembra evocare la celeberrima nozione riegliana di Kunstwollen (volontà d’arte o volere artistico). In questo saggio Servaes sostiene che non è la personalità dell’artista, ma la sua opera che deve essere posta al centro dell’attenzione: la personalità deve risolversi nell’opera, essere al limite pronta a sacrificarsi per essa e in essa, come una madre si sacrificherebbe per salvare la vita ai propri figli. Lo studio di Servaes è molto attento nel prendere scrupolosamente in considerazione i diversi soggetti e motivi che si susseguono nel corso della parabola artistica di Segantini: ritratti e autoritratti, paesaggi, quadri di animali, scene di vita cittadina e campestre, visioni mitologiche e dipinti di intonazione religiosa. Ma l’attenzione iconografica al “che cosa” della raffigurazione risulta da ultimo sempre subordinata alla valutazione del suo “come”, cioè delle modalità formali della rappresentazione pittorica (contorni e cromatismi, illuminazione, chiaroscuro, composizione, “taglio del quadro”, formato, rapporto fra i pieni e i vuoti, disposizione dei volumi, ritmica ecc.), al servizio delle quali viene posta la scelta del sujet, come occasione per esplorare soluzioni sempre più adeguate a un determinato “problema” figurativo. In questa prospettiva formalistica – come bene emerge dall’argomentazione condotta nel capitolo VI – Servaes riconosce in Segantini, nonostante tutto il suo “naturalismo”, un pittore non mimetico: non si tratta infatti di prendere le mosse da un brano di natura per restituirlo in maniera più o meno fedele nell’immagine, ma al contrario di partire dall’«elemento figurativo», da una «idea poetico-pittorica», per realizzarla con l’aiuto della contemplazione del mondo naturale. Si intravede qui in filigrana la lezione del padre del purovisibilismo tardo-ottocentesco, Konrad Fiedler, che tanta parte ebbe nel delineare i presupposti teorici del discorso critico-artistico contemporaneo: nella 14


produzione di un’immagine di arte visiva non ne va di una riproduzione bidimensionale di una realtà tridimensionale che di per sé esiste precedentemente e indipendentemente dalla sua messa in immagine; piuttosto, nel prodursi dell’immagine viene per la prima volta all’esistenza una realtà autonoma e irriducibile a qualsivoglia modello reale. L’andare in plein air (come ci verrà poi raccontato nel capitolo XI, che si diffonde sulla tecnica pittorica dell’artista) è un momento secondario e successivo alla preparazione materiale e formale della tela; e i luoghi che finiranno rielaborati in un unico dipinto saranno molteplici, in una sintesi pittorica di differenti realtà fenomeniche. Perciò la sua pittura di paesaggi alpini poteva sottrarsi allo stigma di arte da “Baedeker”, e ai rischi connessi alla inevitabile tendenza alla cartolina illustrata di molta pittura di paesaggio: proprio perché non si poneva il compito di una raffigurazione mimetica di un luogo particolare e determinato, Segantini poteva accedere al tipico, all’ideale nel reale. A tal riguardo, non è un caso che in quello stesso capitolo VI Servaes insista sul fatto che Segantini aborrisse gli schizzi e i bozzetti preparatori: se facessi un bozzetto – confessa l’artista –, non farei più il quadro perché avrei esaurito in quell’immagine la forza propulsiva dell’idea figurativa. Non si può “tradurre” o “perfezionare” uno schizzo in un dipinto, poiché ogni immagine (e ogni diversa tecnica che la porta a esistere, sia essa matita, pastello, olio o altro) è autonoma e compiuta in se stessa. E i disegni ispirati ex post ai dipinti (Servaes lo sottolinea acutamente in più di un’occasione) non sono riproduzioni o copie, ma finiscono per realizzare nuove e inedite immagini, cioè nuove soluzioni a problemi. Ma l’uomo Segantini non si esaurisce nell’artista figurativo: anche gli scritti teorici (dei quali vengono riportati ampi stralci nel capitolo X), anche i testi letterari e le lettere rappresentano per Servaes una modalità di estrinsecazione e di produzione, differente nel medium ma analoga nel processo formativo. È la realizzazione di un senso che non potrebbe reperirsi al di fuori da quella forma specifica – iconica o verbale –, e indipendentemente da essa. Dunque, né il senso degli scritti va ricercato nelle opere d’arte visiva, né viceversa si può pensare che il significato iconico di queste ultime sia da “spiegare” alla luce dell’argomentazione discorsiva. È perciò che Servaes aderisce senza riserve alla sentenza nietzschiana (che richiama nel capitolo XIV) secondo la quale quel che i profani dicono “forma” è il “contenuto” stesso dell’arte, la cosa stessa: ogni elemento dell’opera che rinvii a un significato, a un senso reperibile al di fuori dell’opera stessa, è secondario e alla fine del tutto insignificante. Il 1887, anno in cui Nietzsche verga a Nizza questo pensiero, è lo stesso in cui Fiedler pubblica Sull’origine dell’attività artistica, saggio nel quale identifica il senso del fare artistico con il gesto formativo e figurativo, e riconduce l’oggetto formato all’azione formante. A conclusione di questa breve nota, aggiungiamo che all’attenzione predominante per i fattori formali della pittura si unisce in Servaes una caratteristica sensibilità per la dimensione geoculturale; quel che all’epoca la scienza dell’arte riassumeva sotto il concetto di “razza” (un concetto il cui impiego da parte degli storici e teorici dell’arte a cavallo tra Otto e Novecento sarebbe errato identificare senza resti con la curvatura tragicamente distruttrice che gli avrebbe di lì a pochi anni impresso l’ideologia nazionalsocialista): così Segantini viene colto nel suo progressivo congedarsi dal «modo di rappresentare specificamente italiano», nel suo accostarsi graduale alle modalità figurative proprie della «sensibilità nordica». 15


In questa germanizzazione dell’artista risiede la componente più apertamente ideologica del discorso di Servaes. Ma anche in questo il critico mostra di appartenere alla grande e variegata famiglia del formalismo europeo, che spesso e volentieri vincolava le componenti qualitative e formali delle opere d’arte figurativa a una specificazione völkerpsychologisch : ricordiamo a tal proposito ancora Riegl (l’ultimo capitolo della già citata Industria artistica tardoromana, dedicato alle Weltanschauungen, assegna ai popoli romanzi la tendenza al lineare-tattile e a quelli germanici l’inclinazione all’ottico-cromatico), e Wilhelm Worringer con la sua psicologia dei popoli sottesa all’analisi stilistica (così come viene elaborata in Astrazione ed empatia, del 1907, e in Problemi formali del gotico, del 1911, nella polarizzazione fra arte rinascimentale italiana e arte nordica). Lo stesso Wölfflin avrebbe fissato la polarità Italia-Germania nel suo saggio del 1921-22 pubblicato su «Logos», e poi trasformato in volume nel 1931: Italien und das deutsche Formgefühl (l’Italia e il sentimento tedesco della forma). Con tutta la sua devozione per i problemi di luce e di colore, Segantini non volle tuttavia mai abdicare alla guida ferma e decisa della linea e al proprio senso plastico: nemmeno nella fase più matura di scomposizione cromatica, che lo avvicina ai divisionisti francesi e al contempo lo distingue in virtù della personale tecnica di applicazione di filamenti giustapposti di colore (capitolo VIII), il suo momento “pittorico”, Servaes lo deve riconoscere apertamente, non procede mai disgiunto dall’elemento “lineare”, che lo ancora fermamente alla tradizione italiana.

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Volume edito dall’Imperial Regio Ministero per il Culto e l’Istruzione Edizioni Martin Gerlach & Co. Vienna 1902 Stampato da Adolf Holzhausen, Imperial Regia Stamperia dell’Università, Vienna

Ed. originale: Franz Servaes, Giovanni Segantini. Sein Leben und sein Werk, herausgegeben vom K.K. Ministerium für Kultus und Unterricht, Verlag von Martin Gerlach & Co., Wien 1902. 17



Indice

Primo capitolo

Decimo capitolo

21

Gli anni dell’infanzia

120

Il poeta e il pensatore

Secondo capitolo

Undicesimo capitolo

34

Battaglie evolutive

133

Sul Maloja

Terzo capitolo

Dodicesimo capitolo

45

In Brianza

142

L’epos del mondo alpino

Quarto capitolo

Tredicesimo capitolo

52

La poesia dell’oscurità

151

Simbolismo e stile

Quinto capitolo

Quattordicesimo capitolo

64

La poesia dello spazio e della luce

163

Ultimi raggi

Sesto capitolo

Quindicesimo capitolo

73

Savognino

178

Il grande uomo

Settimo capitolo

84

Il pittore del villaggio

191

Catalogo delle opere

Ottavo capitolo

203

Bibliografia

96

Il pittore dell’aria di montagna

Nono capitolo

109

Nel regno dei sogni

211

Indice delle tavole

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Le note a piè di pagina sono del traduttore. Ringrazio per i suoi generosi consigli Alessandra Tiddia, per il loro prezioso aiuto Annalisa Bonetti, Daniela Ferrari, Anatole Fuksas, Chiara Tartarini. 20


Primo capitolo Gli anni dell’infanzia Una possente catena di alte montagne rocciose, che precipitano scoscese e maestose, orla la riva settentrionale del Garda. Di sotto brillano i limpidi flutti di questo magnifico lago, le cui onde amichevoli lambiscono dolcemente le coste del Sud Tirolo presso Riva. Disegnando una linea fortemente arcuata, i monti si inoltrano profondamente nell’entroterra, facendosi incontro da entrambi i lati del lago, e venendo così a circoscrivere come per mezzo di un gigantesco anfiteatro una porzione di terra che un colle separa dal lago: per gli abbondanti oliveti, i gelsi e i fichi, le piante di mandorle e i cespugli di alloro, pare di trovarsi in un immenso parco meridionale. Graziose villette punteggiano di bianco il verde ora più chiaro ora più scuro della vegetazione. E là dove le chiare onde ghiacciate del Sarca impetuoso aggirano un colosso roccioso che sprofonda in verticale, incoronato da un castello diroccato, case e casupole si riuniscono in un abitato che si arrampica lievemente su per i pendii, come una colomba che, dopo aver smarrito la rotta, si rifugi nell’abbraccio della possente catena montuosa. Questa è Arco, il paese natale di Giovanni Segantini, il grande artista del quale le pagine che seguiranno intendono parlare. In quella maestosa e romantica natura egli è sbocciato e vi ha trascorso i primi cinque anni della sua infanzia, a quei tempi ancora spensierata, in un luogo dove la satolla placidità del Sud e un clima che per calore e opulenza ricorda quasi la Sicilia si compenetrano in modo singolarmente meraviglioso con rimembranze avventurose della cavalleria medievale nordica. Capre e pecore italiche pascolano tra neri cipressi dalle cime svettanti, sotto le macerie rovinate da rocche caparbie, come si incontrano nei territori del Reno e della Mosella, o come si potrebbero trovare nell’Inghilterra normanna. Così al visitatore attento di questo stupendo angolo di mondo si svela una duplice natura, affascinante e peculiare, che gli ricorda l’affine natura, similmente du21


plice, di quell’artista, che era per le sue origini italiano, per il suo spirito sotto più di un aspetto nordico, di cuore però un autentico, grande europeo. Il suo nome in realtà suonava «Segatini», ma già il padre dell’artista lo aveva cambiato in «Segantini» per motivi eufonici. Tuttavia il certificato di battesimo conservato ad Arco riporta ancora il nome originario del pittore. Questo documento recita così: «Segatini Giovanni Battista Emanuele Maria figlio di Agostino del fu Antonio e di Teresa nata Lovata; e della sua legittima moglie Margarita fu Giovanni de Girardi di Castello in Val di Fiamme, coniugi da Ala, da circa un anno qui domiciliati, nacque alle ore 8 ant. del 15 gennaio 1858, ab periculum fu battezzato dalla mammana Teresa Clari, e supplite le cerimonie dal cap. P. Endricci Felice il giorno 16. Patrini Giovanni d’Antonio Mattei, e Maria De Ferrari da Val di Sole»1. Il bambino, venuto al mondo in circostanze così precarie da dover ricevere persino il battesimo in extremis, avrebbe dovuto combattere a lungo con la massima tenacia per affermare il proprio diritto all’esistenza. Per quasi vent’anni il destino sembrò dedicarsi a soffocare quella giovane fiammella vitale, la cui sussistenza pareva per così dire essergli stata estorta. Commuove la descrizione dei primi sette anni di vita del bambino, che lo stesso artista avrebbe redatto più tardi, e che mette conto riportare qui di seguito per intero come un prezioso documento di umanità. «Io non so cosa sia avvenuto prima della mia nascita. So che ebbi un padre ed una madre e che a loro piacque farsi un nido ad Arco nel Trentino sulla riva destra della Sarca, ed ivi deposero le uova. Sono il secondo ed ultimogenito. Il primo perì, vittima delle fiamme, ed io nascendo cagionai a mia madre una infermità, che ci costrinse cinque anni dopo di andare a Trento; ma le cure non valsero. Io la ricordo ancora mia madre, e se fosse possibile che si presentasse qui in questo momento davanti ai miei occhi, dopo trent’un anno la riconoscerei benissimo. La rivedo coll’occhio della mente quella sua figura alta, dall’incedere languido. Era bella, non come aurora o meriggio, ma come tramonto di primavera. Quando morì non aveva ventinove anni. Essa apparteneva a quella nobiltà di montagna del medio-evo che diede allora i soldati di ventura ed oggi dei buoni agricoltori. Mio padre invece apparteneva alla borghesia: aveva circa venticinque anni più di mia madre, che era la sua terza moglie.

1 Da una copia estratta dalla Canonica Arcipretale di Arco, il 30 novembre 1880; documento riportato in Primo Levi l’Italico, L’ultimo Segantini, in «Rivista d’Italia», anno II, vol. III, fasc. 12°, 15 dicembre 1899, pp. 639-676, qui p. 670, nota 4. 22


Morta mia madre, mio padre pensò di stabilirsi con me a Milano, dove aveva un figlio ed una figlia del primo letto. Il figlio vivacchiava con una fabbrichetta di profumeria e la sorella attendeva alla casa. Ma capitammo in mal punto; gli affari andavano male, e dopo poco tempo si dovette chiudere la fabbrica e vendere buona parte dei mobili. Padre e figlio partirono insieme affidando me alla sorella. E qui comincia la vita mia personale, tutta a me, alternativamente buona e grama, ma non mai tutta una perché anche la tristezza ed il dolore non mi rendevano del tutto infelice. Avevo allora sei anni e vivevo colla sorella in un abbaino d’una casa in via S. Simone. La sorella partiva alla mattina di buon’ora lasciandomi qualche cosa da mangiare e non ritornava che all’imbrunire: anche gli altri inquilini del pianerottolo non li vedevo mai durante il giorno. Le due camerette che abitavamo avevano due finestrine molto in alto, sicché io anche salendo in piedi sulla tavola non riuscivo a veder che il cielo. Perciò non stavo solo volentieri; mi prendevano spesso dei brividi di un’indefinibile paura; ed allora scappavo per uno stretto corridoio che metteva sul pianerottolo della scala, là, dove per una finestra quadrata, potevo discernere una lunga stesa di tetti e dei campanili, e sotto, un cortiletto chiuso e profondo che pareva un pozzo. A quella finestra stetti le lunghissime giornate di molti mesi; e per un pezzo aspettavo sempre il babbo, che m’aveva detto sarebbe tornato presto; invece non lo vidi più. Nei giorni di pioggia o nei giorni di sole il mio animo era triste e rassegnato; non comprendeva ancora se questa esistenza potesse essere lunga all’infinito se avesse subito un fine. Quando le campane delle chiese vicine suonavano a festa, mi si raddoppiava l’affanno e provavo come una tortura dell’anima. Pensavo? non so; ma sentivo fortemente; soffrivo, ma non conoscevo il dolore. Un giorno, non so come, mi trovai in possesso di una certa quantità di carta, credo fosse un libro; giuocai qualche po’; quindi cominciai a stracciarla in pezzetti sempre più minutamente come tante falde di neve. E mi venne un’idea. Fattomi alla finestra del pianerottolo incominciai a gettare la mia provvigione giù nella corte. Questo giuoco mi piacque. Quelle bianche cosine danzavano e turbinavano nell’aria, s’appoggiavano mollemente ai davanzali delle finestre, calavan lente e gravi giù giù fino sul selciato, come persone vive che temessero di farsi male. Era già un po’ che mi trastullavo così, quando su dal fondo scoppiò una voce terribile d’uomo infuriato. Non comprendevo che cosa dicesse perché non capivo ancora il dialetto: ma dal tono pensai che forse il mio gioco non gli piaceva; e quando tacque 23


e parvemi che se ne fosse andato, mi affrettai a consumare in un colpo solo tutta la raccolta dei pezzettini di carta, che non era poca. Una meraviglia: la nevicata si sparse per l’aria e nascose per un momento il cortiletto. Mi feci meglio al davanzale per goder lo spettacolo ed accompagnai la nuvolaglia danzante sin al fondo del viaggio. Quando scorsi un uomo con una scopa fra le mani intento a guardar in su dalla mia parte. Doveva esser lui che poco prima aveva gridato; ma siccome ora non diceva più nulla ed anzi si muoveva per andarsene, ne dedussi che non ero stato io la cagione della sua furia. Intanto qualche finestra si apriva sul cortiletto e vi si sporgeva qualche testa a guardare, ed io provavo una certa qual compiacenza di esser stato l’autore di quello spettacolo. D’un tratto mi sento afferrare bruscamente per la cintola da una mano di ferro e sollevar e rivoltar colla testa fra due gambe, una morsa, e sento scendere sui miei calzoni dei forti colpi a tempo misurato e non troppo lenti. Poi quando fui deposto a terra ed ebbi ripreso la posizione normale, pieno di lagrime che non scendevan e di spavento che superava la scottatura delle botte, scorsi un uomo, lui, l’uomo della scopa, che fissandomi con due occhi tremendi, alzò la mano a riepilogar il sonoro castigo in un’ultima minaccia, finché poi voltato a un tratto il dorso se ne andò gattoni borbottando. Seppi più tardi che quel demonio era il portinaio. Alla sera poi la sorella mi diede il resto, e mi fece sapere che non potevo più andare sul mio pianerottolo. Infatti la mattina seguente mi chiuse in casa e portò seco la chiave. Piansi un poco, poi la mia attenzione fu attirata da un grosso baule che era in un canto della stanzetta. L’apersi; era pieno di mille cose svariate: vesti da donna, nastri, guanti usati, delle mezze maschere, mille cianfrusaglie, e, proprio sul fondo, una quantità di canne di cassia che non sapevo cosa fossero, ma che misi da parte colla maschera per giocare. La maschera era il mio ideale; desideravo di possederne una fin da quando era ad Arco, ma grande, intera, colorata — viva — come qualcuna che avevo visto e che mi aveva fatto gran paura. Tuttavia contento misi la mezza maschera; ma era grande e non potevo vederci bene; mi avvicinai ad uno specchietto: che orrore! Strappai subito la maschera e la guardai! Meglio non l’avessi mai vista! La gettai di nuovo dentro il baule; tentai di non pensarci e mi sedetti per giocare colle canne; ma presto mi stancai e non avendo alcuna distrazione incominciai a provar una strana paura. Un topo attraversò rapidamente la stanzetta e mi si raddoppiarono i brividi; mi alzai e presi le canne per 24


rimetterle a posto. Apro il coperchio del baule e, immaginatevi il mio spavento! La maschera con un occhio vivo, mi guardava fissamente. Lasciai cadere il coperchio; non gridai, ma il cuoricino mi batteva con gran violenza; corsi all’uscio. Era troppo ben chiuso. Allora spinsi una sedia vicino al tavolo e mi salvai su questo, in piedi, colla faccia verso la finestra, guardando il cielo e cantando a squarciagola. Quando smettevo di cantare, mi sentivo orribilmente solo; avevo una gran sete. Feci uno sforzo e mi voltai verso il secchio; ma la camera mi sembrò tenebrosa e popolata di ombre; voltai ancora la testa in là tentando di cantare, ma non avevo più né la volontà né la forza di farlo. Rimasi così un gran pezzo soffrendo sete e paura, pensando a quando mio padre mi conduceva a zonzo per la città, pei giardini pubblici e mi comperava della frutta. Questi ricordi mi fecero venir da piangere e piansi lungamente. Imbruniva; non guardavo più il cielo, ma tenevo la testa appoggiata al muro, assopito. Quando incominciai a sentire dei rumori, abbastanza distinti nella stanza, stetti zitto, immobile, cogli occhi stretti stretti, ma un rumore più forte degli altri mi fece involontariamente voltare la testa e vidi che erano parecchi sorci che giocavano colle canne di cassia. Chiusi ancora gli occhi, e quando mia sorella tornò a casa, io dormivo sul tavolo; essa mi destò; al primo momento mi spaventai, poi compresi, la riconobbi, le gettai le braccia al collo e piansi e pregai di non chiudermi più in casa. Acceso il lume, essa si accorse del disordine, mi sgridò ed aperse il baule per rimettervi la roba che era attorno. Io guardai subito la maschera che era là col suo occhio vivace. Mia sorella la prese e la buttò sul letto per far ordine nel baule; allora potei vedere che lo sguardo della maschera che mi aveva fatto tanto terrore, non era altro che la fibbia d’acciaio di una cinta che brillava sotto il taglio di uno degli occhi. Il giorno di poi l’uscio era aperto colla ingiunzione di non andar fuori; cosa che promisi ma che non seppi mantenere. Di lì a pochi dì mi trovavo installato sul pianerottolo come prima; però non gettai più niente dalla finestra. I giorni si succedevano ai giorni sempre eguali e monotoni. Quando una mattina, ritornando dal fare la modesta provvigione di cibo, quasi sempre pane e latte, giacché la mia sorella mi aveva, non senza fatica, avvezzato a renderle questi piccoli servizi, vidi sul pianerottolo e nel corridoio delle scodelle, delle secchie, dei pennelli e dei colori. L’aspetto di queste cose inaspettate ed insolite produssero sul mio animo una viva emozione; era gioia mista a timore, gioia prodotta dalla novità delle cose, timore che veniva dall’ignoto, dall’incomprensibile. 25


Mi domandai tutta mattina: cosa succede? cosa si farà di quella roba? E mangiai ben poco. Poi quando la mia sorella se ne andò, uscii fuori subito per vedere e mi arrestai curioso in un canto, scorgendo un uomo lungo, con un grosso pennello che passava e ripassava mollemente sul muro, dando a questo una tinta bianca striata. Guardavo, ma la cosa non mi divertiva punto; il fatto non corrispondeva alla dose d’emozione da me consumata nell’ansia della breve attesa: era una disillusione. Vedendo i colori diversi già sciolti nelle scodelle e nei cartocci, pensavo che con tutta quella roba si avrebbe dovuto fare qualche cosa di più interessante. Ma la cosa non era finita; dopo l’imbiancatura l’uomo lungo tirò delle linee abbasso ed in alto ed il giorno dopo con una mezza secchia di terra rossa sciolta nell’acqua ed una grossa spugna, che di tanto in tanto vi intingeva, incominciò a tempestare di spugnature le pareti, lasciando solo il soffitto bianco e lo zoccolo tinto d’un color scuro uniforme. Io guardai con vivo interesse questa parte del lavoro; dopo qualche tempo mi abituai a quelle macchie, giacché debbo confessare che nei primi giorni non ero affatto contento e fissavo quelle macchie con una vera nausea. A furia di contemplarle incominciai a vederci dentro qualche cosa; ed ecco un soldato austriaco col corpo inclinato avanti, con delle braccia lunghe lunghe che picchiava la gran cassa tirata da un grosso cane su di un carro; ma no, non era un carro, era un ponte, ed un uomo si appoggiava al parapetto: quell’uomo non era mio padre, ma gli assomigliava molto. Poi l’occhio tornò al tedesco ed al cane; non c’eran più e con mia grande sorpresa non vidi altro che delle macchie informi; rimasi a lungo pensoso e distratto… … In quelle macchie ricordo che trovai una vita varia animata di bestie fantastiche, di persone deformi, che si componeva e scomponeva ad ogni batter di ciglia; da una composizione triste e melanconica — veniva fuori una scena — stramba e ridicola; su quelle pareti scoprivo un piccolo mondo di curiosi sogni, ma il sogno che cercavo, il mio spasimo continuo, erano i verdi prati, i ruscelletti trasparenti dal fondo di fine sabbia, il mio giardinetto di Arco, quei nascondigli pieni d’ombra e di frescura che prediligevo. Così sognando e cullandomi in queste visioni nostalgiche, sopraggiunse l’inverno ed io non potei più star fuori sul pianerottolo; dovetti chiudermi nella cameretta con un piccolo scaldino, che alla mattina con pochi centesimi facevo riempire di bragia dal fornaio. Con questo tenue calore, senza luce, senza cielo, passavo la mia triste giornata; ed ogni pensier verde, ogni azzurra speranza, svanirono dalla mia mente: tutte le forme vi si cancellarono, nella mia piccola testa si fé’ buio; non comprendevo più la gioia, ed il dolore era scomparso. La primavera tornò ed io ricominciai a stare le 26


giornate sul pianerottolo. Un mattino che guardavo stupidamente dalla finestra senza pensare a nulla, mi venne all’orecchio il chiacchierio di alcune vicine; parlavano di un tale che ancora giovinetto partì da Milano a piedi ed arrivò in Francia dove egli fece di grandi prodezze; non ricordo il nome di quel personaggio, ma credo si trattasse dell’eroe di qualche romanzo. Per me fu come una rivelazione. Si poteva adunque abbandonare quel pianerottolo, e andarsene lontano… La conosco la strada, mio padre me l’ha mostrata quando andavamo a zonzo in piazza Castello. «Là, mi aveva detto, da quell’arco entrarono vittoriose le truppe francesi e piemontesi; quell’arco e quella strada li fece costruire Napoleone Primo». La strada doveva condurre attraverso ai monti in Francia; e l’idea di andare in Francia per quella via non mi abbandonò più. Essa rifecondò il mio spirito, e vi fece rifiorire nuove e ridenti immagini, riconducendo il mio pensiero al verde, all’azzurro, ai monti, ai ruscelli scintillanti, alla libera luce, al sole. Finalmente, un bel giorno mi decisi. Lasciai partire la sorella poi scesi anch’io; andai dal fornaio e presi a credito una mezza libbra di pane e mi avviai diritto alla piazza Castello, passai l’Arco della Pace e via sullo stradone. Ricordo che era una giornata calda, soffocante; ma tutta quella luce, quel sole radioso, quei campi, quegli alberi mi davano un’ebbrezza di gioia che mi sollevava come se io avessi le ali; pure a momenti quando il pensiero tornava involontariamente al pianerottolo, il mio cuore si stringeva come per rimorso. Ma camminavo, camminavo sempre, sbocconcellando il pane e fermandomi solo per bere ogni volta che vedevo un ruscello od una fontana; attraversai qualche paesello, credo di poca importanza, perché non ricordo alcun particolare notevole. Quando ricominciò a imbrunire, il pensiero della notte che si avvicinava mi spaventò, stringendomi il cuore, mettendomi addosso dei brividi. La notte ormai scendeva plumbea, dopo la giornata afosa; all’orizzonte lampeggiava; ero stanco, ma camminavo sempre colla speranza di trovare qualche cascinale per passarvi la notte, quella notte già tanto oscura che non mi lasciava distinguer bene la strada. Grossi nuvoloni si allargavano nel cielo ed io lottavo fra il timore delle tenebre e la stanchezza; l’uno voleva che andassi fino a che avessi trovato dell’abitato, l’altra che mi fermassi almeno un momento onde riprendere un po’ di forza; e la stanchezza vinse. Mi lasciai cadere affranto sul margine della strada, presso un grosso tronco d’albero, e lì non so cosa avvenisse, ma certo dovetti essermi addormentato all’istante perché non ricordo più nulla finché, dopo molto tempo che dormivo, mi sentii scuotere e sollevare di peso. Mi risvegliai trasognato, tentai d’aprire gli occhi, ma una luce di fanale mi stava così vicina alla 27


faccia che mi impediva di tenerli aperti; a tutta prima non compresi bene quel che accadeva; mi sentiva tutto inzuppato d’acqua come se fossi stato pescato da un fosso. «Sì, sì, diceva una grossa voce, non vedi che visacci egli fa? vuole aprire gli occhi». In quel momento mi ricordai tutto, mi svincolai dalle mani di chi mi teneva e guardai bene. Due uomini stavano davanti a me; uno era vecchio e recava nelle mani un grande ombrello, l’altro molto più giovane reggeva il fanale di un carro, il carro si disegnava nell’ombra in mezzo alla strada. L’uomo vecchio ed il giovane mi presero dolcemente per le mani tempestandomi di domande: chi ero, dove andavo, come mi trovavo in quel sito. Io risposi che ero di Milano e che era mia intenzione di procedere pel mio cammino fin che fossi arrivato in Francia. Essi mi dissero che per quella strada non vi sarei arrivato mai; che andassi intanto a casa con loro, dove mi avrebbero fatto asciugare ed avrei dormito al caldo. Così dicendo mi trascinarono là dove era il carretto, mi vi spinsero su, rimisero a posto il fanale, salirono anch’essi, diedero la voce al cavallo, schioccarono la frusta, e via di trotto. La strada era nera, soffiava il vento e l’acqua era quasi cessata; il fanale illuminava di una scarsa luce un magro ronzino che si affaticava a trottare, spandendo intorno a sé una evaporazione biancastra, come se camminasse nella nebbia. Io mi ero bene accoccolato in un cestone; dopo di aver notato tutto quello che potevo vedere, fissai la faccia del vecchio che scorgevo benissimo di profilo, mi sembrò subito una faccia di buon vecchio, e mi rassicurai così pensando che non mi avrebbero fatto del male. Mi ricordo che a furia di fissare quella testa, debolmente illuminata di sotto in su, mi diventava grande, straordinariamente grande, che pareva non dovesse potersi reggere su di un corpo umano, e mi riaddormentai. Svegliatomi mi trovai mezzo svestito su di un lettuccio: una donna piccola e grassotta stava levandomi le scarpe. Sgranai intorno gli occhi; eccomi in un grande camerone; nel mezzo vi era un tavolo e su un angolo di questo il vecchio ed il giovane del car retto mangiavano in una grande scodella di terra nera che fumava. La donna intanto mi toglieva la camicia che era bagnata come se fosse stata immersa nell’acqua, poi si allontanò dal letto dicendo agli uomini: «Guardate, si è svegliato il ragazzo, ed è così magro che fa paura a toccarlo». Prese poi da una corda stesa vicino al focolare una camicia e la infilò calda calda sul mio corpicino intirizzito, domandandomi intanto il nome e cognome; poi, così in camicia, mi prese nelle braccia e mi portò a sedere sur una scranna vicino al fuoco, sciorinò intorno al camino, su delle corde, i miei vestitini bagnati, poi mi recò davanti una scodella di minestra calda di riso e fagiuoli che divorai. Intanto gli 28


uomini avevano finito il loro pasto: si misero anch’essi vicino al fuoco e insieme alla donna cominciarono ad interrogarmi parlando dolcemente. A poco a poco sciolsi la lingua e raccontai l’intera mia storia da quando era ad Arco colla mamma e col babbo, e ricordo d’aver narrato a lungo con molti particolari un incidente capitatomi che mi era sempre rimasto molto impresso. Un giorno, potevo avere tre o quattro anni, attraversavo uno stretto ponticello di legno che da un viale metteva capo ad una tintoria, posto su un torrente incanalato che serviva a dare la forza a molti molini di ogni genere d’industria, specialmente macine di farine. Un ragazzetto più grande di me, uscito da una porticina con qualche cosa per prendere acqua, veniva dal lato opposto; ed io dalla strada gli andavo incontro. Così c’incontrammo a metà del ponte. Egli si abbassò per attingere l’acqua; il ponticello era stretto, sì che urtandomi precipitai nel torrente. Mi rammento d’essere passato sotto un ponte di pietra; l’acqua correva con violenza; passato il ponte, delle lavandaie stavano lungo la riva, e le vedo ancora colle braccia in alto, coi visi sconvolti, gridare smaniando. Vedevo sempre ogni qualvolta i miei occhi aperti emergevano dall’acqua la mia berretta di lana rossa fatta dalla mia mamma. Per ultimo scorsi la gran ruota a ingranaggio del mulino del mio padrino che si avvicinava. Quando riapersi gli occhi mi colpì una gran luce bianca. Nel cielo tutto azzurro cantavano le allodole; anche questo ricordavo bene, come ricordavo che un uomo dalle gambe molto lunghe mi portava adagiato sulle sue spalle, camminando verso casa mia (seppi poi che era un cacciatore che passava per caso sul ponte e si era buttato in acqua per salvarmi; ebbe per questo suo atto di coraggio il premio di una certa somma dal Governo Austriaco). Molte donne mi stavano attorno. A casa mi misero a letto avvolto in molte coperte di lana. La sera, dopo aver dormito e sudato molto, mi svegliai e mi guardai attorno; mio padre e mia madre mi stavano vicini, e quando videro che li guardavo si misero a piangere. Le persone che ascoltavano quel che narravo avevano gli occhi rossi, e la donna mi prese nelle sue braccia e mi baciò. Essi poi trattarono fra di loro per condurmi a casa l’indomani; ma io protestai, e dissi chiaro e tondo che se essi intendevano di condurmi a casa della sorella, ne sarei fuggito di nuovo il giorno dopo. Vista la mia ostinazione dissero: «Ti terremo qui con noi, povero orfanello; tu hai bisogno di sole; ma non siamo ricchi, e perciò se vuoi proprio rimanere bisogna che tu ti renda utile in qualche cosa». Io promisi di fare tutto quello che essi avrebbero voluto. 29


Il giorno dopo la donna mi tagliò i capelli lunghi, folti, ricciuti che mi piovevano sulle spalle. Ricordo che diceva ad un’altra donna la quale stava guardandomi: «Questo ragazzo ha in testa più capelli di noi tutti quanti insieme». L’altra continuando a guardarmi fece quest’altra osservazione: «A vederlo di profilo assomiglia ad un figlio di re di Francia». Quel giorno divenni guardiano di porci: non avevo forse ancora sette anni…»2. Quel che ci tocca in modo così enigmatico in questo racconto, ancor più della descrizione degli eventi materiali, è il tono interiore, profondo e vibrante, con il quale la vita intima del bimbo ci viene esposta e affidata, come scaturente dal suo più proprio e più puro mondo di sensazioni. Certamente solo un bambino dotato di un’estrema sensibilità psichica e di un sistema nervoso sviluppatosi in modo finissimo e delicatissimo, con tutta la sua capacità di resistenza di fronte alle molteplici sollecitazioni dell’ambiente, nella buona come nella cattiva sorte, poteva reagire con un’energia individuale così decisa da conservare le tracce di questi intimi vissuti fino alla maturità. Così possiamo supporre che quella vibrazione e quella sensibilità originarie, che caratterizzavano il fanciullo insieme alla forza necessaria per dominarle, fossero presenti in Segantini fin dai primordi della sua vita in misura eccezionalmente rilevante. E al contempo intravediamo gli impulsi di una volontà che, già nel bagliore di una coscienza sul punto di destarsi, si apprestava con piglio deciso a dar libero sfogo alla propria individualità, e a rapportarla a condizioni che ne potessero promuovere lo sviluppo, o che almeno non lo frenassero od ostacolassero. Per questo bambino la fuga dalla casa della sorella significò né più né meno di un disperato tentativo di autoaffermazione. Vivere all’aperto, in mezzo alla natura, fra gente semplice, buona e autentica, fra maiali e oche (doveva infatti pure accudire gli animali), gli era più congeniale che non confinarsi nelle ristrettezze della città e di un angusto quartiere, vicino a una persona che, pur essendogli consanguinea, gli risultava per spirito e per mentalità tanto estranea quanto un barbaro privo di sentimento e di intelletto. Ci colpisce perciò in modo tanto più inquietante il venire a sapere che già dopo pochi mesi quell’idillio pastorale venne a concludersi. Un bel giorno la sorella comparve e si riportò via il piccolo Giovanni. Come fosse venuta a sapere del luogo in cui Segantini risiedeva, se lo avesse capito in seguito a sue proprie ricerche o ne fosse

2 Giovanni Segantini, «Autobiografia», in Id., Scritti e lettere, prefazione di Bianca Segantini, Fratelli Bocca Editori, Torino-Milano-Roma 1910, pp. 3-16. 30


magari stata informata dai custodi del fanciullo, non lo sappiamo. In ogni modo, il piccolo fece dapprima ritorno a Milano. Ma quella fuga doveva far capire chiaramente ai parenti che i rapporti che il bambino viveva in città erano per lui del tutto inadatti. Mancano dati più precisi relativamente a questo periodo. Quel che è certo, però, è che Giovanni non rimase a lungo nel capoluogo lombardo, e che trovò poi accoglienza presso un fratellastro che conduceva un salumificio in Trentino, precisamente in Val Sugana. Al negozio dovette aver trovato una qualche occupazione, e avrà anche cominciato a imparare a leggere, a scrivere e a far di conto. Di sicuro però non vi acquisì una grande educazione, se ancora del Segantini ventenne (forse esagerando un poco) si sarebbe detto che sapeva sì dipingere, ma non scrivere. Il soggiorno presso il fratello dovette comunque comportare un relativo miglioramento: da certi segnali capiamo che per lui quel luogo costituiva niente di meno che una sorta di El Dorado. Si racconta infatti che il ragazzo prese a studiare con zelo il gioco del lotto, poiché gli era stato detto che con un buon colpo si poteva diventar ricchi e fare quel che si voleva. E allora il giovane calcolava e calcolava, e tentò più di una volta di ottenere la fortuna sperata: però senza successo. Un giorno gli arrise tuttavia un miracoloso caso fortunato. Esplorando il giardino si imbatté insperatamente in una somma di denaro che vi era stata sepolta. L’aneddoto suona avventuroso; Segantini lo avrebbe poi raccontato in più occasioni, insieme a quel che ne era conseguito. Grazie al denaro così trovato si presentarono subito all’immaginazione del fanciullo le più irresistibili possibilità: avrebbe potuto fare segretamente ritorno a Milano e lì formarsi come un grande artista! Il piano aveva un che di seducente, ma qualcosa preoccupava l’esordiente uomo di mondo: condivise allora il suo segreto con un altro fanciullo, e solo quando questo si mostrò condiscendente, concordò in comune con lui la fuga. In un luminoso mattino d’estate, che ancora decenni più tardi sarebbe rimasto vivido dinnanzi agli occhi dell’artista, i due si incamminarono marciando baldanzosamente per i campi. Dopo una mezza giornata di cammino sotto il sole, si riposarono per un’oretta in un luogo ombreggiato. Ma quando Giovanni si risvegliò, quale choc! Il compagno se l’era data a gambe con il «tesoro»! Afflitto e contrito, il povero derubato fece ritorno a casa. Ma non osò farsi vedere da nessuno. Sgattaiolò così nel granaio e si rintanò in mezzo al fieno. Lì rimase per tutta la notte, e tutto il giorno e la notte successivi, senza cibo né acqua. Solo al secondo giorno, quando arrivò una donna e sbirciò dalla finestrella, il fanciullo venne liberato. Lo vide giacere esausto per la paura e la fame, già leggermente febbricitante, e gli portò dietro 31


sua richiesta un po’ di pane e latte. Solo allora il piccolo malfattore osò uscir fuori. Non avrà certo goduto di un’amorevole accoglienza da parte del fratello, che da tali trascorsi forse avrà tirato le sue conseguenze e si sarà convinto che Giovanni altro non fosse che un incorreggibile fannullone di cui doversi sbarazzare. In ogni caso, dopo qualche tempo ritroviamo il ragazzo ancora una volta a Milano, e di nuovo dalla sorella. Nel frattempo pare che questa si fosse sposata, e che conducesse un’osteria nella quale non funzionava sempre tutto proprio perfettamente. Fu in questo ambiente che il ragazzo, ormai suppergiù dodicenne, venne quindi a trovarsi, e probabilmente vi fu anche impiegato come garzone di bottega. Con la sorella i rapporti andavano sempre male; per contro, i clienti del locale cominciarono a occuparsi di questo giovane piuttosto sveglio, inebriandone la fantasia facilmente infiammabile con parole e bevande. Ancora una volta la passione dell’adolescente si rivolse al gioco del lotto: con gli anni il suo desiderio di denaro (e quindi di libertà) si era fatto sempre più pressante, e con esso la speranza riposta nel gioco. Non ci è stato riferito nel dettaglio a che cosa tutto ciò abbia portato. Venne comunque il momento in cui il comportamento del giovane offrì alla sorella la possibilità di scaricare i costi del pensionante, indirizzandolo a un istituto correttivo per fanciulli orfani e bisognosi di educazione. Negli annali di questa istituzione milanese, il «Patronato pei ragazzi abbandonati e corrigendi», lo scrittore italiano Apricorta trovò la seguente registrazione: «Giovanni Segantini, nativo di Trento (15 gennaio 1858) – ricoverato il 9 dicembre 1870 – evaso il 16 agosto, riconsegnato il 1° settembre 1871 – uscito nel 1873 – applicato alla sezione ciabattini»3. Nelle poche, crude parole di questa annotazione troviamo un intero momento biografico. Pensiamo a questo giovane genio in fermento, a come fosse costretto a battere suole di scarpe e a passare lo spago peciato! Di tutto quel che finora aveva dovuto sopportare, questa era la cosa più umiliante. Si può ben capire che, da ragazzo ormai esperto di fughe, abbia inscenato per l’ennesima volta (la terza!) un’evasione. Ed egli ben sentiva a che cosa sarebbe valso fuggire! L’occasione esterna offerta alla fuga, stando a quanto riportato da un amico di gioventù, fu la seguente. Da un punto di vista spirituale Segantini era più maturo della sua età, il suo modo di pensare si era liberato da molte pastoie grazie alle conversazioni, alle riflessioni e alle letture, e a quel tempo inclinava verso concezioni

3 Documento riportato da Primo Levi l’Italico in Il primo e il secondo Segantini, in «Rivista d’Italia», anno II, vol. III, fasc. 11°, 15 novembre 1899, pp. 441-471, qui, p. 468, nota 3. 32


eterogenee, ma tutte estreme. In un’importante circostanza il ragazzo si mostrò assai recalcitrante nei confronti dell’ordine scolastico: con tutta la sua consapevolezza di sé, vivacemente eccitata, non volle adeguarvisi. Allora lo si sospese, mettendo per due giorni a pane e acqua. E tutto quel che si ottenne fu che, appena liberato, egli tentasse la fuga alla successiva occasione. Dopo la sua riconsegna il trattamento che gli fu riservato dovette verosimilmente migliorare. Si cominciò forse pian piano a intravedere chi si avesse dinnanzi, chi fosse davvero questa indomabile testa dura impossibile a domarsi. Dopo il suo rilascio Segantini mantenne comunque volontariamente un contatto con l’istituto correttivo, del quale sentiremo ancora parlare. E anche l’istituzione conserva ancora un segno vitale lasciato dal suo convittore di un tempo: è un disegno a carboncino risalente all’anno 1872, eseguito su un muro e raffigurante l’allora principe ereditario Umberto. «Lo sguardo – così giudica Apricorta – è fiero e raggiante, la somiglianza sbalorditiva, e il disegno della bocca e dei baffi manifesta una finezza tale dell’ombreggiatura da lasciar presagire il futuro grande maestro»4. In ogni modo, già allora appariva inequivocabile la via alla quale il destino intendeva condurre il giovane convittore. Ritrovando nuovamente ricovero presso la sorella dopo il suo rilascio, questa – seguendo il volere del ragazzo e il consiglio dei suoi insegnanti – non seppe far di meglio che mandarlo da un uomo che gli poteva insegnare a disegnare e a dipingere. Certo non era ancora la sistemazione adeguata per un Giovanni Segantini, ma almeno era stato raggiunto un punto di partenza, per quanto oscuro, dal quale egli sarebbe andato inarrestabilmente e impetuosamente avanti, verso altezze sempre più luminose.

4 Non avendo il traduttore potuto rintracciare il documento originale di Apricorta, la traduzione è stata condotta direttamente sul testo di Servaes. 33


Secondo capitolo Battaglie evolutive È stato spesso raccontato come Segantini, quando faceva il pastorello, avesse disegnato la più bella delle sue bestie su una lavagna; e come i contadini fossero accorsi per ammirare il bambino prodigio; e come, in conseguenza a ciò, si fosse trovato il noto benefattore, che avrebbe mandato il ragazzo a scuola per farsi un’istruzione. Questa bella storia è improntata esattamente al modello della biografia di Giotto stesa dal Vasari; ma, come dimostra a sufficienza la descrizione dei suoi anni giovanili appena fornita, è una storia inventata di sana pianta. Vero è, per contro, un piccolo aneddoto – dai toni decisamente più individuali – che è stato trasmesso per la prima volta dalla poetessa Neera. Secondo tale racconto, un giorno una madre, mentre lamentava sconvolta la morte del suo bambino, irruppe nell’esclamazione: «Ah, se almeno avessi una sua immagine!». E allora il piccolo Segantini si sedette dinnanzi alla bara e disegnò i tratti del bambino morto. Le parole di ringraziamento della madre dovettero essere traboccanti di riconoscenza. Ma il bel gesto rimase privo di ricompensa: nessuno si sentì obbligato a scoprire il giovane Raffaello e a consentirgli di formarsi. Solamente nell’animo del bambino questo avvenimento ebbe un seguito: egli riconobbe quale cosa elevata e nobile fosse l’arte, e si radicarono in lui il profondo desiderio e la decisione appassionata di dedicare la vita e tutte le sue forze a questa solenne attività. Questa piccola storia deve essere accaduta in Trentino negli anni Sessanta, e doveva passare ancora un bel lasso di tempo prima che il quindicenne Giovanni, nell’anno 1873, diventasse apprendista del maestro Tettamanzi, fotografo e pittore di striscioni, insegne di trattorie, stendardi e simili. Il maestro Tettamanzi era un vero e proprio «genio», un tipo strambo e originale a tutti noto, che fra l’altro girava i paesi come dicitore e componeva drammi storici. Si sarà potuto ipotizzare che il giovane Segantini avrebbe prima o poi calcato le sue orme: un’ipotesi tuttavia che Giovanni avrebbe assai poco 34


acconsentito a confermare! Quando infatti un giorno Tettamanzi, gonfio d’orgoglio, gli chiese: «Che faresti se fossi un artista come me?», egli rispose prontamente: «Mi butterei dalla finestra». Anche per altri versi il rapporto fra maestro e allievo non era proprio molto costruttivo. Tettamanzi trovava molto da criticare nelle prove del suo apprendista, e questi mostrava scarsa inclinazione a obbedire e a far propri gli insegnamenti impartiti con tono dottrinario dal suo insegnante. Così si finiva spesso per litigare. Tettamanzi soprattutto lo rimproverava perché i suoi disegni non erano sufficientemente corretti, corrispondevano poco ai modelli, e mostravano contorni troppo liberi. «Per capire i tuoi scarabocchi – lo scherniva mordace – bisogna tenerli almeno a due metri dal naso! Van bene per prendersi una bella malattia agli occhi!» Le condizioni esteriori di Segantini continuavano a risultare sempre piuttosto tristi: era squattrinato e faceva una gran fatica a sbarcare il lunario. Fortunatamente fece amicizia con alcuni giovani che gli erano umanamente vicini e che si davano da fare per aiutarlo. Innanzitutto i fratelli Giulio e Carlo Bertoni, che gestivano insieme una drogheria, nella quale il giovane amico pittore si presentava volentieri la sera per fare quattro chiacchiere. Qui conobbe anche Enrico Dalbesio, un giovane commerciante dal carattere sveglio e vivace, che sarebbe stato fino alla morte dell’artista un fedele e affezionato amico suo e della sua famiglia. Segantini, allora sedicenne, viene descritto come un ragazzo di complessione robusta anche se magro: nel suo viso abbronzato lampeggiavano penetranti occhi neri, i cui raggi erano ammorbiditi da un bagliore melanconico. Quegli occhi, però, nella conversazione si animavano intensamente, esprimendo allora una vivace allegria, che esercitava sugli interlocutori un effetto contagioso. Nonostante le sue miserevoli condizioni, Segantini era tutto tranne che un depresso; si mostrava anzi sempre di buon umore, gioviale e intrepido. E con riconoscenza seppe godere pienamente della fortuna di aver finalmente trovato qualche amico che lo comprendesse e che sapesse rispondergli. In tali rapporti mai si mischiò una qualche forma di slealtà. In un’età nella quale quasi tutti si scatenano volentieri in qualche spavalderia, l’artista in erba non rivolse mai a nessuno una qualche parola indecente, ambigua o in qualche modo volgare. La natura lo aveva dotato di una bontà di cuore, di una sensibilità, di una grazia nelle relazioni umane capaci già allora di affascinare tutti quelli che avessero a che fare con lui. E questo suo carattere rimase stabile: né la miseria né la solitudine, né l’influsso di un qualche cattivo esempio riuscirono mai a modificarlo. Così Segantini cominciava a rinascere interiormente, soprattutto quando faceva 35


lunghe passeggiate insieme con Dalbesio nelle ore serali, perlopiù attraversando zone isolate ai bordi della città. Già allora si destava spesso in lui il pittore: rimaneva estasiato a indugiare alla vista della luce e delle meraviglie della natura, che accarezzava con le sue parole. Oppure ascoltava con attenzione i racconti del suo amico, che era un fanatico lettore e che recitava a memoria al giovane artista (che il lavoro teneva lontano dalla lettura) opere della letteratura più recente, soprattutto di Alfred de Musset e di Victor Hugo. Il romanzo di Hugo I miserabili gli venne recitato praticamente parola per parola in otto o dieci sere, e Segantini si esaltò entusiasticamente, assorbì tutto avidamente e conservò nella memoria alcuni passi, seppur ascoltati una sola volta, trattenendone le espressioni più sottili. Gradualmente il giovane artista cercò di acquisire anche nella sua materia una formazione migliore, e a tal fine si iscrisse a un corso serale di due ore nella classe di Decorazione dell’Accademia di Brera. Qui si trovò rapidamente a suo agio, tanto più che sia i compagni sia gli insegnanti si resero presto conto del singolare talento di quel povero pittore. Così egli si emancipò totalmente dal Tettamanzi, col quale i rapporti si erano fatti via via più spiacevoli; e a questo punto sembrò ormai liberarsi definitivamente anche della sorella, con la quale viveva in perenne disaccordo. Per due anni frequentò diligentemente l’Accademia, accedendo alla classe superiore di Decorazione: al mattino si esercitava nel disegno di figura, studiava approfonditamente la prospettiva e qualche volta si presentava anche nel corso di Paesaggio. Nel frattempo però, per guadagnarsi da vivere, si vide costretto – lui, ancora studente – a giocare già nel ruolo di insegnante, impartendo lezioni di disegno in due istituti di beneficenza. Per entrambi doveva insegnare due volte alla settimana per un’ora e mezza, percependo per ogni lezione una lira e mezza, e raggiungendo così un salario settimanale complessivo di sei lire, il che gli doveva bastare per provvedere al proprio sostentamento. Si racconta che i compagni di corso riconobbero subito l’opprimente povertà di Segantini e si adoperarono a loro modo per alleviarla. Parecchi di loro si mettevano segretamente d’accordo, così che sera dopo sera il misero pezzente trovava al proprio posto un dono amichevole, un pezzo di carne o di formaggio con un poco di pane, che accettava riconoscente come fosse manna dispensata dal cielo. Ma questo era per lui prima di tutto il segno che si trovava fra persone di buon cuore. Non passò molto tempo prima che una gran parte dei suoi compagni di corso cominciasse a idolatrarlo. Il suo modo indipendente di porsi di fronte alle cose, la sua maniera originale di esprimersi artisticamente, la sua originalità, freschezza, sicurezza 36


di sé esercitavano davvero un effetto affascinante: venne così formandosi attorno a Segantini un circolo di ammiratori. Un’aria chiara e nuova sembrava provenire dalla sua persona: una nuova concezione dell’arte che si scontrava con quella accademica convenzionale, e nella quale i giovani entusiasti salutavano con veemenza quella «rivoluzione» artistica così intimamente agognata. Gli insegnanti non tardarono certo a giudicare assai inquietante quel nuovo spirito. Gli allievi non volevano più essere trattati come «obbedienti agnellini», non volevano più saperne di esattezza, di correttezza e delle tradizionali formule della bellezza. Molti cominciavano a ritenersi dei grandi originali e a parlare di «maniera personale». E, quale istigatore quasi involontario di tutte queste sciagure, come vero e proprio capro espiatorio, ecco il disgraziato Segantini, questo presuntuoso povero diavolo, contro il quale si rivolgeva ora perlopiù l’indignazione degli insegnanti. Essi presero a criticarlo spietatamente, a sminuirlo e a farlo passare in ultima fila in occasione delle esposizioni pubbliche dei lavori degli allievi e delle assegnazioni dei premi. Segantini, che era assai sensibile a cose del genere, mostro chiaramente il proprio malcontento e pronunciò anche dure parole di reazione, ciò che naturalmente non fece che peggiorare i rapporti. Ciononostante il giovane non era affatto privo di appoggi nel collegio docenti, dal momento che pare vi confliggessero due partiti avversi, uno pro e uno contro. Si aggiudicò diverse medaglie, seppur solo due di bronzo e una d’argento. Ma soprattutto va detto che fra i suoi protettori pare si annoverasse il direttore della scuola, il professor Bernacchi. Questi, avendo osservato in Segantini una notevole inclinazione per i colori, gli regalò verso la fine del secondo anno una cassetta di acquerelli. L’allievo, esultante di gioia, fece onore al dono: si mise subito al lavoro, copiando due studi di rilievi che furono giudicati da alcuni dei capolavori. Fu a quel tempo che dovette maturare in Segantini la decisione di dedicarsi totalmente alla pittura. Ma si trattava solo di un raggio di sole passeggero. Al momento di concludere il secondo anno di Accademia, il partito avverso levò il braccio per infliggere un colpo decisivo. In occasione della penultima esposizione, Segantini aveva suscitato un forte scalpore con una sua testa di Niobe. Era una riproduzione a disegno della celebre scultura antica, ovviamente secondo un calco in gesso. Si sarebbe potuta criticare la fedeltà della copia. Per contro l’espressione del dolore materno, che sembrava animare il gesso e trasformarlo in carne viva, era sorprendente. Fra i sostenitori di Segantini regnava grande giubilo, e un giovane banchiere, il signor Torelli, si mostrò talmente entusiasta da acquistare il lavoro dello studente. Questo fatto suscitò molta irritazione ai piani 37


alti. Così, ora che si allestiva la nuova mostra, il lavoro di Segantini venne appeso in una posizione talmente infelice che quasi non si riusciva a vedere. Come reagì il giovane artista offeso? Andò nella sala, tirò giù il proprio lavoro e lo fece a pezzi. Come se non bastasse, incontrando per strada il professor Bertini, nel quale sospettava l’istigatore del torto che gli era stato perpetrato, gli chiese veementemente conto del fatto: gli risultò così difficile dominare il proprio temperamento al punto da doversi aggrappare al palo di un lampione, scuotendolo così violentemente e tanto a lungo da mandarne i vetri in frantumi. Con questo, ovviamente, i suoi giorni all’Accademia erano ormai contati. Si ritirò, e la collera gli si era così profondamente radicata nell’animo che, quando negli anni della fama ricevette dall’Accademia un diploma che lo nominava membro onorario, lo rimandò al mittente senza indugio. Dunque il giovane allievo si vedeva apparentemente di fronte al nulla. Eppure il suo coraggio era intatto. Si recò dai suoi amici Bertoni, i fratelli della drogheria, dipinse per loro un’insegna del negozio, raffigurante lecca-lecca e simili ingegnosi emblemi, e come retribuzione prese in cambio dei colori a olio, un pennello e un pacco di cartoncini. Così equipaggiato, se ne andò a Lecco sul lago di Como, si mise di fronte alla natura, e cominciò a dipingere. Gli riuscì persino di vendere un paio di studi di paesaggio a qualche benevolo villeggiante. Ma queste scarse risorse si esaurirono ben presto, e dopo poche settimane Segantini si ritrovò completamente al verde. Dopo aver saldato il conto alla locanda dove alloggiava, se ne tornò a piedi a Milano, senza un centesimo in tasca. Si vergognava del proprio fiasco, e appena arrivato non osava farsi rivedere dagli amici. Il suo sogno di fama e ricchezza era svanito, e mortificato strisciò fino a Porta Nuova, sistemandosi sotto l’arco di un ponte, dove rimase accovacciato fino all’alba sotto una pioggia torrenziale, dormendo con un occhio chiuso e uno aperto, per timore di cadere in acqua. Il periodo che sarebbe seguito deve essere stato assai brutto. Senza l’aiuto degli amici Segantini difficilmente avrebbe potuto resistere. Ma, troppo orgoglioso per accettare sostegni diretti, escogitò un modo originale per dissimulare questa sua condizione penosa. Si recò dai fratelli Bertoni, ne prese uno da parte e gli chiese un prestito di 5 lire, da restituire in una settimana. Quando la settimana stava per scadere, andò dall’altro fratello e si fece prestare 10 lire, sempre per una settimana. Con queste 10 lire liquidò innanzitutto il primo fratello, e con le rimanenti 5 lire tirò avanti per un’altra settimana. Quindi tornò dal primo e si fece dare 15 lire, estinse il debito di 10 lire col secondo, e gli restavano ancora 5 lire per vivere. E continuò in questo modo, prenden38


do 20, 25, 30 lire e così via, liquidando regolarmente il penultimo debito, fino a che si trovò esposto per circa 300 lire, senza che i fratelli si fossero resi conto del gioco piuttosto evidente – o almeno così se la raccontava lui. A quell’epoca gli riuscì di comperarsi qualcosa, e subito andò a saldare il suo debito: era, questo, un nuovo tratto del carattere, che Segantini avrebbe poi conservato per tutta la vita. Nel contrarre debiti era tanto prudente e timido, quanto era coscienzioso e meticoloso nel rimborsarli. Non tollerò mai che i carichi dei debiti gli si accumulassero disordinatamente. Non è tuttavia pensabile che Segantini sia riuscito a mantenersi con quelle 5 lire a settimana. Riusciva anche a guadagnarsi qualche extra dando lezioni private, molto probabilmente proprio in quell’istituto correttivo nel quale da fanciullo aveva trascorso anni così infelici. È comunque un fatto che in quell’istituto egli impegnò le sue tre medaglie vinte all’Accademia – quella d’argento e le due di bronzo –, ricevendone in cambio 20 lire, come attesta una registrazione del 4 settembre 1878. Dato che non ritenne mai necessario riscattare quei premi scolastici, essi si trovano a tutt’oggi in possesso del patronato. Ma ora bisognava fare qualcosa: dipingere un quadro del quale il mondo dovesse parlare. Così, ogni mattina, si poteva vedere il ventenne Segantini recarsi in pellegrinaggio alla chiesa di Sant’Antonio e mettersi a dipingere fervidamente nel coro. Per l’esposizione della primavera dell’anno 1879 il dipinto era pronto; venne ammesso alla mostra, e destò l’ammirazione generale. «Il primo quadro di Segantini!»: ci si passava la parola fra i compagni di Accademia di un tempo, e tutti accorrevano curiosi, e si stupivano ed esultavano. Quindi si riunirono per dar prova del loro sostegno, misero insieme 300 lire e acquistarono il dipinto, che prese poi la strada per Torino. Il quadro era stato dipinto con colori a olio, che Segantini aveva comperato sempre dai fratelli Bertoni, su un vecchio parafuoco. Un suo ex compagno di classe ci ha trasmesso le seguenti annotazioni sull’opera: «Quel coro ha degli stalli di legno intagliato che sono molto antichi e che gli conferiscono una colorazione particolarmente scura e profonda. La luce, penetrando da una finestra collocata in alto, illumina il rilievo dell’intaglio, gli inginocchiatoi e la metà di un grande dipinto antico che è appeso direttamente al di sopra degli scanni. La parte illuminata di questo quadro venne studiata da Segantini mediante la scomposizione prismatica dei colori; in effetti è stato subito notato come attraverso quella finestra dipinta si diffonda una luce reale che va a rischiarare i rilievi e l’antico dipinto. È del tutto certo che a quel tempo Segantini non sapesse ancora nulla dell’esistenza di una teoria scientifica a tal riguardo, e inoltre nes39


suno aveva ancora battuto una simile via in pittura. Ma Segantini aveva semplicemente riscontrato un’assoluta carenza di atmosfera tanto nella pittura antica quanto in quella moderna, e aveva immediatamente compreso che l’aria e l’irraggiarsi della luce potevano essere resi nei loro effetti solo attraverso la scomposizione dei colori. Questo spiega come mai il suo modo di dipingere non assomigli a quello di nessun altro artista»5. Resta da vedere se qui l’entusiasta amico di gioventù non abbia giudicato con eccessivo anticipo, reperendo nell’opera prima dell’artista delle proprietà che si trovano in realtà compiutamente sviluppate solo nei suoi lavori più tardi. Colpisce comunque il fatto che le altre opere giovanili non sembrino avere molto a che vedere con il principio della scomposizione prismatica della luce; piuttosto, i dipinti degli anni immediatamente successivi diventano sempre più scuri nei toni, e l’applicazione successiva del «divisionismo» impressionista si presenta come una conquista tecnica che egli dovette combattere per conseguire passo dopo passo. Rimane tuttavia significativo che già nel suo primo dipinto egli si fosse coscientemente posto una questione di luce, e che l’avesse risolta in un modo che, per quei tempi e ancor di più per il suo paese, risulta sorprendente. Certamente in quell’occasione non produsse nulla di assolutamente nuovo. Ma in ogni caso fece prova di un istinto pittorico del tutto inusuale, di una consapevolezza naturale e ingenua per certe questioni e certi compiti dell’arte pittorica che si erano appena delineati all’orizzonte: obiettivi che sarebbero stati ancora per qualche tempo rinnegati e smentiti, ma che alla fine sarebbero risultati incontrovertibilmente vittoriosi. Che Segantini presagisse a Milano quello su cui si stava lavorando a Parigi, resta pur sempre un fatto notevolissimo. I suoi maestri non erano in ogni caso riusciti a presagirlo. Nei circoli artisti milanesi Segantini era ormai riconosciuto come un pittore dal profilo personale ben delineato. Ormai aveva il diritto di «stabilirsi», e si sistemò nel suo primo atelier in via San Marco, dietro l’Accademia di Brera. Si tratta di un quartiere dall’atmosfera antiquata, attraversato da un pittoresco naviglio: uno dei luoghi preferiti dai giovani dell’Accademia, che vi abitano numerosi, e delle giovani e carine lavandaie, che si inginocchiano in file confuse sulla riva, per fare il bucato immergendo le loro braccia nude nell’acqua. Subito Segantini si mise al lavoro davanti a casa sua, per di-

5 Non avendo il traduttore potuto rintracciare il documento originale del compagno di classe di Segantini, la traduzione è stata condotta direttamente sul testo di Servaes. 40


pingere il vicino ponte di San Marco, assai movimentato, così come si rispecchia con le sue pesanti masse d’ombra nei flutti luccicanti per il sole: ancora una volta, dunque, un problema di luce. Nel medesimo luogo dipinse anche, in una maniera piuttosto rozza, la sposa del suo mecenate Torelli, mentre risale la strada lungo la riva: un quadro che mostra come l’influsso di Manet cominciasse a farsi sentire nell’Italia settentrionale. La vita continuava però a essere dura, ed era urgente riuscire a trovare un’occupazione che rendesse un guadagno regolare. Oltre ad alcune ore di lezioni private Segantini stabilì anche un contatto per lui prezioso con la clinica anatomica, che lo incaricò di realizzare grandi disegni colorati delle varie parti anatomiche e relativi dettagli come supporto illustrato alla didattica. Segantini seppe sfruttare al massimo questo incarico per migliorare la sua formazione artistica. Per giornate intere sedeva all’obitorio disegnando i cadaveri, acquisendo così una conoscenza talmente sicura e completa dell’anatomia umana e delle sue parti da essere in grado di restituire fedelmente e correttamente le forme corporee umane fino all’ultimo dettaglio, basandosi solamente sulla memoria. Occasionalmente gli capitarono in quel luogo anche cose strane. Così, un giorno, sedeva a disegnare tutto solo, e per non essere disturbato aveva chiuso col catenaccio la porta dietro di sé. Aveva giusto in lavorazione una bella salma fresca, che aveva sistemato dritta davanti a sé contro la parete e in piena luce. Faceva un caldo tremendo, e il sole cominciò gradualmente a riscaldare il cadavere, contraendo muscoli e nervi e producendo così una raccapricciante parvenza di vita nel corpo morto. Segantini, che in cuor suo era sempre stato più romantico che realista, guardando l’emozionante spettacolo fu preso dalle palpitazioni. Ma il lavoro lo tratteneva e, chino diligentemente sul foglio, cercò di superare il proprio orrore. Fu allora che accadde qualcosa di atroce: il cadavere piegato dal caldo si sbilanciò e cadde in avanti, finendo sulla nuca del giovane che lo stava disegnando. Sconvolto, questi balzò in piedi, corse tremante all’uscita, scosse la porta incatenata e al colmo dell’agitazione si cercò nelle tasche la chiave, che finalmente lo liberò. Per tutta la vita non fu più capace di dimenticare questo angoscioso momento, e nel suo animo disponibile alla superstizione si affacciarono vaghi presagi e timori di una fine imminente. Ogni volta che comparivano, però, altrettanto rapidamente svanivano, poiché la sana natura dell’artista soffocava sul nascere simili germi di afflizione. Ma capitava che in tali momenti la sua fantasia dolorosamente eccitata gli facesse credere di essere egli stesso un cadavere, e solo l’arte poteva liberarlo da queste visioni. 41


Fu così che nacque il terzo grande dipinto di Segantini, L’eroe morto. Al di là dei vissuti appena descritti che condussero a quest’opera, alla sua genesi ha indubitabilmente contribuito anche una reminiscenza storico-artistica. L’affinità con il celebre dipinto del Mantegna Lamento sul Cristo morto, conservato alla Pinacoteca di Brera, si può toccare con mano. In entrambi i casi il cadavere è visto dal davanti, in forte scorcio, così che i piedi risaltano significativamente, producendo una visione d’insieme per certi versi grottesca. Ma Segantini ha capito come evitare certi passi falsi del famoso predecessore. Così ha scelto innanzitutto una distanza più adeguata, che consente al corpo di non apparire troppo gonfio e tumefatto. Quindi ha conferito alla salma un atteggiamento più severo e più nobile. Infine ha eliminato il lenzuolo funebre, intensificando e concentrando in tal modo l’effetto. Totalmente diverse sono le due immagini dal punto di vista del colorito. Mantegna ha steso sul proprio Lamento una tonalità pallida e smorta; Segantini per contro ne ha scelto una rossastra (donde la battuta milanese sul «pollo arrosto»). Si è immaginato il suo eroe disteso e composto nella bara, al lume delle fiaccole, le armi e l’armatura disposte dietro di lui. E lo ha dipinto così. Si è appositamente costruito una specie di camera oscura, attraverso la quale spiare un modello del cadavere, per ottenere il massimo effetto di luce. Con tale pratica freddezza si è messo al lavoro, dopo aver superato in se stesso l’orrore di quell’evento, obiettivandolo per i propri fini artistici. Che tuttavia non fosse immune dal ripresentarsi di simili stati d’animo, lo provano successive ripetizioni del tema del cadavere. A fianco di una replica a pastello dell’anno 1890 ha collocato persino la propria sposa come tragica figura luttuosa, cambiando però – come se fosse mosso da vergogna o da pentimento – il colore dei capelli dei personaggi: il quadro lo ha poi regalato subito a un amico, per non trovarselo più davanti agli occhi. V’è qualcosa di particolarmente commovente, in questi oscuri momenti, nel veder giocare con la morte come con un’idea fissa questo artista, incessantemente minacciato in gioventù da varie sventure, e prematuramente strappato alla vita nella maturità più florida e nella pienezza della forza creativa. Sempre connesso ai rapporti di Segantini con la clinica anatomica potrebbe annoverarsi anche il dipinto di una «tisica», che tuttavia l’artista purtroppo distrusse, o meglio lo ricoprì con un’immagine di significato opposto. Il quadro originario, di cui si è conservata una riproduzione fotografica, deve essere stato una raffigurazione profondamente toccante del dolore fisico e della prossimità della morte. Fra i bianchi guanciali si vedeva il volto smunto di una giovane donna, con gli occhi febbricitanti e con una mano magra e contratta che spunta fuori dalle coperte. Una volta ridipinto, ciò 42


che avvenne dagli otto ai dieci anni più tardi, la moribonda si trasformò in una ragazza sana dalle guance paffute, che ci guarda con freschi occhi chiari, e il titolo diventò: Petalo di rosa. Ma già in quegli anni l’artista dedicato all’espressione della salute traboccante era nel pieno delle forze. Lo dimostra nel migliore dei modi la sua Ninetta del Verzée, una giovane e robusta venditrice di pesce e verdure dipinta a larghe pennellate, mentre sorridente e pettoruta, le grasse braccia puntate sui fianchi, se ne sta dietro la sua mercanzia. Il dipinto all’epoca sbalordì per il suo realismo intenzionale e quasi eccessivo; e tuttavia il modo in cui il giovane artista aveva dipinto la frutta e i pesci trovò riconoscimento presso alcuni critici. Segantini a quel tempo si cimentò ripetutamente nelle nature morte. Come anche nel caso di diversi quadri di paesaggio (ad esempio El Redefoss), e in fondo di tutti i soggetti di quei primi anni, esse erano per lui soprattutto dei mezzi per conseguire la necessaria scioltezza col pennello, con la quale poi accostarsi a temi che gli stavano maggiormente a cuore. Dato che egli aveva ormai dipinto svariate cose, cominciò a nutrire la comprensibilissima ambizione di poter portare per una volta sulla tela una giovane e bella dama, una vera e propria «donna»6. Ma dove trovarne una che fosse disposta a posare per lui? Uno dei suo amici e più ferventi ammiratori, Carlo Bugatti (un ebanista insolitamente dotato e ingegnoso), aveva una sorella di diciassette anni, Beatrice, detta comunemente «Bice» o anche «Bicetta». Per la sua fresca bellezza giovanile, e per i suoi capelli biondi morbidi come la seta che risplendevano delicatamente, spasimava allora più di un giovane milanese. Segantini parlò dunque con il suo amico, e questi parlò a sua volta con sua sorella: Bice Bugatti si dichiarò pronta a posare per quell’interessante genio della pittura, del quale aveva già sentito parlare. Segantini si recò a casa sua, comportandosi in modo estremamente formale e riservato, quasi timido. Le sedute cominciarono; il pittore lavorava con zelo. Ma quando doveva spiegare alla bella fanciulla questa o quella postura che doveva assumere, quasi non osava toccarla. La dipinse come nobildonna medievale, seduta, in un vestito di raso bianco e blu, mentre porge scherzosamente un pezzo di carne rossa a un falco nero appollaiato sulla sua mano sinistra: perciò il quadro si intitola La falconiera. Si avverte con quale entusiasmo crescente, con quale ardore interiore, anzi con quale felicità innamorata la pittura sia qui scaturita dal pennello. I

6 In italiano nel testo. 43


capelli biondi sciolti sulle spalle sono fluenti e morbidi, le labbra ridenti, gli occhi che lampeggiano maliziosi: tutto è dipinto come per incanto; e la deliziosa curva del corpo, la graziosa postura delle braccia e le dita dispiegate in maniera civettuola traboccano di vita immediata e palpitante. Il modo dell’esecuzione pittorica, per la pennellata morbida e vaporosa e per lo splendore argenteo che sgorga dalle ombre che via via vanno approfondendosi, ricorda un poco Tranquillo Cremona, l’importante pittore italiano allora da poco scomparso. Ma Segantini esibisce una maggiore solidità e una vitalità più ingenua. Del resto, tutto quello di cui si appropriava imparando da altri, sapeva farlo davvero e in tutto suo proprio, così da dominarlo compiutamente. Il quadro era finito, e Segantini sentiva che il prototipo della sua Falconiera era per lui qualcosa di più di un modello temporaneo; sentiva che Bice Bugatti non poteva più essere cancellata dalla sua vita. Un bel giorno d’estate si trovava con un amico in Brianza, all’ameno lago di Pusiano. Incantato dal fascino del luogo, Segantini proclamò ripetutamente di voler rimanerci, a dipingere e a vivere. «La campagna» era sempre stato il suo sogno, e nel profondo del suo cuore anelava a fuggire dal caos cittadino che lo disgustava. Fece venire un mediatore, e gli chiese se a Pusiano non vi fosse una casa ammobiliata da affittare. Una in effetti c’era. Segantini andò a vederla, e immediatamente, con grande stupore dell’amico che lo accompagnava, stipulò un contratto di affitto. Quindi se ne tornò a Milano, si recò dalla bionda Bicetta e le domandò se volesse diventare sua moglie. Questa disse «Sì», e nell’autunno del medesimo anno – il 1881 – Segantini si trasferì in Brianza, da felice pittore e sposo innamorato.

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Terzo capitolo In Brianza Milano si distende dominando elegantemente la pianura lombarda. Ma basta poco più di un’ora di treno per raggiungere una zona collinare che sale gradualmente, punteggiata di piccoli laghi graziosi: sono gli avamposti di quei laghi più grandi e di quelle montagne più alte che splendono e si ergono più a nord, progressivamente introducendo alla zona alpina vera e propria. Uno di quei laghi minori posti sulla soglia è appunto il lago di Pusiano, sulla cui riva settentrionale è situato l’omonimo borgo del mercato. Esso è fiancheggiato a est e a ovest rispettivamente dai laghi di Annone e di Alserio, mentre a nord si insinua fra le colline la lingua d’acqua del lago del Segrino. Tutta quest’area – pianura, laghetti e colline – si inserisce fra i due bracci meridionali del lago di Como, e porta il nome complessivo di «Brianza». È un territorio ameno e fertile, rurale e molto tranquillo, assolutamente senza pretese, ravvivato da qualche proprietà di cittadini milanesi e raggiungibile solo ai suoi estremi dai fischi e dagli sbuffi delle locomotive. È questo l’angolo di terra nel quale Segantini trascorse i successivi cinque anni della sua vita, dopo esser fuggito ventitreenne dal trambusto metropolitano. Si era sottratto alla sfera d’influenza di Milano, eppure continuava ad avvertirne la vicinanza. Gli amici venivano a fargli visita, e lui stesso in giornata poteva facilmente fare una scappata in città. Era dunque come se vi appartenesse ancora per metà. Ma anche dall’altro lato si presentava una diversa appartenenza: quella alle alte montagne, che con cenni luminosi trasmettevano al figlio delle Alpi i loro saluti invitanti dagli alti ghiacciai. Così Segantini si trovava per così dire preso fra due mondi, e prima o poi avrebbe dovuto scegliere uno dei due. Pusiano, dove si era dapprima stabilito, si trova ancora in pianura. Attraverso una campagna ben piantumata una strada luminosa conduce in una mezz’ora a Erba, dove 45


si trova la stazione ferroviaria più vicina. Prima del borgo si distende come una gigantesca peschiera il lago, sopra il quale la sera risuonano dolci e lontane le campane dei villaggi del circondario. La navigazione è scarsa, si vede qua e là qualche barca, e nelle calde giornate estive i ragazzi fanno il bagno nudi lungo le sue rive. In mezzo al lago c’è anche un’isola, che si può raggiungere in barca a remi: ma non vi si trova altro che pochi alberi e arbusti. Soprattutto nulla che si possa utilizzare ai fini della villeggiatura estiva. Tutto è pacifico, ingenuo, primitivo. Subito dietro Pusiano comincia la zona collinare. Qui si trova Carella-Corneno, un antico insediamento dal quale si può abbracciare con lo sguardo una vasta porzione di pianura. Tutto quel che vi sta dietro ha già un carattere decisamente montano. La strada carrabile sale fin oltre i settecento metri: attraverso la stretta e serpeggiante Valassina si passa, in circa sei ore di marcia, per i paesi di Asso, Magreglio, Civenna. La montagna qui sale fino a 1685 metri, con la vetta più alta, rappresentata dal Monte San Primo, a dominare la zona. Quando poi, oltre Civenna, la strada ricomincia a scendere una curva dopo l’altra, si possono veder brillare ora a destra ora a sinistra i due rami blu del lago di Como, finché alla fine della passeggiata si raggiunge l’attraente cittadina di Bellagio, che si inoltra appuntita nelle acque: di fronte si distende in tutta la sua ampiezza il lago, e a una distanza non eccessiva si apre il maestoso panorama delle Alpi. A Pusiano Segantini si fermò per un anno e mezzo. Qui nacque, nel maggio del 1882, il suo primo figlio, Gottardo. Ma, per quanto bene si sentisse in questo luogo, aspirava di continuo ad andarsene. All’inizio del 1883, ancora in inverno, con un amico fece una gita sul lago di Lugano, arrivando fino a Castagnola, dove il compagno di viaggio possedeva una casa di campagna. Rapido ed entusiasta, come soleva essere Segantini in queste cose, decise di rimanere ad abitare lì, e affittò una villa. Tornato a Pusiano, diede disdetta della casa che fino ad allora aveva tenuto in affitto; non era nemmeno arrivata la primavera che caricò moglie, figlio e la scarsa mobilia su un autocarro e, come fosse un emigrato, prese la strada per Castagnola. Eppure non stava scritto nei libri del destino che Segantini dovesse già metter su casa fra le montagne svizzere. Aveva sì felicemente varcato la frontiera, lasciandosi dietro tutti i fastidi, e approdando sulle rive del lago di Lugano; eppure quel posto, che pure in inverno lo aveva così incantato, in primavera già non lo faceva più sentire tanto a proprio agio. No, non era quella la terra dei suoi sogni: per i suoi gusti era un luogo troppo accarezzato dalla cultura, la villeggiatura era eccessivamente cittadina, tutto era troppo emancipato dalla natura primitiva e selvaggia. Gli sembrava impossibile poter rimanere lì. Con una deci46


sione altrettanto rapida di quella che lo aveva portato a trasferirsi in quel luogo, fece i bagagli e se ne tornò in Brianza. Ma a Pusiano era rimasto senza un tetto sopra la testa; traslocò dunque a Corneno, dove si trovò una vecchia casa con una grande terrazza e un bel giardino di piante a foglia larga che la ornava: una soluzione che gli si confaceva. In quel luogo rimase due anni e mezzo: onorato e amato dalla popolazione contadina, esercitava di tanto in tanto l’ufficio di castigatore e ammonitore di qualche signorotto possidente con la puzza sotto il naso. Nell’ottobre del 1883 la sua sposa gli donò un secondo figlio, Alberto; i due bambini accrebbero la luminosa felicità della casa, e approfondirono la bella armonia della vita famigliare: nell’artista «rivoluzionario» cresciuto in modo scapigliato si celava la natura di un autentico padre di famiglia, dedito e motivato. Questo tratto di Segantini si era sviluppato e potenziato talmente che solo dall’angolo visuale di questo lato dell’animo l’uomo e l’artista si dischiudono pienamente alla nostra comprensione. Segantini trascorse l’ultimo periodo a Corneno nella cosiddetta «Casa delle streghe» (in dialetto: «Cà di strii»). Collocato in cima alla collina, questo antico edificio barocco, mezzo diroccato, lo aveva particolarmente attirato fin dall’inizio, forse proprio perché, secondo le dicerie popolari, vi si aggiravano appunto delle streghe. Era stato costruito intorno al 1600 da un vescovo di Como, ed era ormai disabitato già da un secolo: completamente avvolto da arbusti verdeggianti, si trovava immerso fra frutteti e vigneti, e sembrava la dimora della Bella Addormentata. Non appena la casa fu restaurata alla bell’e meglio, Segantini vi traslocò. Ma ben presto dovette riconoscere di non potervisi trattenere. Era davvero come se vi si aggirassero delle streghe. Non appena si levava il minimo refolo di vento, la casa si metteva a scricchiolare, fischiare, frusciare. La ragione era molto semplice: tutte le finestre erano sbilenche e mal si adattavano alle corrispondenti aperture nelle pareti. Segantini pretese interventi di riparazione. Ma i proprietari non volevano spendere più un soldo nel vecchio rudere, e respinsero al mittente ogni richiesta dell’artista. Rimanere lì a vivere era impossibile: pertanto Segantini dovette traslocare di nuovo. Dato che in Brianza non gli era riuscito di trovare una dimora, contro le sue stesse inclinazioni dovette trascorrere un periodo di tempo di nuovo a Milano. Nella metropoli tuttavia Segantini non riusciva più a sentirsi a casa propria. Tutte le sue amicizie erano però sempre in quella città. E in ogni caso, così come era stata il punto di partenza della sua evoluzione e della sua fama, Milano divenne anche il punto intermedio dei suoi successi professionali, anche se quasi tutti i quadri del suo periodo 47


più tardo e più maturo sarebbero poi finiti in Germania e in Austria. Fra coloro che si erano avvicinati a Segantini dopo il suo primo grande successo (l’esposizione del dipinto Il coro di Sant’Antonio) c’erano anche i fratelli Vittore e Alberto Grubicy. Ben presto Segantini si trovò legato molto intimamente a questi due amici, che diventarono i suoi più fidati e più ascoltati consiglieri professionali. Il vero e proprio commerciante era Alberto, il più giovane dei due fratelli, che successivamente mandò avanti anche da solo il commercio di opere d’arte, portando sul mercato i quadri di Segantini. Ma, per quel periodo di cui andiamo qui in particolare discorrendo, è stato Vittore la figura di gran lunga più importante, e senza dubbio la personalità più significativa e più decisiva che sia intervenuta nel percorso esistenziale del nostro artista. Dobbiamo perciò occuparcene più da vicino. Vittore era di circa otto anni più vecchio di Segantini; figlio di un ungherese emigrato in Lombardia, aveva tuttavia un aspetto che si sarebbe detto quasi germanico: alto, occhi chiari, biondo, dai tratti larghi e massicci, di carattere vivace e al contempo penetrante. Gestiva il commercio d’arte solo come un secondo lavoro; quel che più lo impegnava era infatti, anche per lui, la pittura stessa. La sua importanza stava, e sta, soprattutto nel fatto che egli è un eccellente conoscitore d’arte e un acutissimo critico, che gode a buon diritto di ampia stima. A Segantini, che non conosceva altre grandi città all’infuori di Milano e che aveva visto pochissimi quadri dei tempi moderni, la compagnia del navigato Vittore, che aveva trascorso diversi anni in particolare in Olanda e in Belgio, doveva risultare di inestimabile valore. Quel che il giovane artista sentiva e voleva oscuramente in se stesso, veniva condotto dall’energica eloquenza di Vittore a piena chiarezza. Segantini assorbiva avidamente i racconti dell’amico esperto. Udiva nomi di grandi artisti stranieri che non erano mai risuonati al suo orecchio; e la sua lingua impacciata si sforzava rispettosamente di ripetere quei suoni forestieri. Veniva così a sapere delle correnti spirituali che muovevano la pittura all’estero; dei compiti tecnici che gli artisti di quei paesi si erano dati; delle mete ideali alle quali venivano dedicate le loro energie. E tanto gli erano stati estranei all’inizio quei nomi, tanto gli risultò poi familiare quella problematica. Credette così di aver già per lungo tempo custodito in sé tutte quelle questioni, di averle già segretamente sapute. Perciò la sua comprensione gli riusciva in modo così inusualmente rapido e intenso. Perciò le concezioni e le idee che riceveva da Vittore venivano da lui fuse insieme con le proprie convinzioni più personali, e in maniera così indissolubile da potersi completamente identificare, e da esercitare in lui la loro efficacia con la forza dei convincimenti innati. 48


In nessun’altra circostanza tutto ciò si è reso tanto chiaramente evidente come nel caso del contatto con Millet. In tutta la sua vita Segantini non è mai riuscito a vedere un singolo dipinto originale del grande artista francese. La sua intera conoscenza di Millet si basava su cinquanta o sessanta fotografie dell’editore Braun, che Vittore aveva preso in prestito dal pittore olandese Théophile de Bock e che dopo il periodo di Pusiano aveva a sua volta passato a Segantini (che se le tenne per circa un mese). Ciononostante, Millet non ha mai conosciuto in tutta la storia dell’arte nessun successore tanto profondo e tanto fervido quanto lo è stato Segantini. Successore, ma non imitatore. Due artisti di pari levatura erano qui entrati per così dire in contatto elettrico. È scoccata la scintilla, e ha subito preso fuoco. Non si trattava solo di due artisti di pari levatura, ma anche di due anime affini per natura, che entravano qui in magica connessione. Le origini di entrambi provenivano da ambienti contadini impoveriti; entrambi avevano vissuto una giovinezza difficile e infelice. Entrambi si erano confrontati attraverso il lavoro fisico con la terra, che amavano e adoravano. Entrambi erano al fondo della loro essenza – a prescindere dal fatto di essere o meno credenti – nature profondamente religiose. Ed entrambi portavano in sé l’arte, come si porta con sé una forza naturale: come una potenza vulcanica, che preme verso l’esplosione, senza però diffondere d’intorno null’altro che i semi dell’amore e del raccolto più fecondo. Era dunque semplicemente ovvio che questi due artisti fondessero reciprocamente le loro nature. Ma Millet era morto; così a poter ricevere fu solo Segantini. Se Millet fosse stato ancora in vita, avrebbe preso altrettanto ovviamente e con altrettanta riconoscenza da Segantini. Quel che i due potevano donarsi l’uno all’altro era, in entrambi i casi, solo un approfondimento, un’interiorizzazione e una chiarificazione della propria essenza innata. Da Millet Segantini non apprese Millet, apprese se stesso. Vedremo nel dettaglio come questo influsso si sia specificamente manifestato. Qui dovevamo sfiorare solo l’aspetto generale del fenomeno. Fu di Vittore Grubicy il merito di aver gettato il seme di Millet nei solchi del campo di Segantini che anelavano a essere fecondati. Ma se non fosse stato lui, avrebbe dovuto essere un altro, poiché la compenetrazione di queste due personalità artistiche era un fatto necessario, predeterminato dal destino. Il merito di Vittore è stato addirittura maggiore in altri campi. Non solo ha messo in contatto diretto l’amico esitante con i movimenti artistici europei, e ha fatto sì che le sue opere trovassero accesso al mercato estero, soprattutto in Olanda e in Belgio. Di 49


Segantini egli è stato soprattutto il critico più scrupoloso, più instancabile e più acuto. Poiché egli aveva riconosciuto con la massima chiarezza la disposizione geniale dell’amico, nutriva il desiderio di vederla anche compiutamente maturare. Perciò era necessario rimproverare con la massima severità e senza riguardo i difetti, mettere a nudo le mancanze, chiarire nel modo più limpido la meta da raggiungere. Se talvolta Vittore è andato troppo oltre in questo suo sforzo, se ha mostrato un’eccessiva ambizione nel suo giocare alla saggia preveggenza decisa a condurre per mano un bambino che procede a tentoni lungo la via di ciò che è giusto e buono: questi sono errori che sarebbero apparsi evidenti solo più tardi, quando l’evoluzione di Segantini sarebbe pervenuta a una più piena maturità. In quel primo periodo, invece, l’artista in lotta poteva solo trarre vantaggio dall’amico intimo, che era al contempo uno spirito egregio e un critico incorruttibile. Nel suo studio sulle fasi evolutive di Segantini, che a dispetto di qualche sua unilateralità è degno della nostra riconoscenza per i suoi approfondimenti, Primo Levi ha pubblicato una lettera di Vittore Grubicy dell’anno 18837, nella quale questi tira all’amico le somme del suo sviluppo fino a quel punto, elencando e confrontando nel modo più chiaro possibile gli elementi all’attivo e al passivo. All’attivo Vittore annovera: il sentimento profondo e finemente poetico, con il quale Segantini anima i propri contenuti; la completa padronanza del disegno, che gli consente di fare tutto quel che vuole; la sensibilità per i fenomeni di superficie (pelle, lana, cortecce d’albero, e così via) e la compiuta restituzione degli stessi in immagine; una fine intuizione per la distribuzione degli equilibri nella composizione. Di contro, al passivo si contano: un modo in qualche modo artificioso di porsi di fronte alla natura, e di conseguenza l’inclinazione a una certa qual maniera: quindi la tendenza a esagerare il carattere di ciò che è naturale e semplice, diventando in tal modo «accademico». Ma sopra ogni cosa Vittore predica incessantemente la necessità che Segantini badi non solo alla composizione e al disegno, ma anche al colore e alla luce, elementi nei quali egli deve maggiormente emulare la natura. I suoi dipinti facevano un effetto migliore, più autentico, nelle fotografie in bianco e nero che non negli originali a colori. I quadri di Segantini sarebbero dunque canzoni, romanze, ma non ancora dipinti moderni saturi di atmosfera. Sarebbe

7 La lettera è riportata in Primo Levi l’Italico, Il primo e il secondo Segantini, in «Rivista d’Italia», anno II, vol. III, fasc. 11°, 15 novembre 1899, pp. 441-471, qui pp. 451-452. 50


invece proprio l’aria, l’«ambiente»8, la base della pittura moderna: la fusione armonica dei toni cromatici contrastanti nella superiore unità della luce. Alcuni di questi rimproveri hanno un che di sconcertante, e tradiscono una certa esagerazione nell’esercizio di un acuto senso critico. Tuttavia non si può totalmente negar loro una qualche legittimità, e l’energico suggerimento riguardante la necessità di intraprendere lo studio dell’aria e della luce era indubitabilmente opportuno. Segantini, che nei suoi primi quadri aveva cercato con tanto fervore di indagare gli effetti luminosi e che era stato un realista intrepido e quasi brutale, pareva voler del tutto abbandonare questi sentieri durante il suo periodo brianzolo. Aveva preso coscienza del fatto di essere stato fino a quel momento un pittore capace, diligente, abile, ma comunque un eclettico, privo di un forte carattere individuale. Così ora quel che gli importava era soprattutto l’esplorazione e l’espressione pittorica della propria interiorità. Perciò si venne a verificare un arresto temporaneo dal punto di vista della tecnica; ma dal punto di vista umano e artistico nel senso più alto Segantini dovette in tal modo guadagnare qualcosa di particolarmente significativo: l’espressione della personalità.’

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Quarto capitolo La poesia dell’oscurità «In questo tempo in Lombardia era appena morto Tranquillo da Cremona, adorato dai giovani e dai modernisti, accanto al quale perdurava Mosè Bianchi di Monza. Dalla scuola di Brera uscivano tavolozze piene di speranza, che potevano far presagire un vero rinascimento Lombardo nell’arte del dipingere. […] Io guardavo questo movimento senza prenderne parte. I primi dipingevano per dipingere, senza occuparsi d’altro; gli altri non m’interessavano da nessun lato. Mi ritirai ed entrai fra i colli ed i laghi della bella Brianza, persuaso che l’arte del dipingere non poteva essere limitata al colore, per il colore in se stesso, ma che esso potesse essere, sapientemente adoperato, una fonte espressiva di sensazioni d’amore, di dolore o di piacere. Giunto in Brianza, non mi misi però a studiare queste mie idee sull’armonia espressiva della colorazione, ma tentai di riprodurre dei sentimenti che provavo, specialmente nelle ore della sera, dopo il tramonto, quando il mio animo si disponeva a soavi melanconie»9. Con queste parole, rivolte allo scrittore Domenico Tumiati, lo stesso Segantini ha efficacemente descritto il carattere pittorico del proprio periodo brianzolo. È interessante che questo artista, che nelle opere della sua fase più matura era particolarmente ammirato dai colleghi proprio per la sua tecnica perfetta, abbia conosciuto un’epoca in cui non voleva saperne nulla di questioni tecniche, poiché gli apparivano vuote e prive di senso a confronto della vita umana colta come puro sentire. E tuttavia non si deve trascurare il fatto che questo era un periodo di transizione, e che l’apice dell’artista fu raggiunto solo una volta ottenuto l’equilibrio tra la vita senti-

9 Giovanni Segantini, lettera a Domenico Tumiati da Maloja, 29 maggio 1898; in Id. Scritti e lettere, cit., pp. 102-103. 52


mentale che premeva dall’interno e la necessità esteriore di compiutezza artigianale. Sarebbe anche del tutto errato ipotizzare che il periodo brianzolo sia stato privo di significato per lo sviluppo pittorico di Segantini. Al contrario, se non tanto dal punto di vista coloristico, gli ha dato occasione di imparare molto riguardo alla composizione e al disegno. E proprio questo è il punto nel quale si inserisce fruttuosamente l’influenza di Millet. Oltre all’artista francese hanno esercitato un loro effetto chiarificatore e stimolante anche alcuni pittori olandesi come Israëls, Maris e più tardi Mauve. All’inizio del periodo trascorso in Brianza Segantini dipinge un piccolo quadro intitolato La collina delle anitre, ancora privo di qualsivoglia traccia della presenza di Millet. Si tratta di una burlesca scena rustica, concepita in modo leggiadro, dal carattere inequivocabilmente italiano, come forse poteva dipingerla allora un giovane milanese. Si tratta di un brano di natura riprodotto in modo appropriato e diligente, nel quale non risuona nulla che provenga dal segreto influsso dell’arte. Come mai? Perché gli manca la finezza delle corrispondenze ritmiche, l’armonico accordo fra le parti. Il dipinto non ha un baricentro. A destra, sospinta di lato, si trova una coppia di innamorati che scherzano a ridosso di una staccionata, piuttosto impulsivi e sregolati nei movimenti. A sinistra, in primo piano, vediamo una coppia di anatre vicino a una cesta, con una schiera di anatroccoli. Il centro del quadro risulta vuoto. Si vede, sì, sullo sfondo una piccola porzione di paesaggio lacustre, ma insignificante com’è non offre davvero attrattiva alcuna all’occhio, che di conseguenza non fa che vagare qua e là nell’immagine alla ricerca di un punto fermo, senza mai trovarlo. A tal riguardo, si confronti questo quadro con una scena amorosa, sempre di ambientazione rurale, non di molto successiva, però dipinta già dopo che Segantini aveva fatto la conoscenza delle opere di Millet. A un primo sguardo si capisce che nel suo insieme il dipinto è stato attentamente soppesato dal punto di vista ritmico. Le linee non errano arbitrariamente per ogni dove, ma si dispongono in un ordine armonico, in modo da formare un tutto in sé concluso, nonostante le audaci sovrapposizioni e i sottili contrasti. Lo stesso può dirsi della distribuzione delle luci. Quattro figure costituiscono un gruppo piramidale: al centro si erge una giovane pastorella, che canta trasognata dispiegando in orizzontale dietro le spalle il suo bastone; a sinistra siede ai suoi piedi un pastorello, soffiando nel suo flauto di Pan; a destra si sono riunite due grandi pecore bianche, delle quali l’una bruca l’erba, l’altra allunga il capo verso la fanciulla. Il tutto risulta, nella sua semplicità, perfettamente naturale, affatto artificioso. La disposizione piramidale non è di quelle che disturbano. Fini irregolarità astutamente 53


congegnate dissimulano il rigore della costruzione. La fitta vegetazione sullo sfondo, che impedisce ogni ulteriore veduta, induce a concentrare subito lo sguardo sul gruppo, che ora sembra esercitare i propri effetti esclusivamente grazie alla sua atmosfera spirituale. E appunto questo era lo scopo dell’artista: la disposizione spaziale, nella sua quieta bellezza, deve servire a diffondere e a far risuonare pienamente l’elemento spirituale. È un mezzo che l’artista impiega per rivestire di una forma suggestiva il contenuto lirico-poetico della propria opera. Anche in questo caso Segantini entra in contatto con Millet: ma nel suo recesso più intimo. Poiché non si trattava di qualcosa che potesse «imparare» da altri. Guardare Millet poteva al massimo risvegliare in lui la piena consapevolezza di un proprio possesso che ancora sonnecchiava nel suo animo. Questo vale in misura ancora maggiore per la scelta del soggetto. Se Segantini, come Millet, ha fissato pittoricamente la vita della popolazione rurale, interpretandone poeticamente la natura con una resa intimamente fedele; se egli per di più la illumina con il proprio rispetto, come se si disponesse a una forma di devozione religiosa, sarebbe una follia credere che egli potesse aver attinto tutto ciò altrimenti che non dalla natura che lo circondava e dal suo proprio animo che vi reagiva. Che cosa mai avrebbe potuto offrirgli qui Millet se non una semplice indicazione? E questa indicazione Millet l’aveva da lungo tempo offerta al mondo intero. Ma solo pochi eletti avevano saputo agire di conseguenza, perché chiunque lo avesse voluto fare avrebbe dovuto trarre da se stesso il meglio. E fra quei pochi non ve n’era nessuno che si fosse abbeverato così intensamente alla fonte della devozione artistica e della forza creatrice come Segantini. Dunque, lo ripetiamo qui ancora una volta: egli non aveva trovato «Millet», aveva trovato se stesso. La cosa più importante, e in certa misura l’unica, che Segantini aveva appreso da Millet era il ritmo artistico della disposizione spaziale, quel che gli italiani chiamano «il taglio del quadro»10. Ma anche in questo caso la sensibilità naturale gioca un ruolo tale che si potrebbe ben parlare di un dono innato. Con sorprendente leggerezza, persino con un’ovvietà che agisce come istinto, da quel momento in avanti Segantini padroneggiò la difficile arte di disporre le proprie figure all’interno della cornice, in modo tale da produrre insieme alla più alta e più diretta verità naturale anche un complessivo effetto estetico e decorativo: un’arte nella quale era eguagliato, oltre che da Millet, solo

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da Israëls e da Liebermann, forse da Raffaëlli (Degas e compagni stanno su un piano diverso). Proprio qui si vede come la natura venga elevata ad arte. In questo senso, già Dürer sosteneva che l’arte è nascosta nella natura; occorre solo capire come estrarla11. Il contrasto fra le due potenze è però questo: la natura è disordinata, mentre l’arte è ritmica. Chi è capace di soggiogare la natura tramite il ritmo – come un gesto di Sigfrido contro Brunilde –, quello è un artista. Di pari passo con questo dominio appena raggiunto sul ritmo si avverte nel carattere della figurazione di Segantini un congedo sempre più marcato dal modo di rappresentare specificamente italiano, e una sempre maggiore affinità con le modalità proprie della sensibilità nordica. I suoi dipinti perdono quel tratto chiassoso e gesticolante, anche se abilmente raffigurato, tipico di certa moderna pittura italiana; diventano più quieti, più seri, più trattenuti. Spesso cala su di essi come una sorta di mutismo pesante e melanconico. I gesti vengono limitati all’espressione più scarna e più semplice. Le chiacchiere e le risate sono quasi totalmente bandite. Nella resa cromatica viene evitato qualsivoglia tono acceso, e durante il periodo brianzolo questa tendenza si approfondisce a tal punto che anche la luminosità dei colori comincia ad affievolirsi. Segantini diventa un pittore delle tonalità scure. Nel buio egli avverte quello che chiama «il profondo»12: la forza mistica e la poesia. Questa evoluzione si compie certo non senza eccezioni, però con grande costanza ed energia. La maniera italiana ricompare ancora solo di tanto in tanto, e solo nei primi quadri, ad esempio quando dipinge la propria «famiglia» e mette la sua sposa bionda e tranquilla con il suo bambino in contrasto con un’amica piena di temperamento, con occhi e denti balenanti e ricci capelli neri. Oppure quando raffigura una compagnia di pastori e fanciulle presso una fonte, una situazione che non potrebbe svolgersi senza chiacchiere. O ancora quando dipinge una lieta scena cortese: delle donne ridenti che si fanno suonare un motivo da due zampognari; per intensificare ancor di più il casuale carattere di genere della scena, Segantini aggiunge un bambino in una cesta, una gallina con i suoi pulcini, e una mucca che se ne sta indifferente a strappar il foraggio dalla greppia. E tuttavia, in modo sempre più mirato, l’artista cerca di difendersi da simili

11 «Perché davvero l’arte sta nascosta nella natura, e chi riesce a estrarla, la possiede» (Albrecht Dürer, Quattro libri sulle proporzioni umane (1528), ed. it. a cura di Giuditta Moly Feo, BUP, Bologna 2007, p. 397). 12 In italiano nel testo. 55


tentazioni offerte da situazioni casuali da lui effettivamente osservate o da modelli disponibili, per diventare sotto ogni rispetto il signore e il vero creatore dei suoi dipinti. Alcune opere esibiscono un carattere di transizione, oppure si allontanano nel soggetto dall’ambito dei motivi abituali. Così, tanto per fare un esempio del contrasto fra l’«allora» e l’«adesso» della sua pittura, Segantini raffigurò la confusione di un moderno atelier e come controcanto un Frate Angelico mentre dipinge in ginocchio una Madonna. Quest’ultimo quadro è dipinto con un atteggiamento di sorprendente intimità, e nel modo in cui l’artista fa risaltare grandi ombre, quasi grottesche, di contro alla luce – così da produrre un effetto persino solenne – già si dà a vedere il maestro maturo del gioco di linee gestito in maniera contrappuntistica. Per ragioni differenti va qui menzionata invece l’opera intitolata Pastore innamorato: nel carattere in sé conchiuso della composizione e nel trattamento del paesaggio e degli elementi accessori già si rivela il magistero di Millet, ma le figure hanno ancora un che di aneddotico. Un sentimentale pastorello che se ne sta accovacciato viene canzonato da due fanciulle rotondette; almeno una delle due contadinotte, per tipo e postura, mostra una verve caratteristicamente italiana. Eppure il dipinto nel suo effetto complessivo ha un che di poetico, e di fronte a questa e ad altre simili immagini ci si può tranquillamente ricordare che anche il giovane Böcklin si era lasciato volentieri sedurre da temi affini. In effetti il periodo brianzolo di Segantini ha una qualche intima parentela con la produzione böckliniana, parentela che, come abbiamo appena visto, si estende fino a comprendere i soggetti, per quanto gli ambiti del «fantastico» e della «pittura di povera gente» possano apparentemente sembrare lontanissimi l’uno dall’altro. Ma soprattutto quel che va osservato è un affine rapporto nei confronti della natura, un impulso simile a lasciarsi fecondare dall’interno verso l’esterno. Notoriamente Böcklin non ha mai dipinto en plein air, e raramente ha impiegato dei modelli. Possedeva la meravigliosa capacità di suggere dentro di sé le forme naturali e quelle umane con una forza tale che esse finivano per rimanere a sua libera disposizione, così che egli poteva trattarle a suo piacimento. Faceva poi ricorso a questa capacità per richiamare alla vita e dare corpo ai sogni del suo mondo interiore. In questo periodo possiamo cogliere pressoché il medesimo processo in Segantini. Anche lui allora non usciva all’aperto per dipingere di fronte alla natura. I molti quadri risalenti a quest’epoca sono piuttosto nati nello studio. Egli però rimaneva «come essere umano» in costante contatto con la natura, nutrendo così in sé un profondo sentimento per essa. Ciò corrispondeva alla sua convinzione, in virtù della quale egli doveva emanciparsi da un esercizio meramente artigianale della 56


pittura, al fine di elevare la propria arte all’espressione dei moti dell’animo. Se su questa via Segantini riuscì provvisoriamente a diventare un asceta del colore, questo era un punto rispetto al quale egli si distingueva nella maniera più decisa dal dionisiaco Arnold Böcklin, pittore sensuale e gaudente. La produttività segantiniana era in quegli anni possente. Le idee sgorgavano in abbondanza dal suo animo, assumendo una forma artistica. A venire raffigurata era l’esistenza originaria e sempiterna dell’umanità, nella sua primitiva dipendenza dalla natura: la vita condivisa con gli elementi naturali; la lotta tra l’uomo e la natura; i miseri doni da questa elargiti; le sofferenze e le sopportazioni patite sotto il suo dominio; le gioie esigue: infine, il tentativo dell’uomo, goffo e balbettante, di innalzarsi al di sopra della natura stessa tramite la religione. Sarebbe difficile istituire una vera e propria «evoluzione» all’interno di questa catena: essa mostrerebbe sempre e comunque un che di artificioso. Ci sia pertanto concesso di prendere in considerazione i risultati di questo diligente lavoro, ordinandoli secondo gruppi tematici. Questi dipinti si susseguono gli uni agli altri come i movimenti di una sinfonia pastorale che si dispieghi in tutta la sua ampiezza. Risalente al primissimo periodo, troviamo un incantevole quadretto intitolato Piccole pecore. Un gregge di bianchi agnelli risale al crepuscolo per una conca valliva grigia e stretta, dirigendosi verso un villaggio che si intravede scuro sullo sfondo. Dietro alle bestie incede lentamente una donna che porta un’alta gerla appuntita verso il basso. Sulle schiene degli agnelli si diffonde una debole luce. Si crede di sentirli belare delicatamente mentre, obbedienti e graziosi, avanzano a piccoli passi. Un’altra opera ci mostra il gregge mentre viene ricondotto all’ovile: qui si tratta già di pecore più grandi, che sono state tutto il giorno a brucare sui prati, e che ora rientrano stanche nel ricovero. La giovane pastorella cammina chinando il capo sopra il gregge, come se fosse già mezza addormentata. L’ovile è già stato raggiunto, e le bestie premono contro la porta; rami d’alberi contorti si dispiegano sopra di esse. Ancora un gregge di pecore in movimento: questa volta è notte, ma è più chiaro che non nelle ore serali del crepuscolo. Splende la luna, proiettando le lunghe ombre delle pecore e del pastore verso la parte anteriore del quadro. È appunto questo l’effetto che aveva sollecitato il pittore: il modo in cui quelle lunghe ombre, avvolte in un bagliore blu argenteo, si muovono davanti al gregge, dando l’impressione di un’inquietante doppia vita. Una timida reminiscenza di simbolismo impregna il bel dipinto intitolato Le due madri. Di nuovo è sera, di nuovo si ritorna a casa. Ma non c’è nessun gregge da vedere, solo una mamma pecora che cammina lungo la strada col suo 57


agnellino, accompagnata da una mamma umana che porta in braccio il suo bambino addormentato. Una piana monotona si distende in dolci ondulazioni lineari attorno al gruppo. La casupola verso la quale si dirigono spossati è già vicina. Due magri alberelli risaltano con il loro scarso fogliame sul cielo pallido. Questo è uno dei dipinti più riusciti del periodo brianzolo. È totalmente immerso nell’atmosfera di Millet e dei maestri olandesi, e tuttavia appare pienamente generato dalla vita interiore di Segantini. L’artista qui ha sfiorato per la prima volta un tono che sarebbe poi risuonato come un tocco di campana lungo l’arco di tutta la sua opera successiva, un suono di campane serio e profondo: il vangelo della maternità. E anche se le scarpe pesanti e le cuffie di lino bianche di queste giovani madri risvegliano in noi reminiscenze olandesi; se anche il «taglio» dell’immagine, così semplice e felice, ci induce involontariamente a pensare a Millet, l’opera è tuttavia in tutto e per tutto un autentico Segantini, che esibisce proprio qui apertamente le proprie affinità elettive con quei maestri nordici. Vicino per contenuto sentimentale è il dipinto Uno di più. La giovane pastorella sta in mezzo al suo gregge, riparandosi dalla pioggia scrosciante sotto un grande ombrello blu: ha preso in braccio, per proteggerlo, un agnellino appena nato. La grande mamma pecora sopraggiunge ansiosa belando, allungando amorevole il capo verso il proprio cucciolo. Il primitivo sentimento materno animale è stato qui raffigurato dal pittore in modo particolarmente intenso e intimo. Come un inno, sommesso ma limpido, esso si propaga per tutto il grazioso quadretto. In questo periodo Segantini si impegna sporadicamente come pittore di cavalli. Uno schizzo della prima fase, steso a colori leggeri, ci mostra un contadino nudo fino ai pantaloni alla zuava, mentre cavalca un pesante cavallo bianco conducendolo al guazzatoio. Questo studio sarebbe stato successivamente posto alla base del grande dipinto Al guado: un paesaggio fluviale, di sera, in cui ci vengono incontro nelle loro alte silhouettes i cavalli, incedendo lentamente nell’acqua. Nei suoi quadri pastorali – come ad esempio nei già menzionati Pastore innamorato e Pastorella che canta – Segantini ha volentieri raffigurato anche la quiete. Egli ha anche dipinto un giovane pastore che si è appisolato accoccolandosi sotto le sue pecore, sprofondato in un sonno infantile. Uno dei dipinti più suggestivi di questa specie è però La pastorella sognante. Un profumo squisito aleggia sul tono crepuscolare di questa poesia dipinta. In primo piano si vedono gli ampi dorsi delle pecore al pascolo, come irraggiate da una bluastra luce lunare. Più sopra, seduta su una bassa protuberanza della collina, disegnata in una silhouette leggiadra che risalta di contro al cielo dipinto 58


in colori delicati, una giovanissima ragazza, povera e incantevole, un esserino magro e innocente, che reclina leggermente il capo sulla spalla, semiaddormentata nel suo rapimento onirico. In un tono di attraente spensieratezza è raffigurata un’altra pastorella che, distesa comodamente sulla schiena, con la bacchetta dispiegata dietro le scapole, si riposa sul prato e fra le frasche. Mentre il gregge è intento a brucare sullo sfondo, lei giace immersa nei suoi sogni a occhi aperti, e con le labbra appena dischiuse sembra canticchiare sommessamente una canzoncina. L’unica macchia di colore chiaro nel complesso opaco è data dal bustino rosso della ragazza, come se questa tonalità più vivace volesse rivelarci la condizione del cuore che vi batte al di sotto. È significativo che Segantini abbia impiegato la medesima figura, solo più vicina al sonno, anche per un altro quadro, nel quale ha voluto aggiungere la presenza dell’innamorato, però dai tratti esplicitamente innocui: un pastorello ingenuo e goffo, che siede dietro la testa della fanciulla sul bordo della strada, e soffia devoto nel suo piffero, mentre gli agnelli brucano non importa dove. L’incantevole dipinto Amore sui monti fa l’effetto di una novella giovanile di Tolstoj. Una raffigurazione così casta, così intima, così ardente di pura fiamma, e al contempo perfetta nella sua composizione artistica: di sera, quando la strada che conduce al villaggio è già deserta, la ragazza si è recata alla fontana per abbeverare le sue pecore. Qui l’ha raggiunta il ragazzo, e si è messo a parlare con lei, riuscendo a pronunciare solo frasi goffe e spezzettate, sostanzialmente prive di senso. Ma ciononostante la fanciulla ha compreso benissimo. Respirando lievemente, il capo reclinato, ha ascoltato attentamente ogni singolo suono, senza mai replicare. Già da un po’ l’acqua trabocca oltre l’orlo del suo secchio. Improvvisamente, come risvegliandosi, e però come prima (e forse ancor più di prima) rapita in una lieve e leggiadra ebbrezza, la ragazza afferra il secchio e fa per andarsene. Allora lui la segue, la cinge dolcemente ma con decisione alle spalle, china il capo verso di lei, e la bacia sulla guancia. Ora lei arrossisce, e involontariamente distoglie il proprio volto da lui, come se volesse tenergli il broncio. Eppure noi lo vediamo, questo viso, come sorride pacato, timido e felice; un raggio colmo di promesse è comparso nei suoi occhi aperti, a significare la più intima concessione… È questa la favola di tale dipinto. Favola che l’artista ha rivestito di un motivo pittorico meraviglioso. Si noti come la linea dell’orizzonte suddivida il campo dell’immagine in due aree quasi uguali, e come su quell’orizzonte sia finissimamente articolata la linea di contorno che delinea la coppia degli innamorati e il profilo delle case, apportando movimento e cambiamento in tale rigida bipartizione. Si osservi come la coppia sia felicemente collocata al centro del dipinto, eppure non 59


nel punto mediano esatto, in modo da evitare, grazie a una raffinata sensibilità per i rapporti spaziali, ogni effetto di irrigidimento. Anche il gregge di pecore si subordina, sì, alla composizione, conservando però una propria disposizione autonoma, e rivelando così di essere il risultato di una riflessione artistica pienamente consapevole. Per questi motivi tale dipinto appartiene alle creazioni più riuscite del periodo brianzolo di Segantini. Fra le opere migliori di quest’epoca sono da annoverare anche due dipinti fra loro molto simili: il primo rappresenta un temporale sulle Alpi, il secondo il momento subito successivo. In entrambi i quadri si vede lo stesso altopiano lievemente ondulato: sulla destra si trova sospinto il gregge, vicino alla pastorella intirizzita, in cielo campeggia una grossa nuvolaglia scura. Nel primo quadro le nuvole si scaricano e la pioggia scroscia abbondante, costringendo la pastorella ad aprire il proprio ombrello. Sul terreno si formano numerose pozzanghere, che si riversano le une nelle altre formando una rete di rivoli. Ma sopra le pecore il cielo comincia già a schiarirsi. Nell’altro quadro in questo punto si trova invece lo strato più scuro di nuvole, mentre la luce irrompe dalla parte opposta. Così nella medesima composizione si produce un effetto luminoso totalmente differente, che comporta una differenza ben maggiore di quanto non implichi quel piccolo tratto di pittura di genere rappresentato dall’ombrello portato sottobraccio dalla fanciulla. In entrambe queste opere risuona un elemento che rimanda all’epica delle forze naturali. Ma l’artista ha raffigurato anche in altri suoi dipinti, e in maniera ancor più approfondita, quel che della vita naturale ci si fa innanzi come bisogno e calamità, come tribolazione e dolore. Ci presenta, ad esempio, una raccoglitrice di sterpi e ramaglie, che avanza faticosamente sotto il peso della fascina. Il motivo è declinato in modo persino più toccante nel grande quadro L’ultima fatica del giorno. Con passi incerti incede un vecchio montanaro, costretto sotto il suo carico opprimente, discendendo faticosamente il pendio petroso. Si vede chiaramente come ogni singolo passo gli risulti difficile da eseguire, e si capisce che tutta la vita di questo pover’uomo era parimenti faticosa, a salire e scendere per le montagne sempre piegato sotto i suoi carichi, senza potersi raddrizzare pena la perdita di equilibrio. Anche i colori sono stati qui impiegati nei loro toni più cupi, per ottenere un effetto simbolico. Il vecchio, infreddolito e ingobbito sotto il suo pesante carico di fascine, con le pecore al seguito, risalta come una figura umbratile sul cielo serotino leggermente rischiarato, che procede gradualmente da un delicato giallo pallido verso il verde bluastro per concludersi nel cupo grigio-blu. 60


Immerse nei loro toni grigi brunastri e giallastri, opache e scarsamente illuminate, le figure si stagliano contro questa luce fioca, e sotto di esse si estende il pascolo digradante, nei colori che vanno dal grigio-verde fino al nero. Un’intera sinfonia eseguita con una gamma di grigi spenti. Quasi nero è il dipinto che ci mostra una madre afflitta, che si preme contro la faccia le mani magre dalle nocche sporgenti, singhiozzando davanti a una culla vuota. L’estrema povertà della stanza nuda e buia è spaventosa; nulla tuttavia di paragonabile a quel dolore angosciante e inconsolabile. L’assolutezza del sentimento conferisce a questo dipinto al contempo il suo pungolo peculiare e la sua grandezza. È mezzanotte nel quadro che ci presenta due figure solitarie nella stanza buia: una madre seduta col proprio figlio (il padre è morto), ombre profonde si allungano nel piccolo vano. Fuori brilla la luce delle stelle, ma attraverso la finestra in quell’ambiente triste entra solo un pauroso bagliore. Sotto il piccolo paiolo, che pende da una catena appesa al soffitto, arde debolmente un rosso fuocherello. La giovane madre siede su una sedia davanti al fuoco, tiene in grembo il suo bambino abbracciandolo, e si china sopra di lui con infinita, profonda tristezza. Il piccolo sembra si sia addormentato, e nemmeno la madre, mentre sfiora con le labbra i suoi capelli, è ormai del tutto sveglia. Si è sfinita a forza di piangere, e ora è subentrata quell’esaustione nella quale l’anima malata cerca esitante un poco di riposo. Questa immagine – da Segantini ripetutamente dipinta in numerose varianti che si discostano lievemente l’una dall’altra – ci incanta con la sua quieta potenza, che si fonda sulla forza della sua composizione compatta. Con i loro contorni delicatamente arrotondati, madre e figlio si stagliano di contro alla finestra debolmente illuminata, e questa lieve figura umbratile corrisponde a una forma luminosa, altrettanto delicata, che si diffonde in un chiaro bagliore attorno al piccolo fuoco rosso. La forma luminosa sprofonda verso il basso, mentre la figura umbratile si leva verso l’alto: si genera così una corrispondenza ricca di relazioni, seminascosta e financo pregna di valore ornamentale nella sua discrezione. È su questa moderata distribuzione delle masse che si basa l’effetto artistico del dipinto, che sopprime intenzionalmente la definizione delle singole figure al fine di ottenere un’ampia e morbida armonia atmosferica. Per esseri umani di tal fatta sussiste un’unica possibilità di fuga dalle costrizioni e dalle miserie dell’esistenza: la religione. Qui l’anima angosciata, consentendosi di abbandonarsi e sfogarsi totalmente, può trovare consolazione e sollievo; il dischiudersi di immaginari mondi ultraterreni le dona la possibilità di elevarsi. Per i nostri morti: così si intitola un’opera che si radica nelle profondità di tali sentimenti. Con il capo reclinato 61


fino a toccare terra, una giovane donna sconvolta dal dolore rivolge tutta la propria devozione alla croce. Nella completa prostrazione del corpo l’anima si libera e si lascia innalzare dalla misericordia divina, che la colma con un dolce brivido. Da queste estasi ci allontana dolcemente un altro dipinto, che pure è apparentato a quello appena descritto. L’amore per la croce si esprime qui in modo toccante e semplicissimo. Mentre le sue pecore se ne stanno pazienti d’intorno, una pastorella di circa quattordici anni solleva il suo fratellino verso la croce; il piccolo, tenendosi con entrambe le braccine, imprime un bacio sul corpo del Redentore. La scena è restituita con una sensibilità talmente semplice e autentica, è espressa con un’arte così elegante e al contempo ingenua, che subito viene da accogliere nel proprio cuore l’amabile quadretto. Persino più semplice e più potente appare l’Ave Maria sui monti, solo che qui si deve forse pensare proprio a un’eccessiva presenza di Millet. L’Angelus risuona dalla valle su per i solitari pascoli montani. La giovane contadinella, che cammina scendendo per la valle con la sua pecora, si ferma, incrocia le mani sotto al petto, china leggermente il capo e invoca silenziosamente con la sua preghiera la Madre di Dio. Il valore del quadro è assicurato dal fine gusto artistico in virtù del quale un essere umano e un animale sono collocati come figure scure sulla superficie di un chiaro luogo deserto. Un carattere più particolare è offerto dalla Ave Maria a trasbordo, un dipinto ancora risalente al periodo di Pusiano, che però è andato distrutto nella sua versione originaria. Qualche anno più tardi, ulteriormente maturato nella sua arte, Segantini ha ripreso questo felice motivo, conferendogli una pregnante definizione. Discuteremo di quest’opera nella sede opportuna: essa comunque rimane, quanto alla natura della sua concezione, un autentico prodotto del periodo brianzolo. Segantini, che si sentiva al di fuori di qualsivoglia comunità religiosa, ha raramente raffigurato atti esplicitamente ecclesiastici. Ciononostante, il quadro intitolato La benedizione delle pecore merita indubbiamente di venire qui menzionato, anche solo per il fatto che l’artista lo ha ripetutamente dipinto, ora in formato verticale ora in formato orizzontale. Tale rito suole aver luogo il giorno di San Sebastiano: la mandria si raccoglie davanti alla chiesa, e un prete la benedice, per proteggerla dalle malattie. Segantini ha senza dubbio visto in questa cerimonia un fenomeno caratteristico e peculiare della vita pastorale, e perciò non ha voluto lasciarsi sfuggire questo motivo, sfruttandolo anche sotto il profilo pittorico. Ha intensificato l’effetto della scena collocando il sacerdote con i suoi chierichetti (dei quali uno gli regge il pesante benedizionale) su una ripida e ampia scalinata. In tal modo le figure umane risaltano come gruppo in sé conchiuso di contro al gruppo delle pecore e dei 62


pastori che si trova sotto di esse, e si stagliano come un corpo scuro sullo sfondo chiaro dell’orizzonte, producendo un interessante effetto ornamentale. Ma è soprattutto la scalinata a costituire una novitĂ per Segantini: un elemento spaziale che non aveva ancora raffigurato. E sembra proprio che tale elemento fosse destinato a condurlo verso nuove rappresentazioni spaziali, che però si accompagnavano al maturare in lui di problemi inediti e di mete che fino ad allora il suo lavoro non aveva ancora presagito.

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Quinto capitolo La poesia dello spazio e della luce Se gettiamo uno sguardo complessivo all’insieme delle opere fin qui analizzate risalenti al periodo brianzolo di Segantini, ci si presenta la seguente considerazione: esse rappresentano l’espressione e il dispiegamento della sua arte nel contesto di un determinato ambito tematico, ma non contengono pressoché alcun significativo nucleo evolutivo. Se Segantini avesse voluto procedere ancora per un paio di anni nella direzione a quel tempo imboccata, sarebbe necessariamente dovuto pervenire a un punto morto, nel quale non gli sarebbe rimasto altro da fare che copiare se stesso. All’epoca era più un romantico che un realista. Dipingeva, sì, la vita della natura, ma come pittore non aveva sistematicamente indagato la natura stessa. Le si poneva di fronte come poeta, e come tale evitava di assumere un atteggiamento analitico. Creava esclusivamente a partire dalla sintesi: certamente il massimo che si possa dare in arte, a patto che vi sia dietro un’analisi adeguata! In Segantini la sintesi era insolitamente pura, potente e feconda. Ma la sua carenza di una concezione della natura in grado di penetrarla analiticamente si avvertiva in misura sempre più evidente. Era già sospetto il fatto che avesse cominciato a trascurare le forme fenomeniche della natura nell’ambito dei colori; in più, anche nella resa delle figure iniziava a farsi notare un certo arrotondamento stilizzante, che talora faceva violenza all’aspra freschezza e al carattere ruvido del mondo naturale. Se voleva procedere nel proprio sviluppo, Segantini doveva impostare un rinnovato lavoro di studio diretto degli oggetti. A tal fine non aveva certamente bisogno di negare né il poeta né il romantico che albergavano in lui; a entrambi questi lati della sua personalità doveva però conferire più solidità, e un maggiore radicamento in profondità. E diventare più autonomo come pittore. Nella lotta per conseguire un’adeguata espressione della natura e una corretta restituzione di quel che osservava, egli doveva cercare di migliorare, promuovere e raffinare i pro64


pri mezzi figurativi. Da questa tensione che coinvolgeva tutte le sue forze avrebbe poi tratto un significativo vantaggio anche come uomo. Anche in questo la natura si rivela essere una meravigliosa fonte di energia: a colui che le si avvicina essa dona non solo la pienezza delle sue manifestazioni esteriori, ma gli infonde altresì una rinnovata vitalità interiore. E mentre ci si inchina alla natura, apparentemente sacrificando la propria personalità, si riceve al contrario come premio un rafforzamento imprevisto del proprio carattere più peculiare. Alla lunga Segantini non poteva certamente continuare a dissimulare tali pensieri. Dopo aver passato circa quattro anni in Brianza a lavorare in tutta libertà, apparentemente tranquillo e soddisfatto, producendo un quadro dopo l’altro, indulgendo sereno nelle profondità del proprio animo, vediamo a poco a poco annunciarsi in lui un’inquietudine, una sorta di nuovo fermento giovanile. Quel che fa non lo soddisfa più, e nuove mete gli si presentano, per le quali però ancora non conosce le strade da imboccare. In parte ciò si è sicuramente compiuto in lui in modo puramente interiore, a partire da un oscuro sentimento di esaurimento incipiente, da una ribollente aspirazione ad attingere a nuove fonti di energia. In parte però sono stati anche gli incessanti tentativi di scavo intrapresi dall’esperto Vittore, che incalzava criticamente l’amico, a smuovere opportunamente il terreno affinché fosse pronto per ricevere una nuova fecondazione. In breve: dopo un periodo contrassegnato da un’espressione della propria arte libera da qualsivoglia vincolo, comincia ora una nuova fase di lavoro assiduo. Il risultato consisterà in una rapida e radicale trasformazione della fisionomia delle opere di Segantini, che inaugurerà una nuova e sorprendente epoca della sua creatività. Seguiamo ora la strada che lo ha condotto fino a quella meta… Dobbiamo però preliminarmente menzionare un sintomo all’apparenza insignificante. In Brianza Segantini ha dipinto quasi esclusivamente quadri di formato ridotto, privilegiando di norma il formato verticale. Ora invece – si trova ancora a Corneno – impiega grandi tele, e per di più di formato accentuatamente orizzontale. Disponendosi a studiare il gioco della luce nel suo dispiegarsi su sfondi naturali ampi e profondi, l’artista si sente involontariamente costretto a optare per il cambio di formato. Per quanto riguarda i soggetti, egli incomincia nel modo più semplice possibile: il primo quadro che dipinge per esercitarsi nel suo nuovo approccio alla visione delle cose è in fondo nient’altro che una scalinata che si apre in larghezza. Non fa dunque che riprendere quel motivo che aveva per la prima volta trattato nel dipinto La benedizione delle 65


pecore. Ma, mentre in quel caso era stato poco più che un motivo casuale, qui esso viene assunto in piena consapevolezza come l’elemento principale. Un’altra volta Segantini ha scelto la scalinata di una chiesa, delimitata da parapetti arrotondati convergenti verso l’alto, che conduce non direttamente alla chiesa (spostata di lato), ma a un ampio spiazzo. Si ottiene così il vantaggio di ampliare maggiormente il senso dello spazio. Oltre la scalinata non vi è altro che cielo aperto, nel quale si ritagliano soltanto i profili diseguali dei due parapetti e, sulla sinistra, una porzione fortemente scorciata della facciata barocca della chiesa. In questo modo, dietro la scalinata si dischiude uno spazio apparentemente illimitato, nel quale la fantasia può immaginare l’infinito. Per l’artista, invece, in tale spazio non si presenta altro che il lieve movimento della luce che spunta delicatamente oltre il bordo superiore: la luce del primo mattino, ancora parzialmente prigioniera dell’incantesimo della notte, al cospetto della quale tuttavia una bianca luna piena già impallidisce quasi fosse un fantasma. Anche in questo caso subentra una novità: il pittore del crepuscolo serotino e della notte che cala si sente incline all’ora che precede il sorgere del sole, e osserva la luce non mentre svanisce, bensì mentre compare. Dietro la scalinata essa affiora esitante, quasi come fosse nient’altro che un pallido presagio sul cielo blu opaco. Ciononostante essa già diffonde il proprio chiarore sugli scalini grigi, i cui bordi luccicano di strisce biancastre, e sul parapetto di sinistra, il cui intonaco trattato a calce e cemento assorbe in sé i timidi raggi. Sopra il parapetto di destra e la parte di scala che esso delimita domina invece ancora l’oscurità, che lentamente si sta ritirando. La scalinata è stata attentamente studiata nella sua struttura e composizione: man mano che si scende i gradini diventano sempre più lunghi e la loro alzata aumenta progressivamente; i loro bordi sono in più punti scheggiati; le asperità del terreno li costringono ad alzarsi ed abbassarsi in modo irregolare; in un punto si è persino formata una gobba che ne disturba l’andamento, coinvolgendone più d’uno nel dissesto che provoca. Tutti questi dettagli ci rivelano uno studio della realtà condotto con uno sguardo curioso, meravigliato e amorevole. Sfumature e casualità non vengono più sdegnosamente messe da parte, bensì accuratamente registrate. Ma l’abitudine esercitata da lungo tempo a sottolineare l’essenziale ha fatto in modo che, nonostante tutti quei dettagli, la grande linea sia stata conservata e abbia potuto imporsi all’occhio con tutta la sua forza. Per questa sua forma la scalinata dipinta è stata un’occasione di studio interessante e preziosa. Ma ora si trattava di ricavarne un «quadro». E ciò poteva riuscire solo ricorrendo a un accessorio adatto, che consentisse di cogliere una ricca rete di rappre66


sentazioni. All’inizio l’artista si è smarrito indulgendo pesantemente nell’aneddotica: ha dipinto infatti una ragazza incinta che, accompagnata da un rozzo cane, scende le scale; all’angolo superiore del parapetto sinistro ha collocato un gruppo di monaci intenti a spettegolare. Ma si trattava di un’idea sbagliata: quanto al soggetto questa rappresentazione ricordava troppo un noto quadro di Michetti, e artisticamente il motivo risultava eccessivamente invadente, finendo per distogliere l’interesse dell’osservatore dall’elemento principale. Segantini allora si decise a cancellare questa scena, e si accontentò di dipingervi al suo posto un abate che sale le scale per recarsi alla messa prima. Questa soluzione può essere ritenuta pienamente soddisfacente: in quel contesto la figura di un ecclesiastico risulta naturale e garbata, persino suggestiva; dal punto di vista puramente pittorico, poi, la sua snella figura nera, che interseca la linea dell’orizzonte in modo finemente calcolato, produce un felice contrasto rispetto tanto al dispiegarsi dello spazio in larghezza, quanto al tono chiaro e pallido della scalinata grigia e del cielo azzurro. In questo modo il quadro ci ha doppiamente guadagnato, e l’originaria intenzione pittorica viene fatta valere insieme con decisione e con discrezione. Segantini fece un passo innanzi nel momento in cui applicò il nuovo metodo anche alla gamma dei suoi precedenti motivi. Un certo numero di dipinti del periodo della tavolozza scura rappresentava scene connesse alla stagione della raccolta, perlopiù in spazi ristretti: più persone sedute per terra, l’una di fianco all’altra, a ispezionare la raccolta delle zucche o a selezionare i bozzoli dei bachi da seta. In modo affine era stato dipinto per due volte anche un vecchio pastore il quale, seduto per terra a gambe divaricate, è intento a tosare la lana di una pecora che si è messo davanti. Quest’ultimo motivo sarebbe stato ripreso da Segantini una volta concepito il grande quadro La tosatura delle pecore. Mentre prima aveva tratto da questo tema solo alcune piccole scene di genere, adesso intendeva ricavarvi il materiale per una grande raffigurazione di valore tipico. Il nostro sguardo si apre su un ampio recinto graticolato: il pittore ha scelto il punto di vista in modo tale che l’osservatore sembra trovarsi sotto al tetto di un capanno lungo e stretto e aperto sul fondo. Il tetto spiove nello spazio dell’immagine con la sua massa scura, che fa tanto più risaltare l’area di colore chiaro. Possiamo gettare lo sguardo su un paesaggio che si apre ampio e sconfinato, sovrastato da un cielo chiaro che inonda di luce la scena fino al piano anteriore del dipinto. (Nel disegno che Segantini realizzò successivamente, e che viene qui pubblicato, lo sfondo è stato modificato: il cielo sembra più cupo, e altri recinti sbarrano parzialmente lo sguardo). Sul davanti 67


si vedono i due tosatori, un ragazzo e una ragazza, entrambi intenti a occuparsi pieni di zelo di una bestia ciascuno. La fanciulla siede esattamente come sedeva il vecchio nel quadro sopra menzionato; il pastorello, appoggiato in tutta tranquillità a un pilastro in mattoni a sezione quadrata, si piega amorevolmente verso la pecora di cui sta tosando la lana. Da dietro lo steccato si fa innanzi il gregge, e una luce diffusa si distende sopra i chiari dorsi lanosi delle pecore. Alcune pecore sono avanzate ormai a ridosso della staccionata, e allungano il capo oltre le assi, come se premessero per sottoporsi anch’esse subito alla pratica della tosatura. Segantini ha particolarmente prediletto simili tratti, che alludono evidentemente a una coappartenenza spirituale di fondo che accomuna uomini e animali. Questo quadro segna il pieno superamento del metodo che l’artista aveva fino ad allora adottato. Era ormai aperta la via per nuove e maggiori realizzazioni. Il pittore aveva in certa misura provato a se stesso che era possibile congiungere le tonalità chiare e l’intensità della luce con la dimensione di una nobile interiorità e una concezione altamente poetica, conciliandole sul terreno della semplice verità naturale. Ora però bisognava procedere. Nei due quadri appena ricordati la visione dello spazio appariva ancora limitata: doveva essere ampliata e approfondita, cosa che poteva riuscire solo ponendosi di fronte alla natura stessa. Occorreva cercare un luogo che riunisse in sé l’ampiezza della veduta con la chiarezza dell’aria delle vette. Segantini credette di aver trovato un luogo siffatto a Caglio, paese collocato sopra la Valassina, più o meno a metà strada fra Erba e Bellagio. Si tratta di un nido fra i monti, elevato e solitario, nel territorio delle Prealpi, con ampi pascoli incorniciati da catene montuose. Il posto sembrava proprio adatto agli scopi di Segantini, ed egli infatti vi trascorse circa sei mesi, a cavallo fra il 1885 e il 1886. Qui egli dipinse un solo quadro, con il quale però riuscì a sorpassare d’un colpo tutta la sua produzione precedente: si tratta del dipinto colossale Alla stanga, successivamente acquistato dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. In questo dipinto viene superato ogni residuo di pittura di genere. Ogni elemento è qui immerso in una grandiosa concezione epica della natura. Nemmeno il mondo intermedio del sogno vi gioca ormai più ruolo alcuno; vi domina invece il sole della verità, vi spira la freschezza del profumo proveniente dalla terra, si sente risuonare vicino lo scampanio della mandria sul pascolo. Nei quadri di Segantini finora presi in considerazione abbiamo incontrato le mucche solo in via eccezionale. Se ne vedeva una qua e là, quasi collocata a mo’ di 68


decorazione. L’esistenza pastorale pareva si svolgesse per lui quasi esclusivamente presso il gregge. Ma ora le cose cambiano. La potente apparizione della vacca irrompe nell’ambito delle raffigurazioni artistiche segantiniane, e comincia subito a prendere il sopravvento, al fianco delle figure di cavalli massicci e ben piantati. Le pecore ormai compaiono solo su quadri di formato più ridotto, oppure vengono impiegate per scopi specifici, al fine di suscitare determinate atmosfere. Per questo quadro Segantini può essere accostato a Troyon come pittore di animali, a Daubigny come pittore di paesaggi. Ma se in un certo senso quei pittori francesi sono degli specialisti, la cui abilità specifica appare più significativa che non il loro complessivo valore umano, in Segantini si è invece conseguito un meraviglioso equilibrio fra questi due lati in cui si mostra il fenomeno artistico. Egli dipinge animali e paesaggi tanto bene quanto lo potrebbe fare un qualsiasi altro pittore; ma non lo si può caratterizzare né come pittore di animali né come paesaggista, poiché con queste denominazioni superficiali non verrebbe minimamente colto il nucleo essenziale della sua arte. Animali e paesaggi sono per lui un mero mezzo per manifestare la sua grandiosa concezione della natura nel suo essere complessivo, per esprimere attraverso l’arte la sua devozione di fronte alla natura. Che le cose stiano così, lo avvertiamo per la prima volta in tutta la sua convincente cogenza nel dipinto Alla stanga, che perciò costituisce una pietra miliare nell’evoluzione dell’arte segantiniana. Quella peculiarità del tutto particolare, il cui tratto viene sensibilmente colto da qualsiasi amante dell’arte non appena venga pronunciato il nome «Segantini», si è già qui dispiegata in piena consapevolezza. E se l’artista avrebbe anche successivamente acquisito ulteriori elementi attraverso lo studio e il lavoro, la sua linea evolutiva era stata già nettamente predelineata in quell’opera, e non sarebbe stata più abbandonata. …È pomeriggio tardi, ormai quasi sera. Il sole giallo oro splende sugli ampi prati del pascolo montano, proiettando sull’erba le ombre grottesche delle mucche, che stanno in fila alla stanga. Tali ombre cadono sul davanti del quadro, ed è come se preannunciassero la mandria che vi sta dietro. Le vacche sono disposte lungo la diagonale della tela, generando un ritmo interessante e suddividendo così in modo equilibrato lo spazio pittorico fra primo piano e sfondo. Le posture delle bestie sono assai diversificate, ma ognuna è caratterizzata da una perfetta naturalezza. Spesso sono solo piccole variazioni a produrre tali differenze: un’inclinazione del collo, o una modificazione nella direzione dell’asse; qua e là qualche mucca si è anche distesa per terra. Ma dato che le stanghe prescrivono delle linee fondamentali ben determinate, pur nella 69


molteplicità delle figure si avverte comunque un certo rigore della composizione, che ci appare come «stile». Proprio questo problema è stato risolto in maniera eccellente nel dipinto: il ripetersi delle stanghe nei diversi comparti dello spazio pittorico offre a tal riguardo un appiglio naturale. L’aggiunta di figure umane (qualche contadinella che cura la mandria), che si sottomettono totalmente allo schema dispositivo generale, ha permesso di arricchire ulteriormente il tema con significative variazioni. Ma ogni singolo elemento figurativo persegue un unico scopo: quello di offrire un’immagine complessiva dell’esistenza naturale, che permea tutte le forme di vita abbracciandole in perfetta armonia; l’ampio spazio del pascolo risuona dello scampanio delle bestie come se si trattasse delle campane di una chiesa. A circa dieci anni dopo la realizzazione di quel dipinto risale il disegno che viene riprodotto in questo volume. Esso è estremamente rappresentativo del grado di libertà creativa che Segantini sapeva riservarsi anche nei confronti delle sue opere più riuscite. Questo disegno infatti, nonostante corrisponda figura per figura alla medesima composizione del dipinto, costituisce tuttavia dal punto di vista artistico una nuova creazione. La differenza sta nel rapporto fra la costruzione dello spazio e la distribuzione della luce: la prima è in continuità con il dipinto, la seconda vi si oppone esplicitamente. Consideriamo innanzitutto il trattamento della luce. Nel dipinto Segantini intendeva soprattutto dar prova di sé come pittore dalla tavolozza chiara: perciò fece ricorso a quel sole accecante, che proiettava ombre così nette. In virtù di tali contrasti nell’illuminazione, che si possono cogliere in particolare nelle montagne raffigurate sullo sfondo, si produce nello sviluppo dello spazio proprio del quadro una certa inquietudine, che si propaga a ogni elemento che vi è rappresentato senza tuttavia riuscire a risolversi compiutamente. Volendo Segantini accentuare nel disegno ancor più intensamente la struttura spaziale, si vide in primo luogo obbligato a modificare l’illuminazione, a renderla più soffusa, più morbida e più equilibrata: un effetto che riuscì a ottenere soprattutto nascondendo quasi del tutto la fonte di luce – non si capisce bene se sia ancora il sole o non piuttosto la luna – dietro le nuvole, permettendo ai raggi deboli e pallidi di spuntare appena dai loro bordi. In questo modo tutte le ombre si fanno più lievi, e l’altopiano sembra inoltrarsi più in profondità. Il vantaggio così conseguito sarebbe stato successivamente sfruttato dall’artista ormai esperto in modo sistematico. Il nostro senso dello spazio si sviluppa in modo privilegiato quando percepiamo la rappresentazione della prospettiva. Per renderla in modo più efficace, Segantini aggiunse 70


alle quattro stanghe anteriori una quinta stanga in posizione più arretrata, introducendo ulteriori articolazioni tramite l’inserimento degli alberi. Ma dal punto di vista artistico l’intervento più significativo fu quello di tagliare una porzione del piano anteriore dell’immagine, così da render più marcate le ombre sul davanti e da intersecarle col bordo del disegno. Ma soprattutto introdusse, al posto della stretta striscia di cielo che aveva dipinto nel quadro, una considerevole porzione di firmamento, sotto la quale ridusse l’altezza dei monti, ottenendo così di ampliare la linea dell’orizzonte. Lo spazio digrada in tal modo per così dire musicalmente, con uno sfruttamento meraviglioso della dinamicità, il che conferisce al disegno quel particolare contenuto atmosferico che lo distingue e lo rende notevole persino a confronto del capolavoro maggiore. Abbiamo anticipato un poco i temi da affrontare. Ma il valore del dipinto Alla stanga per l’evoluzione complessiva di Segantini diviene evidente soprattutto per il fatto che quel modo di dipingere si può confrontare con dipinti successivi, per vedere come nel corso degli anni esso si sia evoluto conseguendo una sicurezza salda e organica. Indubbiamente Segantini era divenuto consapevole della giusta via da intraprendere, e quella creazione così significativa si trova proprio all’imboccatura della strada. Essa segna anche l’inizio della sua fama. Già nel 1883 aveva vinto ad Amsterdam la medaglia d’oro per la prima versione (andata distrutta) dell’Ave Maria a trasbordo, certo soprattutto grazie agli sforzi di Vittore Grubicy. Ritornava ora, nel 1886, per la seconda volta in quella stessa città, prova di quanto fosse stimato in quella terra dalla quale aveva tratto qualche importante stimolo artistico (a ulteriore dimostrazione di ciò, valgano i numerosi quadri venduti a compratori olandesi in quell’occasione). In Italia per contro il mercato si comportava nei suoi confronti in modo ancora molto timido. Il dipinto Alla stanga venne esposto a Venezia nel 1887, riscosse un vivo riconoscimento da parte del pubblico e della critica, ma al momento degli acquisti ufficiali venne trascurato. Solo nel momento in cui l’opera fu esposta per la seconda volta nel 1888 a Bologna, lo Stato italiano si mostrò interessato all’acquisizione, e il ministro dell’Istruzione Boselli se lo aggiudicò per il prezzo di ventimila lire. Lo Stato dovrebbe essere molto soddisfatto di tale acquisizione, dal momento che oggi il quadro vale almeno cinque o sei volte la somma spesa. Nella primavera del 1886 Segantini abbandonò Caglio e ritornò per qualche tempo a Milano. Qui, verso la fine di marzo dell’anno precedente, la sua sposa aveva partorito il loro terzogenito, il biondo Mario. E adesso, alla fine di maggio, arrivò finalmente la figlia Bianca, tanto a lungo desiderata. Anche a Milano Segantini lavorò con diligente 71


impegno. E tuttavia lo si poteva definire quasi un ristoro rispetto al duro lavoro dell’inverno precedente, che lo aveva condotto attraverso quell’importante fase di sviluppo: un esercizio più spensierato, un buon numero di nature morte e uccelli morti che venivano realizzati per le sale da pranzo di gente benestante. Tutto ciò poteva andar bene come intermezzo, ma a un certo punto bisognava procedere oltre. Tornare a Caglio? Sarebbe stato solo una mezza pausa. No, bisognava salire, in alto verso le grandi Alpi vere e proprie! Così, insieme a sua moglie, Segantini si avviò alla scoperta della sua terra promessa.

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Sesto capitolo Savognino In un giorno d’estate dell’anno 1886, davanti all’hotel Pianta di Savognino, si fermò una carrozza a un cavallo che aveva l’aria piuttosto incerta. Dal veicolo scesero un uomo ossuto, dai capelli ricci e scuri e dalla lunga barba, di circa ventotto anni, e una graziosa donna bionda, più giovane pressappoco di un anno. Questi forestieri, che parlavano solo italiano, erano vestiti semplicemente, e si comportavano in modo semplice e affabile. Eppure qualcosa nella loro natura appariva strano e insolito: diverso dal quotidiano mondo borghese. Avevano occhi così brillanti! Chi erano mai? Nel loro imbarazzo, il signor Pianta e i suoi ospiti tirarono a indovinare: attori. Ma i due stranieri, nonostante il loro aspetto «romantico», parevano comunque troppo seri e troppo sobri per quella professione. Alla fine saltò fuori che l’uomo era un pittore del milanese di nome Segantini, e che la signora bionda era la sua sposa. In tal modo però non si scoprì molto di più, essendo lì quel cognome totalmente sconosciuto. Gli stranieri rimasero in paese un paio di giorni, per proseguire poi su una piccola carrozza per Tosanna. Fecero tuttavia ritorno in giornata, e il signor Segantini chiese al signor Pianta se poteva risiedere per qualche tempo con la sua famiglia all’hotel. «Certamente, perché no?», rispose l’albergatore. Ma avrebbe potuto essere così gentile da farsi personalmente carico delle spese della carrozza? Ottanta franchi, poiché i Segantini avevano noleggiato il veicolo per un tempo più lungo di quel che effettivamente avevano consumato. Presto sarebbe stato spedito loro del denaro, ma per il momento erano al verde. Piuttosto meravigliato, il signor Pianta guardò con attenzione quello strano gruppo, e alla fine concesse il prestito. Era impossibile rifiutare una simile richiesta a quell’uomo il cui modo di fare appariva così franco, distinto e quasi venerando nonostante la sua semplicità e la sua giovane età. Sarebbe stato certamente interpretato come un sospetto offensivo. Così Segantini abitò per qualche tempo con 73


sua moglie all’hotel Pianta, pagando regolarmente la camera dopo aver ricevuto il denaro che aspettava, e a un certo punto andò anche a prendere i suoi figli, poiché aveva deciso di vivere a Savognino. Questo, alla fin fine, era il posto che gli era piaciuto di più di quelli visitati durante il suo viaggio esplorativo. Lui e la moglie avevano viaggiato a piedi: da Como, passando per Livigno oltre le montagne della Valtellina, erano arrivati fino a Poschiavo. Di lì erano passati in Engadina, avevano visto Pontresina e St. Moritz: ma, dato che avevano giudicato queste zone troppo rumorose e turistiche per i loro gusti, avevano continuato il loro cammino e, attraverso Silvaplana e oltre lo Julier, erano arrivati nel Cantone dei Grigioni, fermandosi a Savognino. All’inizio avrebbero voluto procedere. Ma nessun altro posto reggeva il paragone; così erano subito tornati indietro. E non rimpiansero mai di non aver cercato altrove. Otto anni pieni rimasero in questo amichevole villaggio dei Grigioni, che nel dialetto tedesco viene chiamato (in modo non proprio gentile) «Schweiningen»13. Segantini si trovava così in un territorio per lui totalmente inedito e vergine, che prima di lui non era davvero stato scoperto e sfruttato da nessun altro artista. Alcuni pittori vi erano sì passati, più però come turisti, e avevano realizzato qualche «veduta» graziosa. Ma vivere nel paesaggio, come un indigeno, e confrontarsi con tutte le proprie forze con la natura: questo no, ancora nessuno lo aveva fatto. Ma era appunto questo lo scopo di Segantini. Occorre comprendere esattamente quel che aveva in mente: non gli interessava affatto riprodurre immagini di Savognino e dei suoi dintorni, e magari di qualche tipo di suo abitante. Dal punto di vista artistico, la località individuale come tale gli importava pochissimo. Se avesse cercato questo aspetto, avrebbe potuto facilmente trovare luoghi più notevoli, bellezze naturali più attraenti, tipi e costumi umani più caratteristici. Egli cercava al contrario un posto dalla fisionomia non troppo accentuata, nel quale tuttavia la semplice esistenza degli esseri umani a contatto con la natura si fosse conservata nel modo più incontaminato possibile: un luogo nel quale il paesaggio si dispiegasse in tutta la sua spontanea pienezza e bellezza, nella ricchezza dei suoi molteplici e più intimi stimoli, nel contorno delle sue grandi linee e nell’ampio orizzonte delimitato dalle catene montuose, senza però quel lusso vistoso nel modo di apparire dinnanzi al quale il frettoloso viaggiatore stile Baedeker erompe in un

13 «Schwein» in tedesco è il maiale. 74


esaltato «Ah!» come dinnanzi a un fuoco d’artificio innescato appositamente per lui. Segantini aveva scelto il suo posto muovendo da queste esigenze, e aveva scelto bene. Chi passasse per la Val Sursette, andando da Stalla a Castino, troverebbe lungo il percorso località molto più romantiche di Savognino: luoghi nei quali le montagne si approssimano le une alle altre notevolmente, cascate dove l’acqua scroscia attraverso cupe forre, zone dove la via della posta, che si snoda tracciando ampie curve attraverso il territorio montuoso, dischiude vedute inebrianti. Ma quando ci si avvicina ai dintorni di Savognino, il paesaggio diventa più semplice. I monti si ritirano e appaiono meno scoscesi. Subentrano i terreni del pascolo, e si comincia a vedere un’ampia campagna coltivata. E presto ci si ritrova in una zona collinare prativa, che si espande lateralmente in dolci ondulazioni: al centro si trova il villaggio di Savognino, il cui abitato si distribuisce nell’area fino a sfiorare con le sue propaggini i pendii montani. Uno snello fiume montano – lo «Halbsteiner Rhein» – divide il territorio in due metà: da una parte come dall’altra le punte degli alti campanili svettano sulle coperture rosse e nere dei tetti delle case, gli scuri verdi delle finestre occhieggiano sui muri bianchi delle abitazioni, che sotto il tetto aggettante sono cinte da balconi in legno stretti e lunghi, interrotti da pilastri di sostegno e ornati di fiori. Chi volesse osservare con maggiore attenzione, troverebbe anche qualche sorprendente accenno di un’arte indigena dell’intaglio e di un’architettura dai tratti originali. Non si riesce a vedere sporcizia alcuna, né miseria o depressione: ovunque si ricava l’impressione pervasiva di una solida e benestante società contadina. E gli abitanti fanno lo stesso effetto. Nel loro atteggiamento sono liberi e sicuri di sé, ma si comportano in modo del tutto appropriato; nel commercio sono abili e intelligenti, e sembra anche che nutrano un profondo e vivace senso patriottico. La loro madrelingua è, come in Engadina, il romancio, un idioma che non possiede una forma scritta rigorosamente stabilita, e che per certi versi può essere considerato un ibrido fra l’italiano e lo «Schwitzerdütsch». Tutti però, anche i più poveri, padroneggiano almeno in una certa misura – e alcuni anche perfettamente – il tedesco vero e proprio, che è la lingua ufficiale dell’amministrazione e disciplina obbligatoria nelle scuole. La conoscenza dell’italiano è invece solo sporadica. Segantini si trovava dunque fra gente di un genere a lui sconosciuto. Si era sì avvicinato al mondo nordico, corrispondendo a quell’inclinazione artistica che ormai da molto tempo gli si era manifestata con chiarezza, senza tuttavia che una barriera insormontabile lo avesse perciò diviso dal carattere del popolo italiano. Erano piuttosto le montagne a rappresentare un elemento fondamentale di connessione con il suo 75


mondo precedente. Le aveva ammirate e desiderate quando era ancora dall’altra parte, ed erano le montagne che Segantini sentiva come la propria patria, a prescindere dallo Stato in cui si trovassero. Qui di montagne ne aveva quante ne voleva. Lo stesso paese di Savognino è collocato a 1213 metri sul livello del mare, dunque su un altopiano che è solo di poco più basso della cima più alta che si può trovare in Brianza. Tutt’attorno il villaggio è circondato da monti che salgono gradualmente fino a raggiungere quote che vanno dai 2000 ai 3000 metri. Per la maggior parte dell’anno le vette sono ricoperte di neve, e per molti mesi grandi masse nevose si distendono sulle rocce delle vaste catene montuose, illuminando la valle con il loro bagliore bianco, che si staglia sotto il cielo blu in un gioco di linee particolarmente incisivo. La terra promessa era stata trovata, e il nuovo lavoro creativo poteva avere inizio. Anche le circostanze esteriori corrispondevano alle aspettative. L’attività commerciale dei fratelli Grubicy aveva dato i suoi frutti. Alcune opere di Segantini erano state vendute, e Alberto Grubicy si sentì incoraggiato a stipulare con l’artista un contratto che prevedeva che il mercante avrebbe acquistato a occhi chiusi tutti i dipinti che Segantini avesse prodotto da quel momento in poi. Questi aveva il diritto di stabilire i prezzi: essi erano ancora piuttosto bassi, corrispondentemente al suo valore sul mercato dell’arte. In caso di vendita, Grubicy avrebbe trattenuto una provvigione. Per quanto Segantini si fosse così vincolato, si era comunque liberato da tutte le preoccupazioni relative alla compravendita, e poteva dunque dedicare fiducioso tutto il proprio tempo al lavoro artistico. Dopo aver abitato per i primi mesi da Pianta, con il quale strinse una fedele e duratura amicizia, fu successivamente in grado di trasferirsi in una propria casa spaziosa, sistemandovisi comodamente. L’abitazione era collocata all’uscita del paese, un poco sopra la via della posta, e godeva di una meravigliosa vista aperta sulla valle e sui campi che sullo sfondo cominciavano a salire lentamente per i pendii. Disposta su tre piani, la casa comprendeva quattordici stanze, che a poco a poco vennero tutte approntate e ammobiliate. L’arredamento è stato descritto come molto originale: effetti decorativi assai efficaci, parte in stile moresco parte in stile goticheggiante, vennero ottenuti facendo ricorso ai mezzi più semplici. Ad esempio, Segantini aveva trasformato degli scuri di antiche case risalenti al XVI e XVII secolo, inchiodandoli insieme in modo da ricavare delle poltroncine dallo schienale alto. Fra gli stipiti della porta aveva appeso dei vecchi arazzi, e adottato delle soluzioni davvero originali. Se i quadri erano male illuminati, li appendeva obliqui alle pareti: un gesto che successivamente sarebbe stato spesso imitato. Talvolta l’effetto colpiva in modo sorprendente, eppure si trattava 76


solo di piccoli trucchi, che venivano escogitati sul momento e che però risultavano assolutamente naturali. L’impressione dell’insieme era in ogni caso molto diversa da quella che abitualmente si ricava da un’abitazione o da un atelier di artista. Si avvertiva immediatamente lo spirito originale e la mano indipendente che si erano qui messi all’opera. Quella casa doveva di norma ospitare nove persone: la coppia Segantini, quattro bambini, due domestici e una istitutrice. Segantini riteneva assolutamente necessario avere un’insegnante in casa per i bambini. Dato che nella sua giovinezza non aveva potuto godere dei benefici di un’istruzione accurata e disciplinata, era tanto più convinto di doverla assicurare fin dalla più tenera età ai suoi figli. Perciò non temette di affrontare né i costi né i disagi al fine di realizzare questo suo intento. Uno spirito di educazione libera e autentica prese a spirare nella sua dimora. E ciò conferì a Segantini una posizione di rispetto fra i suoi nuovi concittadini, che aveva già rapidamente conquistato con la sua natura semplice e affabile. All’inizio c’era stato qualcuno che si era indignato per il fatto che non lo si vedeva mai in chiesa. Ma si era presto tranquillizzato: «Se anche non si cura troppo di frequentare la chiesa – così dicevano –, è comunque un uomo buono, e a suo modo intimamente pio». Persino il parroco dovette essere stato della medesima opinione, dal momento che era in buoni rapporti di amicizia con l’artista. Naturalmente nella grande casa era prevista anche l’accoglienza degli ospiti: e il primo a venire fu Vittore Grubicy. Giunse nel novembre del 1886, per un brevissimo soggiorno, o così almeno pensava lui. In realtà alla fine rimase per cinque mesi, fino alla primavera dell’anno successivo. Si aprì allora un periodo di vivace scambio di idee. Con Vittore era comparso un pezzo di Milano e del passato, e Segantini si trovava sulla soglia di un nuovo futuro, in una nuova patria che si era scelto personalmente. Vittore doveva essere arrivato con tutto il peso dell’amico più anziano e del consigliere navigato. Ma presto si sarà dovuto render conto del fatto che quel ruolo tradizionale non gli si confaceva ormai più. Due anni dopo lo avrebbe confessato in una maniera peculiare in una lettera allo stesso Segantini. Questi gli aveva spiegato per iscritto come la sua solitudine attuale gli facesse bene, aggiungendo più in generale come qualsiasi sensazione forte, per poter maturare in tranquillità, necessitasse della solitudine per diventare consapevole di se stessa nella riflessione, nell’osservazione e nell’analisi. Per contro nel mondo sociale la vita del sentire personale veniva estenuata e indebolita dal costante contatto con le idee e le sensazioni di persone estranee. A questo punto Vittore aveva creduto di do77


versi opporre a tale opinione, comunicando all’amico innanzitutto come fosse appunto il contatto con gli altri a rafforzare la produttività del suo lavoro mentale, a patto che l’ampiezza delle idee altrui si subordinasse a quella delle sue proprie. «Invece, quando due anni fa sono venuto a Savognino, armato delle migliori intenzioni e aperto a un libero sentire e produrre, sono stati sufficienti tre giorni a contatto con le tue idee per sopraffare totalmente le mie, e per condurmi a vedere e a pensare all’interno della tua esclusiva sfera d’influenza. Ne deduco che, fra due persone che si scambiano le loro idee e che in questo scambio vogliono essere produttive, il più forte non ha nulla da temere dal più debole. Il primo assume semplicemente la guida, e il secondo si lascia trainare a rimorchio»14. Il rapporto di un tempo fra Segantini e Vittore Grubicy si era dunque gradualmente modificato fin quasi a ribaltarsi nel suo contrario. L’individuo produttivo si era trasformato nella guida, e il critico doveva accontentarsi del ruolo di colui che comprende e che empatizza. Naturalmente questa nuova relazione, che Vittore due anni dopo poté valutare così chiaramente e riconoscere così onestamente, non era totalmente evidente fin dall’inizio. Vittore, che era uso all’eloquio abbondante, avrà istintivamente combattuto con tutto il suo zelo per conservare la sua antica influenza, e Segantini si sarà trovato in una sorta di posizione difensiva. Per tutta la sua vita l’artista fu sempre pronto a soppesare gentilmente ogni consiglio datogli con sincerità e, quando lo riteneva appropriato, non si mostrò mai tanto orgoglioso da non seguirlo. Anche in questo caso egli avrà considerato con attento scrupolo le acute indicazioni, gli ammonimenti e le critiche competenti di quell’amico affettuoso, cercando di ricavare senza falsi pudori qualcosa di utile da quegli stimoli fecondi. Ma ora, nel suo modo di ricevere, si mostrava in certa misura incline a concedere: accoglieva riconoscente le proposte altrui, nella misura in cui esse si adattavano al suo proprio mondo spirituale, ricompensandole in modo inconscio e involontario con un dono ben maggiore che scaturiva dalla ricca fonte della sua forza creativa. Quando l’amico si presentò a casa sua, Segantini aveva già qualche frutto del suo soggiorno a Savognino da mostrargli. In autunno aveva dipinto il suo primo quadro: La vacca bianca, traendo tale motivo direttamente dalla vita del villaggio. Vi si vede una

14 Qui, in mancanza del documento originale, traduciamo il passo della lettera direttamente dal testo di Servaes. 78


fontana con le sue varie componenti; da una tubatura sottile l’acqua si riversa in una doppia vasca di pietra, che come forma assomiglia a una sorta di truogolo. Segantini aveva adottato il motivo della fontana come spunto, collocandole davanti una ragazza vista di schiena, che beve alla canna. Al truogolo vediamo una mucca attaccata a un carretto a due ruote, che ha appena bevuto; l’acqua le sta ancora sgocciolando dal muso. Con questo quadro Segantini ha inaugurato un ciclo di motivi che si sarebbe dimostrato ancora assai fruttuoso negli anni successivi. Un secondo dipinto si collega alle ultime opere del periodo brianzolo. L’artista ha raffigurato due pecore sotto un tetto, mostrando (come già aveva fatto nel grande quadro che rappresentava La tosatura delle pecore), a partire dalla penombra dell’ovile, un’ampia veduta sulla campagna inondata dalla chiara luce del sole. Adesso però il problema dell’illuminazione veniva accentuato in modo ancor più energico: ecco perché questo dipinto venne dal suo autore intitolato Contrasto di luce. Subentrava ora anche una modificazione relativa al tipo di pecora impiegato. In Brianza Segantini aveva trovato la pecora bergamasca, possente, grassa, cocciuta, dalle orecchie lunghe. Nei quadri dipinti in Svizzera incontriamo invece la pecora montana, più esile e magra, con le zampe e il collo sottili e il capo più stretto e appuntito: la vedremo spesso strappare il suo scarso foraggio in mezzo al pietrame. Ancora una volta, in presenza di Vittore, Segantini si riallacciava al periodo brianzolo. Questa volta però tale richiamo significava un notevole miglioramento rispetto a quanto l’artista aveva conseguito allora. Nell’atelier era conservato, anche se ormai mezzo distrutto, il quadro Ave Maria a trasbordo, realizzato nel 1882 a Pusiano. Vittore trovò il dipinto, si entusiasmò per il motivo che vi era rappresentato ma non ancora pienamente sviluppato, e suggerì a Segantini con il più acceso fervore di eseguire una seconda volta il medesimo soggetto su scala più grande, per valorizzare così quanto a tecnica e a composizione i risultati che ne frattempo era riuscito a conseguire. Segantini accolse la proposta: grazie al suo cielo irradiato dalla luce serale che si rifletteva sull’acqua, il dipinto si prestava in modo eccellente a restituire la luce nel suo libero gioco in accordo ai principi della cosiddetta tecnica divisionista, e cioè secondo la scomposizione dei raggi. Per la prima volta l’artista applicò consapevolmente tale tecnica a questa immagine, certo in maniera ancora impacciata e incompleta, se la si confronta con le opere successive. E comunque l’irraggiamento dorato che riempie tutto il cielo esercita uno splendido effetto, soprattutto nel suo contrasto con la calma superficie dello specchio acqueo, illuminato in maniera omogenea. Quanto alla composizione, 79


Segantini modificò pochissimo, ma quei pochi interventi furono magistrali: la striscia di terra all’orizzonte appena più stretta e uniforme; il campanile appena più slanciato e appuntito. Ma la scura banda trasversale finemente articolata che viene in tal modo inserita fra le due masse luminose esprime nella sua disposizione un supremo senso del ritmo. Di pari perfezione è la modifica apportata ai due pali di legno ricurvo che sormontano a mo’ di volta la barca: liberati dal disturbo provocato dal peso della vela che vi era stata riavvolta attorno, ora accentuano nel modo più efficace un sorprendente contrasto nel gioco delle linee. Le lievi trasformazioni che interessano le figure umane si riverberano invece nella sfera spirituale: ne viene comunque intensificato il valore decorativo del quadro. Il vecchio al remo siede più tranquillo e più piegato su se stesso: una postura che esprime in modo semplice e suggestivo l’atmosfera dell’Angelus. Unici nel loro genere sono soprattutto l’inclinazione del capo della madre verso il suo bambino, come in una preghiera trasognata, e i gesti del piccolo verso la madre, dettati dall’istinto di un’amorevole fiducia. È un’immagine che si può paragonare soltanto con alcuni lavori di Rodin. Segantini stesso era intimamente commosso da questo dipinto, e vi ritornò successivamente in più di un disegno, come se non riuscisse più a liberarsi dall’incanto poetico prodotto dalla quiete di questa benedizione. Ma l’artista non fu più capace di raggiungere lo splendido effetto ottenuto in quel dipinto. Più o meno contemporaneamente all’Ave Maria Segantini lavorò a un’altra opera, e questa volta fu lo stesso amico a dover prestarsi per la sua realizzazione. Non senza malignità Segantini si sarà detto riguardo a Vittore Grubicy: «Parla incessantemente, non mi lascia neanche replicare. Allora lo dipingerò, in modo che finalmente si metta a tacere». Senza dubbio l’artista rallentò intenzionalmente la conclusione del dipinto, finché a un certo punto Vittore se ne andò. Se l’aneddoto sia vero o meno, rimane una questione aperta. Certo è che mai nessun artista ha ritratto un uomo che se ne sta in silenzio, tutto concentrato ad ascoltare, eppure così evidentemente desideroso di parlare, con la stessa efficacia con la quale Segantini ha rappresentato l’amico. Lo sforzo di sentire (che in quest’uomo quasi sordo si esprime drasticamente negli occhi sporgenti, nel movimento delle pinne nasali, nella bocca socchiusa) sembra rivelarci l’inquietudine con la quale l’ascoltatore accoglie le parole altrui, come se non potesse aspettare di reagire con infiniti argomenti. La finezza psicologica con la quale è portato a espressione pittorica questo complesso stato interiore è davvero sorprendente. Nulla di indelicato o di esagerato (come facilmente un’intenzione quale quella che sottendeva il progetto potrebbe tentare di introdurre) disturba il dipinto. È un’immagine 80


semplice e convincente che rappresenta fedelmente un brano di realtà, colma di forza vitale. L’amico ritratto è placidamente seduto, il suo atteggiamento corporeo è disinvolto e la sua gestualità appare spontanea (nel modo in cui la mano sinistra tiene la pipa, la destra il cornetto acustico): un’immagine insuperabile quanto a nuda e pura verità. Anche gli oggetti rappresentati nel dipinto – il tavolo con il suo angolo sporgente, l’alta spalliera della poltrona, il quadro appoggiato al tavolo – contribuiscono tanto a intensificare l’impressione di disinvoltura quanto a completare la sintesi decorativa dell’insieme. Nella modalità di esecuzione l’opera non presenta ancora traccia alcuna della tecnica divisionista già provata nell’Ave Maria: prova, questa, che all’epoca tale tecnica non significava per l’artista altro che un esperimento temporaneo. Il dipinto esibisce quelle pennellate ampie e morbide, simili a quelle che Manet e la sua cerchia avevano appreso da Velázquez, e a quel modo di dipingere di cui in Germania era maestro soprattutto Leibl. In maniera analoga Segantini aveva da poco dipinto le sue nature morte mentre stava a Milano. Questo stile gli era dunque del tutto usuale, ed egli pare averlo impiegato non senza intenzione al fine di evocare l’impressione di una certa potenza e sensibilità propria degli antichi maestri. Al che contribuisce anche il fatto che il dipinto sia stato mantenuto molto semplice dal punto di vista coloristico. I toni variano dal grigio-giallo al grigio-rosso, con alcuni contrasti in grigio-blu: dominano sull’insieme gli occhi color azzurro chiaro, il cui spirito vivace subito attira su di sé per primo lo sguardo dell’osservatore. Si avverte immediatamente di trovarsi di fronte a una personalità dallo spirito eccezionale, ciò che ci è confermato dall’espressione tesa e concentrata del volto. In questo dipinto Segantini ha così realizzato un vero e proprio monumento in onore dell’amico, al quale nonostante tutto doveva così tanto. Vittore Grubicy era dunque partito, e iniziarono anni di lavoro in solitudine. L’avversione che Segantini nutriva ad abbandonare la scena della sua attività cresceva di anno in anno. Solo di tanto in tanto gli affari lo richiamavano a Milano per brevi intervalli, e una volta, nel 1887, si recò persino a Venezia per un’intera settimana. Per il resto non visitò mai nessuna metropoli: né Londra, dove vi fu nel 1888 una grande esposizione di suoi dipinti, né Parigi, dove all’Esposizione Universale del 1889 le sue opere ottennero un notevole successo. All’inizio era stata in effetti progettata una visita nella capitale francese, e Vittore, che aveva lui stesso organizzato in quella città la mostra delle opere di Segantini, voleva fare da guida. Gli amici avrebbero dovuto incontrarsi a Basilea, ma all’ultimo minuto Segantini aveva dato disdetta per iscritto. Riteneva che fosse sbagliato offuscare o addirittura guastare la sua evoluzione creativa, che si stava 81


compiendo così armonicamente nell’isolamento in montagna, con la visione di così tanti quadri che si contraddicevano l’uno con l’altro. Così Segantini continuò a vivere esclusivamente nel suo proprio mondo. Ed era veramente un mondo, quello che Segantini diede alla luce a partire da se stesso. Continuava anche adesso a rimanere fedele a quella convinzione, che aveva avuto modo di esprimere già durante il periodo brianzolo, secondo la quale la pittura per lui doveva servire a uno scopo superiore che non fosse semplicemente quello di stendere con abilità i colori uno di fianco all’altro. Certamente si era ormai da tempo, e con decisione, emancipato da quell’errore che in gioventù, per un eccesso di zelo, lo aveva condotto a trascurare il momento artigianale dell’arte. Con la massima intensità possibile egli ora lavorava a perfezionare le sue capacità. Si era infatti chiaramente reso conto del fatto che solo la padronanza più piena di tutti i mezzi espressivi dell’arte gli avrebbe concesso di rappresentare quel che gli stava a cuore come artista. Ma la tecnica continuò a essere per lui un mero mezzo per i suoi scopi, un’ancella che serviva alle sue superiori intenzioni. Quel che lo stimolava non era la raffigurazione di un qualsivoglia brano di natura al fine di fornire impressioni «interessanti», che però dal punto di vista artistico sarebbero rimaste, per quanto brillanti nell’esecuzione, sempre e comunque frammentarie. Gli importava dipingere quadri, quadri nel senso più proprio del termine, cioè opere d’arte dipinte, in sé conchiuse. Perciò si ritraeva di fronte allo schizzo, che gli appariva come un nemico del «quadro». E una volta si espresse in maniera chiara ed energica a tal riguardo: «Io non faccio mai bozzetti, perché se facessi il bozzetto non farei più il quadro. La maggior parte degli artisti che han fatto un bel bozzetto di rado hanno fatto il quadro che valga il bozzetto, o non hanno fatto il quadro perché hanno consumato nel bozzetto la parte spirituale dell’opera. Io voglio che il pensiero vergine si conservi nel cervello. L’artista che fa prima il bozzetto è come un giovane che, vedendo una bella donna, ne resta affascinato, e subito la vuol possedere, vuol godere del suo amplesso, baciarla in bocca e negli occhi e fremere spasmodicamente nel suo amplesso. Ecco, il bozzetto è fatto. A me piace fare all’amore colle mie concezioni, carezzarle nel mio cervello, amarle nel mio cuore; malgrado bruci dalla voglia di vederle riprodotte, mi mortifico e mi contento di preparar loro un buon alloggio; intanto continuo a vederle con gli occhi della mente, là, in quel dato ambiente, in quelle positure, con quel dato sentimento. Insomma, io voglio che nel quadro non si veda la fatica puerile dell’uomo, voglio che il qua-

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dro sia il pensiero fuso nel colore» (lettera a Vittore Grubicy del 28 dicembre 1889)15. Come ben si comprende da queste parole, per Segantini il primo elemento era l’idea del quadro, mentre la raffigurazione della natura veniva per seconda. Per la maggior parte dei pittori questo rapporto risulta invertito. Essi vedono un brano di natura che li attrae, lo dipingono e cercano poi un qualche significato che possano conferire al quadro che si è così generato. Tale significato di regola consisterà in un elemento decorativo applicato a posteriori, che si adatterà più o meno bene all’opera. In questo modo è stato anche prodotto il quadro segantiniano A messa prima; ma quest’opera è un’eccezione, forse l’unica di questo genere in tutto il corpus del nostro artista. In tutte le altre sue opere Segantini ha invece preso le mosse dall’elemento figurativo: ha cioè elaborato un’idea poetico-pittorica che si connetteva a una manifestazione umana o animale, e ha cercato di tradurla in un quadro ricorrendo all’aiuto della natura. È fondamentalmente la medesima via che l’artista aveva già imboccato in Brianza, con questa sola (e però essenziale) differenza: che cioè a quel tempo Segantini credeva di potersi risparmiare lo studio diretto della natura. D’ora in poi, invece, si cercò nella natura i motivi e i modelli relativi alle idee che gli venivano in mente, studiandoli e riproducendoli con la più scrupolosa esattezza. Egli dunque creava muovendo al contempo da se stesso e dalla natura. Ma in questo suo tentativo poteva osare, poiché il suo sentire e il suo inventare procedevano in mirabile parallelo con le manifestazioni della natura. Entrambe queste capacità – la visione interiore e l’osservazione esteriore – sembravano esigere una reciproca integrazione. In questa meravigliosa suddivisione equilibrata delle forze creative è racchiuso in gran parte il segreto della genialità artistica di Segantini.

15 In Scritti e lettere, cit., pp. 173-174. Nel volume a cura di Annie-Paule Quinsac, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati, Cattaneo, Oggiono (Lecco) 1985, p. 124, la data della lettera è anticipata al 28 dicembre 1887. Ne riportiamo qui la corrispondente trascrizione: «Io non faccio mai bozzetti, perché se facessi il bozzetto non farei più il quadro. La maggior parte degli artisti che anno fatto un bel bozzetto, di rado anno fatto il quadro che valga il bozzetto; ho non anno fatto il quadro perché anno consumato la parte spirituale dell’opera. Io voglio che il pensiero vergine si conserva nel cervello. L’artista che fa prima il bozzetto, è come un giovanotto che vedendo una bella donna ne resta affascinato, e subito la vol possedere, godere del suo amplesso, baciarla in bocca e negli occhi e fremere spamoticamente nel suo amplesso ecco il bozzetto è fatto. Amè piace fare all’amore colle mie concessioni carrezzarle nel mio cervello, amarle nel mio quore, mal grado brucio dalla voglia di vederle riprodutte, ma mi mortifico e mi contento di prepararle un buon alloggio, intanto le continuo a vederle cogli occhi della mente, la in quel dato ambiente in quelle positure, con quel dato sentimento. Insomma io voglio che nel quadro non si veda la fatica poverile dell’Uomo, voglio che il quadro sia il pensiero fuso nel colore». 83


Settimo capitolo Il pittore del villaggio Il posticino si trova a nemmeno un quarto d’ora di cammino dal villaggio. La fanciulla è appoggiata alla staccionata e siede comodamente sul prato al sole. Ha tirato fuori la sua grande calza a maglia rossa e, muovendo con zelo le dita, conta fra sé e sé le maglie. Il sole le splende sul viso, arrossato per il caldo, e gli occhi ormai ebbri di luce iniziano a socchiudersi. Che cosa fa questa ragazzina? Siede così tranquilla. E presto finisce per appisolarsi sul suo lavoro. Le pecore pascolano placide attorno. Sono buone bestie, non scappano. Non c’è bisogno di tenerle costantemente d’occhio. Si può senz’altro schiacciare un pisolino di tanto in tanto. Senza mostrare alcun timore, due di esse stanno proprio vicino alla pastorella, e allungano il capo l’una verso l’altra. Anche loro trovano piacevole socchiudere gli occhi mentre guardano davanti a sé. Sotto di esse una pecora nera se ne sta distesa a dormire. È tutto così calmo, qui in alto, alla staccionata, di pomeriggio, mentre il sole splende. Quasi nemmeno un suono si sente provenire dal villaggio in basso. Sembra che tutti stiano dormendo. Lo si può vedere attraverso il recinto. Le case stanno l’una di fianco all’altra, come se fossero saltate fuori da una scatola di giochi per bambini. C’è anche un campanile, che si vede svettare oltre il bordo della staccionata tanto è alto. La ragazza e le sue pecore non guardano proprio verso il paese. Tutte quelle case bianche, con i tetti colorati e le imposte variopinte, le conoscono bene. Così lasciano che il sole vi risplenda sopra, e che il cielo blu le sormonti, e non le guardano proprio. Il medesimo sole nel medesimo cielo brilla anche sopra di loro: così espongono i loro corpi al piacevole calore che esso diffonde. Sono come l’erba sulla quale riposano: innocenti, spensierate, sazie di sole… Chi non conosce l’amabile piccolo quadro che ci racconta di questa pacifica esistenza in modo così caloroso e intimo? Segantini lo ha dipinto quando oramai era da circa un anno a Savognino. Quest’opera è altamente rappresentativa del tipo di arte che 84


praticava a quell’epoca. Saranno passati al massimo quattro o cinque anni da quando aveva dipinto, in Brianza, un quadro molto simile: una pastorella sognante con un paio di pecore al pascolo. Quel dipinto era immerso in un crepuscolo blu argenteo, e non si vedeva nulla del mondo tutt’intorno. Lo aveva dipinto un sognatore romantico, che vedeva il mondo sprofondare sotto di sé. E ora invece?! Anche l’ultimo ritegno nei confronti della realtà è stato superato. La chiara luce del sole, un tempo paurosamente evitata, può ora risplendere per ogni dove, esaltando col suo incanto mille colori, senza più bisogno di doversi nascondere dietro alcun crepuscolo. Essa può adesso fiduciosamente mostrarci ogni cosa, la cosiddetta realtà nuda e cruda: grosse scarpe e calze azzurre, un abito grigio e al collo una sciarpetta di lana bianca. Il fatto più sorprendente è che tutte queste cose non ci disturbano affatto! In nessun modo troviamo che la «poesia» ne soffra. Al contrario, dato che ci sentiamo tanto più ispirati sotto il profilo umano, poiché crediamo di abbracciare con i nostri sensi e la nostra fantasia un’intera esistenza, avvertiamo in questo dipinto la presenza di quella maestosa, indistruttibile e spumeggiante poesia, che inonda ogni forma di vita che si manifesti in tutta la sua purezza. Questo dipinto raffigurante una pastorella che fa la calza ha assunto la sua particolare importanza per l’esistenza di Segantini come artista in virtù di un motivo specifico: con quest’opera egli ha trovato una valida aiutante che lo può coadiuvare nella creazione artistica, e questa aiutante non è altro che quella medesima ragazza. In casa Pianta l’artista aveva osservato una fanciulla suppergiù di tredici anni, che era stata assunta per aiutare in cucina, e l’aveva apprezzata per la sua destrezza e prontezza, e ancor di più per la sua purezza e la sua innocenza. La fanciulla era di Savognino e si chiamava Barbara Uffer, ma era da tutti conosciuta semplicemente come «Baba». Con questo nome entrò in casa Segantini, per rimanervi fin oltre la morte del maestro, e condividerne gioie e dolori. A partire dal dipinto Ragazza che fa la calza Baba divenne la modella prediletta di Segantini, che la dipinse innumerevoli volte nelle situazioni più disparate e negli ambienti più diversi, praticamente in tutti i ruoli e travestimenti possibili. E tuttavia, perché dovremmo spendere tante parole per una «modella»? Perché il rapporto con questa ragazza è assolutamente caratteristico del modo di lavorare dell’artista Segantini. Innanzitutto non si dovrebbe nemmeno impiegare il termine «modella». Baba non era affatto quel che abitualmente si intende con questa parola, e Segantini non l’ha mai utilizzata per lo studio diretto delle forme corporee. Quel che la fanciulla ha significato 85


per lui, lo si può forse esprimere nel modo migliore così: per lui lei era come essere umano quel che Savognino, e più tardi l’Engadina, furono come paesaggio: il tipo naturale da lui preferito. Come egli si sforzava di cogliere quei paesaggi meno dal lato individuale che non da quello universalmente valido e simbolico, così non cercava in Baba l’individuo singolo, bensì la considerava come rappresentante di un ceto sociale e di una razza. E appunto questo è un aspetto peculiare del carattere artistico complessivo di Segantini. Egli vede la natura non come separata in milioni di elementi, bensì come eternamente una: perciò nella maggioranza dei casi gli può bastare un singolo essere per studiare in esso le infinite forme di manifestazione della natura. Per quanto spesso abbia dipinto Baba, nemmeno una volta gli è importato di raffigurare proprio quel singolo essere determinato, con le sue caratteristiche e i suoi tratti contingenti. Al contrario ha sempre cercato scrupolosamente di evitare ogni elemento che potesse far in qualche modo pensare alla ritrattistica nel senso più lato del termine. Non ricercava null’altro che l’essere umano nella natura, nei suoi destini tipici e nelle sue occupazioni caratteristiche, ed era solo perché Baba era in grado di rappresentare questo essere umano per il genere femminile, che essa gli era tanto preziosa per la sua arte. Questa nuova attività di Segantini si situa a un punto di svolta molto delicato nell’evoluzione complessiva dell’arte moderna. Con esattezza scientifica la scuola realista aveva lavorato alla riproduzione fedele delle manifestazioni della vita e della natura. Con zelo instancabile essa si era procurata i mezzi per dar adeguatamente conto con il proprio linguaggio formale degli innumerevoli fenomeni nei quali si imbatteva lungo il suo percorso di ricerca. E seppe mantenere la propria fedeltà riguardo a quanto osservava del mondo esterno rispettando ogni più fine e precisa individualizzazione, senza concedersi la minima modificazione o semplificazione. Quel che disturba in natura, aveva detto Leibl, può ben disturbare anche nell’arte. Un profondo e potente senso della pietà veniva espresso in quelle parole: ma era un sentimento che conduceva in un vicolo cieco. Può davvero «disturbare» solo la casualità della singola manifestazione; nell’insieme della vita naturale non vi è nulla che disturbi. Ora bisognava sciogliere anche nell’arte le cose dal loro isolamento e collocarle in un contesto più ampio, che aprisse ampi orizzonti e vaste prospettive. Fino ad allora erano stati dipinti per così dire solo i primi piani, in un certo senso lavorando con il microscopio, esaminando caso per caso, fenomeno per fenomeno. Adesso si doveva cominciare ad aprire l’accesso agli sfondi, a penetrare in profondità con i cannocchiali, per trovare nella molteplicità disorientante delle singole manifestazioni il grande filo capace di rian86


nodarle insieme. Per raggiungere questo scopo l’arte doveva in certa misura ritornare a essere speculativa. Senza sacrificare la gioia ingenua dinnanzi al mondo sensibile in tutta la sua variopinta ricchezza, doveva prepararsi a prendere contatto con le idee, a lasciar risuonare fondamentali tonalità spirituali, a procedere esaminando, combinando, potenziando, inventando. Così dietro alle cose emergeva il maestoso simbolo, nel cui apparire mistico tutto ciò che trascorre è ormai solo un’analogia16. Per la sua complessiva disposizione naturale Segantini era chiamato a emergere in maniera significativa all’interno di questo movimento. E tanto meno egli si sforzava di distinguersi in tal senso, isolato com’era nel suo congedo dal mondo, tanto più naturalmente gli spettava il diritto di assumere il ruolo di guida e di pioniere. Non lo sapeva, ma lo stava diventando. Quel che negli altri era un’oscura meta dell’aspirazione, per lui era semplice manifestazione della sua personalità. Ai suoi occhi era data per natura la capacità di penetrare allo stesso tempo in prossimità e in lontananza. Vedeva le cose e al contempo il loro senso. Era in grado di cogliere l’unità di tutti gli elementi naturali. Prendiamo il grande, splendido quadro Le due madri, realizzato nei primi anni del soggiorno a Savognino. Esso raffigura una stalla nelle immediate vicinanze dell’abitazione di Segantini. Il pittore non aveva quasi nemmeno bisogno di uscire di casa, trovando nell’ambiente circostante tutto ciò di cui aveva bisogno. Proprio perché vedeva il massimo nel minimo, non doveva allontanarsi di molto per trovare quel che cercava. In quella stalla ci mostra una mucca con il suo vitello, e una giovane contadina con il suo bambino. Ci può mai essere qualcosa di più semplice e ordinario? La stragrande maggioranza delle persone passerebbe davanti a una scena del genere buttando l’occhio distrattamente, per passare poi oltre senza provare alcun sentimento particolare. Ma Segantini avverte qui la maestosità della maternità. Sente che il medesimo segreto doloroso e sublime unisce l’uomo all’animale. Avverte nella sua radice più intima la vibrazione dell’essenza stessa della natura. Così, senza che la mucca cessi di esser mucca e la donna di esser donna e la stalla di esser stalla, ogni cosa si amplia nella sua visione fino ad assumere un senso imponente. La luce opaca di una misera lanterna da stalla inonda lo spazio come un’eterna lampada mistica, sotto la quale si manifesta ciò che di più segreto e di più sacro si possa immaginare.

16 Criptocitazione dal coro mistico che chiude la seconda parte del Faust di Goethe: «Alles Vergängliche ist nur ein Gleichnis» (verso 12104). 87


Segantini suscita in noi questi sentimenti senza fare alcuna violenza alla natura; anzi, proprio rimanendole fedele con tutta la sua devozione fin nel dettaglio più insignificante. Ed è appunto tale aspetto che ci rivela in questo dipinto il suo incomparabile talento artistico. L’unico mezzo da lui qui impiegato è lo sforzo di evitare accuratamente ogni elemento di inquietudine. La mucca se ne sta in piedi, con il dorso ben dritto, allungando tranquilla il muso nel truogolo. Dove termina la sua schiena appare il capo della giovane madre, la cui schiena riprende la rigorosa linea orizzontale del dorso dell’animale, incurvandola dolcemente verso il basso. Poco sopra l’immagine viene tagliata, in modo che si veda chiaramente (e tuttavia avvertendolo solo oscuramente) che il bordo del quadro corre parallelo alla schiena della bestia. La solennità discreta di questa composizione si trasforma inconsapevolmente, nella contemplazione dell’osservatore, in un valore sentimentale. In tal modo l’artista guida con mano leggera le nostre anime. È con tale quieta potenza che la distribuzione della luce esercita i propri effetti. La lanterna è appesa quasi al centro dell’immagine, un poco spostata in alto a destra. Da questo punto la luce si diffonde verso gli angoli, dove sta in agguato l’oscurità. Ma la luce è intenzionalmente attenuata. Il vetro anteriore della lampada è rotto, ed è stato sostituito con un pezzo di carta: in tal modo il chiarore non ci offende la vista. Vengono così pienamente illuminati il tronco della mucca e le sue mammelle rigonfie di latte, mentre il vitellino disteso sotto di essa è già avvolto da una delicata penombra. Sul lato opposto la luce cade sulla madre con il suo bambino. Si vedono le mani della giovane donna, forti, robuste, arrossate dal lavoro, che tengono in modo insieme deciso e delicato il loro unico tesoro, sprofondato nel suo placido sonno, una creatura che trabocca di energia vitale, la boccuccia socchiusa dal respiro pesante e un braccio che pende nel suo totale abbandono. Si vede il capo della giovane madre, avvolto in una cuffietta bianca, che pende leggermente in avanti perché lei si è addormentata: nei tratti del suo volto, induriti dal lavoro e dalle preoccupazioni, appare un timido raggio di felicità, intimamente e quietamente avvertita. Tutt’intorno e sullo sfondo dominano le parti in ombra, che fanno tanto più risaltare le zone illuminate. Una pace infinita sembra diffondersi nell’umile e umido ricovero. Non si muove nulla, non si ode quasi alcun suono. La mucca rumina placida il suo fieno, il piccolo respira regolarmente in grembo alla sua mamma: nessun altro rumore, solo un profondo silenzio. Un silenzio che oscilla per così dire fra la bestia e la giovane donna, proteggendole sotto le proprie ali: esse sono equivalenti, ed essenzialmente affini per natura, poiché sono entrambe madri. 88


In quest’opera Segantini ha messo tutto il suo amore e le sue energie. Perciò il quadro è non solo profondamente concepito e splendidamente configurato, ma altresì magistralmente dipinto. Il modo di fare potentemente ed efficacemente risaltare gli elementi principali è qualcosa che forse avrebbe potuto conseguire anche un altro artista. Ma quella luce fioca che si diffonde nello spazio crepuscolare, irraggiando in maniera silenziosa e pressoché invisibile la vita, nessun’altro all’infuori di lui avrebbe potuto renderla sensibilmente percepibile. Un sentire pittorico senza pari anima questo dipinto fin nei suoi ultimi recessi. L’intensa vivificazione anche del minimo dettaglio procede in parallelo all’imponente ed energica composizione delle masse. Quel che però qui il sentimento ha voluto, solo la tecnica lo ha potuto realizzare: appunto quell’aspetto artigianale dell’arte senza il quale anche gli ideali più belli rimangono impotenti, poiché non appena intendono alzarsi in volo ricadono a terra, incapaci di sostenersi come sono con le loro deboli ali. Segantini continua prudentemente a lavorare sulla strada che aveva imboccato dipingendo la seconda versione dell’Ave Maria a trasbordo. Inizia a scomporre i colori e a disporli in piccole pennellate l’uno di fianco all’altro, stendendoli in modo da accumulare spessore, così che si produce in certa qual misura un vero e proprio strato materiale. Nella rigorosa composizione delle superfici egli introduce dunque una sorprendente vibrazione, un’oscillazione come di vita che trepida leggera. Al contempo l’artista si è così procurato un mezzo per gestire in modo finemente graduale e quasi inavvertibile i passaggi più delicati da una tonalità all’altra, sicché vediamo rifluire un colore nell’altro, una luce nell’altra nel modo più sfumato possibile. Ma questo modo di procedere non introduce alcun elemento di pedanteria: mai ci sfiora nemmeno il pensiero che ciò possa accadere. L’insieme ci si presenta nella sua armonica magnificenza, immagine e simbolo dell’indistruttibile forza della vita. Il problema pittorico consistente nel far sì che la debole luce di una lanterna possa parzialmente rischiarare un interno buio è stato ripetutamente affrontato da Segantini in quel periodo. Ancor prima delle Due madri l’artista aveva realizzato il quadro I miei modelli, un’opera piacevole e faceta insieme (la riproduciamo qui in una versione più tarda, un disegno che semplifica l’originale e ne ribalta l’orientamento). Il carattere intimamente ironico si basa non da ultimo sul fatto che Segantini non ricorreva affatto a «modelli» nel senso abituale del termine, poiché conservava nei loro confronti la massima libertà artistica possibile. Ora ne dipinge una in questo quadro solo perché è salita di nascosto nell’atelier, spinta dalla curiosità e dal desiderio di spiare e criticare i lavori in corso alla luce della lanterna notturna. La ragazza è impertinente, e si 89


mette col naso davanti al cavalletto, fermamente decisa a non lasciarsi impressionare. Il ragazzino invece trema dalla paura. Se ne sta in piedi, timido e impacciato, in un atteggiamento di profondo rispetto, reggendo la lanterna, che dipinge ampie ombre spettrali. L’artista ha sfruttato tali ombre in modo raffinatissimo, per vivificare la propria composizione tramite suggestivi effetti di contrasto. Altri due dipinti risalgono invece a un periodo successivo, e ci presentano entrambi l’interno di una stalla. Il primo è interamente basato su un gioco di luci e ombre. Di spalle vediamo una ragazza intenta a filare; davanti a lei c’è una lampada, semicoperta dalla ruota dell’arcolaio. Mentre la fanciulla rivolge all’osservatore solo la parte del suo corpo che sta in ombra, la luce della lanterna illumina una mucca di colore chiaro, che se ne sta in fondo alla stalla e fissa la filatrice con ottusa curiosità. Il piano medio dell’immagine, dominato dalla figura dell’animale, viene così avvolto da una luce crepuscolare, mentre il primo piano e lo sfondo sono tenuti nell’ombra, resi come sono in tonalità molto scure, che però si animano meravigliosamente quando assumono la forma della silhouette della fanciulla. L’Europa ha ormai purtroppo perduto quest’opera, che si trova infatti al Museo di Adelaide. Il dipinto Ragazza dormiente nell’ovile risale agli ultimi anni di Savognino. La fonte di luce è qui assicurata da una lampada da cucina dotata di un riflettore in latta, che diffonde una luminosità più abbondante rispetto agli altri quadri che raffigurano interni di stalle. Attaccata in alto a un palo della recinzione, la lanterna illumina sia le pecore che vi sono ammucchiate dietro, sia la fanciulla che si è appisolata sulla panca di legno mentre faceva la calza. L’agitazione naturale del gregge produce un fine e spontaneo contrasto con la quiete che si è duramente guadagnata la dormiente, esausta per il suo faticoso lavoro. Anche in questo caso le ombre dipingono delle figure ornamentali particolari che interrompono la diffusione della luce. Pur meno potente del dipinto Le due madri, quest’opera ha comunque una sua toccante attrattiva, soprattutto per quel che riguarda la giovane pastorella che vediamo di spalle: pur non potendone percepire il profilo, intuiamo in questa figura la durezza della sua esistenza terrena. Anche dal punto di vista pittorico il quadro ci presenta alcuni piacevoli tratti distintivi, soprattutto nella resa straordinariamente delicata delle tonalità grigio-gialle e nella sottile vibrazione dei passaggi fra i contorni: lo possiamo perciò annoverare fra le opere più ammirevoli di Segantini. Tramite queste immagini, con la generosità del suo cuore, il pittore ci ha introdotto negli aspetti più intimi della vita del villaggio. Nell’aspro carattere dell’esistenza 90


contadina vediamo sopraggiungere un raggio di luce che sembra annunciare la consolazione dell’amore eterno. All’esterno la vita si svolge in tutta la ruvidità della sua naturalezza primigenia, in stretto contatto con le primitive necessità naturali. Non sempre tuttavia si può godere di un sole caldo che illumina con i suoi raggi tutto il paesaggio circostante, come nel caso della giovane che lavora a maglia appoggiata allo steccato. Uno dei primi dipinti del periodo trascorso da Segantini a Savognino ci porta nel momento dell’anno in cui si scioglie la neve. In campagna la primavera non è ancora arrivata, ma ha mandato comunque un proprio messaggero: il vento del disgelo. L’umidità ha impregnato il terreno e rende difficile ogni spostamento. La neve resiste ancora solo negli avvallamenti in bianche e morbide masse. Oltre una striscia di campagna gettiamo lo sguardo sulle case di Savognino collocate sullo sfondo. Sul davanti vediamo un muro e un recinto, e anche una di quelle fontane con vasca che sono caratteristiche del Cantone dei Grigioni. La crosta di ghiaccio si è sciolta, e una mucca bianca beve dalla vasca placando la sete con sorsi abbondanti: è una bestia grossa e possente, dietro la quale vediamo un carretto con le slitte che trasporta un carico di legna. Un vecchio, che vediamo di spalle proprio come la mucca, osserva placidamente la scena. È davvero un dipinto che scaturisce dalla vita della natura, dotato di tutte le manifestazioni sensibili di un particolare momento dell’anno. Splende il sole estivo sul piccolo, splendido dipinto che rappresenta una ragazza grigionese che beve alla canna della fontana. Si tratta di un ritratto solo a mezzo busto, ma si intravede comunque un brano di natura: un pascolo sullo sfondo, e un gruppo di anatre. Un semplicissimo evento naturale – una bevuta nella calura estiva – viene qui raffigurato con una certa qual potenza lapidaria, senza però alcuna sconveniente supponenza. Le grandi linee che scorrono nette e l’inquadratura elegante rendono quest’opera particolarmente apprezzabile. Il dipinto Ritorno all’ovile ci fa sentire il sollievo della sera dopo una lunga giornata di duro lavoro. Segantini aveva ripetutamente affrontato simili motivi anche durante il suo periodo brianzolo, ma non erano che fantasie con un tocco di romanticismo. Qui invece l’artista si applica allo studio della realtà, ricavandone degli effetti che ci toccano immediatamente in profondità. L’effetto del quadro riguarda soprattutto la concezione dello spazio. Il prato dietro il recinto e la fila irregolare delle stalle buie, punteggiate qua e là dalle luci delle porte e delle finestre, ci offrono uno spaccato pregno di quell’atmosfera caratteristica della vita contadina. Altrettanto efficace risulta il raddoppiamento del gregge: quello più lontano che insieme al suo pastore sta già 91


entrando nella stalla, e quello più vicino, che è appena giunto al cancello del recinto e si raccoglie disordinatamente attorno alla pastorella che avanza stancamente. Le grigie ombre serali che avvolgono tutta l’immagine, velandola discretamente e tuttavia circoscrivendo accuratamente il contorno di ogni corpo, testimoniano ancora una volta di quell’abilità altamente sviluppata, che non sembra più conoscere difficoltà alcuna. Una serie di opere è contrassegnata da una particolare intimità. Gettiamo lo sguardo all’interno di fattorie nelle quali capanni e case si intersecano pittoricamente, staccionate tagliano obliquamente la prospettiva, e gli attrezzi degli uomini e gli accessori delle bestie ravvivano in vario modo la scena. C’è però sempre una singola figura, o di essere umano o di animale, che funge da stabile punto centrale dell’immagine. In un caso la veduta della fattoria si raggruppa attorno a una mucca pezzata, che fissa con tutta la sua crassa ottusità una parete. È appena piovuto, e il pelo bagnato della bestia è restituito dall’artista con una tale potenza illusionistica che si crede di poterne sentire l’umidità con le dita (nel disegno che qui riproduciamo, risalente a un periodo successivo, si avverte la mancanza di questo effetto; l’orientamento dell’immagine è inoltre invertito, e il formato è stato modificato da orizzontale in verticale tramite l’aggiunta di una porzione di cielo). Un altro quadro ci offre uno spazio rappresentato in maniera assai stimolante: un balcone e una parte del tetto soprastante penetrano con le loro masse scure nell’immagine, producendo un netto contrasto rispetto allo sfondo delicato di una veduta del villaggio resa in tonalità chiare e decorata dalla sagoma di un campanile. Una fanciulla se ne sta appoggiata alla balaustra, oziando, sognando spensierata a occhi aperti. In un terzo quadro vediamo una fanciulla distesa stanca morta sull’erba. Ha gettato cappello e bacchetta, giace prona e dorme come un ghiro. Ombre profonde si diffondono intorno al suo corpo. Dietro di lei, attraverso una staccionata scura, si intravede una fattoria illuminata dalla vivida luce del tramonto e brulicante di presenze umane e animali di ogni sorta. Si produce quindi un duplice contrasto: le ombre di contro alla luce, e la quiete più profonda di contro all’esistenza di vite modeste. Al contempo è come se risuonasse nella figura della pastorella un accento più personale, quello di una forte consonanza nel sentire. Raramente a un pittore è riuscito di rendere l’espressione di un’esaustione fisica totale con mezzi tanto semplici e insieme con una tale capacità rappresentativa. Solo la partecipazione spontanea a quello stato d’animo, forse l’impulso involontario proveniente dal ricordo di proprie esperienze personali, possono spiegare fino in fondo la natura di questo dipinto. In opere di questo genere Segantini ha fissato artisticamente le tipiche forme di 92


esistenza degli abitanti odierni dei villaggi contadini. Ogni componente aneddotica, tanto sul versante gioioso quanto su quello lacrimevole, è scrupolosamente soppressa. Interviene per contro un sentire serio e fervido a infondere di sé queste opere. A Segantini non ha mai interessato la fredda oggettività, e anche questi quadri lo dimostrano. Qualsiasi aspetto della vita e della natura egli ci voglia mostrare, l’artista ci rivela sempre al contempo anche un elemento della sua propria interiorità. Talvolta lo percepiamo come se risuonasse in un piacere innocuo; talaltra come se si rivestisse di una serietà solenne e devota; talaltra ancora come se giocasse con gli enigmi del sentimento, alludendo a qualche significato nascosto. Per capire meglio questo punto, consideriamo più da vicino alcuni disegni. La scena alla fontana, dove la fanciulla dà da bere al ragazzo e questo si piega in avanti in quel modo goffo e divertente, non necessita di alcuna spiegazione ulteriore. Una semplice e serena gioia dell’anima sprizza da queste linee. La figura della contadinella seduta assorta nei suoi pensieri ci racconta di ore cupe. La guancia sorretta dalla mano, le palpebre abbassate: questa immagine ci mostra una pesante oppressione interiore tramite l’irrigidimento esteriore del corpo. Che cosa mai significa quella ragazza vista di profilo, mentre porta un secchio, davanti a un focolare acceso? Il pittore vi ha apposto il titolo La fede. Ci vuol forse dire che questa ragazza, nell’umile e fedele devozione a una dura vita di doveri, crede di conseguire il diritto a una superiore felicità dell’anima? Il senso dell’immagine non è qui del tutto chiaro: forse qui l’artista fa apposta il misterioso, per suggerirci che si tratta di una qualche forma di sentimento religioso. In ogni caso, non ci si dovrebbe comportare in modo indifferente o presuntuoso dinnanzi a siffatte raffigurazioni: esse almeno sollevano intime questioni di carattere psicologico. L’artista rivela qui tramite il disegno aspetti del suo pensiero che non comunica a chiunque. Se li avesse messi per iscritto, tutto il mondo se ne interesserebbe vivamente. Perché siamo così poco inclini ad ascoltare con attenzione le parole inespresse di un disegno? Forse dipende dal fatto che questo disegno ci parla anche senza che afferriamo il suo senso nascosto. Segantini non è mai appartenuto a quei mercanti di segreti che ci si avvicinano con i loro incomprensibili segni runici. Anche là dove il senso profondo rimane problematico, la reale manifestazione esteriore resta in lui ciononostante semplice, vera e immediatamente convincente. Così accade anche nel caso di quella giovane donna. Che noi sappiamo o meno in che cosa consista il suo atto di fede, vediamo questa figura ed essa ci appare come una manifestazione della vita, e indubbiamente una manifestazione tipica della concezione della natura propria di Segantini. 93


Una considerazione generale intorno ai disegni segantiniani non apparirà a questo punto oziosa. Rispetto ai disegni della maggior parte degli altri maestri, essi si contraddistinguono per il fatto di essere qualcosa di più che non meri studi occasionali. Non conosco nemmeno un disegno di Segantini che contenga un simile scarabocchio da assumere oggi come particolare espressione di freschezza e di originalità. Anche in questi fogli Segantini non nasconde affatto il proprio impulso a produrre immagini in sé e per sé compiute. Magari avrà subito distrutto tutti quegli schizzi fuggevoli – ammesso che ne siano mai esistiti! – non appena gli si presentavano alla mano. In ogni caso non ha mai prodotto alcunché di casuale o incompiuto. Come rigettava gli schizzi, allo stesso modo non ha mai realizzato dei veri e propri «studi». Componeva l’immagine nelle sue linee generali secondo le idee che gli forniva la sua fantasia, e quando si trovava davanti alla natura disegnava direttamente figure e oggetti sulla tela. Parlando di Segantini non bisogna mai dimenticare il significato che rivestiva per la sua arte la visione interiore. La visione esteriore era per così dire una mera istanza di controllo, in certa misura un irrinunciabile strumento ausiliario tecnico per poter conseguire un effetto di illusione convincente. Così egli conservava energie e calma sufficienti a esercitare il disegno per amore del disegno stesso. Poteva allora abbandonarsi indisturbato alla propria fantasia e ai propri ricordi. Quando la sera tornava a casa, dopo una giornata di lavoro concentrato en plein air o in qualche interno accuratamente scelto, si concedeva solo una breve pausa per oziare un poco e ristorarsi. Prima di cenare se ne stava a lungo in piedi, con la fronte premuta contro la finestra, ad ammirare lo spettacolo del giorno che finiva o della notte che sopraggiungeva. Più tardi, mentre sua moglie gli leggeva ad alta voce, si metteva seduto a disegnare. Solo in casi eccezionali inseguiva idee del tutto inedite, e quando accadeva si trattava perlopiù di figure singole. Di regola sognava per così dire retrospettivamente. Nella sua vita aveva già dipinto così tante opere, e molte le aveva vendute. Allora riprendeva in mano le fotografie dei suoi dipinti e cominciava a infondere in quelle composizioni una nuova vita, ridisegnandole. Così facendo, quasi sempre gli veniva una nuova idea e, a seconda dell’umore e del piacere del momento, si metteva a modificare le configurazioni precedentemente adottate nei quadri. Spesso intendeva fin dall’inizio migliorare ed elevare a un grado superiore i lavori precedenti ricorrendo a concezioni artistiche divenute nel frattempo più mature. Così sono stati man mano realizzati i numerosi disegni di Segantini, rivalorizzando composizioni precedenti, ora variandole di poco, ora modificandole anche notevolmente. Tutti i disegni 94


hanno dunque la loro origine nei dipinti, e sarebbe del tutto errato spacciarli per studi preparatori a questi. Si mostra qui, ancora una volta, la ricchezza dell’uomo Segantini. Ogni dipinto che l’artista licenziava era un’opera in sé conchiusa. Eppure la sua vivida immaginazione e la sua instancabile visione artistica non trovavano nulla di più facile che rimettersi a giocare successivamente con quei temi apparentemente esausti per variarli senza sosta. Il medesimo uomo, che sapeva così felicemente trovare per ogni sua opera la sintesi e la conclusione, quando ne andava della sorgente dalla quale scaturiva liberamente il suo creare e ricreare, non raggiunse mai quel punto finale nel quale l’energia e il piacere si inaridiscono.

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Ottavo capitolo Il pittore dell’aria di montagna «Se l’arte moderna avrà un carattere, sarà quello della ricerca della luce nel colore»17: così Segantini scrisse a Vittore Grubicy sul finire dell’anno 1887, circoscrivendo in quelle poche e concise parole il programma di lavoro che come pittore si era ripromesso di realizzare durante il suo soggiorno a Savognino. Abbiamo visto come l’artista avesse compiuto un primo energico passo in quella direzione con il dipinto dell’Ave Maria, seguito poi dalla Ragazza che fa la calza. Nei numerosi interni di villaggio egli si dedicò con passione particolare allo studio delle modificazioni della luce. Quando dipingeva gli spazi interni, non gli interessava la luce che penetra dall’esterno, bensì quella che viene prodotta nel buio, debolmente irraggiata dalla lanterna, con gli innumerevoli e finissimi passaggi di tono dal chiarore tremolante all’oscurità trasparente, passando per la penombra rischiarata e l’opacità sonnecchiante. Quando dipingeva en plein air, prediligeva articolare le prospettive ristrette ricorrendo a gradazioni o contrasti di luce, facendo dialogare fra loro in masse dai contorni dentellati la luminosità peculiare del tramonto e le ombre della sera. Ma gli rimaneva ancora da scoprire la meta suprema: la resa tecnica della chiara luce solare. Era questo il dono più importante che il mondo alpino doveva recargli: la meravigliosa limpidezza dell’aria delle vette. Perciò dalle bassure della valle era fuggito verso l’alto. Vi giunse come un uomo ebbro di luce, che aspirava con tutto il suo essere al regno celeste e alla sua cristallina luce solare. Qui in quota poté saziare i suoi occhi e impregnare la potenza espressiva del suo pennello immergendola in una sorgente dorata.

17 Lettera del 30 dicembre 1887 da Savognino; in Scritti e lettere, cit., p. 172. 96


Segantini avvertiva in se stesso una sorta di felice presagio, come se sentisse che sulle vette qualcosa di nuovo doveva accadere. Era il 1° gennaio 1889 quando scrisse nel suo diario: «Mattino. Il primo giorno dell’anno è dunque oggi; credo che questo anno porterà un gran cambiamento nella mia vita artistica; speriamo sia in bene. Aprendo la finestra, il sole entrò involgendomi nella sua calda luce dorata, e tutto mi abbracciò; socchiusi gli occhi inebbriato dal suo bacio di vita, e sentii che la vita è pur bella, e mi discese nel cuore la gioventù e la speranza dei miei vent’anni. Il cielo è azzurro e profondo, la vallata è inondata dal sole, i campi di avena tagliata luccicano al sole come pagliuzze d’oro; c’è nell’aria qualche cosa di festante. Pensare che ci troviamo a 1200 metri sopra il livello del mare! Il godimento della vita sta nel sapere amare; nel fondo d’ogni opera buona c’è l’amore»18. Se questo entusiasmo colmo di speranza traboccava in tutta la sua purezza riversandosi nelle parole dell’artista, il lavoro reale che doveva condurre alle vette agognate si compieva in modo arduo e faticoso. Ma alla fine queste vette furono scalate, e si rivelarono solo una base per scalarne di ancora più alte. L’opera con la quale Segantini raggiunse la sua prima meta e che segnò l’inizio di un nuovo periodo – quello più famoso! – della sua evoluzione pittorica fu il dipinto La zolla, realizzato nel 1890, e ora prezioso possesso della Neue Pinakothek di Monaco di Baviera. Il quadro originario risaliva agli anni 1887-1888 e rappresentava, sullo sfondo di montagne scoscese ricoperte di neve, due cavalli bianchi che trainavano l’aratro per il campo. Vi si vedevano anche i due contadini, come peraltro nella versione più tarda, solo che quello che cammina dietro i cavalli è piegato in modo più accentuato. La prima variante fu spedita a Londra nel 1888 e a Parigi nel 1889, in occasione dell’Esposizione Universale. Era già di per sé un interessante risultato. Ma bisognava ammettere che il problema vero e proprio – la restituzione in immagine della trasparente limpidezza dell’aria alpina – non aveva ancora trovato una soluzione pienamente soddisfacente. Anche Segantini dovette essere stato della medesima opinione. Perciò decise per il momento di non porre mano al quadro; lo appoggiò invece alla parete, e cercò di sviluppare la sua forza creativa dirigendola su altri soggetti. In questo periodo furono

18 «Dal diario», in Scritti e lettere, cit., p. 52. In realtà l’annotazione, registrata a Savognino, è del 1° gennaio del 1884, e non del 1889 come scrive Servaes. 97


realizzati, uno dopo l’altro, lavori significativi, come quelli che compongono la serie raffigurante la vita del villaggio (La ragazza che fa la calza, Le due madri, Il ritorno all’ovile). Poi vi si aggiunsero anche alcuni studi en plein air, nei più differenti periodi dell’anno, in formati di varie dimensioni. Segantini dipinse così – incrociando le strade di Millet e di Liebermann – La raccolta delle patate: una fila di lavoratrici incurvate sotto un cielo cupo e nuvoloso; un’immagine abilmente composta in un’eccellente resa prospettica della spazialità e nella restituzione efficace dell’atmosfera. Ma non è un vero e proprio Segantini. Estraneo nel corpus del nostro maestro risulta anche un dipinto di soggetto invernale, con signore che slittano e cani che cacciano i corvi. È un quadro anche dipinto con un certo humour, che si è forse insinuato nella sua produzione in modo involontario, dal momento che qui l’artista non si trovava di fronte a semplici esseri umani immersi nella natura, bensì al moderno fenomeno culturale della dama. Si vede bene come la signora stia gelando, e come alla fin fine lo sport non la diverta affatto: se ne sta seduta sul suo slittino in un atteggiamento innaturale e sofferente, sfrecciando giù per la discesa innevata, mentre i cani le abbaiano d’intorno. La neve si dispiega ampiamente sui due lati, fin su verso le cime dei monti, così che, risaltando su tutto quel bianco, il cielo coperto sembra quasi nero. Sullo sfondo fa capolino un hotel quasi seppellito sotto la neve: dalla terrazza sul tetto alcuni turisti si godono lo spettacolo. Una seconda signora, tutta infagottata nei suoi vestiti pesanti, si è appena lasciata andare, e ora slitta felice dietro alla prima. Il dipinto è interessante come rappresentazione di un paesaggio innevato; ma l’ammiratore dell’arte di Segantini solo a fatica vi può trovare ulteriori elementi rilevanti. Allo stesso periodo deve probabilmente risalire il grande disegno che raffigura due dame impellicciate, che riproduciamo nel presente volume. Di maggiore interesse appaiono quegli studi en plein air il cui motivo centrale è costituito dalla rappresentazione di animali. Va menzionato innanzitutto il Cavallo al pascolo, un massiccio destriero bianco lanciato al galoppo, che a grandi balzi sembra quasi fuoriuscire dall’immagine. La resa del movimento è qui concepita in modo audace, ma non può dirsi perfettamente riuscita. Non si avverte il prima e il poi: è come se fosse uno scatto alla luce al magnesio, che può fissare un solo attimo del processo. Per contro, nella sua grandiosa semplicità, la Vacca che si abbevera al truogolo è di una potenza elementare. Il corpo della bestia, visto di scorcio, è modellato in maniera eccellente; ma tutta la sua forza vitale si concentra nell’occhio che, durante la bevuta, brilla e sfavilla dal desiderio di dissetarsi. Molto grazioso è il pascolo animato dal bestiame, che si estende in lontananza, finché bianche montagne e nuvole parimenti bianche non 98


chiudono la prospettiva. L’opera Alpe di maggio ci colpisce intensamente, fino a innalzarsi per così dire a simbolo stesso della vita della natura. Lo sguardo vaga sopra un pascolo assolato, sotto un cielo azzurro, fino a raggiungere le montagne scarsamente innevate. In primo piano, vicino a un alberello rinsecchito, un’amorevole mamma capra si piega delicatamente in avanti verso il suo capretto, che sugge dalle mammelle rigonfie. Questo motivo animale così delizioso e così caratteristico dell’arte di Segantini sarebbe stato poi ripreso ancora una volta, ma su scala maggiore, nel dipinto Madre amorosa. Eliminando tutto il paesaggio circostante e lasciando solo lo sfondo appena necessario, Segantini raggiunge qui una concentrazione intensificata, che consente di far emergere in maniera più consapevole, a fianco dell’esecuzione scrupolosa dei corpi animali, anche il motivo etico. Ma tutte le capacità di cui Segantini disponeva a quell’epoca sono state raccolte e destinate al grande quadro Vacche aggiogate. Qui l’artista ha ripreso ancora una volta il motivo della fontana di campagna con la vasca, alla quale si abbeverano le vacche e la contadinella, restituendolo nel modo più maturo e più convincente. Il villaggio è posto in disparte, sospinto sullo sfondo contro le montagne. Un’ampia catena di vette innevate brilla luminosa stagliandosi nettamente tra la tonalità opaca del cielo e il terreno scuro, che digrada sul davanti come se fosse terrazzato. Il primo piano è riempito in tutta la sua estensione dal carretto, al quale è aggiogata la coppia di mucche, e dalla fonte, alla canna della quale sta bevendo la fanciulla, piegandosi sopra la vasca. Il primo piano è immerso nella piena luce solare, che rende chiaramente evidente l’esecuzione di ogni singolo dettaglio. L’elemento più vicino all’osservatore è il carretto di legno a quattro ruote: si vedono perfettamente le venature del legno di colore grigiogiallo, mentre le ombre portate (soprattutto quelle delle ruote) segnano nettamente con i loro toni bluastri i contorni del disegno. Le due mucche, possenti e ben piantate, sono splendide: quella bruna è seminascosta da quella pezzata, che ci volge il dorso, mentre dal muso le gocciola dell’acqua. La ragazza, che porta una cuffia bianca ed è piegata nell’atto di bere, ci appare solo nella parte superiore del corpo che spunta dal massiccio truogolo in legno. La maestria pittorica con cui Segantini sa rendere gli effetti di superficie è qui dimostrata nella raffigurazione della corteccia del legno e del pelo delle bestie. Per questi elementi, come anche per il prato sulla parte anteriore del dipinto, l’artista ha adottato la tecnica divisionista, giustapponendo i colori l’uno all’altro come se fossero le tessere di un mosaico. Gli mancava tuttavia ancora la forza di applicare uniformemente questa modalità pittorica a tutto il dipinto. Le parti posteriori sono 99


state infatti realizzate ad ampie strisce, che consentono solo una debole articolazione reciproca delle masse. Per quanto interessanti appaiano i campi in ombra, dai toni grigioverdi e verdeblu, nel loro meraviglioso risaltare di contro al bianco luminoso delle vette innevate; per quanto efficacemente vi si accompagni il blu plumbeo del cielo striato dai volteggi degli uccelli, avvertiamo tuttavia la mancanza di un perfetto equilibrio fra luci e ombre, quella limpidezza che trasfigurerebbe armonicamente l’insieme. Era questo il punto dal quale doveva prendere le mosse la nuova fase del lavoro dell’artista: Segantini si decise dunque di riprendere in mano il quadro intitolato La zolla, che era rientrato dall’Esposizione Universale di Parigi, per rielaborarlo interamente secondo i principi della tecnica divisionista. Ora non si potevano più lasciare le cose a metà, bisognava completare l’opera. Si doveva riuscire a raffigurare tanto le parti vicine quanto quelle lontane secondo il medesimo principio artistico della vibrazione, ottenuta tramite la scomposizione prismatica dei colori, mantenendo al contempo sia la chiarezza dell’articolazione sia la quieta grandezza dello sviluppo delle linee. Segantini compì dunque il passo più ricco di conseguenze che mai avesse intrapreso per lo sviluppo del suo percorso artistico. Volle rompere del tutto quei ponti col passato che aveva tante volte comodamente sfruttato, per avviarsi su una passerella apparentemente instabile, eppure da lui esattamente calcolata, che doveva condurlo nel paese incantato del futuro. Si era perfettamente reso conto del fatto di non poter ottenere quel che voleva esprimere dal punto di vista artistico con i mezzi che aveva avuto fino ad allora a disposizione; prima di rassegnarsi a una vile rinuncia, doveva tentare qualcosa di nuovo per raggiungere il proprio scopo. Ma non è che non sapesse da che parte girarsi. L’intera evoluzione artistica dei suoi ultimi anni lo aveva sospinto in quella direzione con la potenza di una logica intrinseca. E non era affatto isolato. Altri avevano cercato simili mete, e avevano anche raggiunto simili risultati. In Francia, sotto la guida di Monet, avevano intrapreso vie affini Sisley e Pissarro, e artisti come Eliot, Besnard, Henri Martin e altri li avevano seguiti, ciascuno a suo modo. In Belgio Signac si era impegnato a ricondurre la tecnica complessiva del divisionismo (o pointillisme) a una teoria scientifica, che si presentava addirittura come l’unico vangelo capace di assicurare all’arte pittorica moderna uno stato di beatitudine. Rysselberghe, Seurat, Toorop e altri giovani risposero alla chiamata e si dichiararono pronti a operare secondo i suoi dettami. Anche in Germania e in Austria alcuni artisti si muovevano in questa direzione, ad esempio l’eccellente Rohlfs a Weimar, Paul Baum a Dresda, e il viennese Theodor von Hörmann, seguito successivamente da Klimt. Vi era pertanto 100


già un «movimento» in corso, che faceva lentamente sentire i propri effetti, magari intervenendo in diversi punti tra loro privi di connessione, eppure ovunque animato dal medesimo impulso. Aria, luce e colore erano le grandi mete, come del resto lo erano già state per la generazione precedente. Ma a pungolare adesso incessantemente gli artisti in maniera sistematica sopravvenivano una sempre maggiore insoddisfazione per i risultati fino ad allora raggiunti, una tecnica della visione sempre più raffinata, un’evoluzione sempre più differenziata dell’apparato nervoso. Si voleva imparare a esprimere artisticamente l’inquietudine nella quiete, l’ondulazione nell’etere, l’ubiquità della vita. Si sentiva che «non vi è nulla di fisso, ogni cosa è in eterno movimento». E si avvertiva anche che qualsiasi mescolanza cromatica non poteva conseguire altro che effetti impuri, che sminuivano l’energia naturale dei colori. Si pervenne dunque a scomporre i colori in parti piccolissime, che venivano disposte sulla tela in modo tale che l’effetto della mescolanza cromatica, invece che prodursi sul quadro, si producesse sulla retina dei nostri occhi. Si passò quindi a stendere il colore sulla tela in piccoli tocchi intatti, conseguendo un equilibrio con l’aggiunta dei colori complementari. Si conseguirono in tal modo effetti nuovi e sorprendenti, che potevano rappresentare sotto qualche rispetto dei progressi. Cionondimeno si verificarono anche diversi inconvenienti. Nella maggior parte dei casi l’impressione complessiva era notevolmente stridente, la resa delle ombre appariva insufficiente, e i puntini della dimensione di un pisello erano troppo grandi per poter davvero scomparire se visti a una certa distanza, e per potersi completamente risolvere in una massa unitaria che vibrasse dinnanzi all’occhio. Questa tecnica laboriosa pesava non meno negativamente sul disegno, che veniva di conseguenza risospinto verso uno stadio alquanto primitivo, finendo per soffrire di mancanza di energia, di grazia e di sfumature. A molti dei giovani ribelli tutto questo sembrava però perfettamente giusto. I più radicali e più fanatici consideravano l’arte del disegno una pratica superata, e ravvisavano nella determinazione di contorni netti un’abitudine menzognera, affettata, astrattamente intellettuale, impegnata a schiavizzare in rigide forme il carattere mobile e leggiadro della natura, e perciò giudicata tristemente priva di vita. Nei confronti di questa cerchia di artisti impetuosi e sediziosi Segantini se ne stava insolitamente placido e quieto: non si lasciava sfiorare né dalla teoria né dall’ambizione, e nel suo fare obbediva esclusivamente ai comandamenti di una sempre più pressante necessità. Seguiva solo indicazioni di carattere pratico, e non si lasciò mai minimamente tentare da implicazioni di natura teorica. Rifletté senz’altro sull’essenza 101


dell’arte in modo libero e autonomo, e quel che faceva lo realizzava in piena coscienza. Ma non accettò mai di modificare alcunché delle sue opere solo per una qualche prescrizione teorica proveniente dall’esterno. Ogni volta che cambiava qualcosa nel suo modo di operare, lo faceva come un esito naturale della sua stessa prassi. Lo prova nella maniera più convincente il fatto che egli si fosse impadronito della nuova tecnica con lenta gradualità e consequenzialità. L’avrebbe certo potuta acquisire con grande facilità! Gli sarebbe bastato cedere alle pressioni di Vittore Grubicy, accompagnarlo a Parigi o in Belgio, e studiare in loco i risultati di quelle ricerche straniere per farli propri. Ma non era questo che Segantini voleva. Egli voleva procedere autonomamente per la propria strada, voleva lasciarsi condurre dalla necessità interiore: un passo dopo l’altro, senza salti, ma anche senza esitazioni. Quando venne il momento, attraversò semplicemente e risolutamente il confine ed entrò in una terra nuova. Una volta valicata la frontiera, non si trovò tuttavia in un paese a lui estraneo: a lungo aveva tenuto dinnanzi ai suoi occhi quella terra inesplorata, e l’aveva già indagata con la sua visione anticipatrice. Dove si trovava ora, conosceva già le strade e i passaggi, e poteva avanzare sicuro e imperterrito (e così si può porre anche fine a quella leggenda che vorrebbe che il pittore Pellizza da Volpedo, che lavorava in modo simile a Segantini, ne sia stato il «maestro»). Segantini poté godere di un ulteriore vantaggio che gli era stato concesso in virtù della sua pazienza e della lentezza del suo procedere. Se pure egli non può essere considerato l’origine storica di quel movimento, tuttavia il movimento stesso si presentava in lui in modo perfettamente originario. Pertanto la sua maniera di esprimersi in seno al movimento stesso appariva diversa da quella di tutti gli altri artisti: era assolutamente personale. Al posto dei puntini rotondi e oscillanti egli apponeva sulla tela dei filamenti, a mo’ di «tessere di mosaico». Si metta un Monet o un Rysselberghe a fianco di un Segantini: fra di loro sembra spalancarsi un mondo. Là si vedono dei colti decadenti di buon gusto, che accarezzano i nervi esausti con le loro esasperate raffinatezze, pur rimanendo in tutto ciò freddi calcolatori. Qui si erge, guardandoci dritto negli occhi, l’intatto uomo primitivo, nel quale ogni elemento di eccellenza esprime un inedito stato di salute, una potente flessibilità interiore. Ecco perché a essere completamente differente non è soltanto la modalità di applicazione della tecnica (che pure prende le mosse dagli stessi punti di partenza per indirizzarsi alle medesime mete). Diverso è soprattutto il taglio dei quadri. Nemmeno per un momento a Segantini è potuto venire in mente di sacrificare anche minimamente la linea, che quei pittori vollero invece abban102


donare in misura più o meno evidente. La linea rimase per lui tanto importante quanto la vibrazione cromatica della luce. E il suo problema vero e proprio sembra essere stato appunto quello di ricongiungere la vibrazione alla linea. Qui si comprende bene che non era stato un caso se, all’inizio del periodo brianzolo, Segantini era divenuto allievo di Millet. Quel che di più profondo il nostro artista aveva preso da Millet era in realtà qualcosa che gli apparteneva intimamente, e che reggeva come incrollabile colonna portante il suo stesso carattere artistico. Ovunque volesse indirizzare il proprio fare, un quadro rimaneva pur sempre per lui una superficie ben delimitata, che doveva venire articolata in modo ornamentale per mezzo di quegli elementi che vi andavano raffigurati. Ciò significa che l’aspetto primo e più importante di tutte le sue opere consisteva nel disegno della composizione, ritmicamente soppesata secondo i suoi rapporti spaziali. Segantini non abbandonò mai questa concezione fondamentale. Solo sulla base di tale concezione poteva svilupparsi la sua arte. E se doveva essere «vibrazione della luce», allora la luce doveva vibrare attorno alle linee stabili della composizione. Altro non si poteva fare, stando alle convinzioni artistiche segantiniane. In ciò risiedeva il suo compito, e la soluzione di questo compito gli assicurò la sua grandezza storica. Se per altri versi Segantini può essere accostato ad altri artisti, e persino passare in secondo piano dietro a essi, su questo punto preciso egli domina come unico e come primo. I vantaggi appena menzionati sono già tutti presenti nel quadro La zolla: perciò quest’opera segna davvero un’epoca. Quando Segantini rimise mano al dipinto, dovette porsi come compito primario quello di ottenere un’illusione spaziale più profonda e più luminosa. Trasformò dunque anzitutto il manto dei due cavalli da bianco in fulvo, in modo da ottenere in primo piano una macchia scura al posto della macchia chiara che toglieva luce al fondovalle. Quindi alzò la porzione innevata sulla catena montuosa, in modo da rendere più netta l’articolazione delle montagne e da aumentare il loro contrasto rispetto al cielo. Non vennero disdegnati neppure aspetti più secondari della spazialità complessiva: venne ad esempio inserito un grosso masso di granito grigio verso il bordo inferiore del quadro, che con il suo profilo contribuisce a far risaltare notevolmente la direzione orizzontale dell’altopiano. Il raddrizzamento della postura dell’aratore posteriore rispondeva per contro a scopi stilistici, per conseguire un certo equilibrio nei confronti delle linee dell’aratore anteriore e delle zampe dei cavalli, conferendo così un maggiore bilanciamento alla composizione nel suo insieme. Ma questi erano solo degli interventi preparatori al lavoro principale che doveva seguire e interessare tutto il dipinto. Si trattava infatti della traduzione del quadro 103


nella sua interezza nel linguaggio formale della tecnica pittorica divisionista: occorreva dissolvere tutte le superfici stabili in un mobile caos cromatico, che doveva poi nuovamente ricomporsi in armonia. Ogni filo d’erba, ogni singola zolla, ogni pietra del campo, si vedevano ora in certa misura riconosciuto il proprio diritto. E doveva dominare la trasparenza non solo là dove il sole batteva direttamente, ma anche là dove le figure proiettavano le loro ombre. Soprattutto veniva a rivivere lo sfondo nel suo complesso. Si vede esattamente il saliscendi della campagna, i suoi piani che si stratificano delicatamente, cominciando infine lentamente a salire verso la montagna. E si distinguono nettamente in lontananza non solo le case, con i tetti e le finestre, ma anche animali ed esseri umani, se ne afferrano nettamente le posture e le occupazioni, si possono cogliere persino alcuni dettagli del vestiario, come grembiuli e fazzoletti. Di per sé tutto ciò non sarebbe affatto sorprendente, e si potrebbe ricordare che gli artisti spagnoli, ad esempio Pradilla, avevano prodotto simili pezzi di bravura, forse addirittura anche più raffinati. Ma in quei casi si trattava per l’appunto di giochi di abilità, di esibizione di perizia, di trucchi da virtuosi, che grossolanamente trascuravano le più elementari regole della prospettiva aerea. In Segantini avveniva l’esatto contrario! Quei dettagli che abbiamo menzionato sono così poco invadenti che la maggior parte degli osservatori devono essere espressamente invitati a guardarli affinché se ne possano accorgere. Non un solo particolare è raffigurato in modo autonomo e di per se stesso: tutti si pongono al servizio dell’impressione complessiva del dipinto. Essi sono per così dire solo contrassegni della manifestazione fenomenica dello spazio, sintomi della chiarezza della luce. Erano necessari affinché lo stile del quadro potesse raggiungere la propria suprema capacità espressiva. Questo metodo di raffigurazione pittorica si estende fino alle creste montane più elevate, dove si stagliano reciprocamente le parti rocciose e le masse nevose, e persino al di sopra di esse, su nel cielo di un colore blu cupo, che vibra intensamente sulla bianca luminescenza della linea innevata. In tutto ciò, il punto centrale che domina indiscusso la scena è costituito dal gruppo dei due aratori con i loro due cavalli: tale gruppo determina l’asse attorno al quale ruota il dipinto nel suo complesso, la manifestazione plastica e corporea rispetto alla quale entra in vivo contrasto la costruzione spaziale del quadro. Quest’ultimo e supremo scopo è stato conseguito solo grazie alla stabilità della linea con la quale il gruppo è stato composto. Solo a questo punto la raffigurazione dell’aria e della luce riceve il proprio senso, solo adesso il paesaggio comincia a parlare, e la zolla rivoltata dal vomere racconta la storia delle proprie sofferenze e dei propri doni. 104


* D’ora in avanti Segantini siede saldo in sella. E vi siede sovrano, come chi può, non come chi cerca. Non è però certamente uno che se ne sta fermo: cerca anzi incessantemente di perfezionarsi. In particolare si impegna a diventare ancora più energico, più luminoso e più efficace nella raffigurazione della luce solare. Due quadri che raffigurano l’ora del meriggio, dipinti all’incirca un anno dopo La zolla, lo vedono impegnato in questo compito. Al centro di entrambi i quadri sta una giovane pastorella, mentre d’intorno brucano le pecore di montagna dal vello bianco. La ragazza indossa un costume popolare e porta un cappello di paglia a tesa larga, che le fa ombra su metà del volto. In un dipinto se ne sta in piedi a guardarsi intorno, schermandosi con la mano piatta gli occhi per proteggerli dalla luce diretta del sole. Nell’altro si appoggia disinvolta con il dorso e i gomiti contro un ramo piegato in modo strano, come fosse uno steccato. I due dipinti sono realizzati con tonalità chiare su sfondo chiaro, con poche ombre leggere. Il pascolo, i monti e il cielo vibrano nella quiete silenziosa del meriggio. Le figure sembrano immobili, ritmate solo dal pulsare del caldo, prive di ogni impulso a compiere una qualsivoglia azione, sotto il sole che splende cocente. Di fianco ai quadri del sole consideriamo ora un quadro della neve. Anche la neve diffonde chiarore attorno a sé, e fa lampeggiare e brillare le cose in lontananza. Le figure però non si sciolgono nella luce, ma piuttosto si distaccano da essa in ampie masse e in contorni definiti. Un pittore come Segantini doveva saper sfruttare in modo eccellente i vantaggi, da lungo tempo noti, offerti da una tale situazione. Il quadro Ritorno dal bosco ce lo prova abbondantemente. Una ragazza cammina tranquilla verso il villaggio che vediamo sullo sfondo, ai piedi del pendio; le finestre illuminate di giallo guardano verso i campi innevati, tirandosi dietro silenziosamente il pesante carico di legna sistemato sulla slitta. Le masse sono meravigliosamente contrapposte dal punto di vista cromatico. Alla neve bianco-bluastra fa da contrappunto, al di sopra delle vette, un cielo bianco-giallastro. Fra la neve e il cielo, nettamente disegnata, si distende trasversalmente la striscia scura dei monti, leggermente striata di bianco. Ai suoi piedi l’artista raccoglie il villaggio, reso nei toni del marrone, con i suoi tetti innevati, e il campanile appuntito che svetta snello nel cielo. Ancora più scuri della montagna sono il corpo della ragazza e la slitta, che emergendo sul davanti intersecano la superficie innevata fin quasi sotto la linea di cresta. Con quel sentimento ritmico che sempre di nuovo siamo obbligati ad ammirare profondamente, tutti gli elementi sono qui soppesati fin nel minimo dettaglio e nei loro rapporti reciproci, e ricondotti a una stupefacente e tuttavia semplicissima armonia. 105


Dopo che l’artista si era conquistato il regno della luce in tutta la sua estensione, fu il crepuscolo a rappresentare per lui un nuovo problema pittorico. Anche il crepuscolo ha la sua propria luminosità, solo che essa è difficilmente afferrabile perché delicatamente frammentata. Segantini aveva già ripetutamente compiuto dei tentativi in questa direzione, anche fortunati. Si dovrebbero qui ricordare tutte quelle raffigurazioni di spazi interni alla luce di una lanterna. Ma altra cosa era tuttavia catturare la luce naturale del giorno nel bagliore digradante dei suoi ultimi raggi, lasciarci percepire la purezza dell’atmosfera serale che da quella luce scaturisce, e magari opporvi per contrasto qualche sporadico punto di fuoco acceso dall’uomo. Segantini si è posto questo compito nel quadro L’ora mesta, che è conservato alla Galleria Nazionale di Berlino. Di sera, davanti a un piccolo paiolo fumante, sotto il quale arde un fuoco rosso, una giovane contadina siede su un campo pietroso; rabbrividisce, immersa in pensieri cupi. Di fronte a lei si trova una mucca pezzata, che stende il collo muggendo. Il sole è tramontato; ma un bagliore giallastro permane ancora nel cielo, diffondendo il suo chiarore per tutto il firmamento, già invaso da una leggera foschia. Sui campi stanno aumentando le ombre. Solo un lieve riflesso di luce ancora resiste, penetrato dalle deboli lingue di fuoco che si propagano da sotto il paiolo. Tutto converge per indurci a percepire la fine del giorno come un momento melanconico: l’ampia campagna, scura e scarsamente articolata; le due figure davanti al fuoco, una di fronte all’altra, che intersecano appena la linea dell’orizzonte. È come se una sensazione dolorosa segreta e inafferrabile oscillasse fra la donna accovacciata e l’animale mugghiante. Sembra di poter udire distintamente il muggito riecheggiare, per metà sofferente e metà inquietante, per la campagna desolata. Il crepuscolo pare assumere una sua propria sonorità in quel verso, e incarnarsi nel corpo delle due figure. Quella profonda depressione che sembrava scaturire dalle fondamenta originarie della natura, e che aveva già colpito più di una volta il giovane Segantini, si annuncia in questo dipinto anche nell’uomo maturo. Sempre abituato a non respingere da sé nulla che fosse proprio dell’essere umano, l’artista assorbì avidamente quell’umore triste e lo espresse poeticamente in quest’immagine. Era questo il modo in cui riconosceva se stesso dal punto di vista artistico: come scaturente nella sua integrità dal sentire vitale. Un’altra volta Segantini conferì spazio e forma artistici ad atmosfere psichiche di questo genere. Fu verso la fine del suo soggiorno a Savognino, quando, nell’estate del 1893, si era affittato una malga sulle montagne sopra il villaggio, nella zona misera e deserta di Tusagn. Vi abitava nel modo più primitivo, quasi come un uomo preisto106


rico. Le camere erano piccole, degli umidi loculi divisi da pareti di legno; e i membri della famiglia vi dimoravano ammassati gli uni agli altri. Nella grigia capanna era stato introdotto qualche scarso elemento artistico: alcune héliogravures romane che riproducevano opere di maestri olandesi (Israels, Maris, Mauve, Verstraete, Courtens e altri). Ma all’esterno dominavano pascoli ubertosi, splendidi fiori alpini, mandrie imponenti e l’aria più chiara e più fine che si potesse desiderare. Segantini passava tuttavia oltre queste meraviglie, per addentrarsi più in profondità fra le montagne; camminava per due o tre ore fino a raggiungere una radura di sua conoscenza, collocata fra rocce e pietre, grigia, spoglia di alberi e mezza secca: qui l’artista si sedeva a dipingere Pascoli alpini. Il quadro è stato terminato solo successivamente a Maloja, e mostra diversi segni caratteristici dell’ultima fase dell’arte segantiniana. Ma, per quanto riguarda la concezione e la parte principale della sua esecuzione, l’opera ricade ancora nel periodo di Savognino, e può essere annoverata fra i prodotti di quell’epoca. È davvero il quadro più sconsolato che il nostro artista abbia mai dipinto: l’Ora mesta al confronto sembra calda e mite. In questo dipinto la natura stessa appare in tutta la sua sterile durezza. Non concede quasi nemmeno lo stretto necessario, e anche quel poco lo offre in maniera ostile. Tuttavia, anche là dove la natura si ritrae, essa rimane pur sempre grande e potente, e la sua spietatezza suscita in noi un sentimento sublime. Giù nella valle essa offre i suoi doni in abbondanza; qui in alto però vuole godersi finalmente la pace. I suoi seni devono davvero sempre traboccare? L’avidità degli esseri viventi la perseguiterà incessantemente? Il senso della vita è duro e ruvido. E allora che questo senso possa qui manifestarsi senza veli! Pecore magre e misere, con colli e zampe sottili come quelli dei camosci (senza però condividerne la snellezza e la tonicità), si radunano timidamente insieme, gli sguardi fissi e ottusi, brucando stancamente. Sono mezze strinate dal calore di un sole che splende senza ombre, eppure sembra che interiormente tremino dal freddo. Nei pressi è seduto un triste pastore, quasi ancora un ragazzo, eppure già esausto e stanco come un vecchio. Il volto arrossato dal sole gli è caduto in avanti nel dormiveglia; le mani riposano molli e inattive sulle cosce. Salendo verso l’alto, il campo diventa sempre più grigio e nerastro. Fra le ombre sonnecchia un laghetto sperduto. È piena estate, si vedono solo scarse tracce di neve sulle creste rocciose, sovrastate da un cielo grigio-blu. E tuttavia, ecco che in tutta questa sconsolata situazione appare un raggio di speranza. In primo piano sulla sinistra si vede una mamma pecora che allatta i suoi due agnelli, piegandosi amorevolmente verso di loro. Chi ha potuto gettare anche solo uno sguardo fugace nel cuore di Segantini, saprà che cosa l’artista intendesse 107


comunicare con tale scena. L’amore materno è infatti per lui il simbolo della forza di conservazione della natura! E persino qui, dove tutto sembra volersi rinsecchire, essa esercita ancora la sua mite forza vivificatrice. Per questo elemento apparentemente secondario l’opera Pascoli alpini entra in un peculiare contrasto con un altro dipinto realizzato anch’esso sulle alture di Tusagn: Le cattive madri. Questo però ci conduce a un ambito artistico e concettuale che richiede una trattazione specifica.

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Nono capitolo

Nel regno dei sogni Tutti quei dipinti di Segantini, che in virtù della loro schietta fedeltà alla natura siamo inclini a ritenere mere riproduzioni della realtà, sono in realtà scaturiti da idee poetiche. È soltanto quando ci immergiamo più profondamente in essi che riusciamo ad avvertire la dimensione del sogno. Il sogno aleggia come una potenza placida e risanatrice, come una forza di trasfigurazione psichica, al di sopra dei quadri che raffigurano scene di vita quotidiana. Esso è intrecciato nel modo più intimo alla realtà. Nulla di estraneo o di freddo separa questi due ambiti, poiché il sogno è l’originaria sorgente creatrice dalla quale scaturisce l’opera d’arte. Già molto precocemente Segantini aveva tentato di riconoscere alla dimensione onirica un suo diritto nelle proprie creazioni pittoriche, per innalzarsi per suo tramite al di sopra della realtà. Pensiamo al quadro giovanile L’eroe morto, nel quale l’artista cercò di fissare una visione interiore. Segantini più tardi giudicò che quell’opera non gli fosse riuscita bene, che fosse anzi destinata a fallire, poiché nella sua inesperienza egli non possedeva ancora la padronanza sufficiente per controllare l’espressione della natura. L’artista era convinto che colui che, liberamente fantasticando, voglia innalzarsi al di sopra – o meglio andare al di là – della natura, dovrebbe essersene innanzitutto impadronito nel suo stato vergine, nella sua luce e nelle sue mobili forme, grazie a studi seri e ben condotti. Se non si passa per questo stadio, è impossibile che un’opera d’arte riesca a manifestare il sentire personale del suo creatore o il senso vitale della natura. Segantini fu dunque molto prudente a lasciarsi comandare dalla fantasia ispiratrice. E persino quando poteva ormai dire a se stesso di aver già conseguito un considerevole dominio sulle forme fenomeniche della natura, continuava a mantenersi titubante e critico. Un tentativo di realizzare una composizione fantastica, risalente al 1888 (dunque al secondo anno del periodo di Savognino) rimase incompiuto nell’atelier. E 109


tuttavia saremmo tentati di riconoscere in questo abbozzo degli spunti assai felici e un alito di fine poesia. Si tratta del bel dipinto Le ore del mattino, che riproduciamo in questo volume. Il leggiadro girotondo di geni che aleggiano sopra i prati profumati, sullo sfondo di un ghiacciaio, ci suggerisce l’affascinante personificazione delle nebbie mattutine che si diffondono per le valli in strisce biancastre. E tuttavia il maestro volle rigettare questo quadro, mettendolo da parte forse perché ne aveva progettato una successiva rielaborazione più matura. Solo esteriormente si potrebbe includere in questo elenco il dipinto Petalo di rosa, rifacimento risalente al 1899 dell’opera giovanile raffigurante una tisica moribonda, di cui abbiamo già parlato. Se non fosse per il titolo, si potrebbe considerare tranquillamente questo dipinto come lo studio dal vero di una giovane fanciulla adagiata su bianchi guanciali al momento del suo risveglio dal sonno mattutino. Ma sappiamo che Segantini ebbe a discutere del titolo in una lettera a Vittore Grubicy. Vittore lo aveva contestato, proponendo al suo posto Bottone di rosa. Segantini tuttavia resistette al suggerimento dell’amico, raccontandogli di essere perseguitato da una sensazione alla vista di una rosa, una sensazione di cui con sua grande meraviglia non riusciva più a liberarsi. «Quando sfoglio questo fiore, ci vedo una testina bionda, rosea, grassotta, tonda, con una espressione piena di dolcezza e di bontà»19. Alla base del dipinto opera dunque una sorta di idea fissa o di allucinazione: certamente un fatto degno di considerazione dal punto di vista psicologico. In maniera del tutto analoga l’artista si comporta riguardo a un terzo quadro. Il processo psichico che vi sta alla base ci è persino ancor più noto. Come racconta Segantini stesso, un giorno stava arrampicandosi sulla cresta esterna di un’alta montagna; mancavano solo pochi passi alla cima, quando vide un grande fiore risaltare in modo chiaro e nitido sullo sfondo di un radioso cielo blu, in un vivido contrasto. Era un fiore di eccelsa bellezza, e di una luminosità come pensava di non averne mai vista prima di simile. Disteso prono sul pendio, stette a contemplare quello splendido miracolo stagliarsi nel cielo: un fenomeno singolare che si manifestava in piena luce. Accadde allora che il fiore prese a crescere smisuratamente davanti ai suoi occhi, e ad assumere

19 Lettera a Vittore Grubicy, senza data, in Scritti e lettere, cit., p. 176. Nel volume a cura di Annie-Paule Quinsac, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea…, cit., p. 137, la lettera è datata marzo 1890. Ne riportiamo qui la corrispondente trascrizione: «Quando sfoglio questo fiore, io ci vedo una testina bionda rosea luminosa grassetta tonda con un espresione piena di dolceza e di bontà». 110


nella sua immaginazione delle meravigliose forme umane. Il grande stelo diventò un ramo ricurvo, che reggeva la figura di una giovane bionda e rosea, seduta con in grembo un bambino nudo. Il piccolo teneva in mano una mela color rosso scuro, come se corrispondesse al possente pistillo che emergeva dal fiore. Segantini dipinse successivamente questa visione, intitolandola Da un fiore dell’alpe, riconoscendone così con profonda gratitudine l’origine dalla quale era scaturita. Più tardi, tuttavia, questo riconoscimento gli parve meno importante e, congiungendo alla visione fantastica un’idea morale, ribattezzò il dipinto Il frutto dell’amore, ponendo l’accento piuttosto sulla figura del bambino, che è rappresentato in tutta la sua forza vitale, sorridente e traboccante di salute. Ma anche quest’opera, per quanto fosse stata completata con zelo, non riuscì alla fine a soddisfare l’artista, che la definì «opera timidetta, che mi fece sentire la mia impotenza»20. Segantini era in realtà rivolto con tutta la sua anima a un’altra opera della quale era intimamente soddisfatto, anche se fu proprio quel dipinto a procurargli non poche preoccupazioni, e a continuare a stimolarlo successivamente a sviluppare nuove idee e nuove opere. Il dipinto in questione risale agli anni 1890-1891, il periodo in cui Segantini realizza La zolla, e non meno di questa riveste un ruolo decisivo per l’evoluzione del nostro artista. Direttrici di antichi pensieri vi trovarono la loro conclusione risolutiva, e nuovi percorsi ne nacquero. Si tratta del dipinto Il castigo delle lussuriose, detto anche Nirvana , che si trova oggi al Museo di Liverpool. Fu una leggenda buddhista a fornire a Segantini l’impulso a concepire questo quadro. Donne che hanno trascorso la propria vita nella lussuria – così si raccontava – sono condannate a lamentarsi vagando senza meta per deserti campi innevati. Il pittore che era in Segantini fu immediatamente stimolato da questa convergenza di pallide figure spettrali e ampie distese di neve. Grigio argenteo su bianco: un accordo cromatico difficile e suggestivo, ancora totalmente inesplorato. Non si poteva immaginare un tema più interessante per impegnarsi in un grande dipinto nella raffigurazione di un vasto paesaggio invernale. L’artista colse dunque al volo l’occasione. Più di una volta il paesaggio alpino dei Grigioni lo aveva incoraggiato a raffigurare la natura innevata. Ma ora si trattava di guadagnare il primo premio.

20 Lettera a Vittore Grubicy da Savognino, 2 maggio 1891; in Saggi e lettere, cit., p. 186. Nel volume a cura di Annie-Paule Quinsac, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea…, cit., p. 139, la lettera è datata al 21 maggio dello stesso anno. 111


Il paesaggio innevato di questo dipinto è uno dei più belli che Segantini abbia mai dipinto. Lo ammettono controvoglia anche coloro che non riescono ad apprezzare il «soggetto buddhista». L’ampia superficie bianca in primo piano, dalla quale spuntano come ragni alcuni rami di alberi spogli; la striscia intermedia nerastra della fascia montana inferiore; di nuovo il bianco delle cime innevate, ma ancor più lucente; e infine, a sovrastare sul tutto, l’ultima tonalità oro chiaro del cielo serotino: era una musica cromatica di tale incantevole armonia che tutti ne venivano rapiti. Ma poi ecco che si libravano a mezz’aria quelle «donne incomprensibili»! E su questo elemento moltissimi osservatori si bloccavano. Effettivamente si potevano sollevare al riguardo due tipi di obiezioni. La prima obiezione concerne il tema: il dipinto qui non si spiega da solo, ma abbisogna di un’interpretazione. In altre parole si esulerebbe qui dall’ambito «vero e proprio» della pittura. Bisognerebbe tuttavia aggiungere che questo non comporta però un depotenziamento estetico della pittura come arte dei sensi: infatti, anche se la ragione non comprende perfettamente che cosa stiano cercando queste figure femminili che si librano sui campi innevati, l’occhio può dirsi pienamente soddisfatto, dal momento che la connessione pittorica di queste due figure spettrali nelle loro pallide tonalità argentee con il bianco sfavillante dei campi innevati è, come si è detto, già di per sé una bella immagine. La seconda obiezione riguarda invece la peculiare soluzione adottata qui da Segantini, e non può essere respinta al mittente. L’artista in questo quadro ha dipinto le due «lussuriose» collocandole per così dire a mezz’aria, come disponendole su di un materasso invisibile. E, per essere degli spettri, le ha raffigurate con dei corpi troppo pesanti. Certamente anche in questo caso possiamo rilevare la bellezza di molti dettagli: i volti pallidi e dolenti, di moribonde; la folta capigliatura nera che svolazza scompigliata; le braccia spossate, abbandonate nella rassegnazione. Ma tutti questi elementi, se ci affascinano presi singolarmente, non ci aiutano tuttavia a superare quella sensazione complessiva di disagio provocata dal fatto che qui l’artista ha giocato in modo assai problematico con le leggi della gravità e del volo. Le due figure che si incontrano al centro del dipinto conservano un che di inorganico. Non è facile stabilire se sia stato per questo motivo che l’accoglienza riservata al dipinto all’Esposizione Internazionale d’Arte di Berlino del 1891 sia stata così fredda. Verosimilmente in quell’occasione l’opera non fu proprio capita: in quegli anni nella capitale prussiana non si avvertiva ancora il benché minimo alito di un risveglio dello spirito artistico, e tanto il pubblico quanto il mondo dell’arte aderivano ancora profondamente a vecchi pregiudizi. Solo così si può spiegare il fatto che la creazione di 112


Segantini fu ritenuta meritevole di una «menzione d’onore». Si trattava naturalmente di una sciocchezza: o nulla o la medaglia d’oro, ecco quel che meritava quel quadro, anche solo per il modo eccellente in cui era stato dipinto. Segantini schiumò dalla rabbia quando ricevette la comunicazione dell’onorificenza che gli era stata assegnata, e risolutamente telegrafò subito la seguente risposta: «Berlino – Presidenza Giuria Internazionale, Esposizione Artistica. «In nessuna Esposizione mondiale, dal primo giorno che esposi sino ad oggi, non vi fu mai nessuna Commissione che si sia creduta in dovere di offendermi, all’infuori di questa di Berlino. Vi chieggo un solo favore, di cancellarmi pubblicamente dalla lista dei vostri premiati»»21. Naturalmente a Berlino l’artista fu giudicato un «megalomane». Questo quadro era destinato a mettere a dura prova l’amor proprio di Segantini anche in altre occasioni. Fu proprio per causa sua che l’amicizia con Vittore Grubicy venne, se non a interrompersi, almeno a raffreddarsi, per non ritornare mai più quella di un tempo. I due entrarono in conflitto fin dalla prima volta in cui l’amico vide il quadro. Vittore, incantato dal paesaggio innevato, avvertiva il disturbo delle due figure che si libravano nell’aria, e involontariamente si tenne la mano piatta dinnanzi agli occhi per schermarle e poter così godere del puro elemento paesaggistico. Al vedere quel gesto Segantini montò su tutte le furie. Ne risultò una discussione vivace e per nulla amichevole. Vittore, che aveva maturato le proprie concezioni artistiche alla scuola naturalistica senza mai rinnegarle fino a oggi, non voleva assolutamente saperne di motivi siffatti. Ma soprattutto egli offese l’amico esibendo con un atteggiamento di superiorità la propria cultura, e rimproverando all’autodidatta e dilettante Segantini (cosa peraltro verissima) di aver totalmente frainteso la leggenda buddhista che aveva voluto raffigurare nel quadro. Il giorno seguente sostenne il medesimo punto di vista per iscritto, in una lunga e dotta lettera. La risposta di Segantini fu concisa e stringata: «Caro mio, attendi che io ti risponda? Com’è possibile? Siamo tanto lontani dall’intenderci, che credo il meglio sia non parlarne più»22. Segantini aveva i suoi buoni diritti a pensarla così. Se anche avesse compreso non

21 Il testo del telegramma è riportato in una lettera di Segantini a Vittore Grubicy da Savognino del 5 agosto 1891; in Scritti e lettere, cit., p. 187. 22 Lettera a Vittore Grubicy del 10 novembre 1890 da Savognino; in Primo Levi l’Italico, Il primo e il secondo Segantini, cit., p. 468. Nel volume a cura di Annie-Paule Quinsac, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea…, cit., p. 136, il passo è datato al 10 febbraio 1890 e così trascritto: «Caro mio, atendi che io ti rispondi? Comè posibile? siamo tanto lontani dal intenderci, che credo meglio il sia non parlarne più». 113


perfettamente quella leggenda buddhista, o l’avesse intenzionalmente reinterpretata, il suo compito era forse quello di illustrare leggende buddhiste? Poteva desiderare forse da quella saga qualcosa di più di uno stimolo? Quel soggetto non era forse a sua libera disposizione, in modo che ne potesse fare quel che voleva? Quel dipinto può in effetti rivestire una qualche importanza nel contesto dell’opera segantiniana solo nella misura in cui esso entra in contatto con la vita psichica dello stesso artista. Potrà anche aver frainteso o forzato il Buddha; solo però muovendo da una sapienza autentica che scaturiva dalla sua propria interiorità! E tale sapienza viene percepita da chiunque si accosti a Segantini cercando di leggervi nell’anima: ognuno vedrebbe allora che questo dipinto delle lussuriose – alle quali vengono inflitte pene infernali così angosciose (psichicamente angosciose!) – è stretto in un intimo legame con la suprema venerazione che l’artista tributava all’essenza della maternità. Questo sentimento lo ha dominato in modo così pervasivo che, se lo si volesse caratterizzare dal lato spirituale con una formula sintetica, lo si dovrebbe definire come «il pittore della maternità». Segantini si era fatto strada nel mondo come orfano di madre, e tutto quel che una madre può significare per un bambino lo aveva imparato dal pungolo acuto della privazione. La sorellastra era stata nei suoi confronti il contrario di una madre. Era stato sballottolato da una parte all’altra, con durezza e senza amore, attraversando – come lui stesso ci dice – l’intero incommensurabile territorio della tristezza e del dolore. È un miracolo che non sia finito per soccombere! Doveva tutto solo a se stesso e al suo indistruttibile istinto vitale. Avrà pensato con orrore ai fili sottili ai quali la sua esistenza era stata appesa senza alcuna protezione per vent’anni: fili che si sarebbero potuti facilmente spezzare. Perciò riconosceva così profondamente i doveri e l’essenza della maternità, e considerava il ruolo di madre come sacro, un’istituzione voluta dalla natura: la sua violazione andava punita non come infrazione di una qualche legge morale, quanto piuttosto come oltraggio alla natura stessa e ai suoi statuti innati. Perciò nella sua arte egli evocò intenzionalmente e in maniera così insistente il sentimento materno nel regno animale: qui, più che nelle raffigurazioni tratte dal mondo umano, egli poteva sottolineare l’identità di sentimento materno e sentimento della natura. Perciò egli nutriva una venerazione quasi mistica nei confronti della donna, vero e proprio vaso della maternità. «Amate, rispettate e venerate la donna – sono le sue parole –, imperocché essa ci dà la vita e ci concede l’amore. […] La donna è la nostra Dea, l’arte il nostro

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Dio»23. Ancor più esplicitamente scrisse alla poetessa Neera di apprezzare la donna solo quando essa è compagna fedele e spirituale dell’uomo, in certa misura la sua seconda anima, capace di curare e promuovere il suo ideale e di incoraggiarlo all’onestà e al dovere. È solo tramite le sue virtù domestiche e la sua fedeltà che la donna si assicura quella posizione elevata che le porta in dote venerazione e profondo rispetto. Ma la vita moderna della società borghese purtroppo produce perlopiù l’esatto contrario, e cioè donne nervose che, al posto di essere buone madri e buone compagne, preferiscono diventare buone civette, recidendo così il loro legame con il senso e l’essenza della natura24. Spesso Segantini aveva celebrato la maternità. Ma solo ora, dipingendo Il castigo delle lussuriose, egli mostrava davvero quanto prendesse sul serio quel motivo, e quali terribili significati reconditi vi attribuisse. La lussuriosa era per lui la donna degenerata per natura, e perciò ripudiata dalla natura stessa. La punizione doveva sopraggiungere non appena la donna, liberatasi dal proprio corpo abietto, si risvegliava a una nuova e più profonda vita. Doveva prender amaramente coscienza della sua natura per mezzo di un supplizio dell’anima: ed è appunto ciò che Segantini cercava di esprimere simbolicamente in quel quadro. Fredda come i cuori delle lussuriose, delle «cattive madri», appare quella natura nella quale sono bandite: fredda e ghiacciata, perché anch’essa priva di sentimento materno. Non dona più nulla di quel che di solito offre con tanta abbondanza. Ha dimenticato i suoi doveri materni. Stende sui suoi seni ormai congelati un bianco lenzuolo funebre. Neve, neve, nient’altro che neve ricopre quelle sorgenti un tempo calde, dalle quali solevano scaturire latte e miele. Tutt’intorno si estende un deserto ghiacciato. E qui sono state ripudiate quelle donne che da vive avevano mostrato un cuore di ghiaccio. Esse sono costrette a sentire fin negli organi più interni il gelo della maternità negata, e a bramare il sollievo del calore del sole e dell’amore degli esseri umani e dei genitori, che per loro ormai si vanno spegnendo senza speranza dietro la linea dei ghiacciai. Pensieri di questo genere scaturivano direttamente dalla più intima sfera affettiva di Segantini. Ed è per questo che non lo abbandonarono più. Sempre di nuovo, fino

23 Da «Pensieri»; in Scritti e lettere, cit., p. 54. 24 Per questa argomentazione si veda la lettera a Neera scritta da Savognino il 7 febbraio 1893; in Scritti e lettere, cit., p. 74 (anche in Segantini. Trent’anni di vita artistica europea…, cit., p. 681). 115


ai tempi più recenti, egli si è impegnato a escogitare ulteriori forme espressive per raffigurarli artisticamente. A prendere il sopravvento era ora il lato positivo, ora quello negativo dell’idea. Al lato positivo egli aveva tentato di dare un’espressione che fosse universalmente valida innanzitutto nel dipinto Il frutto dell’amore. Ma in quell’opera, per i suoi gusti, era rimasto troppo vincolato all’ambito della banalità. Perciò rimise nuovamente mano al tema, realizzando il dipinto L’angelo della vita (del quale esistono due versioni). La donna terrestre è stata qui idealizzata in una dea dell’amore misericordioso, donde anche il secondo titolo del quadro: Dea cristiana. A sottolineare ulteriormente questo significato dell’immagine era stato inizialmente previsto anche un girotondo di putti angelici, poi abbandonato. Non ve n’era bisogno. La disposizione complessiva del dipinto ci innalza al di sopra della realtà quotidiana. L’albero sul quale stava seduta quella madre scaturita dal fiore alpino è stato conservato; ma i piedi dell’«angelo della vita» non toccano più terra: esso siede in alto, come un uccello del paradiso, fra i rami dell’albero che dovremmo interpretare come l’albero della vita. I colori dell’arcobaleno si spandono nell’aria attorno all’amorevole figura, avvolgendola di un morbido bagliore madreperlaceo. I capelli dorati scendono dallo splendido capo sul collo e sulle spalle, fino a raggiungere le braccia e i fianchi. Se ne sta così seduta, infinitamente dolce e silenziosa, come una Madonna di Giorgione. Si è messa in grembo un bambino meraviglioso, e lo tiene stretto al petto mentre dorme, in un gesto di profonda intimità. Dal suo volto e dai suoi gesti comprendiamo che non è certo animata da un ottuso piacere carnale o dall’innamoramento per il frutto del suo ventre; piuttosto nel suo amore arde una scintilla divina, che si chiama protezione fedele e misericordia. «Caritas» è il nome di questa divinità cristiana. Quale contrappunto a quest’opera Segantini ha poi dipinto la Dea pagana, intitolandola semplicemente Dea d’amore. Non occorre certo cercarvi l’intenzione di un biasimo; piuttosto un’integrazione. L’artista infatti apprezzava l’amore coniugale non meno dell’amore materno. E solo la compresenza di entrambi significava per lui la donna in senso pieno. Però, se si incanala nella direzione sbagliata, la gioia dei sensi come fondamento dell’amore di coppia può anche diventare fonte di grave perdizione. In questo quadro non si trova tuttavia un’allusione diretta a questa possibilità. La sensualità dolce e deliziosa che percorre il corpo della dea pagana dell’amore immersa in un sonno ricco di sogni appare piuttosto assolutamente pura, perché non è dissimulata, è del tutto naturale. Essa riposa col capo appoggiato sul suo braccio, e un sorriso di intima soddisfazione le affiora sulle labbra. Una veste di veli color rosso rubino, con 116


la quale gradualmente si confondono su ambo i lati i rossi capelli svolazzanti, avvolge con tenere lusinghe l’avvenente figura. I piedi e il petto sono nudi, di un bianco ultraterreno, come del resto anche il viso, di una dolcezza raffaellesca. Così, come sostenuta da mani invisibili, la dea dormiente aleggia per l’etere, librandosi sopra la terra che si rabbuia sotto di lei. Per quanta bellezza ci esibisca questa tela, essa non appartiene tuttavia alle creazioni più caratteristiche di Segantini. Vien da pensare, guardandola, a Raffaello e a Botticelli, come anche al pittore inglese Watts. Questa figura ideale è segnata dal marchio del convenzionalismo. Segantini non ha fatto bene quando ha voluto allontanarsi troppo dal terreno della natura. Perlomeno sarebbe sopraggiunta poi a soccorrerlo quella passione del sentimento che in questo quadro manca. Il motivo del Castigo delle lussuriose Segantini lo aveva nel sangue. Sempre di nuovo lo vediamo riaffiorare in lui, a maggior ragione poiché la prima soluzione che ne aveva dato non era pienamente riuscita, nonostante qualche eccellente nota di merito. Così tentò di adempiere successivamente al compito passando innanzitutto per il disegno. Quel che non gli dava pace era il fatto che nel dipinto maggiore le figure delle lussuriose risultassero troppo pesanti e troppo materiali per potersi librare in modo convincente. Fu questo il primo errore che cercò di correggere: in un primo foglio trasformò il paesaggio innevato diurno, che era stato reso nelle tonalità chiare e dorate, in una scena notturna dai toni blu scuri. In questo imbrunire ogni cosa perse di sostanza, e si ottenne un’atmosfera più decisamente «Nirvana». Dal fondo avanzano le nebbie che avvolgono le cime dei monti. Le figure spettrali delle due penitenti, bandite dal centro dell’immagine, vengono raccolte sul lato sinistro in un corteo dolente. Sono ancora coricate sulla schiena, ma il loro atteggiamento è più lieve, l’effetto dell’aleggiare è intensificato. Dal punto di vista della composizione questa versione costituiva indubbiamente un progresso. Ma l’artista non poteva ancora farla valere come soluzione definitiva. All’artista venne allora in soccorso una nuova idea. Le lussuriose era un titolo troppo generale. Era un motivo che in quella composizione non si lasciava esprimere in maniera sufficiente né con la pittura né con il disegno. E se si fosse maggiormente accentuata la negazione della maternità, la relazione interrotta fra la madre e il suo bambino? Bisognava introdurre il piccolo nel quadro, e far sì che reclamasse indifeso la madre, che però non aveva amore da offrirgli. Ecco la soluzione! Così Segantini realizzò il suo nuovo quadro: Le cattive madri. Come a voler dapprima mettere alla prova l’idea, ne fece innanzitutto un disegno. 117


Conservò l’ambientazione notturna e ombrosa, e lo intitolò Le infanticide, come a voler esibire l’acme più orrorifico del soggetto in questione. Avvolte in vesti nere, le donne volteggiano nella notte in due cortei. Una di esse rimane impigliata coi capelli in un albero, mentre le altre svolazzano attorno all’infelice. L’effetto del librarsi dei corpi questa volta è suggerito non dal loro stare distesi, ma piuttosto da uno scivolamento della stazione eretta, il che, riuscendo più naturale, comporta un ulteriore miglioramento rispetto al dipinto precedente. Si era così ottenuta una base soddisfacente per il nuovo dipinto, che si poté sviluppare in piena autonomia da quella versione intermedia. La notte, che aveva già raffigurato due volte, fu abbandonata, e venne scelta una chiara ora serale, appena successiva al tramonto del sole, come nel primo quadro. Era indubbiamente questo il momento più favorevole dal punto di vista pittorico. Domina una pallida luminosità del cielo, ma al contempo il campo innevato irraggia con il suo bianco abbagliante, solo lievemente sfumato di blu. Quindi Segantini dipinse le figure delle due madri volteggianti attorno all’albero. Una, con i capelli che si sono impigliati nei rami spogli, rimane appesa tutta sola nell’inquietante landa desolata. Solo di lato, in lontananza, si vede un corteo di analoghe penitenti che gradualmente svaniscono come ombre. Dato che il quadro riacquista le sue tonalità chiare, anche le vesti nere devono essere abbandonate: al loro posto subentrano degli abiti color marrone chiaro, simili a veli, che corrispondono al colore dei capelli delle infelici. Così nacque quel dipinto che andrà prossimamente a costituire uno dei vanti più notevoli della Moderne Galerie di Vienna, di nuova istituzione. L’opera è significativa per due ragioni. Essa è in primo luogo l’ultima e indubitabilmente la più impressionante e profonda creazione del cosiddetto «ciclo del Nirvana». Nella figura della dannata solitaria è espresso un dolore incommensurabile. La curvatura del suo corpo è tutta un tormentoso lamento. Le braccia allungate si disperano inermi; i capelli che si impigliano fra i rami rappresentano il dolore di una suicida impiccata; il viso pallido e smorto, con la bocca contorta e gli occhi infossati, simboleggia il supplizio del rimorso. Ma quel che più ci sconvolge è la testolina del bimbo abbandonato a se stesso, che cerca di placare la sete piegandosi verso il petto nudo e freddo della madre, ormai prosciugata per mancanza di amore. In questo quadro interiore una mano imperturbabile ha così dipinto la colpa e il tormento e la più infelice lacerazione, come se fossero stati espressi da un grande poeta o da un grande psicologo. In secondo luogo, questo quadro è anche uno dei prodotti più belli e più suggesti118


vi del pittore dell’aria di montagna. La meravigliosa limpidezza di quell’atmosfera serotina è indescrivibile. La fredda nebbia sottile che sale dalle montagne, nell’oro pallido del sole che tramonta, commuove ogni cuore. Il bianco bluastro della neve stesa a mo’ di lenzuolo funebre si intona al raccoglimento più concentrato e profondo. La maestria della resa tecnica è già diventata qui qualcosa di ovvio. Non la si vede nemmeno più, poiché si è trasfigurata in espressione atmosferica, vibrazione nervosa, sentimento poetico. In questo dipinto la più riuscita arte della pittura sembra porsi al servizio di uno spirito poetico: e appunto questo è il suo supremo trionfo. Essa si trova all’acme della sua potenza; ma non ha più bisogno di esibirla.

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Decimo capitolo Il poeta e il pensatore I nostri pittori impiegano un brutto termine per bollare quel che ritengono o inferiore o persino superiore alla pura competenza pittorica: il termine «letterario». È proprio una parola alla moda: la si sente dappertutto e in ogni momento. Originariamente doveva indicare coloro che tentavano di dissimulare le insufficienze delle loro autentiche capacità tramite il ricorso a eccessi concettuali e a oscure stravaganze. Ma ormai da molto tempo ci si è abituati ad applicare il termine a tutto ciò che riguarda lo spirito, la fantasia, la forza d’animo, la visione del mondo, e insomma tutto ciò che solo può conferire a un’opera prodotta da un’abilità tecnica la consacrazione dell’arte più elevata. «Letterario» è diventato il termine con cui le persone povere di fantasia e prive di idee si vendicano degli spiriti artistici eminenti. Anche Segantini è «letterario». Per quanto la sua pittura sia pura pittura, chi vi si accosti dalla prospettiva meramente artistica non riuscirà mai a cogliere pienamente il nostro. Trascurerà l’uomo che vi sta dietro: l’uomo con i suoi profondi e potenti vissuti, l’uomo con la seria nobiltà delle sue idee, l’uomo con l’orecchio poetico e il cuore grande e buono. Tutto questo apparirà agli occhi di certe persone «letterario» per il semplice motivo che non si tratta di aspetti confinati alla competenza tecnica della disciplina pittorica. Ma Segantini ha voluto essere qualcosa di più di un mero virtuoso del pennello. La sua arte era per lui il mezzo con il quale egli poteva determinare e riconoscere il proprio rapporto al mondo, a Dio e alla natura. Non per brillare di fama egli ha dipinto, bensì perché non avrebbe saputo dominare altrimenti il suo cuore traboccante, perché doveva tradurre il suo ondeggiante mondo interiore in una visione che potesse essere afferrata. Ed è perché il suo sentire era così forte e puro che egli ha potuto dipingere in modo così vibrante e penetrante. La sua vita interiore era tuttavia così ricca che non tutto ha potuto esprimersi 120


in forma pittorica. «Più m’addentro nell’arte e vivo di essa e per essa – così confessa schiettamente –, e più sento il bisogno di esprimermi non solo colle opere, ma collo scritto, per determinare il significato di questa parola Arte almeno nella parte che più mi tocca, la pittura»25. Ma Segantini è entrato in contatto con la scrittura non solo in questo senso limitato, cioè come teorico della disciplina. Anche l’elemento poetico si è destato in lui e ha cercato in qualche modo di manifestarsi all’esterno. La storia della sua infanzia, così come ce l’ha raccontata parola per parola, non è forse stata considerata con gli occhi di un poeta? Non ci è forse stata presentata con le parole di un poeta? Anche nelle lettere, quando gli capitava di chiacchierare allegramente, si metteva talora liberamente a poetare all’improvviso, poiché per il suo modo artistico di sentire era del tutto naturale esprimersi in immagini e in fantasie. Ecco un esempio. Una volta, in tono scherzoso, la poetessa Neera gli aveva chiesto se lassù fra i suoi monti Segantini avesse avuto qualche sentore del Primo Maggio, del grande giorno socialista, se magari un fiore o un albero gli avessero fatto la rivoluzione. «Sì o Signora – le rispose l’artista –, in quel giorno gli alberi gemevano fischiando lamentosamente ed anche i fiorellini, le piccole margherite tenevano chiuse le bianche palpebre, tremando nel loro piccolo ed esile stelo. Questo osservai dalla mia finestra e vinto dalla pietà, presi il cappello ed uscii fuori. Così parlai ai fiori ed alle piante: «Dite, o amici diletti dei miei pensieri, compagni cari per le vostre ombre piene di frescura e d’aromi, perché gemete e vi lamentate così?». Un prolungato fischio terminante in uno scroscio di risa di scherno accolse le mie parole. Per un momento tutto tacque, e poi tutti insieme così presero a favellare: «Non ti vergogni di venire ad insultare la nostra impotenza? Tu che non hai radici, che puoi muoverti, puoi pensare, ed hai delle abitazioni per ricoverarti dalle intemperie; perché vieni ad insultare noi che siamo impotenti a muoverci quando il vento ci sferza e la tempesta ci percuote?». «Ma io non credevo offendervi. Venivo a voi perché vi amo e vi comprendo». «Impostore od illuso che tu sei, tu ci ami o per il godimento che da noi ricevi, o per l’interesse che da noi ne ricavi». 
Il vento mi portò lontano il cappello ed io, correndogli dietro per prenderlo, non pensavo che molte di quelle margherite che amo e che compassionai, si schiacciavano sotto ai miei piedi. Tornando a casa vi pensai, ma che fare? Vi è una legge all’infuori della nostra volontà; quella stessa che guida l’intero Universo, guida pure la formica al

25 «Così penso e sento la Pittura» (Savognino, gennaio 1891); in Scritti e lettere, cit., p. 23. 121


formicaio così come ogni filo di erba che spunta ed ogni goccia d’acqua che cade»26. Così, con il suo humour, Segantini lasciò fare ai fiori la loro ribellione, introducendo al contempo delicatamente qualche riferimento simbolico all’eterno rapporto (eterno perché conforme alle leggi naturali) fra i privilegiati e gli oppressi. Se in questa occasione Segantini si presentava ironicamente come membro della casta dei signori, in realtà, in virtù delle sue origini e delle sue esperienze giovanili, egli apparteneva in ogni fibra del suo sentire al popolo, che combatte servendo e lavorando, e che è appeso alle promesse intessute di filo d’oro che gli profetizzano di un futuro regno celeste sulla terra. Tutto l’ardore di tali sentimenti è stato espresso in parole in un componimento in prosa (rimasto forse allo stato di frammento?) steso da Segantini fra un lavoro pittorico e l’altro nell’anno 1893: quest’operetta si intitolava Il sogno di un lavoratore27; ne possiamo comunicare qui qualche elemento, basandoci sul manoscritto. Si tratta naturalmente di un’utopia, e anche se lo stato ideale che vi viene illustrato presenta alcuni tratti ben noti, l’elaborazione poetica è tuttavia notevolmente originale, e testimonia di una fantasia e di un’inventiva totalmente autonome. Il narratore si è addormentato sul treno, e improvvisamente viene risvegliato dal grido «Zurigo! Zurigo!». Balza subito fuori, poiché il convoglio avrebbe immediatamente proseguito la sua corsa, e si trova in mezzo a un vasto campo innevato, senza valigia, e senza saper dove

26 Lettera a Neera del 6 maggio 1893 da Savognino; in Scritti e lettere, cit., pp. 76-77. Riportiamo qui di seguito anche la trascrizione in Segantini. Trent’anni di vita artistica europea…, cit., p. 683: «Si ho Signora – le rispose l’artista –, in quel giorno gli alberi gemevano fischiando lamentosamente e anche i fiorelini, le piccole Marcherite tenevano chiuse le bianche palpebre tremando nel suo piccolo ed esile stelo. Questo osservai dalla mia finestra e vinto dalla pieta, presi il cappello, e uscii. E fuori cosi favelai ai fiori e alle piante. Dite, o amici diletti dei miei pensieri, ho compagni cari per le vostre ombre piene di frescura e darommi, perche gemete e vi lamentate così?. Un prolungato fischio terminante in uno scroscio di risa di scherno acolse le mie parole, per un momento tutto taque, e poi tutti insieme cosi presero a favelare. Non ti vergogni di venire a insultare la nostra impotenza? tu che non hai radice che puoi moverti, puoi pensare, e ai delle abbitazioni per ricoverarti dalle intemperie, perche vieni a insultarci? noi che siamo inpotenti a muoverci quando il vento ci sferza e la tempesta ci percuote? Ma io non credevo offendervi. Venivo a voi perche vi amo e vi comprendo. Impostore o inluso che tu sii, tu ci ami ho per il godimento che da noi ricevi, ho per l’interesse che da noi ne ricavi. Il vento mi porto lontano il cappello, ed io corendogli dietro, per prenderlo non pensavo che molte di quelle margherite che amo e che compasionai, si schiacciavano sotto i miei piedi. E ritornando vi pensai, ma che fare? Vie una legge all’infuori della nostra volontà, quella stessa che guida l’intero universo, guida pure la formica al formicaio, cosi come ogni filo di erba che spunta ed ogni goccia daqua che cade». 27 Segantini ne fa cenno in una lettera inviata da Soglio di Val Bregalia a Giovanni Pellizza da Volpedo il 4 gennaio 1898; in Scritti e lettere, cit., p. 67. In nota Bianca Segantini precisa: «Mi fu impossibile ritrovare fra le carte il Sogno di un Lavoratore». La lettera a Pellizza è riportata anche in Segantini. Trent’anni di vita artistica europea…, cit., p. 634. 122


andare. A questo punto ha una visione: una rappresentazione simbolica delle attuali condizioni sociali dell’umanità. Vede sfrecciare per ogni dove dei treni, privi di binari, che sbuffano e minacciano senza dubbio di investirlo. Improvvisamente vede lì vicino un palo del telegrafo, e vi si arrampica lesto. Dall’alto osserva il terribile quadro delle macchine e dei vagoni che scorrazzano, sfrecciando senza meta gli uni contro gli altri per la campagna innevata. All’interno delle carrozze si scorgono delle compagnie che banchettano, sbevazzano e chiacchierano attorno a tavole imbandite con ogni ben di dio. Sui predellini si vede altra gente: sono mendicanti appena tollerati dai primi, che spiano avidamente dentro alle carrozze, e vengono di tanto in tanto ricompensati con qualche boccone. La gran carovana continua a correre ululando; tutti si colpiscono l’un l’altro, si ingiuriano a vicenda, ansimano, si strappano i vestiti, senza la benché minima prospettiva che i loro desideri possano mai venire esauditi. Ne segue lo scontro delle macchine: uno schianto tremendo, scintille, fumo, crepitii, grida di dolore e un caos raccapricciante. Tutto il campo è disseminato di macerie e di brandelli di carne umana che ancora si contorcono. Qualche singolo treno ancora sfreccia, e uno di essi va a sbattere contro il palo sul quale si era rifugiato il narratore. Ma, invece di rovinare per terra, egli si sente trasportato per aria e condotto lontano da un braccio invisibile. Sotto di lui la terra fuma, impregnata di sangue e cosparsa di macerie. Ma presto la campagna svanisce, egli viene innalzato sempre più su, ma poi scompare anche il braccio che lo sorreggeva. Comincia a cadere; mentre il primo sole del mattino inizia a diradare la nebbia, riesce a intravedere la terra sotto di sé. Improvvisamente è come se avesse smesso di precipitare: librandosi a una decina di metri dal suolo, osserva tranquillo una verde campagna ridente che si estende ai suoi piedi. Un fiume argenteo, vivace e ben delimitato, suddivide l’area in due metà, e lui ora sta proprio aleggiando sopra le sue acque. Poi volteggia sopra campi di cereali, biondi e maturi, passa sopra colline dalle vigne rigonfie d’uva, e su pascoli odorosi. Improvvisamente si avvicina una grande nuvola densa e lo inghiotte. «Sgomento, il mio sguardo si smarrì in questa cupa oscurità, allorquando un disco di luce rosa mi si fece incontro, interrompendo la monotonia del grigio. Stetti a osservare con ansia, poiché non comprendevo che cosa ciò significasse. Vidi allora il disco ingrossarsi sempre più, finché mi parve infine che assumesse una forma umana, di figura femminile. Ma tale figura non aveva ancora finito di formarsi in modo che i miei occhi la potessero cogliere come un corpo vivente, che subito tornò a dissolversi, sciogliendosi in luminose macchie rosate. Mentre continuavo a osservarla, le macchie ripresero a riconfluire una verso l’altra: il tutto rimaneva fluido, eppure 123


le membra si potevano chiaramente distinguere nella loro trasparente luminosità, e ciascuna si relazionava magnificamente all’insieme. Dal bel capo scendevano fin sui seni e sui fianchi gli sciolti capelli ondulati, di color oro pallido. Io non distolsi lo sguardo, e la sublime figura divina mi avvolse in un bagliore argenteo che spandendosi sconfisse le ombre oscure della nuvola. Questa si dissolse progressivamente, lasciando emergere la figura: essa appariva come avvolta da una radiosa corona di veli, e risaltava graziosamente sul verde delicato dell’erba fresca di rugiada. Io indugiavo in questa visione come se fossi rapito in un’estasi. Il cuore mi batteva violentemente. La figura mi sorrise, e io arrossii. Allora mi feci coraggio, e le domandai: «Chi sei tu, bella creatura divina?». Ella mosse allora graziosamente le labbra, e dalla sua bocca scaturì un suono meraviglioso: «Un’anima!». Quindi ammutolì»28. In questa descrizione del poeta si tradisce nel modo più significativo il pittore. Sembra quasi di vedersi apparire davanti il dipinto Dea d’amore, solo in un’immagine ancor più sottile ed enigmatica. L’«Anima» diventa ora la guida del sognatore. Anch’egli non è più ormai altro che anima. Il suo corpo dorme nel treno diretto n. 375 per Zurigo. Tuttavia egli sente di essersi perdutamente innamorato della sua accompagnatrice, e vorrebbe baciarla, se solo lei non lo interrompesse in maniera così fredda e pratica. Essa non conosce altro scopo se non quello di mostrargli una terra magnifica in tutto il suo sfarzo prosperoso, di illustrargli le condizioni di vita ivi vigenti, così saggiamente stabilite, e di lodare la fonte della suprema felicità dei suoi abitanti. Qui inizia la descrizione utopica vera e propria, che costituisce il contenuto principale del racconto e che fa onore a Segantini e alla generosità del suo cuore, per quanto il suo soggetto possa magari interessarci di meno rispetto all’introduzione poetico-fantastica che lo precede. Tutto nella società è ordinato secondo i principi della natura. Le grandi mandrie al pascolo sono proprietà comune e vengono godute in usufrutto. La stessa cosa vale anche per i frutti della campagna, e per le fabbriche nelle quali vengono lavorati e trasformati i prodotti della terra. Ognuno gode delle medesime condizioni di esistenza per il proprio benessere fisico e spirituale, e ciò semplifica tutto il meccanismo amministrativo a tal punto da renderlo quasi superfluo. I bisogni del singolo sono esattamente calcolati, e vengono soddisfatti tramite titoli azionari. Secondo il medesimo sistema viene anche ripartito il

28 Essendo il manoscritto originale andato perduto, la traduzione è stata condotta direttamente sul testo di Servaes. 124


lavoro: ne sono però dispensati bambini, donne, vecchi e malati. Le professioni superiori (medico, sacerdote, ingegnere, artista e così via) vengono suddivise in proporzioni esatte e secondo le attitudini nei singoli gruppi. Il lavoro è abbondante, e tutti vivono in uno straordinario benessere. Si è rinunciato a ogni contrassegno di individualità, soprattutto ai nomi propri. Ciascuno porta sull’abito uguale a quello di tutti gli altri un numero composto da due cifre: la prima indica il gruppo al quale è stato assegnato, la seconda la sua posizione all’interno del gruppo stesso. La descrizione dello stato utopico procede quindi ulteriormente, secondo delle ricette ben note. Criticare questa concezione da un punto di vista oggettivo sarebbe un gioco da ragazzi, poiché è stata appunto ideata ed esposta in uno spirito infantile. Ma il nostro compito qui non è quello dell’esercizio critico. Piuttosto vogliamo apprezzare il fatto che, anche nelle parti più nebulose del testo, non venga mai meno il tono elevato e artisticamente pregnante, e la visione capace di stimolare i sensi. In ogni momento sentiamo che a parlarci qui è un uomo di buona volontà, e un artista. Questo sentimento comunitario così fortemente sviluppato, come Segantini ce lo ha manifestato in quell’abbozzo utopistico, contrasta in modo peculiare con altre concezioni che l’artista ha avuto modo di esprimere occasionalmente. Come uomo egli sentiva di appartenere in tutto e per tutto al popolo; come artista non poteva però fare a meno di avvertire chiaramente come il singolo individuo forte si innalzasse al di sopra della massa. Quando sognava la felicità, la sognava per tutti, per il popolo; ma quando sognava gesta e imprese, vedeva solo il singolo. Perciò l’ammiratore entusiasta del popolo era nondimeno un palese adoratore di eroi, cosa che di quando in quando ebbe occasione di dichiarare, e nel modo più evidente nella seguente annotazione: «Gli odii, le volontà, le aspirazioni dei popoli si concentrano e si personificano in un individuo solo. La storia ci dimostrò più volte come un sol uomo possa cambiar la faccia al mondo, quando trova il clima storico preparato; ma non sarà mai che messa tutta l’umanità assieme possa fare un passo che abbia ad avere un significato»29. Come spirito aristocratico qui Segantini si può accostare direttamente a Friedrich Nietzsche, dal quale per altri versi è invece così distante. Di tanto in tanto il pittore si lasciava sedurre dai suoi sogni poetici anche per quanto riguardava il teatro, per il quale non nutriva tuttavia una grande ammirazio-

29 «Dal diario»; in Scritti e lettere, cit., p. 54. 125


ne. Progettò così una volta un piccolo scenario per una storia d’amore tra il tragico e il fantastico, che doveva svolgersi in un regno di fate e di rose, e risolversi infine nella voluttà del sentimento. Ma non riuscì a sviluppare il progetto al di là di qualche schizzo piuttosto laconico e assai primitivo30: si trattava di null’altro che di uno spunto occasionale. Più dettagliato è invece l’abbozzo di una specie di pantomima musicale con tanto di cori, alla quale lo aveva incoraggiato l’amico Vittore Grubicy31. Segantini in questo caso attinse in modo spigliato dalla vita reale e presentò le cose così come le aveva direttamente osservate. Non gli interessava tanto l’azione, quanto piuttosto (anzi in modo apparentemente esclusivo) la classificazione e l’intreccio dei suoni. Andava dunque dritto all’elemento musicale. La scena ci presenta una trattoria in Engadina: l’agitazione nell’attesa degli ospiti previsti fornisce il primo motivo musicale. Quindi sopraggiungono coloro che si stavano aspettando: una fila di slitte scure discende come un serpente dal sentiero sulle vette innevate; man mano che si avvicinano, lo schioccare delle fruste, lo scampanio delle slitte, lo scricchiolio della neve e i canti dei viaggiatori devono convergere in una sempre più perfetta armonia. E poi le grida di saluto, l’approssimarsi sull’altro lato di un nuovo treno di slitte, ancora saluti e partecipazione di tutti i nuovi arrivati (membri della società corale engadinese) a un grande canto collettivo che si diffonde possente per tutta la montagna. Nel secondo atto si inseriscono nuovi effetti sonori: nel bel mezzo di una canzone risuona lo scampanio lontano delle campane a martello, e improvvisamente si grida l’allarme «Al fuoco!». Cambia la scena, siamo ora sul luogo dell’incendio. Il vento sibila sui monti scuotendo i tronchi degli abeti, il fuoco crepita, le campane risuonano cupe. Accorre quindi il corpo volontario dei pompieri, elemento che può essere anch’esso musicalmente sfruttato in vario modo. Alla fine Segantini aggiunge un’ultima scena, puramente pantomimica, che però scaturiva dal profondo del suo cuore: una donna seminuda esce dalla sua casa in fiamme, con i capelli scompigliati e due bambini in braccio. Uno dei piccoli è ustionato. La madre se ne accorge, urla di dolore, si lamenta e piange. Si butta in ginocchio dinnanzi a una santella ed espone con le braccia tese i suoi bambini all’immagine

30 Si veda quanto scrive al riguardo in una lettera a Vittore Grubicy del 1° febbraio 1891 da Conters; in Scritti e lettere, cit., pp. 182-184. In una lettera del 12 febbraio dello stesso anno, sempre indirizzata a Vittore, Segantini definì questo suo componimento «la mia sbrodolata della Regina delle Rose» (ivi, p. 184). 31 Se ne veda il riassunto inviato in una lettera a Vittore Grubicy del 2 gennaio 1891 da Savognino; in Scritti e lettere, cit., pp. 176-181. 126


della Madre di Dio. Ma il bambino ustionato muore. Allora lei lo fissa ottusamente, poi capisce, ed emette due penetranti gridi disperati. Si erge dritta, minaccia il cielo con il pugno e infine si accascia distrutta. Il giovane compositore32, per il quale questo abbozzo era stato concepito, non sapeva da che parte iniziare. Segantini se ne rese conto, e si scusò riconoscendo di non essere in grado di scrivere un «dramma musicato», poiché questa forma artistica gli risultava del tutto incomprensibile e assurda. «La musica non ha bisogno di parole per esprimersi, essa le ha già nelle note; io non credo vi sia lingua più espressiva, più dolce, più penetrante della musica; per me, quando vado a teatro per sentire un’opera, mi guardo bene dal comperare il libretto; mi accoccolo in fondo al palco e chiudo gliocchi. La musica è arte che si deve udire, sentire, ma non vedere»33. Un uomo che con un sentire così intenso era in grado di cogliere nel suo carattere fondamentale un’arte che gli era estranea, doveva certamente avere qualcosa di valido e di significativo da dire riguardo all’arte sua propria. Nel gennaio del 1891, dunque proprio nel periodo in cui suggellava la sua svolta evolutiva maggiormente ricca di conseguenze per il suo percorso pittorico, Segantini si sedette alla scrivania e annotò scrupolosamente i suoi pensieri intorno all’arte. Il testo venne pubblicato nel catalogo delle «Esposizioni riunite» di Milano nell’anno 1894. Vorrei qui riportarne le parti più notevoli. Segantini comincia confrontandosi polemicamente con due avversari contrapposti: da un lato contro l’estetologo Ghisleri34, che intende ricondurre l’arte in toto al pensiero; dall’altro contro Max Nordau35, che cerca di vincolare l’arte alla più rigorosa fedeltà alla natura, e ritiene la «concezione personale» una scempiaggine. Segantini ammette che un ideale che si collocasse al di fuori della natura non potrebbe pretendere di conseguire alcuna durevole validità; «ma un vero senza ideale è una realtà senza vita»36.

32 Francesco Leoni (1864-1937). 33 Ivi, pp. 180-181.

34 Arcangelo Ghisleri (1855-1938): «Nell’arte ci vuole il pensiero e non soltanto la natura» (cit. in Scritti e lettere, cit., p. 23). 35 Cfr. Max Nordau, La malattia del secolo, tr. it. di Paolina Schiff, Fratelli Dumolard, Milano 1888; cit. in Scritti e lettere, cit., p. 24. 36 «Così penso e sento la Pittura» (Savognino, Canton Grigioni, gennaio 1891); in Scritti e lettere, cit., p. 24. 127


Dopo alcune osservazioni relative alla ritrattistica, Segantini arriva a domandarsi: «Che altro è l’arte, l’arte bella, vera, elevata, se non l’immagine fotografica, il misuratore che segna il grado di perfezione dell’anima umana? […] Essa anima riceve per mezzo del sistema nervoso una impressione, che si fissa e si feconda nel cervello, vera cassa armonica ove tutti i sensi fanno capo e si armonizzano». «Anzi dovrei dire, che il bello in natura non esiste, che come idea nostra. Ogni giorno vediamo persone passare davanti alle medesime bellezze naturali e rimanerne ben diversamente impressionate; potremmo in queste impressioni trovare una scala di infinite gradazioni: dall’orrore alla ripugnanza, all’indifferenza, al piacere, all’estasi. Da questo noi possiamo dedurre che il bello in natura esiste perché lo vediamo e lo sentiamo, ed il modo e la misura di sentirlo sono in relazione della nostra capacità spirituale. Così l’opera d’arte essendo una interpretazione della natura, più essa racchiude elementi spirituali e li riproduce con sentimento e nobiltà di forme, più si allontana dalla percezione volgare. Essa non è valutabile se non per coloro i quali, con lungo e paziente amore, hanno saputo elevare lo spirito alla percezione ed assimilazione di quegli elementi spirituali»37. Segue quindi un confronto con Geibel38, che possiamo qui tralasciare. E finalmente si passa all’esposizione estetica principale, alla quale vogliamo dare tutto lo spazio che merita. * «L’arte deve rivelare sensazioni nuove allo spirito dell’iniziato; l’arte che lascia indifferente l’osservatore non ha ragione d’essere. La suggestività d’un’opera d’arte è in ragione della forza con cui fu sentita dall’artista nel concepirla e questa è in ragione della finezza, della purezza, dirò così, dei suoi sensi. Mercé sua, le più lievi e fuggevoli impressioni vengono rese più intense e fissate nel cervello, commovendo e fecondando lo spirito superiore che le sintetizza: ed ha luogo allora l’elaborazione che traduce in forma viva l’ideale artistico. Per conservare questo miraggio ideale durante l’esecuzione dell’opera, l’artista deve fare appello a tutte le sue forze affinché persista attiva la energia iniziale; è tutta una vibrazione de’ suoi nervi intenta ad alimentare il fuoco, a tener vivo il miraggio coll’evocazione continua, perché l’idea non si dissolva o divaghi, l’idea che deve prendere corpo sulla tela, creando l’opera che sarà spiritualmente per-

37 Ivi, pp. 25-26.

38 Emanuel Geibel (1815-1885), poeta tedesco. 128


sonale e materialmente vera. Non di quella verità esteriore, superficiale convenzionale che è l’impronta dell’arte così detta moderna, ma di quella che oltrepassando le barriere della superficialità delle linee e dei toni, sa dare vita alla forma e luce al colore. «Dunque il vero è là! Entra nell’anima e fa parte dell’idea. Il pennello scorre sulla tela e obbedisce: mostra il tremito delle dita in cui si raccolgono tutte le vibrazioni nervose; nascono gli oggetti, gli animali, le persone ed in tutti i più piccoli particolari prendono forma, vita, luce. Il fuoco dell’arte è nell’artista mantenendogli in una tensione di spirito quella emozione, ch’egli comunica alla sua opera. Per questa emozione, il lavorio meccanico, faticoso dell’artista scompare, e producesi l’opera d’arte completa, fusa di un sol pezzo, viva, sensibile; è incarnazione dello spirito nella materia, è creazione. Quest’opera, per chi la guarda una prima volta, può dare una impressione repulsiva, stante l’abitudine ereditata di osservare l’opera di pittura e giudicarne il valore dal punto di vista magistrale dell’abilità del disegno, del tocco, della pennellata. Ma vinto il disgusto della prima impressione, lasciate per poco da parte le vecchie teorie ed i metodi soliti, se l’osservatore si sofferma per voler capire, gli accadrà certamente una cosa curiosa e singolare eppure spiegabilissima. L’opera che da principio lo disgustava perché oscura ed immediatamente non concepibile, a poco a poco si chiarisce; la scena si illumina, i piani si allontanano, le pianure si muovono, sono vive; la passione febbrile che provò l’artista irradia dalla sua opera, e comunica all’osservatore l’eguale commozione: tutto adesso si fa vivo di vita vera, sentita, palpitante. 
Mi sono spiegato? E questo l’ideale che l’artista deve cercare in sé, quello che dovrebbe improntare l’opera d’arte non volgare. Certo non tutti potranno dare l’egual grado di sensibilità all’opera propria. L’ho già detto: questo è in ragione della potenza e facoltà dell’anima e della sensibilità dei nervi che a quella trasmettono e mantengono l’emozione. L’istinto, la forza, la volontà, vinti dall’idea concepita dall’anima, obbediscono ed agiscono in suo favore: così, creando un’opera d’arte, veniamo a ingentilire e a perfezionare l’anima nostra, e talvolta anche quella degli altri. Sbagliano il punto di partenza i critici, quando si ostinano ad ammettere che l’arte moderna ha fatto una troppo rapida evoluzione. Pare a loro di vedere già il tetto, dove invece non si è ancora accumulato tutto il materiale per costruire. L’evoluzione dell’arte noi la vedremo completa, soltanto quando l’evoluzione sociale sarà nettamente uscita dal mondo vecchio, abbandonandone le pastoie. Ogni evoluzione, sia sociale che religiosa, ha per primo obbiettivo la negazione del vecchio, 129


il nihilismo, la distruzione. Le arti sono quindi ripudiate, i vecchi ideali e le vecchie religioni sono calpestate e sbeffeggiate, e ciò è naturale. Possiamo facilmente osservare come è nata e come muore la più potente delle evoluzioni, di cui conosciamo bene i fenomeni, il Cristianesimo. Nelle sue leggi fondamentali erano ripudiate la scienza, le arti e tutto quanto poteva rendere la vita piacevole e dare un godimento anche intellettuale. E il risultato? fu quello di lasciar posto ad un’arte nuova, di indole conforme a quella evoluzione... L’arte non muore; il sentimento dell’arte è in noi e fa parte della natura; esso è collegato colle nostre passioni : quindi, checché ne dicano i nihilisti ed i materialisti, gli scoraggiati, gli spossati, i vinti, il sentimento dell’arte è indistruttibile. Oggi un sentimento d’arte profondamente universale non esiste. Si troveranno sparsi qua e là nelle diverse parti del mondo civile dei solitari, dei veri artisti che creeranno vere opere d’arte personali; questi solitari precursori hanno un aumento limitato di ammiratori: sono personalità spiccate e la loro arte rimane altamente aristocratica. Altri artisti vi sono che con sincero sentimento d’arte producono opere non abbastanza armonicamente perfette: essi pure hanno una cerchia d’amatori, ma limitata al loro paese, e le loro opere non hanno un valore nel commercio mondiale dell’arte. Altri invece vi sono che, invasi dal sentimento dell’arte, ma impotenti ad esprimerlo con forza, producono opere deboli, accennanti vagamente all’ideale dell’artista: anzi molte volte il sentimento che essi credono d’aver trasfuso nell’opera, è rimasto in loro, e per ciò non capiscono come il pubblico e nemmeno gli amici non ve lo sanno vedere. Questi principali gruppi rappresentano lo stato attuale dell’arte moderna in tutto il mondo; arte che non irradia la sua luce più in là della cerchia di una associazione di idee e di sentimenti comuni a pochi artisti ed amatori. … Come ho già detto, ai nostri giorni non è una evoluzione dell’arte che si compie, ma è semplicemente la negazione del vecchio. Usciti fuori colla rivoluzione da un mondo che aveva armonizzato colle sue secolari istituzioni, le credenze, la fede, gli ideali, e quindi anche le arti, noi trovammo queste non più rispondenti ai nostri gusti, male adatte alla vita moderna tanto diversa dall’antica, specialmente nei centri di maggior coltura e ne ripudiammo le viete formole senza aver potuto ancora, neppure coll’idea, rimpiazzare con formole nuove, adatte alla nuova vita. 
Di chi è la colpa? Di nessuno. Il nuovo mondo è ancora in gestazione: per un effetto di ottica noi, trovandoci portati dal moto di evoluzione, non ci avvediamo di esso moto e della sua rapidità, e ci illudiamo di essere arrivati ad una meta, per aver 130


rattoppato e rivoltato le vecchie idee, le vecchie teorie, senza slanci, senza fede verso una meta di là da venire. Nell’avvenire, sorpassato il periodo di trasformismo trafficante e materialista, che ora attraversiamo, si svilupperà dalle nuove forme sociali una forma vitale dell’arte. 
Letteratura, musica, pittura, non più serve o prostitute, ma signore potenti e gentili formeranno la trinità dello spirito: per esse sarà religione e musa la evoluzione cosmica, guida la scienza, fonte d’ispirazione il sentimento alto e sereno della natura39. […] I vecchi ideali parte sono caduti e parte stanno per cadere; altre idee sono sorte ed altre stanno per sorgere; perciò quello sguardo retrospettivo, quella contemplazione d’idealità tramontate, di cui si voleva fare un substrato di nuove idealità, non hanno più ragione di essere. Il pensiero dell’artista non deve più volgersi al passato, ma spingersi verso l’avvenire, preconizzandolo. L’arte deve rimpiazzare il vuoto lasciato in noi dalle religioni; l’arte dell’avvenire dovrà apparire come scienza dello spirito, essendo l’opera d’arte la rivelazione di esso. * Conseguentemente a quanto ho detto e ripetuto sul modo di sentire e di fare l’arte, è mia opinione che l’insegnamento dell’arte della pittura sia un assurdo. Nell’insegnamento, intendiamoci, non comprendo il disegno, anzi di questo elemento importantissimo vorrei una sana riforma nel senso di farlo armonizzare col carattere della natura e col bisogno dell’arte: dovrebbe essere il metodo che conduce alla ricerca della forma viva e sensibile. Certo che a dipingere si può insegnare e quindi imparare, come s’insegna e s’impara a suonare uno strumento; ma questo, pel dipingere, resta al difuori dell’arte ed è dannoso per quelli che ne avrebbero potuto far senza. Un maestro coscienzioso si sforzerà sempre di insegnare al suo allievo quel metodo di fare, e perciò quel modo di vedere e sentire le cose come lui le vede e sente. Tutti i veri artisti possono riconoscere in sé stessi, che quanto essi hanno imparato da altri credendolo giusto, difficilmente lo possono dimenticare e quando si trovano dinanzi alla libera natura sentono che tutto quanto fuori della natura hanno imparato, ad essa non corrisponde. E nel lavoro si trovano davanti a mille ostacoli, a mille dubbiezze, che imbrogliano la mente,impedendo la libera e sincera manifestazione della propria personalità.

39 Ivi, pp. 27-31. 131


Un’opera d’arte dovrebbe essere l’incarnazione dell’io con la natura, non l’incarnazione del pensiero d’un terzo con l’io in una natura di convenzioni. Il pensiero dell’artista moderno deve liberamente correre alle limpide e sempre fresche sorgenti della natura, eternamente giovane, eternamente bella, eternamente vergine. È lì l’ovaia sacra dell’arte in cui il pensiero si feconda e prolifica; è appunto nella natura che l’idea s’ingenera e si matura, senza bisogno che alcuno vi comunichi o vi infiltri quel raggio che dovrebbe vivificare le concezioni dell’artista. Artista si nasce e non si diventa; il fenomeno d’arte si rivela a noi e si sviluppa se noi lo possediamo, esso non si inocula. Quando sentiamo germogliare in noi l’idea d’arte e le diamo tutte le nostre facoltà sino a che è natura, allora sarà come se una fiamma improvvisamente riscaldasse ed illuminasse l’anima nostra: la forza di questa è fiamma irresistibile e l’opera d’arte nasce vitale»40. Oggi i pittori stessi sostengono, in maniera indifferente, che un dipinto sarebbe bello in virtù della forza dei suoi colori, o per la freschezza delle pennellate, o anche solo per la resa dell’illuminazione, o per i suoi valori tonali, o per la perfezione del disegno, o per le linee complessive della composizione, o per l’individuazione del motivo, poiché ciò produrrebbe in maniera suggestiva un determinato contenuto sentimentale. Ma tutte queste singole bellezze non sono altro, a mio avviso, che petali sciolti di un unico fiore. Affinché un’opera d’arte sia compiuta, occorre che tutte queste singole bellezze si congiungano l’una con l’altra, e si accordino all’unisono, che confluiscano in un intero che sia perfettamente armonico».

40 Ivi, pp. 32-34. 132


Undicesimo capitolo Sul Maloja Il passaggio da Savognino a Maloja non costituisce certo un cambiamento di scenario o una salita come era stato nel trasloco dalla Brianza a Savognino. Si tratta comunque pur sempre di un’ascesa di circa 600 metri (dai 1200 ai 1800), che si lascia dietro l’idillio del villaggio per introdurci in un’epica magnificenza paradisiaca. Quando Segantini arrivò in Engadina otto anni prima, proseguì frettolosamente la sua marcia, poiché si sentiva confuso dallo splendore del paesaggio e atterrito dallo strepito dei turisti. Era giunto in una terra per lui completamente estranea, per di più in uno stato di fermento interiore, e aveva innanzitutto bisogno di un posto tranquillo e fuori mano e di schiette amicizie per potersi concentrare intensamente e chiarirsi le idee. Tutto questo, e molto altro ancora, gli era stato donato da Savognino. Vi era arrivato come chi cerca, e vi era diventato non solo un artista che trova, ma persino un maestro: un pittore che l’Europa conosceva e che osservava da lontano con vivo interesse. La sua fama si diffondeva rapidamente per il pianeta. Quel che Segantini aveva conseguito e fruttuosamente sviluppato a Savognino, lo portò con sé in Engadina, e qui lo condusse a suprema perfezione, addirittura a uno stadio di trasfigurazione. È questo il senso della sua ultima fase evolutiva. A indurlo ad abbandonare Savognino erano stati in fondo dei motivi relativamente insignificanti: dei conflitti col padrone di casa che gli guastavano la residenza nel paese. Ma Segantini deve pure aver intuito che il cambiamento dello scenario della propria attività gli sarebbe risultato benefico anche dal punto di vista della sua evoluzione interiore. Per otto anni a Savognino aveva imparato e creato. Avrebbe indubbiamente potuto continuare a imparare e a creare rimanendo in quel posto. Ma nuovi impulsi, nuovi stimoli provenienti dall’ambiente, lo stile di una natura ancor più possente, una luce più chiara, più trasparente, più satura: tutto ciò gli diede un rinnovato 133


slancio per salire ancora più in alto. E alla fine partì per il Maloja. Era l’agosto del 1894. Trovò una casa, sopra il lago di Sils, a circa tre o quattrocento passi dallo specchio d’acqua. Uno chalet in autentico stile svizzero: rivestimento integrale in legno sulle ampie fondamenta in granito; massime in lingua tedesca apposte sopra le finestre fra un piano e l’altro; una doppia fila di balconi sul fronte della casa; a coprire il tutto, un tetto che sporgeva ampio, assicurando un’efficace ombreggiatura. Quando Segantini usciva su uno dei balconi, gli si parava dinnanzi tutto lo splendore dell’Engadina: lo stupendo lago incorniciato dai ghiacciai, cinque chilometri di lunghezza, una superficie luminosa verde-blu, che luccicava ora d’oro ora d’argento. Oltre il lago, appena riconoscibili, le casette bianche di Sils-Maria, e la penisola di Chastè, che si inoltra scura nell’acqua come se fosse il muso di un coccodrillo gigante, con i suoi prati fioriti dove Nietzsche si coricava volentieri, fra rocce e alberi imponenti. Sulla destra si innalza una superba catena di ghiacciai, che inizia con il Piz Corvatsch, dietro il quale spunta in lontananza il possente Roseg; si vedono quindi il Caputschin e il Piz della Margna, e infine, ormai quasi invisibile sullo sfondo, il ghiacciaio del Vadrec del Forno, con la Cima di Rosso imbiancata e l’inquietante Monte Disgrazia. Sulla sinistra invece si dispiegano catene montuose più dolci, anche se non meno impressionanti all’occhio, soprattutto il Piz Lunghin, dal quale scende come un sottile nastro acqueo il fiume Inn, che scorre sotto i due grandi passi alpini del Settimo e del Giulia, oltre i quali si raggiunge la Val Sursette e in circa nove ore di cammino lungo la via della posta si arriva a Savognino. Quando Segantini usciva di casa e se ne andava a passeggiare per una o due ore, quali bellezze custodite nel suo animo poteva riportare a casa! Superando la struttura compatta di rocce dentellate, di color grigio chiaro, si arrampicava per fertili alture erbose, rigonfie di verdi succhi, percorse dallo zig-zag di centinaia di torrentelli mormoranti, adorne di un numero infinito di splendidi fiori che abbracciavano l’intera scala cromatica. Gli alberi erano scarsi, perlopiù pini cembri e larici, mentre arbusti di ogni sorta ricoprivano il terreno. Al culmine dell’estate molti di questi cespugli cominciavano a rivestirsi di fiori rossi, e la boscaglia, sfavillando di infiniti rubini, si illuminava rapidamente di un delicato splendore: un mare di rose alpine si riversava sul paesaggio. Ma anche il resto della flora alpina non rimaneva certo indietro: un blu luminoso si irradiava dai gruppi dei nontiscordardimé, gialle violacciocche si piegavano timide sotto le rocce, spuntavano genziane dal colore blu intenso, e ancor più in alto ondeggiavano nei loro grigi e nei loro gialli le dolci stelle alpine, le vellutate Edelweiss, con i loro ampi calici campanulati. L’arrampicatore esperto le poteva raggiungere senza fatica. Segantini 134


amava i fiori, proprio come amava gli animali, e ne ammirava la bellezza. E tutto questo lo trovava qui, come se fosse stato appositamente creato per un cuore gaudente, magnifico e possente e intatto come nel Giardino dell’Eden. Ma il gioiello di gran lunga più prezioso era l’aria: sottile, chiara, luminosa, capace di diffondere il suo splendore dorato anche alle più remote lontananze e di far risaltare vivamente tutti i contorni, trasfigurata in modo paradisiaco dal cielo più blu che si potesse immaginare. Ora Segantini viveva in questa terra come un principe delle montagne, immerso in un paesaggio stupendo anche se aspro, lontanissimo dal brusio mondano eppure più vicino che mai al grande mondo moderno. Se voleva, poteva studiare da una prospettiva ravvicinata Parigi e Londra, Roma e New York, Vienna e Berlino: la cultura più elevata e raffinata, più esigente e più corrotta della fine del Diciannovesimo secolo. In questa valle luminosa e magnifica, in mezzo ai monti luccicanti di neve, venivano infatti praticamente da ogni parte del mondo tutti i privilegiati, i più ricchi, i più eleganti, i più viziati, i più potenti; e molti anche appartenenti all’élite della cultura: artisti e scrittori, scienziati e musicisti, direttori di teatro e primedonne. Come un’immagine in miniatura del grande mondo, nello scorcio di pochi mesi estivi andava in scena dinnanzi agli occhi limpidi e incorruttibili dell’artista l’andirivieni di questa schiatta, lambendolo anche da vicino in qualche sporadico caso. Nella stessa Maloja c’è un enorme hotel di lusso – il direttore fece amicizia con Segantini –, e l’America e Parigi si davano appuntamento nelle sue sale (naturalmente parliamo dei ceti più abbienti). Sils-Maria è occupata quasi esclusivamente dalla borghesia tedesca; a St. Moritz e a Pontresina, località famose in tutto il mondo, domina un vero e proprio intreccio di nazionalità, mentre a Samedano, che è subito dopo, si ritrova la quiete. Era inevitabile che Segantini allacciasse in tutti questi luoghi relazioni e amicizie. Furono proprio le persone migliori di quell’ambiente ad accostarsi con calorosità e ammirazione a quell’uomo retto e schietto, ingenuo e insieme solenne. D’altra parte fra gli ospiti estivi non poteva certo mancare anche chi, immerso in quella natura possente, si ricordasse dell’artista che tanto la venerava, e desiderasse fare la sua conoscenza. Segantini riceveva tutti con grande gentilezza e una sorprendente naturale signorilità. Volentieri faceva anche le veci del padrone di casa, e ordinava champagne per rallegrare gli invitati. In queste occasioni viveva piuttosto dispendiosamente: non doveva più darsi dei limiti. Nell’abbigliamento e nell’alimentazione sceglieva il meglio; quando viaggiava per la valle, erano cinque i cavalli che trainavano la sua carrozza. Per la sua casa acquistò del mobilio pregiato, e fra le altre cose si fece fare dalla ditta Berndorf di Vienna un servi135


zio di posate in argento riccamente assortito, che venne realizzato appositamente per lui. Non erano tuttavia sintomi di una boria incipiente. Piuttosto, si trattava di un modo di vivere orgoglioso, nella gioia dei sensi, proprio di un artista che pensava in maniera principesca. E tuttavia quanto ancora appariva modesto al confronto di altri principi dell’arte, che spendono e spandono allegramente! Ma Segantini se ne stava soprattutto a casa sua. Si costruì innanzitutto uno «studio» rotondo, non tanto un atelier (per questo gli bastava la natura), quanto piuttosto una stanza per la lettura e la quieta contemplazione, per il disegno serale e per la scrittura. Lì vi raccolse il suo patrimonio librario: amava infatti i libri come immagini, essi erano per lui oggetti decorativi, che venerava con rispetto, anche se non era in grado di leggerli. Così collezionava antichi volumi in-folio in latino rilegati in pelle di porco; edizioni rare, stampate con bei caratteri tipografici su una buona carta; classici del pensiero e della poesia, nomi davanti ai quali egli si inchinava. Questa biblioteca si trovava subito dietro alla sua scrivania, che dominava la stanza come fosse un pulpito. L’edizione più agevole da raggiungere era quella delle opere di Goethe, l’ultima licenziata in vita dallo stesso poeta. Non la poteva leggere, perché non conosceva il tedesco; l’aveva acquistata per i suoi figli, ma la voleva presso di sé, perché lo faceva sentire bene. Un piccolo corridoio (su una parete del quale erano appesi disegni e incisioni di Liebermann) conduceva dallo studio alla casa vera e propria: gli spazi al piano inferiore erano destinati a ricevere gli ospiti e alle faccende quotidiane, mentre quelli ai piani superiori erano riservati alla più intima vita famigliare. Al piano terra, oltre alla cucina, vi erano solo due stanze, una delle quali molto piccola, ma graziosa e accogliente: la sala da pranzo, quasi interamente occupata dal grande tavolo con le sedie dalle alte spalliere e la credenza imponente. Alle pareti rivestite in legno erano appese riproduzioni di quadri italiani, olandesi e francesi. Un poco più grande era il soggiorno adiacente: vi si trovava un’ampia scrivania e anche un pianoforte. Le pareti erano ornate da antichi dipinti a olio, uno dei quali, attribuito a Tiziano, era stato completato da un intervento dello stesso Segantini. Per quanto fosse confortevole rimanere in casa e ricevere piacevolmente gli amici, Segantini conduceva la sua vita più autentica all’esterno, in mezzo alla natura, dove dipingeva. Di regola aveva in cantiere più di un dipinto, e a seconda dell’ora del giorno e dell’illuminazione passava dall’uno all’altro, talvolta anche dall’alba al tramonto. Gli rimanevano così libere sì e no un paio d’ore nel pomeriggio. Per i quadri si era fatto approntare delle grandi ceste richiudibili, in modo da poterli lasciare tranquillamente 136


fuori quando non ci stava lavorando, senza dover temere i danni provocati dalle intemperie. Durante queste sedute di pittura Baba era la sua fedele accompagnatrice. Gli portava la cassetta degli strumenti, e quando non posava da modella si accoccolava ai suoi piedi e gli allungava i colori. Spesso si univa anche la signora Segantini, si sedeva e leggeva a voce alta: opere di poesia, ma anche seriose trattazioni scientifiche. Così, ascoltando e seguendo la lettura, Segantini dipingeva. Non lo sentiva come uno sforzo; al contrario, come un bisogno. Solo così poteva esprimere appieno la sua duplice natura. Mentre la mano tranquilla creava e l’occhio penetrante esaminava, il suo spirito era incessantemente occupato ad accogliere in sé elementi nuovi, a esplorare nell’immaginazione mondi remoti, ad afferrarne gioie e dolori. Maloja tuttavia presentava uno svantaggio: a causa della sua posizione molto elevata, esposta a forti venti, gli inverni si rivelarono talmente freddi che la vita fra le sottili pareti della casa svizzera risultava notevolmente difficoltosa, e anche il lavoro dell’artista ne soffriva. Per mesi spesse masse di neve alte anche dei metri si accumulavano attorno all’abitazione, e il vento tempestoso penetrava attraverso i buchi e le fessure. Si presentava dunque con urgenza la necessità di cercare altri quartieri per la fredda stagione invernale, dove il clima fosse sopportabile rimanendo tuttavia in alta montagna, visto che il carattere di quell’ambiente naturale esercitava effetti così favorevoli sulla creatività di Segantini. Il nostro riuscì a trovare una località siffatta a una ventina di chilometri più a ovest, a Soglio, un paese che si trova al centro della Val Bregaglia, su un’altura scoscesa e isolata circondata tutt’intorno da imponenti catene montuose. La valle, intersecando il confine italiano, conduce da Maloja a Chiavenna, sprofondando sempre più in basso, fino a raggiungere all’incirca i 300 metri di altitudine. Il paese stesso di Soglio è posto a una quota di 1088 metri, quindi più in basso di Maloja di circa 700 metri, eppure ancora a 250 metri sopra la valle, che si snoda sul fondo in strette anse, sorvegliata dall’alto da picchi e cime gigantesche. Non si potrebbe facilmente trovare un esempio più riuscito di romantico paesaggio alpino di quello offerto da Soglio. Essendo la valle così angusta, la possanza delle montagne appare così vicina che l’occhio le sorvola comodamente, percorrendo nel suo libero vagare i sentieri delle malghe e le lingue dei ghiacciai. La località era dunque collocata in una posizione che a Segantini risultava straordinariamente felice. Essa offrì alla sua pittura motivi di un fascino e di una ricchezza inesauribili, e per i mesi invernali egli poteva disporre di una dimora adeguata, nella quale si poteva abitare comodamente. A Soglio c’è un albergo ricavato da una antica sede nobiliare, un edificio imponente, progettato 137


in grande stile, con ampie e belle scalina te, e gli atri ricoperti da volte. Anche il mobilio proveniva da un’epoca antica: mobili venerandi, che sembravano custodire dietro le loro sfarzose decorazioni rimembranze leggendarie, erano disposti per i corridoi e nelle stanze, illuminati da una luce soffusa. Pure le stoviglie e gli utensili che venivano utilizzati quotidianamente avevano un carattere peculiare, come se volessero raccontare quel che avevano vissuto nel corso dei secoli. In questo ambiente, al contempo elegante e suggestivo, Segantini visse serenamente con la sua famiglia per tre inverni. E quando il lavoro gliene offriva la tentazione, rimaneva certe volte anche fino alla primavera inoltrata prima di far ritorno a Maloja. L’attenzione al proprio lavoro rimaneva comunque per lui l’elemento determinante. Segantini divenne sempre di più un fanatico della pittura. Quest’uomo, che era convinto che avrebbe raggiunto un’età veneranda, ha tuttavia sfruttato per il suo operare ogni singolo minuto della sua vita, come se presagisse invece oscuramente la sua fine imminente. Ma «lavoro» non significava per lui una mera occupazione; osava infatti designare con quel nobile termine solo ciò che gli consentiva di intensificare le sue forze creative. «Io non penso mai a superare gli altri, ma a superare me stesso»41: così ebbe a scrivere una volta a Vittore Grubicy, ed effettivamente queste parole esprimono efficacemente il Leitmotiv della sua attività creativa. «Mi chiedi – scrisse all’amico in un’altra occasione – se sono contento del mio lavoro. Credo di aver fatto un altro passo; come sempre, ci spesi tutto quello che avevo nella mente e nel cuore, deliziando l’anima mia superiore, ed oggi sento che essi si sono arricchiti di nuovi tesori, e l’anima mia, avida come una vecchia avara, arde palpitando coll’occhio fisso, le ali pronte a spiccare il volo verso l’orizzonte della mente, ove spuntano i lavori futuri»42. Questa è la disposizione interiore con la quale Segantini si poneva nei confronti del suo lavoro. E qui non poteva fallire, poiché l’artista andava perfezionandosi sempre più approfonditamente. Anche dal punto di vista tecnico fece ulteriori progressi. Arrivò a bandire dalle sue opere pittoriche qualsivoglia mescolanza di colori. In linea di principio era un’idea che aveva già da tempo concepito. Ma ora poteva riuscire a metterla in pratica nel modo più scrupoloso. Così la capacità espressiva della sua arte

41 Lettera a Vittore Grubicy da Maloja del 28 febbraio 1895; in Scritti e lettere, cit., p. 192. In Segantini. Trent’anni di vita artistica europea…, cit., p. 151, la lettera è datata 23 febbraio dello stesso anno. 42 Lettera a Vittore Grubicy da Savognino del 25 marzo 1894; in Scritti e lettere, cit., p. 192. 138


crebbe in misura sempre maggiore. Proprio come la luce in Engadina è ancora più limpida e pura che non a Savognino, così lo diventa anche nei quadri di Segantini. Ma l’artista lo doveva esclusivamente al rispetto rigoroso del principio della scomposizione prismatica dei colori. La realizzazione pratica di questo principio richiese un lavoro enorme. Il procedimento tecnico di Segantini era il seguente. Innanzitutto stendeva sulla tela un fondo di terra rossa e trementina, in modo che assumesse una tonalità superficiale di color rosso ruggine scuro. Otteneva così per la sua tavolozza chiara un colore di base saturo e profondo, rispetto al quale doveva risaltare in modo netto e deciso qualsiasi cosa avesse voluto dipingervi sopra. Grazie a questo fondo evitava anche di cadere per così dire nell’irrealtà, visti tutti quei toni luminosi che utilizzava. Quel rosso energico sottostava sempre all’immagine come se fosse una sostanza terrosa, facendosi valere come vero e proprio fondamento. Sulla tela così preparata Segantini disegnava la composizione del suo quadro in ampi tratti bianchi e semplici campiture di colore, procedendo a memoria. Si trattava per così dire di una mera disposizione spaziale, per la quale era determinante il suo senso del ritmo. Solo allora, quando il tutto era già fissato nelle sue linee fondamentali, andava en plein air. I luoghi nei quali voleva dipingere erano stati da lui precedentemente stabiliti con esattezza. Per un singolo dipinto spesso abbisognava di tre o quattro località diverse, a seconda dei singoli elementi fenomenici che aveva pensato di rappresentare nel quadro. Qui dipingeva ad esempio un prato, lì una casa e là le montagne. La mandria la dipingeva di solito o nella stalla o in una piccola fattoria, dove si trovava aggiogata. Dopo aver dipinto sul quadro tutti i vari elementi nelle diverse località, grazie a uno studio devoto e meticoloso della realtà, ricorreva infine a uno in particolare di quei luoghi per armonizzare l’immagine nel suo complesso in una luce uniforme. Ad esempio, si faceva condurre all’aperto gli animali dipinti dopo aver completato la modellazione dei corpi e gli effetti dinamici, per poter controllare e ritoccare ancora una volta l’impressione dell’insieme sotto l’influsso di una determinata illuminazione e di un particolare ambiente. Nell’applicazione dei colori invece procedeva nel modo seguente: con pochi pennelli, lunghi e sottili (che lui peraltro assottigliava ulteriormente) applicava sulla tela filamenti corti e spessi in quei colori che aveva deciso di utilizzare come tonalità principali. Tra un filamento e l’altro lasciava spazio sufficiente perché si potesse dapprima intravedere il fondo rosso bruno; quegli spazi erano poi sfruttati al momento della modellazione, per essere riempiti con i colori complementari. Ogni singolo colore doveva 139


così esercitare il proprio puro effetto luminoso senza interferenze, e le sfumature più fini erano ottenute esclusivamente tramite la giustapposizione dei vari colori. In questa disposizione delle tinte l’una rispetto all’altra Segantini era straordinariamente abile, e là dove voleva far risaltare la luce rispetto alle ombre applicava senza esitare l’arancio di fianco al blu cobalto. In questo modo l’artista assicurava ai suoi dipinti un’incredibile luminosità, il cui potere illusionistico dipendeva però dall’eccelso grado di sviluppo della sua capacità di giudizio e della sensibilità del suo occhio. Una volta che gli era riuscito di disporre correttamente tutti i colori gli uni di fianco agli altri, non riteneva tuttavia il quadro già bell’e finito. Esso presentava infatti un certo carattere di rozzezza che andava armonizzato. I solchi fra un filamento di colore e l’altro erano ancora aperti. Spianando e spalmando con cura meticolosa si poneva rimedio a questo inconveniente. Ma per conseguire il bilanciamento definitivo e la suprema luminosità l’artista si serviva di un mezzo suo proprio affatto particolare: macinava delle lamine d’oro e d’argento, e ne spandeva la polvere così ottenuta nei solchi di porzioni del dipinto particolarmente esposte. L’oro sprofondava così fra i colori come una cipria brillante, emergendo poi dal loro fondo con il suo bagliore, così che nelle sue parti più luminose il dipinto si saturava di un indefinibile chiarore, che spesso produceva un effetto davvero incantevole. Nonostante questo modo di procedere tecnicamente molto raffinato, Segantini non utilizzava molti colori; ma quei pochi dovevano essere di qualità eccellente. Era solito ordinarli presso una filiale marsigliese della ditta parigina Lefranc, e in questo non badava a spese. Ecco i colori di cui si serviva: due tipi di bianco (bianco di zinco e bianco d’argento); nero; due tipi di verde (verde smeraldo e verde di cobalto); due tipi di blu (blu di cobalto e blu oltremare); quattro tipi di giallo (giallo di cadmio scuro, chiaro e medio, e giallo di Marte); arancio e rosso (vermiglione di china). Questo è sostanzialmente tutto quel che usava. In casi piuttosto rari ricorreva anche al rosa lacca, che utilizzava in due tonalità per il rosso di sera sul cielo e sulle montagne. E da ultime le foglie d’oro della Robertson Medium43, che teneva sempre a disposizione nelle sfumature del giallo, del bianco e del verde. Per ammorbidire e diluire Segantini usava esclusivamente la trementina, non ricorreva invece mai alla vernice. Il lilla, il marrone, il grigio, il violetto e così via non venivano impiegati né sulla tavolozza né sulla tela: ef-

43 Ditta inglese produttrice di colori, concorrente della francese Lefranc. 140


fetti cromatici di tal sorta, come del resto anche l’infinito numero delle altre gradazioni di colore, erano ottenuti solo tramite una meticolosa selezione dei colori fondamentali applicati gli uni di fianco agli altri. Il metodo dei filamenti di colore utilizzato nei dipinti è stato poi trasposto da Segantini anche ai suoi disegni, che assumevano di conseguenza un carattere del tutto peculiare. Il che mostra come in lui lo stile pittorico fosse divenuto espressione dell’uomo. Nei disegni infatti l’attenzione riservata agli effetti cromatici (intesi in senso lato) non poteva essere l’aspetto determinante. Qui a risultare decisiva era piuttosto l’esigenza di produrre un effetto di atmosfera. Grazie al metodo dei filamenti Segantini seppe conferire ai suoi disegni un’accentuata morbidezza nel complesso e una particolare delicatezza nella gradazione della luce. Lo mostrano chiaramente alcuni esempi che riproduciamo in questo volume. Per quanto fine sia la disposizione grafica di questi fogli, nel loro effetto complessivo essi appaiono pittorici. Sono saturi di vibrazioni, e una lieve prospettiva aerea domina il tutto. Si consideri il modo in cui, nel foglio Il seminatore, il campo arato si ritira verso il fondo, e come le nuvole che lo sovrastano sembrino «nuvolose». Oppure si veda come, nel foglio Ritorno dal bosco, attraverso una distribuzione perfettamente soppesata di luci e di ombre, le figure rese in grigio assumano la dinamicità di silhouettes che nell’ora della sera si avvicinano verso di noi. Tanto nei disegni con i gessi colorati quanto nei pastelli (alcuni dei quali furono realizzati in concomitanza con le opere maggiori) l’artista si attenne spontaneamente allo stesso metodo, e anche in quei casi lo vediamo padrone della sua capacità espressiva: foglio dopo foglio ci si para dinnanzi ogni volta un’opera d’arte compiuta. Ma Segantini non trascurò mai il disegno vero e proprio, quando gli poteva essere utile. Si sono conservati molti cartoni dedicati allo studio della figura umana, singola o in coppia. Anche in questo caso i contorni non esibiscono durezza alcuna, e tuttavia determinano con tratti sicuri e concisi l’aspetto caratteristico di una figura o di un movimento. Il vecchio che lavora con la pala ne è un buon esempio. Ma si confronti anche la successiva riproduzione della giovane coppia di amanti nudi. Sia che si tratti del mondo dei fenomeni reali, sia che si tratti dell’ambito di figure ideali che si abbandonano totalmente all’estasi, in entrambi i casi Segantini mostra la medesima delicatezza e anche la stessa veridicità e semplicità. Non sussisteva per lui una contrapposizione fra quei due regni: entrambi si riappacificavano sul terreno neutrale dell’arte che tutto riunifica in sé.

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Dodicesimo capitolo L’epos del mondo alpino All’apparire di Segantini sulla scena artistica nulla ha più meravigliato i suoi contemporanei del fatto che l’ennesimo pittore si riproponesse il compito ingrato di dipingere il mondo alpino. Questo genere di soggetto era infatti considerato «entusiasmo da Baedeker», «pittura di panorami», e si credeva di averlo ormai archiviato da molto tempo. Non ne veniva fuori nulla di buono: ne erano convinti tutti. Singoli turisti e dilettanti esaltati, come il signor von Kameke44, non contavano. Gli artisti veramente in gamba si erano rivolti ad altre mete. Il loro grande modello era Whistler: la poesia delle pianure e del mare, l’atmosfera nebbiosa dai grigi vaporosi, colori suggestivi, sfumati e delicati; linee e colori per così dire sussurrati, che sapevano dolcemente intrattenere gli occhi sognanti dei visitatori nella luce soffusa dei salons; l’aristocrazia dei nervi viziati e del gusto ormai saturo di tutto; armonie eccelse, che emergono da sotto la sordina in lievi e vaghi suoni di violino; profumi di remote isole incantate trasportati dal mare: era questo il mondo nel quale il pubblico voleva provare le proprie sensazioni, questa sembrava essere la sfera dell’arte per gli uomini del nostro mondo epigonale. Così si era stabilito nei circoli più esclusivi di Londra e di Parigi, e a tali direttive ci si atteneva nelle altre capitali dello spirito. Al genio di Whistler – indiscutibilmente un grande genio – fu riconosciuto il monopolio sull’arte: egli era l’«imperatore segreto» della cultura ai suoi gradi più alti. Qual era il ruolo di Segantini in questo mondo? Egli faceva l’effetto di un barbaro, di un rozzo entusiasta. Si capiva tuttavia che non si poteva facilmente passar oltre questo barbaro montanaro. Si doveva lasciarlo parlare; e a poco a poco si finì per ascol-

44 Otto Werner Henning von Kameke (1826-1899). 142


tarlo. Con la meraviglia di tutti: questo uomo primitivo aveva da mostrare delle cose che cominciavano a interessare vivamente persino i cittadini e gli uomini di cultura più blasé. Ma allora vi erano ancora delle questioni da risolvere lassù fra i monti: importanti questioni pittoriche, che tuttavia finora non si erano comprese e afferrate nel modo giusto. Vi erano tesori di bellezze da dissotterrare, e non solo dalla nebbia, ma anche dalla luce si potevano ricavare delle armonie: armonie al tempo vivace di un «Allegro» o a quello possente di un «Forte», e non, come si era invece abituati, a quello attutito dell’«Adagio». Vi era dunque vera arte là dove non si era voluto ravvisare nient’altro che un ritrovo di filistei. Questo Segantini era un uomo che si doveva tener d’occhio, un vero e proprio mago. In fondo questi pettegolezzi da salon diffusi nel mondo degli snob estetici ci sono totalmente indifferenti. Ma come sintomo di quel che si andava muovendo in direzione di un riconoscimento di Segantini, davanti al quale si dovette alla fine capitolare, essi rivestono comunque un certo qual interesse di carattere storico. Ci fanno altresì capire come Segantini sia stato un artista nuovo e originale, che ha potuto sorprendere molti, e indurre molti a rivoltarsi contro di lui. Lui stesso non sapeva ovviamente nulla di queste chiacchiere, e nemmeno che ora il circolo dei pittori credesse di dover dipingere come Whistler. Se avesse mai visto i suoi quadri, avrebbe indubbiamente apprezzato il pittore americano; ma poi si sarebbe tranquillamente ritirato davanti al proprio cavalletto, e avrebbe continuato a dipingere esattamente nella direzione opposta. La ragione della sua vita era infatti la raffigurazione delle sue montagne e la limpida luce che vi regnava: questo era il suo più sacro pathos. «Certe mattine – scrisse una volta a Ugo Ojetti –, contemplando per qualche minuto questi monti prima di prendere il pennello, mi sento spinto a inginocchiarmi innanzi a loro come innanzi a tanti altari sotto il cielo»45. E volle affidare questo sospiro di profonda nostalgia al suo diario: «Chi conosce quel pittore che sarebbe capace di svelare il profondo enigma del blu del cielo in tutto il suo splendore luminoso? O Natura, la nostra vita è troppo breve perché ti si possa comprendere!». Così, rispondendo a un bisogno del cuore, Segantini invocò a gran voce il suo dio, implorando e pregando: «Discendi, Spirito

45 Il passo della lettera è riportato in Ugo Ojetti, In memoria di Giovanni Segantini e di Filippo Palizzi, in «Nuova Antologia», 167 (16 ottobre 1899), pp. 700-713, qui p. 706. 143


creatore!»46. E Dio volle esaudire la sua preghiera, che gli era apparsa pura e nobile. Il primo grande dipinto realizzato da Segantini sul

, ora meravigliosa acqui-

sizione della Galleria Nazionale di Berlino. È un quadro che rappresenta l’afflizione, un’autentica elegia: la restituzione pittorica di uno di quegli umori provenienti da un tempo remoto, avvolto nelle nebbie del passato, che in certi casi penetrano come un suono cupo e lacerato nell’animo altrimenti allegro del nostro uomo. Un giorno, quando era ancora a Savognino, aveva visto una famiglia che riportava a casa il figlio morto su un carretto. «Questo un giorno dovrò dipingerlo», si era subito detto; e da allora il soggetto si era stabilmente conservato in lui, fino ad assumere una forma pittorica in quel quadro. … La sera sta calando sulle montagne, rivestendole di uno splendore rosato di inebriante bellezza: si posa sui ghiacciai come oro colato, e arde in cielo come nel riflesso di fiamme lontane. Distende le sue ali rosse fin giù nella valle, dove però già le si oppone l’oscurità del crepuscolo, disperdendone i raggi. Laggiù nella valle, preso nel conflitto fra il bagliore rosa e l’ombra grigia, avanza cupo un carretto, come un simbolo del fatto che ora le luci gioiose del giorno devono tutte scolorare dinnanzi alla notte che sopraggiunge. Lo precede un uomo, avvolto in un lungo mantello nero, il capo affossato, come quello del cavallo stanco che lo segue, sul quale sembra gravare lo stato d’animo afflitto del suo padrone. Poi viene il carro con la bara, sulla quale sono sedute, secondo i costumi del luogo, le donne in lutto: l’una col busto eretto e il fazzoletto davanti agli occhi, l’altra abbattuta con le mani sul volto. Dietro il carretto segue il cane: come il cavallo, sembra anch’esso coinvolto dal tragico destino che ha colpito il suo padrone. Questo gruppo produce l’effetto di un brano musicale, che in un doloroso «Largo» fa risuonare il medesimo motivo luttuoso in sempre nuove variazioni, come se il lamento e la pena non potessero e volessero mai più ammutolirsi. Queste figure avanzano cupe e silenziose di sera nella valle. Nel loro percorso hanno superato una casupola: dietro i vetri opachi si intravede una testa scura. La loro meta è una chiesa che spunta all’orizzonte; lì seppelliranno il loro bambino. Sono ritornati al paese natio, però ben più poveri di quando erano emigrati. La scena rappresenta uno dei momenti supremi dell’arte di Segantini. La chia-

46 Qui, in mancanza del documento originale, traduciamo questi passi del diario direttamente dal testo di Servaes. 144


ra luce crepuscolare della sera, che si diffonde magicamente su tutto il paesaggio, e il modo in cui le scure figure risaltano enigmaticamente sullo sfondo, susciteranno l’ammirazione di tutti gli esperti d’arte. Anche la composizione, nella sua quieta e convincente compostezza, è magistrale. I personaggi sembrano quasi immobili, eppure ci sembra di avvertire il loro passo, e di sentire come la strada che hanno sì e no percorso fino al centro dell’immagine risulti loro sempre più ardua. Un eccellente contrasto a questa scena è offerto dalla natura raffigurata in tutto il suo sfarzo e immota maestà, indifferente al destino degli uomini. Accordi e dissonanze sono selezionati nella maniera più raffinata, congiungendosi in un’armonia che dolorosamente ci avvince. Cala il sipario, e quando si rialza di nuovo ci troviamo trasferiti in un mondo sentimentale completamente differente. Colori chiari e ridenti si destano dinnanzi ai nostri occhi: domina il bianco, accompagnato dal verde giallastro e dal grigio-azzurro. È il paesaggio primaverile con la mucca bianca al pascolo: uno dei quadri dalla tavolozza più chiara che Segantini abbia mai dipinto, ricolmo di quello spontaneo giubilo naturale che pervade l’Engadina e che ci si fa incontro traboccando di toni acuti. Tutto quel che il pennello di Segantini poteva fare è racchiuso in questo dipinto: è un autentico trionfo della sua tecnica suprema. In qualsivoglia ambiente la limpidezza e la luminosità di questo quadro risaltano in maniera accecante, sembra che le pareti siano attraversate dal grido «Primavera! Primavera!». E tuttavia anche in questa immagine domina quella calma e quella compostezza che sono il tratto caratteristico più spiccato dell’artista Segantini. Pur con tutta l’incontenibile gioia di vivere e l’ebbrezza luminosa che si sprigionano dai suoi quadri, non vi è tuttavia nulla di quel formicolio e ronzio nervosi che i pittori della metropoli avvertono al cospetto della natura. Anche se, filamento dopo filamento, la tecnica segantiniana del mosaico compone l’immagine in modo che essa vibri di forza giovane e vitale fin nella sua ultima fibra, non vi si può cogliere traccia alcuna di fretta, distrazione o arbitrio. Un suono potente, maestoso, venerando come di campane profonde e ben armonizzate aleggia sull’insieme. Devozione nei confronti della natura, adorazione delle sue forze di creazione e di conservazione: questi sono i contenuti del dipinto in questione. Vediamo questa mucca bianca al pascolo: una bestia ben nutrita, dalle mammelle rigonfie, soddisfatta, che china rilassata il capo a brucare l’erba, e tutta contenta dondola placidamente la coda. Dietro di essa vediamo il vitellino, che osserva curioso e intraprendente: un novellino a questo mondo. Il pascolo è ubertoso e chiaro, cosparso di massi grigi e di fitti cespugli. Un sole chiaro illumina la scena: ogni cosa brilla sotto 145


i suoi raggi. La vacca è collocata al centro dell’immagine come il suo punto mediano illuminato di bianco. Ma di un bianco ancor più intenso splendono le montagne, che chiudono la prospettiva sul fondo; come pure bianche sono le sparse nuvole primaverili, che volteggiano sopra le catene rocciose. Le sole parti più scure (anche se comunque rese con tonalità chiare) sono le rocce che sprofondano nel paesaggio per essere ricevute dal verde scuro del prato sottostante e dal blu delle ombre proiettate sulla neve. La natura qui la fa da padrona. Anche gli esseri umani ne fanno parte, e si pongono al suo servizio. Se ne vendono due in lontananza. Sul lato sinistro, dove è situata la malga, una donna è sul punto di allontanarsi con la sua carriola, perdendosi verso lo sfondo. Sull’altro lato, ancor più arretrata rispetto alla prima, si vede una seconda donna dritta davanti alle montagne; in testa le brilla un fazzoletto rosso. Le due figure umane appaiono così totalmente isolate, e ciò rende ancor più potente l’impressione di solenne solitudine che domina l’intero dipinto. D’ora in avanti sulle rappresentazioni segantiniane della natura aleggerà questa atmosfera del dì di festa. La natura vi viene sempre venerata come una potenza salutare. Altri pittori della nostra epoca, ad esempio Liebermann, dipingono piuttosto le asprezze e la forza coercitiva della natura. I suoi esseri umani ci fanno l’effetto di creature piegate e tormentate, vessate dalla vita, ottusamente consegnate al loro destino. Nelle sue immagini sopravvive come potente pathos quello spirito di lamento e di accusa che era stato il padre spirituale del naturalismo: che si tratti di una vecchia dalle braccia magre che si tira dietro le sue capre, o di una ragazza giovane e forte che debba rinunciare alla sua gioventù per riparare delle reti, o ancora di un vecchio che incede diligente per la sua strada trasportando ottusamente la sua gerla per la campagna. Questi motivi non erano stati certo estranei a Segantini, nonostante non fossero mai divenuti i suoi soggetti principali. Ma ora essi scompaiono del tutto. Anche quando lo opprime la malinconia, è assente qualsivoglia elemento caustico o rancoroso. Le sue immagini sono invece sempre percorse da una corrente sotterranea consolatrice infusa di venerazione e di amore, anzi di vera e schietta devozione. La si definirebbe una devozione nei confronti della vita e della natura. È un tono che si avverte anche nei quadri di dimensioni più ridotte, realizzati in quello stesso periodo, che riprendono antichi temi. La vacca al truogolo, che pubblichiamo qui, non ha la potenza del dipinto realizzato in precedenza, ma è per contro caratterizzata da una maggiore profondità di sentimento. Essa appare come un prodotto del suolo inondato di sole, sul quale si trova. E la vita che spunta attorno all’animale 146


in mille forme vale per esso come una forza di conservazione. Ancor più significativo appare La raccolta del fieno, risalente all’ultima fase dell’attività del maestro. L’essere umano al lavoro non è qui l’individuo dei naturalisti che si spacca la schiena, ma un raccoglitore che opera riconoscente nei confronti della natura. Bendisposta e benevolente, la natura ha offerto i suoi tesori, che ora l’essere umano va ad ammassare nel fienile. Il carro sullo sfondo porta già un carico bello alto, e sta per essere issato un nuovo pesante covone. La figura principale però è collocata sul davanti: è una ragazza che si piega in avanti col suo rastrello di legno per raccogliere il fieno secco quasi fosse un tesoro: linda, sana, il corpo ben curato, questa ragazza sembra essere il germoglio di una schiatta intatta, capace di badare a se stessa, libera da quella stucchevolezza piccolo-borghese e Biedermeier che caratterizzava il modo in cui a quei tempi i pittori benpensanti raffiguravano nei loro quadri «i nostri valenti contadini». Il dipinto è particolarmente bello sotto il profilo della resa della luce. Il chiarore verde oro dietro i monti viene a risaltare in modo straordinariamente efficace di contro alla nuvolaglia nero-blu, e la nube rosso-oro, che viene invasa da quella nera come da una specie di verme inquietante che le striscia sopra, produce nell’insieme un contrasto impressionante. Solo un fine conoscitore dei fenomeni celesti poteva osare fissare pittoricamente tali manifestazioni atmosferiche. Solo un artista perfettamente consapevole del proprio gusto poteva permettersi di giocare l’una contro l’altra simili note contrastanti. Il quadro concluso a Soglio nel 1897 e intitolato Primavera sulle Alpi (oggi in California) è un’epopea dipinta della vita naturale. L’artista sembra avervi tentato una specie di immagine totale della sua concezione della natura. Coloro che lo hanno potuto vedere hanno lodato questo quadro come una delle vette della pittura segantiniana, e l’artista stesso, dopo che lo ebbe dipinto, lo definì il suo lavoro migliore. A giudicare dalla riproduzione fotografica di cui disponiamo, sotto il profilo coloristico la concezione del dipinto deve essere sulla stessa linea di quella dei Pascoli di primavera. Ma, se possibile, costituisce rispetto a quella un ulteriore progresso. Almeno la composizione si rivela essere più ampia e più significativa. Il punto centrale è rappresentato da una contadinella che conduce due cavalli dall’abbeveratoio verso casa. Essa cammina di traverso, fra i due animali, in direzione dell’osservatore, con passi pesanti, come inebriata dal sole, tenendo in ciascuna mano una cavezza. Su entrambi i lati si dispiega il pascolo. A sinistra, dietro la fontana col truogolo, si vede sul piano mediano un seminatore, lo stesso che abbiamo visto nel disegno precedentemente riportato. A destra, su una piccola altura, vediamo un cane, per il quale ha fatto come al solito da modello il cane 147


di casa Segantini, «Fingal». Davanti alle montagne, che anche qui bordano l’orizzonte con le loro imponenti cime innevate, si distende un villaggio. Il cielo è attraversato da filamenti di nuvole bianche. È un dipinto indubitabilmente caratterizzato da un senso supremo di solennità. Il nostro pittore-poeta ritorna ancora una volta a sfiorare il segreto della morte, e realizza nel dipinto Il dolore confortato dalla fede un controcanto ideale e al contempo un’integrazione del Ritorno al paese natio. L’elegia del dolore si risolve qui in un mite canto consolatorio pieno di speranza. Il paesaggio ci parla fin da subito in un linguaggio affatto diverso. Non accende fiaccole di bellezza ipocrite e vezzose, atte a ferire l’animo. Si avvolge invece nella veste di un profondo lutto, ricopre le sue membra pronte a gioire con il lenzuolo funebre della neve alta. Questo accordo omogeneo produce un effetto mitigante. L’afflizione umana si attutisce, se tutto attorno viene caricato di tristezza. Come una messa funebre, che ammonisce solennemente e al contempo innalza i cuori, anche l’abito funebre della natura produce il medesimo risultato. Esso funge da suono armonico inferiore che aleggia per tutti il quadro. Le due figure nere dei genitori se ne stanno sprofondate nella neve alta, davanti alla tomba recente del loro amato, vicino al cancello del piccolo cimitero del villaggio. Dietro di loro si estende il paesaggio. Scuri abeti nani spuntano dalla neve, dei corvi volteggiano, e delle persone vestite di nero – un vecchio, una vecchia, una donna con il suo bambino – arrancano silenziose verso il villaggio. Provengono dal cimitero, dove i due genitori stanno piangendo, ormai completamente soli. Singhiozzando sconvolto, il padre si è accasciato sulle ginocchia davanti alla piccola croce, e piange tenendosi il volto fra le mani. La madre, una donna ancora giovane, ha appoggiato il braccio destro sul montante in pietra del cancello nascondendovi il viso, e posa la mano sinistra (che è infilata in un guanto nero di maglia) sul capo del suo amato compagno per consolarlo. Attraverso l’imposizione della mano, qualche cosa della compostezza che le conferisce la fede deve trasfondersi allo stato d’animo lacerato del padre, come una benefica corrente magnetica. Da questo segno procedono diversi miracoli, invisibili a entrambi i genitori, eppure comunicati dal pittore all’osservatore. Vicino alla croce cimiteriale appare la visione del sudario della Veronica con il volto del Redentore. Ma se leviamo lo sguardo oltre la dentellatura delle creste montane, dirigendolo sempre più in alto verso il limpido etere, nella lunetta approntata a tale scopo intravediamo una consolatoria apparizione celeste. Due angeli dalle grandi ali trasportano amorevolmente il cadavere nudo del piccolo in cielo, nel regno della gioia eterna. 148


La tensione verso la sfera soprasensibile, che aveva già assunto nel ciclo del Nirvana una decisa configurazione, si congiunge qui a una raffigurazione della vita reale, ricorrendo alla tradizione iconografica delle leggende cristiane. Quest’ultimo aspetto colpisce forse in modo particolare se si tiene conto del carattere di «libero pensatore» proprio di Segantini. Eppure nelle sue convinzioni etiche egli si collocava in tutto e per tutto su un terreno cristiano: a un artista dalla sensibilità così profonda non sarebbe mai passato per la testa di respingere il mondo interiore e la poesia del cristianesimo. Perché mai gli angeli cristiani dovrebbero risultargli dal punto di vista artistico meno reali delle anime trapassate della leggenda buddhista? Proprio perché si sentiva intimamente libero, non aveva bisogno di scagliarsi contro nulla. L’immagine dell’Angelo della vita non è forse, dal punto di vista del suo contenuto, parimenti cristiana? E la concezione segantiniana della dignità e sacralità della maternità non è per così dire l’idea cristiana per eccellenza? Si tratta di un’idea che egli ha ulteriormente ampliato, estendendola dal mondo umano al regno animale. In fondo non vi è nulla di sorprendente se nel dipinto Il dolore confortato dalla fede l’artista concede un accesso alla sfera delle rappresentazioni cristiane del sovrasensibile. Tanto più se pensiamo che, attraverso la lettura di testi spiritistici, egli si era familiarizzato con la possibilità della presenza di esseri e potenze ultraterrene. Sognando durante i voli del suo pensiero, Segantini non si confinava affatto agli angusti risultati e all’esattezza dell’odierno sapere scolastico. E se dovesse anche emergere che egli era disponibile a prendere in considerazione la superstizione, dobbiamo tener conto del fatto che queste ricadute nel dominio ingenuo delle credenze popolari procuravano a quel libero spirito, almeno nel suo fare artistico, null’altro che motivi ornamentali. Per quel che concerne l’opera Il dolore confortato dalla fede, dal punto di vista artistico possiamo sostenere che l’aggiunta della lunetta con gli angeli non ci appare senz’altro inevitabile, almeno sotto il profilo del suo contenuto (e di conseguenza anche sotto quello della sua forma): essa infatti è collocata al di sopra di quella parte del dipinto che è stata resa con la massima luminosità e trasparenza al fine di rappresentare un etere trasfigurato, e al confronto non può pertanto che risultare scura e pesante. Si produce così un tale contrasto nella gradazione della luce che il direttore della Kunsthalle di Amburgo (dove ora l’opera è conservata) ha addirittura imposto di separare le due parti, così che ora una doppia cornice robusta divide la porzione superiore da quella inferiore del dipinto. In questo modo quell’errore precedentemente stigmatizzato viene parzialmente corretto, ma viene purtroppo anche distrutta l’unità dell’opera. 149


Nella riproduzione che riportiamo qui la lunetta manca del tutto, e non se ne sente troppo la mancanza. Dal punto di vista decorativo, a coronazione dell’insieme, i due angeli con il delicato corpicino del defunto sono senz’altro una soluzione molto fine. Ma non suscitano in noi sentimenti che non siano già stati evocati dalla parte inferiore del dipinto. Forse ci esprimono persino troppo esplicitamente quel presagio consolatorio che la raffigurazione di quel cimitero instilla già di per sé nel nostro cuore. Non sono forse sufficientemente eloquenti il volto di Cristo e i gesti della madre? Infine, nemmeno il paesaggio è muto. Se anche la terra è ricoperta dal lenzuolo funebre della neve ghiacciata, proprio questa limpidezza glaciale – restituita pittoricamente in modo meraviglioso – già contiene in sé la vittoria sui sentimenti di afflizione. Quest’aria sorprendentemente pura e cristallina bandisce tutti i vapori maligni, facendo risaltare di contro al cielo (di un bianco delicato che sfuma nell’oro) in modo energico e deciso la sublimità del mondo montano con i suoi nobili e maestosi profili: quest’atmosfera ci parla in mille lingue, dicendoci che la cupa afflizione è destinata a passare, e che tutte le pene terrene troveranno la loro redenzione e soluzione nella purezza, nella limpidezza e nello splendore celesti. Il linguaggio di questo dipinto ci appare così potente da non farci sentire in nessun modo il bisogno di una sua intensificazione. Per il mondo interiore di Segantini l’ambito del sovrasensibile era diventato così importante che egli non vi poteva più rinunciare.

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Tredicesimo capitolo Simbolismo e stile Con quale libertà Segantini si relazionasse nei confronti del mondo delle leggende cristiane lo mostra forse nel modo più evidente un disegno del 1896 raffigurante una Annunciazione. Qualsiasi tradizione vi risulta dissimulata, e all’intera scena è conferita un’interpretazione simbolica universale. Maria, alla quale l’artista ha dato i tratti della propria moglie, siede su una panca in giardino davanti a un muro basso, dietro il quale si estende ampio il paesaggio. L’ora è quella, massimamente enigmatica, del sole che spunta all’alba. L’oscurità ancora grava parzialmente sulla terra, ma ecco avanzare la stella che porterà luce e calore. Un brivido percorre il paesaggio, come nell’attesa di qualcosa che deve accadere. E lì siede la donna alla quale è rivolto l’annuncio: come fissata in una rigidità estatica, quieta e mansueta, il busto ben dritto, lasciando che le parole che l’angelo le porta dall’alto gocciolino lentamente su di lei. L’angelo sopraggiunge volteggiando con un movimento impetuoso, che contrasta in modo molto evidente con la rigida calma della donna: si inchina avvicinandosi al capo di Maria e le sussurra all’orecchio la profezia. Il disegno è in ogni singolo tratto ricalcato su un disegno precedente risalente al 1894 (lo riproduciamo qui). Questa raffigurazione risulta essere tanto diretta quanto misteriosa. Si avverte come il paesaggio e l’ora crepuscolare agiscano in profondo accordo con la dimensione psichica. Ma si tratta ancora dell’Annunciazione della nascita del Salvatore? Un’iscrizione sul muro sembra alludere a un significato più generale: «Che i figli delle viscere tue siano belli per l’amore, forti per la lotta, intellettuali per la vittoria»47. Un au-

47 Riportato da Servaes in italiano nel testo. Il riferimento che Servaes fa a Nietzsche è opportuno, essendo l’opera stata commissionata a Segantini come illustrazione a Così parlo Zarathustra. Cfr. al riguardo la lettera di Segantini a Guido Martinelli del 20 gennaio 1889. 151


spicio che suona quasi nietzschiano, orgogliosamente sottoscritto dalla sigla «G.S.». Il senso di questa frase rinvia dunque al fatto che i bambini concepiti nello Spirito Santo riceveranno i doni più nobili, e così il mito del Redentore viene trasformato a simbolo di una superiore evoluzione dell’umanità. Questo disegno, audace e quasi rivoluzionario nella sua concezione, è stranamente tradizionale nella forma, per nulla originale. Sembra impensabile senza i preraffaelliti inglesi, senza Watts. Persino Segantini, quando si trattava di trovare uno stile ideale, doveva adattarsi a ridiventare allievo e a cercare altrove i suoi appoggi. Eppure anche in questo caso continuò incessantemente a cercare quel che gli era più personalmente consono. Nel 1898, avendo ricevuto dalla Società biblica olandese una commissione relativa a una grande edizione illustrata della Bibbia, aveva realizzato alcuni disegni che rivelano uno stile suo proprio. Uno di questi, raffigurante Miriam nel deserto48, è stato pubblicato in «The Studio». Rispetto a tutti gli altri disegni, che dipendono nel loro complesso dalle opere di celebrità europee, questo spicca per la sua sublime semplicità e la placida forza psichica. Il sole al tramonto, con i suoi raggi concentrici che vibrano per tutto il cielo, ci fa pensare all’Ave Maria a trasbordo. Non si riesce a sottrarsi all’impressione che ci sia stato un certo contatto con Watts riguardo a uno dei dipinti più belli che Segantini abbia mai realizzato; allo stesso modo un’altra sua opera ci ricorda lontanamente l’influenza di Burne-Jones. In L’amore alla fonte della vita scorgiamo una connessione ideale con il celebre quadro di Watts L’amore e la vita. Invece per La fonte del male si pensa istintivamente all’opera non meno famosa di Burne-Jones Lo specchio di Venere. Ma se, volendo seguire queste prime impressioni, si procede a confrontare i dipinti corrispondenti, ogni somiglianza finisce per dissolversi in nulla. Lo stimolo ha dunque operato in modo solo vago, e Segantini ne ha poi sviluppato un’opera personale in piena autonomia artistica. In particolare per quel che concerne il sottile genio decadente di Burne-Jones, esso non riuscì affatto a sfiorare minimamente l’interiorità di Segantini, limitandosi a fornirgli un mero spunto di carattere formale. Le cose stanno diversamente con Watts: qui si può parlare in senso lato di una certa qual influenza atmosferica, che ha prodotto i propri effetti tanto sotto il profilo formale quanto sotto quello contenutistico. Dal punto di vista formale Segantini era un artista disposto ad accogliere e a imparare. Ma quando le

48 In realtà si tratta di Maria nel deserto. 152


due nature artistiche si trovavano intimamente consonanti, si veniva a produrre (come era stato già per Millet) uno scambio di elettive affinità tale da non poter più parlare di una vera e propria influenza estranea. È il mondo del sentimento etico l’ambito nel quale Segantini si incontra con l’artista inglese, e anche in questo contatto egli alla fine trova solo se stesso. Inoltre in Watts l’elemento didattico emerge in modo assai più accentuato, il che conferisce alla sua arte un carattere più astratto e predicatorio di quanto non accada nel nostro pittore. In Segantini vi era qualcosa che lo proteggeva da pericoli del genere: la sua intima e indissolubile connessione con la natura. Tale connessione si manifestava in lui così potentemente che, quando le circostanze gli imponevano di allontanarsi dalla natura costringendolo a trovare in se stesso un supplemento a quell’assenza, l’artista – come confessò lui stesso in una lettera a Vittore Grubicy del 28 febbraio 1895) – era «tormentato da un rimorso di scrupolo continuo, incessante, che mi rode come una cattiva azione, anche sapendo che ciò che faccio è giusto»49. Mentre le allegorie di Watts si svolgono in un’atmosfera ideale e intellettuale, i dipinti allegorici di Segantini – se mai questa formula è davvero appropriata – sono composti in un immediato intreccio con la vita naturale del paesaggio. Il suo angelo della vita siede a una sorgente come ne ha viste sgorgare a dozzine su in montagna, e tutto il fasto paradisiaco che fiorisce tutt’intorno altro non è che il paradiso naturale dell’Alta Engadina, solo che è osservato da uno sguardo poetico. Le concezioni etiche di Segantini sembrano dunque scaturire immediatamente dalla vita della natura e riferirsi a essa, mentre in Watts permane un residuo di morale sociale, o almeno di una morale buona per la buona società. Su questo punto Segantini si incontra con colui che lo separa da Watts: e cioè con Böcklin. Tenendo tuttavia presente una differenza che li distingue: Böcklin respinge una diretta intromissione della sfera etica nell’arte. Egli era totalmente impregnato dell’antico spirito poetico, e sarà stato d’accordo con il suo antico maestro tedesco Goethe sul fatto che una buona opera d’arte, in virtù della forza della bellezza, può certamente esercitare anche degli effetti morali; tuttavia nessuno ha il diritto di pretendere che l’arte si sottometta a scopi morali, poiché in tal modo si rovinerebbe l’opera dell’artista. Su questo punto Segantini la pensava diversamente. Per lui l’essenza dell’arte era talmente vincolata alle più profonde questioni dell’umanità, che

49 La lettera è scritta dal Maloja; in Scritti e lettere, cit., p. 193. In Segantini. Trent’anni di vita artistica…, cit., p. 153, la lettera è datata al 23 febbraio 1895 e così trascritta: «Tormentato da un rimorso di scrupolo continuo, incesante che mi rode come una cativa azione anche sapendo che ciò che facio è giusto». 153


non avrebbe potuto affatto separare il momento etico dall’ambito complessivo dei suoi effetti. Perciò anche la connessione appena evocata con Böcklin non è affatto radicata nell’intimo del suo essere. Risulta più evidente quel che li distingue che non quel che li congiunge. E si ha quasi l’impressione che i due artisti si siano evitati. C’erano senz’altro alcuni punti sui quali i due dovevano capirsi al volo. Entrambi erano adoratori della natura e al contempo visionari. Entrambi erano poeti e tuttavia pittori fino al midollo. Entrambi perseguivano anche nel singolo dettagli scopi simili: ad esempio nella padronanza del colore, nell’armonizzazione, nell’effetto decorativo delle immagini. Eppure a un livello più profondo le loro strade divergevano. L’arte di Böcklin si radica pienamente in un terreno insieme ideale e sensuale, nell’elemento naturale però intensificato. Egli crea a partire dalle forze elementari, e simboleggia le potenze originarie della natura in figure antropomorfe, alle quali infonde una vita sovrumana. Le implicazioni morali di questo modo di procedere non lo preoccupano affatto. Egli guarda oltre. Gli basta l’esistenza di tali figure, al di là del bene e del male, così come egli l’ha visivamente colta nella sua fantasia e raffigurata con i mezzi della propria arte. Quel che egli venera nella natura, è il dispiegamento dell’energia, ed egli la ama quasi nella stessa misura tanto come distruttrice quanto come benefattrice. È questo aspetto a conferire al suo genio quel carattere insieme divino e perturbante che può talora risultare spaventevole all’osservatore. È in tutto e per tutto un pagano, anche là dove sembra cristiano nel soggetto raffigurato. Di Segantini si potrebbe quasi dire l’esatto contrario: e cioè che egli è cristiano anche là dove, se considerato da un punto di vista esteriore, potrebbe apparire pagano. A essere decisivo qui non è l’aspetto dogmatico, bensì il mondo dei sentimenti. Ne abbiamo già parlato in precedenza. Se anche quell’infantile fiducia che Segantini ripone nella natura non è certamente maturata sul terreno del cristianesimo, a maggior ragione risulta cristianissimo il sentimento amorevole che tutto lo pervade. La sua umanità, la sua sensibilità per la natura si radicano e culminano nell’amore. Questo è per lui il senso e la gioia della vita: l’amore che riposa al fondo di ogni cosa buona. Esso regola i rapporti degli uomini con i loro confratelli e nei confronti del mondo animale e vegetale. Come essere umano e come artista Segantini è un vero apostolo dell’amore. Quando egli loda la natura, ne loda la sua bontà, la sua generosa dolcezza, la sua cura protettiva, la sua armonia consolatrice. Mostrando così il suo amore, essa acquisisce al contempo quella bellezza che incanta i nostri sensi. Fra Böcklin e Segantini si spalancava dunque inconsapevolmente tutto un mondo. Un contatto più ravvicinato delle due nature avrebbe certamente condotto a un 154


confronto fra due visioni del mondo: se ciò fosse accaduto, probabilmente il genio demonico di Böcklin, con quel suo spirito naturale capace di dar forma nel potente profluvio delle sue energie, avrebbe potuto prendere il sopravvento. Altrimenti Segantini non avrebbe certamente avuto da temere la superiorità di nessun altro. Non avrebbe potuto smarrirsi né in Millet, né in Watts, né in Monet. Solo Böcklin poteva costituire un pericolo per lui: perciò ebbe cura di evitarlo. Proviamo a immaginare se Böcklin, come ha fatto per il mare, avesse dato figura corporea nel suo stile insieme fantastico e naturalistico anche al mondo delle montagne e dei ghiacciai. In effetti ce ne ha anche dato un assaggio con quel dipinto conservato alla Schackgalerie, nel quale si vede un drago serpeggiare fuori da una forra montana dardeggiando la lingua, a terrorizzare la carovana dei viandanti. Questo quadro ci offre un indizio: vi è espresso quello stesso brivido misterioso che caratterizza ad esempio anche l’opera Pan spaventa un pastore. Non esibiscono forse le immagini marine dell’artista il medesimo fenomeno? Quei tritoni e quelle nereidi, mostri indolenti scompostamente sdraiati, coi loro occhi selvatici e dolenti e i loro sguardi ingannevoli; o quelle divinità bestiali che giubilano nel fragore della tempesta, fra gli spruzzi e le spume di un mare infinito: si tratta di incarnazioni della potenza elementare della natura, che domina imperturbabile, nella consapevolezza della propria forza, dinnanzi alla quale l’uomo si rimpicciolisce fino a diventare un pigmeo. In verità non ci sembra tanto più innocuo del mare il mondo alpino delle alte vette e dei ghiacciai. Se mai Böcklin si fosse scelto questo mondo come soggetto della sua fantasia, quali impetuose e orribili mitologie si sarebbe sentito indotto a inventare! È sufficiente che ci limitiamo a pensarlo, e subito crediamo di vedere quel gigante del ghiacciaio dimorare nelle profondità della montagna, nel suo mondo cristallino che lampeggia di riflessi bluastri, gli arti rigidi e possenti, il corpo composto di ghiaccio e di brina, mostruoso, immobile, con le membra congelate, eppure capace di liberarsi dalla morsa del gelo quando il sole lo chiama, per rovinare giù nelle valli ignare con la sua forza distruttiva. Magari il vecchio maestro si sarebbe invece concesso un momento di orribile humour, e avrebbe dipinto i bianchi spiriti della slavina che, ridacchiando perfidi con voce stridula, giocano a buttarsi giù dalle cime, precipitando poi a valle gli uni sugli altri, rotolando in un intreccio inestricabile avvolti in una nuvola di neve. È così che un Böcklin ci avrebbe evocato il mondo alpino: ispirandosi alla natura, personificando le sue forze, raffigurando simbolicamente le sue manifestazioni. Egli avrebbe intenzionalmente tenuto lontani gli esseri umani, o al massimo ne avrebbe sfruttato la loro miserevole debolezza per creare 155


un vivido contrasto. Segantini si comporta in modo totalmente diverso: il che ci svela la differenza fra queste due nature artistiche. Non sceglie mai come motivo l’orrore dei ghiacciai, non gli passa nemmeno per la testa di potervi ricorrere. Egli dipinge l’alta montagna solo nella misura in cui vi ritrova una relazione con l’essere umano: perché lassù l’aria è più pura e più limpida, perché la vita vi si svolge in maniera più semplice e più naturale, perché la natura ci offre delle bellezze che la valle non conosce. Egli perciò trasfonde nell’alta montagna tutta la sua sensibilità umana, ed è dalla possente e commovente forza dell’amore che scaturisce l’entusiasmo con il quale egli si accosta a quel mondo. «Io mi chino a questa terra benedetta dalla bellezza – esclama l’artista – e bacio i fili d’erba e i fiori, e sotto a questo arco azzurro del cielo, mentre gli uccelli cantano e intrecciano voli e le api succhiano il miele dai calici aperti dei fiori, io bevo a queste fonti purissime dove la bellezza si rinnova eternamente. Dove si rinnova l’amore che dà vita a tutte le cose»50. È questo sentimento a ispirargli il dipinto L’amore alla fonte della vita, che risiede nella grazia di quelle regioni superiori presso la sorgente della vita. Se torniamo ora a contemplare questo quadro, ci coglie uno spontaneo moto di ammirazione. Solo un Segantini avrebbe potuto creare e dipingere un’immagine simile: è sangue del suo sangue, e anche splendore del suo splendore. Pensiamo alla sua concezione dell’amore come a una forza suprema di conservazione della vita! In nessun altro dipinto egli lo ha così intimamente e luminosamente venerato come in quest’opera. Archetipo della bontà che attende silenziosa e fedele, l’angelo biondo siede con le sue grandi ali di cigno bianco, e custodisce la sacra fonte che scaturisce dalle rocce. Dal fondo si avvicina la coppia di giovani innamorati che devono abbeverarsi alla sorgente. Essi si approssimano però del tutto ignari, non sono mossi da quel sentimento che caratterizza una coppia che entra in chiesa. Amoreggiando leggiadri e spensierati, in una condizione di gioia perfettamente innocente, i due camminano verso la fonte dalla quale riceveranno la benedizione suprema. Conosceranno presto la gravità della vita; che possano dunque intanto gioire della loro giovinezza. Ogni cosa d’intorno esprime infatti gioventù e felicità. Le rose rosse delle Alpi fioriscono a migliaia, la pervinca verdeggia, il cielo blu splende mite, e persino le rocce bordeggiano l’orizzonte come immerse in un’atmosfera di purezza. E come brilla il tutto! Su nessun altro dipin-

50 Lettera a Domenico Tumiati da Maloja del 29 maggio 1898; in Scritti e lettere, cit., p. 106. 156


to Segantini ha sparso così tanta polvere d’oro. Si avverte come gli importasse lasciar prorompere ovunque un incantamento solare. Questo stato d’animo peculiare è testimoniato anche dal meraviglioso studio di figura che il pittore ha predisposto per la coppia di amanti. Dalla figura femminile promana soprattutto un senso purissimo di beata ebbrezza amorosa, mentre il giovane appare più composto, impegnato a sorreggerla premurosamente nella consapevolezza dei suoi doveri di uomo. Le forme di entrambi i loro corpi sono nobili e attraenti. Per quanto la matita abbia qui operato in modo delicatamente allusivo, si riesce tuttavia a cogliere chiaramente l’avvenente bocciolo dei giovani seni che spuntano sul corpo femminile ancora di fanciulla. Il soave piegamento delle anche, la morbida configurazione delle spalle, la forma incantevole delle ginocchia e dei piedi sono di una grazia prassitelica. Il giovane invece, serio, snello e compatto com’è, sembra un uomo dorico proveniente dall’epoca di Policleto. Il fatto di poter evocare l’antichità di fronte a queste raffigurazioni costituisce indubbiamente la lode più elevata che si possa tributare al loro cospetto. Il controcanto a L’amore alla sorgente della vita è rappresentato dall’opera La fonte del male. Si tratta di una rinnovata maledizione scagliata dall’artista contro le cattive madri e le lussuriose. Qui, per castigarle del loro comportamento contro natura, non è stato preparato però alcun inferno. Ma tanto più seria appare la volontà di Segantini di mettere a nudo l’autentico orrore che si cela dietro la falsa bellezza di queste creature vanagloriose. Dall’animo incollerito dell’artista sembra qui prorompere un elemento derivante dal fanatismo medievale, così come lo troviamo ad esempio documentato nella leggenda della «frouwe werlt»51, che vista davanti sembra avvenente e di bella presenza, mentre la schiena le viene divorata da serpenti e vermi disgustosi. Ma la fantasia di Segantini produce in questo caso una creazione assolutamente originale. Egli dipinge Madama Vanità: una bella donna pallida e nuda, magra ed esangue, dotata però di una sontuosa capigliatura peccaminosa. Ce la mostra mentre si piega su uno specchio d’acqua fra le rocce, per riceverne il riflesso della propria immagine. Ma… quale orrore! Un atroce tritone emerge dalla pozza e mostra le fauci alla vanitosa, sghignazzandole

51 O «Frau Welt»: personificazione medievale della voluttà dei sensi, presente ad esempio nelle opere di Konrad von Würzburg e di Walther von der Vogelweide. Una statua che la rappresenta nel suo duplice aspetto qui ricordato da Servaes è conservata nel Duomo di Worms. 157


contro in modo sfacciato e balordo. «È questa la tua immagine allo specchio!», sembra sussurrarle con tono beffardo. E in ogni caso è proprio questa la convinzione dell’artista. Si può discutere se tali invenzioni allegoriche possano essere più o meno fruttuose per l’evoluzione della nostra arte contemporanea. Si potrà obiettare non senza ragione che qui la pittura è troppo poco fine a se stessa, che finisce per parlare un linguaggio estraneo, contagiandosi con esangui riflessioni intellettuali. Ma chi abbia saputo accogliere intimamente in sé l’idea che sottende il dipinto e l’abbia potuta rielaborare in profondità, non ne avvertirà più l’apparente freddezza, e troverà quella composizione intrinsecamente bella e attraente. Infatti la giustapposizione della donna, delle rocce, dell’acqua azzurra, del pendio verde e delle rose alpine in fiore risulta essere di un gusto delicatissimo. Il dipinto ci esprime un isolamento naturale talmente intimo e tranquillo da commuoverci immediatamente, e ci rapisce in un fantastico mondo fatato che ci riempie di una dolce tensione interiore. Questa donna solitaria, nuda, piegata verso il basso, raffigurata con un eccellente senso del colore e del contorno, è collocata in un contesto verdeggiante dall’atmosfera così trasognata da sembrare curato da una mano spirituale. Nonostante il sole splenda diffusamente sul paesaggio, si avverte però un elemento perturbante: sono i brividi del peccato che si insinuano in noi, avvolgendoci nel loro calore umido e insieme frigido. Nella terra dei geni buoni l’artista cercò di risollevarsi nuovamente, dipingendo l’Allegoria musicale in occasione dei festeggiamenti in onore del centenario della nascita di Donizetti (25 settembre 1897)52. Fra tutte le opere di Segantini questa è una delle meno originali. Nella concezione essa si avvicina all’Evocazione di Klinger appartenente alla Fantasia su Brahms; nel linguaggio formale è debitrice dei preraffaelliti. Non è animata da un’originaria passione creativa. Ci mostra delle buone intenzioni, ma è troppo poco per un Segantini! L’elemento più bello è la delicata gradazione armonica dei colori, applicati molto diluiti, che discendono verso il grigio della penombra. Promana dall’opera anche un certo qual calore, determinato dallo stato d’animo di una devota venerazione tributata alla musica. La sera è già calata, e il compositore siede al pianoforte davanti alla finestra, facendone sgorgare con tocchi leggeri suoni nostalgici. Questi suoni si concretizzano fino a diventare visioni: dei geni si appressano

52 In realtà Donizetti nacque il 158

29 novembre.


sfrecciando davanti ai vetri. Nell’aria aleggia una coppia di amanti che si abbracciano ardentemente e si congiungono in un bacio. Il misterioso effetto estatico della musica, anzi dell’arte in generale, viene a essere incarnato in questa composizione. Allo stesso tempo, però, Segantini rievoca qui intime e personalissime esperienze, e in certo qual modo confessa quali impulsi lo istigavano quando tentava di penetrare la realtà con la propria arte, per dischiudere dinnanzi ai nostri occhi un mondo ideale. «Sì – ebbe a scrivere una volta (era il dicembre 1893) allo scettico Vittore –, la sola vera vita è tutta nel sogno! Sognare un ideale da raggiungere a lenti gradi, lontano il più possibile, ma alto, alto sino alla estinzione della materia. Ecco l’estremo massimo che può produrre la gioia di sentirsi vivere»53. Questa è un’autentica confessione artistica, e chi la tiene a mente sarà anche in grado di comprendere l’omaggio pittorico tributato dall’artista alla musica: un omaggio che, pur mancando di originalità e autonomia, trabocca tuttavia dal sentimento più autentico dell’uomo Segantini. «La sola vera vita è tutta nel sogno!». Come non pensare a queste parole quando si contemplano gli autoritratti di Segantini, in particolare l’ultimo che riproduciamo in questo volume! Questi occhi non guardano alla realtà, bensì al sogno, e cercano nel sogno la verità più profonda. Tutta la testa ci ricorda un apostolo o meglio, come Primo Levi ha acutamente osservato54, un re assiro con l’espressione di sopportazione propria di un Cristo. È indubbio che questo ritratto non spicca per verosimiglianza. La maggior parte delle persone che lo conoscevano afferma di non averlo mai visto così. Ma una cosa è l’uomo così come si mostra alla gente, un’altra è l’uomo solo con se stesso, cioè in compagnia dei suoi pensieri più intimi, dei suoi sentimenti più profondi di nostalgia e di dolore. È questo uomo interiore, che gli altri non conoscono e che anzi rinnegherebbero, quello che qui Segantini ha voluto dipingere. Si dice che si sarebbe «stilizzato»… Accettiamo pure questo termine! Ma non ravvisiamoci alcuna accezione di rimprovero. Quella somiglianza filistea che è capace di offrirci la fotografia non è certamente lo scopo supremo dell’arte della ritrattistica. Un ritratto deve innanzitutto

53 Lettera a Vittore Grubicy del dicembre 1893 da Savognino; in Scritti e lettere, cit., p. 192. In Segantini. Trent’anni di vita artistica…, p. 150, la lettera è datata al 21 dicembre 1893, e così trascritta: «Sì, la sola vera vita è tutta nel sogno, sognare un ideale da ragiongere a lenti gradi, lontano il più posibile, ma alto, alto sino all’estinzione della materia, ecco l’estremo massimo, che produce e può produre la gioia di sentirsi vivere». 54 Cfr. Primo Levi l’Italico, L’ultimo Segantini, cit., p. 658. 159


riflettere la vita individuale, ma gli è anche concesso di espanderla in direzione della tipicità. Era questa la meta che si poneva Segantini nei dipinti della sua ultima fase. Perciò egli ha «stilizzato» queste opere, come anche il suo ritratto. Non sono molte. Il ritratto di una donna anziana risale al periodo di un fugace soggiorno a Milano nell’anno 1894: esso esprime molto efficacemente il muto stupore della vecchiaia di fronte al mondo che tutt’intorno è cambiato e si rinnova incessantemente. Un altro ritratto (che qui riproduciamo) raffigura una signora tedesca seduta su una sedia a pensare silenziosamente, sullo sfondo di quel mondo alpino da Segantini tanto amato. Proprio come l’autoritratto appena menzionato, anche quest’opera, che è decisamente caratteristica della fase tarda di Segantini, non mostra alcuna sorprendente somiglianza rispetto al modello: in questo fatto qualcuno vorrà certamente ravvisare una carenza. E tuttavia anche in tal caso lo sforzo dell’artista non è stato diretto a dipingere la quotidianità, bensì il giorno di festa: e un elemento di festività si esprime effettivamente nella concezione complessiva della personalità. La naturale vivacità propria della gioiosa natura renana appare attutita, come investita da un alito di cupezza. È sopraggiunta l’ora del raccoglimento interiore, una di quelle ore silenziose nelle quali riviviamo ancora una volta nello spirito tutta la nostra vita e nel segreto dell’animo facciamo i conti con noi stessi. Questo stato d’animo così solenne ci viene restituito per così dire attraverso il precipitato della potente impressione che il mondo sublime delle vette montane esercita su una natura femminile ricettiva nei confronti della maestosità e della bellezza: e questa modalità espressiva è certamente indice di una sensibilità tanto fine quanto profonda mostrata qui da Segantini. Ma il capolavoro dei ritratti realizzati nell’ultimo periodo di attività dell’artista è il Ritratto di un benefattore, conservato all’Ospedale Maggiore di Milano. Qui l’elemento individuale è risolto senza resti nel tipico. Segantini non ha mai visto di persona l’uomo in questione, di nome Carlo Rotta, uno dei più generosi sostenitori di quel nosocomio. Ne ha dipinto il ritratto dopo sua la morte, basandosi su una fotografia. Ma quel che altri artisti avrebbero avvertito come una limitazione significava per Segantini un ampliamento della sua libertà artistica. Non aveva bisogno di conoscere più da vicino quel singolo signor Rotta, ma poteva piuttosto utilizzare l’aspetto e i tratti del volto di quell’uomo esclusivamente per coniare la sua propria rappresentazione interna dell’essenza di una persona di buon cuore, di un autentico benefattore. Il nostro pittore ha così realizzato un ritratto veramente monumentale, che in virtù della sua tecnica a mosaico costituisce un assoluto trionfo anche dal punto di vista della raffigurazione della luce e del colore. A una tarda ora 160


notturna il benefattore siede alla sua scrivania, sprofondato nei suoi pensieri. Ha senza dubbio letto attentamente fino a pochi attimi prima molte carte, richieste di aiuto, proposte di riforme, rapporti e documenti simili; ora li ha però chiusi in un cassetto, e tutte le miserie e le necessità che gemendo salivano da quelle carte al suo cuore, ora continuano a vibrare nella sua anima. Certamente ha aiutato tutti quelli che ha potuto! Ma potrà aiutare tutti? Forse ha già dovuto respingere qualche postulante, per quanto potesse essere convinto del suo stato di bisogno e di quanto meritasse la sua assistenza. Quanto a quelli che ha soccorso, non li ha certo aiutati a sufficienza. Il mondo rimane incessantemente ricolmo di sofferenze e di desideri inappagati. Se solo gettasse uno sguardo dalla finestra alla quale volta le spalle, sarebbe per l’ennesima volta testimone di un nuovo caso di infelicità. Un uomo con le membra mutilate viene trasportato su una barella: il vecchio benefattore non lo vede, e tuttavia sul suo volto si può leggere chiaramente che egli in qualche modo avverte anche questo evento a lui sconosciuto. Ha appoggiato il capo sulla mano, e la luce della lampada da lavoro schermata verso l’esterno gli cade proprio sul volto. Possiamo così vedere il taglio nobile della bocca buona e gentile, gli occhi premurosi e preoccupati, l’alta fronte pensosa: e comprendiamo che dinnanzi al cuore e all’anima di quest’uomo si dispiega apertamente la vita intera in tutti i suoi più profondi recessi. E capiamo che quest’anima soffre, poiché è così ricolma di autentica bontà. La raffigurazione ritrattistica si trasformò così in una rappresentazione dell’anima, tuttavia sempre saldamente e fortemente radicata nella realtà. Questa è appunto la peculiare grandezza di Segantini: e cioè che l’artista non abbandonò mai il mondo esterno per portare a manifestazione il mondo interno, né trascurò mai il mondo interno quando la bellezza del mondo esterno sembrava averlo completamente avvinto. Un medesimo stile supremo caratterizza tanto l’interno quanto l’esterno, ed entrambi i lati si armonizzano in un’unità. Quando, da buon pittore, dispone le superfici della tela secondo le leggi dell’equilibrio ornamentale, e ordina fra loro le linee e le masse, i colori, le luci e le ombre in modo tale che tutto entro la cornice si componga nel migliore dei modi, in questo raggruppamento che è apparentemente dettato solo dal gusto coopera sempre anche l’elemento dell’espressione psichica, che in Segantini si manifesta in egual misura e con pari sensibilità tanto nelle linee principali quanto nell’esecuzione dei singoli dettagli. Voler spiegare questo fatto sarebbe allo stesso tempo sciocco e presuntuoso. Se mai vi è un luogo nel quale si annida il segreto dell’autentico talento artistico, esso si trova proprio qui. E se volessimo comunque designare questo talento 161


con un termine piÚ preciso, avremmo pur sempre una formula, quella del sentimento dello stile. Possiamo ben dire che Segantini lo possedeva al massimo grado, che esso gli risultava naturale; ma non possiamo dire da dove gli provenisse. E va bene che sia cosÏ. Che cosa mai ci rimarrebbe dell’arte se cessassimo di venerare in essa un segreto, un segreto non inferiore a quello della natura stessa?

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Quattordicesimo capitolo Ultimi raggi Ancora una volta, nell’anno 1898, Segantini volle esprimere a parole quel che pensava e sentiva dell’arte: parole belle e nobili, che caratterizzano l’uomo nel suo complesso e che suonano alle nostre orecchie come una sorta di testamento. Occorreva opporsi alla demonizzazione dell’arte sostenuta da Tolstoj. Reagendo a uno stimolo che gli proveniva da una inchiesta rivoltagli dalla Francia, il nostro artista così scrisse: «Quando volli raddolcire ai genitori di un fanciullo morto il dolore, dipinsi Il dolore confortato dalla fede; per consacrare il legame d’amore di due giovani dipinsi L’amore alla fonte della vita; per far sentire tutta la dolcezza dell’amore materno dipinsi Il frutto dell’amore, L’angelo della vita; quando volli castigare le cattive madri, le vane sterili lussuriose, dipinsi i castighi in forma di purgatorio, e quando ho voluto additare la fonte di ogni male ho dipinto La vanità. Io voglio che gli uomini amino gli animali buoni, quelli a cui tolgono e latte e carne e pelle, e dipingo le Due madri e Le madri ed il buon cavallo sotto l’aratro che lavora per l’uomo e coll’uomo. Dipinsi il lavoro ed il riposo dopo il lavoro e dappertutto dipinsi i buoni animali con gli occhi pieni di dolcezza; essi che danno agli uomini e la loro forza ed i loro figli e le loro carni e le loro pelli, sono dagli uomini battuti e maltrattati. Con tutto ciò, gli uomini in generale amano più gli animali che i loro simili, ma più di tutto amano la terra, perché essa dà più di tutti, essa dona agli uomini ed agli animali. Quindi l’amore degli uomini è in ragione dell’interesse che ricavano dalle cose, e questo è in generale nella natura di tutti gli uomini. Fin qui l’uomo non è superiore agli altri animali che per averli domati, dunque per l’uomo il dominio è tutto; di qui nasce il suo amore, il suo odio per il dominatore, il suo desiderio, le sue aspirazioni al dominio, sia questo spirituale o materiale. Si ammirano e si desiderano la bellezza, la forza, la salute, la ricchezza, tutto quanto può portare al dominio, alla potenza. Qui 163


sta rinchiuso e tutto il male e tutto il bene; il bene degli uni crea il male degli altri. La giustizia, l’impotenza, l’invidia chieggono che sia abbassato il livello di questo bene, e che sia equamente distribuito a tutti, onde ciascun uomo nelle sue sane facoltà possa coi mezzi naturali e senza sforzi nutrire lo spirito ed il corpo. Per il corpo lasciamo agli economisti la cura di pensarvi; in quanto allo spirito è dall’arte che si deve attendere un sano ed elevato nutrimento; dell’arte fatene un culto, sia questo culto un’emanazione delle belle virtù dello spirito, ed abbia radice nella natura madre della vita, e sia in rapporto colla vita invisibile della terra e dell’universo; cercate d’esprimere con sincera verità le cose belle, purché questa bellezza sia l’espressione materiata della bontà; cercate nella semplicità la grandiosità, nella comprensività l’efficacia e la forza. Ciò che riproduce vizio, volgarità od anche vano piacere dovrebbe ritenersi qual arte profana. Il lavoro, l’amore, la maternità, la morte, siano in rapporto con la vita, e tutto per la consolazione ed elevazione dello spirito. Però converrà dire, che non è tanto il genere quanto la qualità dell’arte che ha valore. Bisogna anzi tutto che l’opera d’arte sia produzione di un essere puro e degno di produrre. L’arte deve rivelare sensazioni nuove; l’arte che lascia l’osservatore indifferente non ha ragione d’essere. La suggestività di un’opera d’arte è in ragione della forza colla quale fu sentita dall’artista nel concepirla, e questo è in ragione della finezza e purezza dei suoi sensi. Ho detto che l’arte dovrà essere un culto, ma non ho detto come questo possa addivenire. L’eletto che si sentirà tormentato dalla passione dolce e buona dell’arte, dovrà abbandonare parenti e ricchezze, e così spoglio di ogni materiale possesso presentarsi a quel convito d’artisti che crederà risponda al suo senso ideale. Di questi conviti se ne troveranno sparsi in tutte le regioni, ed in essi si troveranno uniti artisti d’ogni età, che avranno abbandonato famiglia e ricchezze per consacrare la loro vita al culto della bellezza e d’ogni virtù dello spirito, e che accoglieranno il neofita. Qui tutte le arti saranno rappresentate; tutti coloro che avranno bisogno dell’opera dell’artista, sia per comunità od individuo, dovranno rivolgersi al maestro superiore del convito, e questi darà loro quegli artisti che corrisponderanno al bisogno. Questi disegneranno o faranno eseguire, od eseguiranno essi stessi, secondo la necessità. Dall’abitazione privata agli edificii comunali ed ai pubblici ritrovi, dal mobile al cucchiaio, dall’affresco figurativo al semplice bordo decorativo, dal monumento statuario al semplice capitello, dal vetro al ferro, tutti i metalli, tutti i legni essi dovranno modellare, incidere; in cambio del loro lavoro gli uomini daranno al convito il necessario per vivere e vestirsi. Il primo maestro 164


del convito mangerà alla medesima mensa dell’ultimo allievo; col tempo vi sarà gara di santa emulazione. Questo sarà il mezzo sicuro per avere dall’arte la parte sua, la migliore. L’arte non è solo l’attività che produce la bellezza, ma è la sola attività che produce la ricchezza nel vero senso della parola. Il lavoro materiale non produce che quello che l’uomo consuma, e che è fatto appunto per essere consumato. Al lavoro che passa per le mani dell’artista, viene comunicata da questi una espressione data dall’emozione che provò l’artefice nel concepirla e che si comunica a chi la guarda, dando così all’opera sua un supervalore, cioè il valore spirituale umano. Amo la bontà, la bellezza, la salute, la forza ed il lavoro; virtù e qualità che gli uomini hanno in comune con altri animali. La superiorità umana incomincia dove il lavoro semplicemente manuale e l’azione materiale finiscono, ed incomincia l’amore ed il lavoro fatto con intelletto. Leone Tolstoi finge di non capire che cosa s’intenda per bellezza e quale ne sia la sua esatta significazione, mentre non avrebbe che ad osservare un fiore e questo gli direbbe meglio di qualsiasi definizione che cosa sia la bellezza; finge pure di non capire dove incominci l’artistico; ma l’artistico incomincia là dove finisce il brutale, il lezioso ed il banale. Quando passate dinanzi a qualche casetta di contadino e vedete delle finestre piene di fiori tenuti con amore, siate pur certi, l’interno di quella casetta sarà ben tenuto e pulito e le persone che l’abitano non saranno cattive. Qui incomincia l’artistico coi suoi benefici»55. * Verso la fine degli anni Novanta in Engadina si formò un comitato che, in vista dell’imminente Esposizione Universale di Parigi, concepì il progetto di commissionare un grande panorama stereoscopico che raffigurasse il paesaggio alpino engadinese. L’idea era venuta dallo stesso Segantini, che intendeva costruire una torre di 100 metri di altezza e di 85 metri di diametro, preceduta da un avancorpo in antico stile engadinese. Una cascata d’acqua (vera, non dipinta) doveva suddividere questa anticamera in due parti, e anche il prosieguo era stato in parte progettato per essere realizzato in modo molto naturalistico. Su una strada carrabile, fiancheggiata da un sentiero pedonale, dovevano transitare le carrozze postali engadinesi; più sotto si dovevano piazzare degli orsi (vivi), che dovevano per così dire rappresentare gli abitanti originari della

55 «Risposta a ‘Qu’est-ce que l’art’ di Leo Tolstoi»; in Scritti e lettere, cit., pp. 40-43. 165


zona. Gradualmente, e ricorrendo a tutti i mezzi della tecnica comunicativa, doveva compiersi il passaggio dal naturale all’artistico. Dovevano vedersi i ghiacciai principali dell’Engadina (il gruppo del Bernina, il Piz Palü, il Piz Roseg, il Morteratsch e così via), insieme con i laghi che si incontrano andando da Maloja a St. Moritz, e con tutte le incantevoli località che ne ornano le sponde. In questo progetto gli engadinesi volevano investire un milione di franchi; a Parigi il cantiere, l’affitto e la costruzione degli edifici ne avrebbero inghiottito un altro milione e mezzo, per cui alla fine si rinunciò all’impresa. Ma lo stimolo a una complessiva raffigurazione della natura montana dell’Engadina era stato ormai innescato, e Segantini prese a darvi forma nel suo grande Trittico del mondo alpino, l’ultima sua opera rimasta purtroppo incompiuta. Sul piano di quest’impresa ci informa un cartone che di tutto il corpus del maestro costituì l’unico pezzo a rimanere in pieno possesso della famiglia Segantini. Se poi l’opera, una volta compiuta, sarebbe stata da annoverare fra le creazioni più felici dell’artista, è una questione che deve rimanere necessariamente aperta. È comunque certo che dal punto di vista decorativo la composizione sarebbe comunque rimasta in certo qual modo appesantita. L’abbozzo mostra infatti un errore preoccupante: l’elevata struttura superiore, sia per la sua grandezza sproporzionata, sia per la sua complicatezza architettonica, grava notevolmente sulla parte inferiore, che è stata mantenuta più leggera e che però ci offre dal punto di vista contenutistico il motivo principale. Il che disturba il nostro senso di equilibrio: l’insieme ci fa così l’impressione di una facciata non riuscita, nella quale la capacità di tenuta del piano principale, graziosamente articolato, sembra minacciata dall’impatto dei pesanti muri e del colmo aggettante del frontone che vi gravano sopra. È strano che il medesimo artista che nel configurare la superficie pittorica rivela un’elevatissima e al contempo naturalissima sensibilità decorativa, quando opera per così dire come architetto dà scarsa prova di questa sua capacità, tradendo così i limiti imposti al suo talento. I tre dipinti colossali, quasi interamente completati – La natura, La vita e La morte – dovevano formare l’importante sezione inferiore della composizione complessiva: ognuno dei tre quadri sarebbe stato incorniciato da un bordo sul quale si sarebbero alternati con ritmo regolare uccelli e piante del mondo alpino nella forma di intagli ornamentali. Sopra ognuno dei tre dipinti avrebbe dovuto collocarsi un’immagine di formato semicircolare corrispondente in larghezza al dipinto sottostante. Era stabilito che nella lunetta al di sopra de La vita, che era il dipinto centrale, dovesse essere raffigurato Saint-Moritz di notte, mentre sopra i dipinti laterali sarebbero stati rappresentati 166


a sinistra Venti che spargono acqua e fuoco e a destra L’Assunzione dell’anima. Questi tre quadri sarebbero stati senz’altro molto belli anche se presi ciascuno per se stesso. I due dipinti laterali, grazie all’atmosfera nebulosa che li caratterizza, sarebbero anche stati particolarmente adatti per il formato a lunetta. Su un lato si sarebbe visto il fulmine personificato nella figura di un fanciullo nudo che discende volando verso un gruppo di aleggianti geni femminili, gli spiriti del tempo atmosferico e della pioggia, circondati dalla morte in figura di falciatore, minaccia per tutte le forme di vita che crescono e fioriscono al di sotto della sua sfera di influenza. Sull’altro lato, variando il motivo a lunetta del dipinto Il dolore confortato dalla fede, si doveva rappresentare al centro l’anima nuda e snella, mentre due angeli la afferrano dolcemente alle estremità delle braccia allargate come sulla croce e la innalzano. Dunque al di sopra del dipinto raffigurante la quieta pace della natura era stata prevista la rappresentazione del pericolo che si annida negli elementi naturali; e al di sopra del quadro dominato dalla potente morte che opera nella natura andava collocata la rappresentazione dell’anima immortale che anela allo splendore celeste! La reciproca connessione di queste idee è bella, e forse in questo caso non sarebbe fallita nemmeno l’articolazione ornamentale. La situazione della lunetta mediana risulta più difficile. Come dipinto autonomo l’immagine era stata meravigliosamente concepita. Un grande disegno splendidamente eseguito ci mostra una Saint-Moritz invernale e innevata, distesa a bordo lago fra le vette montane. La luna è sorta al di sopra le nuvole, rischiarando il cielo e specchiandosi sull’acqua in una corona di raggi tremolanti. Al centro del primo piano si vede una solitaria diligenza postale, il cui tetto è investito dai raggi lunari, mentre lentamente passa con gran fracasso per la via. Una pace incantata domina sull’insieme, pace che certamente doveva simboleggiare la quiete che aleggiava sopra il quadro raffigurante La vita. Rimane tuttavia dubbio se questo quadro notturno avrebbe esercitato anche un felice effetto ornamentale, considerando la sua collocazione al di sopra di un dipinto che rappresentava un luminoso cielo lampeggiante. Osare porre l’oscurità sopra il chiarore è una decisione certamente molto rischiosa. Ma le tre lunette non concludono affatto la composizione della parte superiore, e così le nostre perplessità aumentano. Gli archi delle lunette vengono ovviamente a formare fra loro dei tasselli: per riempirli si dovevano affiancare a ogni lunetta due medaglioni. E per pareggiare in altezza le pale laterali rispetto al dipinto centrale, che era di dimensioni superiori, occorreva inserire al di sopra delle lunette e dei medaglioni una striscia ulteriore di misura considerevole, che dal punto di vista ornamentale 167


avrebbe dovuto essere gestita in modo piuttosto peculiare: vi si sarebbe dovuta vedere, come una sorta di motivo a meandro, una serie di acuminate vette montane; su ogni cima, nella suprema libertà artistica rispetto ai rapporti di proporzione – si sarebbe dovuta sistemare la figura ben visibile di un camoscio. In virtù di questa accumulazione degli elementi decorativi (variamente contestabili anche se singolarmente presi) le fasce superiori delle pale laterali sarebbero alla fine risultate più alte delle immagini sottostanti comprendendo la cornice e lo zoccolo: davvero una struttura architettonica assai dubbia! Naturalmente sarebbero stati prodotti anche molti elementi in sé e per sé belli e ben riusciti, specialmente là dove Segantini avesse operato come pittore puro. I sei medaglioni erano riservati a rappresentazioni squisitamente simboliche, per le quali l’inventiva dell’artista prometteva creazioni incantevoli. In modo particolare esse dovevano evocare le problematiche della vita. A destra e a sinistra della lunetta dei venti erano state progettate raffigurazioni simboliche dell’Egoismo e dell’Altruismo. L’Altruista, il rappresentante del sentimenti collettivi, siede nel comodo lusso: attorno a lui giubilano coloro che godono della sua magnanima generosità. Per contro l’Egoista, il paladino della contemplazione individualistica, appare come un eremita fuori dal mondo, alla ricerca di una felicità dell’anima lontano dai suo confratelli. I due medaglioni che affiancano l’Assunzione dell’anima mostrano l’uomo e la donna, ovvero il Lavoro e la Maternità. Vediamo l’uomo nella fucina mentre martella il ferro incandescente: egli trova se stesso e vive la propria vita nella fatica del lavoro. La donna invece realizza nella maniera più profonda la propria vita nell’amore premuroso: la vediamo seduta al focolare, mentre allatta il suo bambino, guardandolo in un atteggiamento di sacra intimità. Se nei quattro medaglioni appena descritti predomina l’elemento concettuale, gli ultimi due (che avrebbero dovuto essere collocati al di sopra del dipinto centrale) si presentano invece come personificazioni di semplici fenomeni naturali. Il rododendro e l’edelweiss, i più splendidi fiori della flora alpina, dovevano qui rivolgere il loro saluto all’osservatore nella figura di fanciulle nude immerse in un caratteristico ambiente naturale. Di queste due immagini possediamo due bei disegni (uno dei quali viene qui riprodotto); potremmo anzi affermare che possediamo anche i dipinti, che tuttavia sono rimasti allo stato incompiuto proprio nei punti decisivi. Mentre il paesaggio circostante è stato completato fino all’ultimo dettaglio, le due figure sono state solo tratteggiate in bianco nelle loro linee generali sulla tela preparata con il fondo rosso-bruno (com’era 168


consuetudine di Segantini). Pertanto è solo dai disegni che possiamo ricavare qualche informazione più precisa al riguardo. Essi ci mostrano due figure contrassegnate da uno stile nobile e freddo, che ci ricorda un Puvis de Chavannes o anche un Ludwig von Hofmann. Chi tuttavia esamini i medaglioni dipinti, non potrà che respingere il timore che Segantini si fosse inserito nella scia di quei due artisti. Il nostro pittore infatti non si sarebbe mai né riposato né interrotto prima di aver ricondotto a un reciproco rapporto stilistico pienamente soddisfacente le figure umane di quest’opera e il paesaggio che vi fa da sfondo. Ma, seppur nella loro ridotta estensione, i due paesaggi in questione appartengono in tutto e per tutto e nel modo più evidente alle opere più mature e più caratteristiche che Segantini abbia dipinto nel suo periodo tardo. In particolare forse in nessun altro dipinto egli è riuscito a rendere in modo così plastico le rocce (quasi le si potesse afferrare) e a risvegliare per così dire a vita individuale la natura della pietra tramite il miracolo dei colori. Il colore coopera efficacemente in questi dipinti anche sotto un altro rispetto. Le due figure nude si sono gettate alle spalle i loro abiti colorati, e questi abiti sono stati dipinti dall’artista, dipinti nel senso più autentico del termine: un rosso granata splende brioso attorno al «Rododendro», mentre l’«Edelweiss» è circondata da un luccicante bianco neve. Queste due tinte avrebbero ovviamente dovuto diventare i toni dominanti, e già così si può cogliere il modo in cui risaltano con un effetto meravigliosamente sensuale rispetto allo sfondo chiaro e luminoso del paesaggio. Queste sono tuttavia solo manifestazioni secondarie del grande insieme che il trittico doveva costituire. Nella coscienza dei posteri il panorama alpino di Segantini sopravvivrà innanzitutto nella forma dei tre grandi quadri che, ogni volta che compariranno in qualche mostra, rappresenteranno sempre l’eccelsa meta del pellegrinaggio degli amanti devoti dell’arte. Purtroppo i tre dipinti sono rimasti a uno stadio di completamento piuttosto diseguale. Il primo, La vita, è praticamente finito. Un albero sul lato del quadro avrebbe forse necessitato di altri due o tre giorni di lavoro da parte dell’artista. Nel quadro centrale, quello più grande, La natura, di incompiuto è rimasta solo la catena montuosa che chiude la prospettiva sullo sfondo. Questa parte richiedeva tuttavia da sola qualche settimana di lavoro, e l’artista si era appunto apprestato a finirla quando la morte lo sorprese. Infine l’ultimo dipinto, dal titolo malignamente presago La morte, dal punto di vista propriamente pittorico è solo impostato, e per l’esecuzione dei dettagli ci sarebbe stato bisogno di mesi di zelante applicazione. Segantini si pose all’opera con tutta la forza della sua volontà e delle sue capacità. Si trovava nel momento di fioritura del suo piacere creativo. «In questo tempo mi 169


sento enormemente gagliardo – scriveva nell’aprile del 1898 a Vittore Grubicy –. Ho quarant’anni e sarebbe giunto «secondo i miei vecchi calcoli, tene ricordi» alla fine del mio principio e al principio della mia fine: io credo oramai d’aver studiato tutte le cose della terra e di averne compreso il suo valore estetico e spirituale. […] Credo di poter comporre il mio pensiero verso la bellezza suprema, creando liberamente quello che lo spirito mi detta»56. Scrisse anche ad altri nel medesimo tono gioioso, ad esempio a Vittorio Pica e a Domenico Tumiati. A quest’ultimo comunicò di eleggere spesso a luogo di lavoro i dintorni di St. Moritz: dalle bellezze di quelle alte montagne si poteva ricavare materiale per due grandi trittici (da intendersi verosimilmente come le metà superiore e inferiore del trittico di cui stiamo trattando qui). Quindi erompeva in entusiastiche promesse: queste opere «racchiuderanno in sé tutte le bellezze; dalle belle forme ai bei sentimenti, dalle grandi alle belle linee, dai bei sentimenti umani al bel senso divino della Natura, dalle belle e nude forme umane alle belle forme degli animali, dagli umili e bei sentimenti al senso divinizzatore dei simboli, dal sorgere della luna al tramontar del sole, dai bei fiori alle belle nevi»57. Questo entusiasmo esprimeva non uno sventato crepitio retorico, ma un profondissimo ardore. Conteneva, senza esagerazioni, il programma di lavoro che l’artista si era dato. Segantini si espresse in modo ancor più dettagliato in una lettera a Vittorio Pica: essa dipinge in modo così splendido lo stato d’animo creativo di quei giorni che mette conto riportarla qui di seguito, almeno nella parte che è stata resa nota: «Sono più di 14 anni che studio nella Natura dell’alta montagna gli accordi di un’opera alpina, composta di suoni e di colori, che contenga in sé le varie armonie dell’alta montagna e le compendii in una, unica, intera. Solo chi, come me, ha vissuto interi mesi al disopra degli alti luminosi pascoli alpini, nei giorni azzurri della primavera, ascoltando le voci che salgono dalle valli, le indistinte armonie affievolite di suoni lontani portati dai venti, che fanno intorno a noi un silenzio armonioso, stendentesi in alto nell’infinito spazio azzurro, chiuso all’orizzonte dalle catene dei monti rocciosi, e dai nevosi ghiacciai, può sentire e comprendere l’alto significato artistico di questi accordi. Io pensai sempre quanta parte avessero nel mio spirito quelle armonie di forme, di linee, di colori e di suoni, e come l’anima che li governa e quella che li osserva e li ascolta,

56 Lettera a Vittore Grubicy del 17 aprile 1898 da Maloja; in Segantini. Trent’anni di vita artistica…, cit., pp. 153-154.

57 Lettera a Domenico Tumiati del 29 maggio 1898 da Maloja; in Scritti e lettere, cit., pp. 105-106. 170


siano una, che nella comprensione si completa e si integra, in un senso di luce che armonizza ed è armonia costante dell’alta montagna. Io mi sforzai sempre di comporre in parte questo senso nelle mie tele; ma poiché pochissimi lo sentono e lo comprendono, per circostanze varie, io credo che l’arte nostra sia incompleta, e che rappresenti solo dettagli di bellezza e non l’intera bellezza armonica che vive e dà vita alla Natura. Ecco perché pensai di comporre un’opera grandiosa, dove potessi chiudere come in una sintesi, tutto il grande sentimento delle armonie alpine e scelsi per tema l’alta Engadina, come quella che io maggiormente studiai e che è la più varia e ricca di bellezze che io conosca. Qui le giogaie ed i ghiacciai eterni si fondono col verde terreno dei pascoli e col verde cupo delle foreste di abeti, il cielo azzurro si specchia in laghi e laghetti cento volte più azzurri del cielo, i liberi abbondanti pascoli sono dappertutto intersecati da vene di acque cristalline, che scendono giù dalle roccie, per tutto rinverdire e rinfrescare sul loro passaggio, dappertutto rosseggiano i rododendri e tutto qui è pieno di varie armonie, dal trillo degli uccelli al giocondo gorgheggiare delle allodole, dal gorgoglio delle fonti ai campanacci delle mandre lontane, sino al ronzio delle api»58. Segantini portava nel cuore tutto questo, e tutto questo era ciò che voleva dipingere. Abbiamo in parte già visto come si sforzasse di avvicinarsi a tale meta. Ma quello che riuscì effettivamente a conseguire di questo programma ce lo insegnano in primo luogo i tre grandi dipinti La natura, La vita e La morte. La natura59 ci offre nella manifestazione reale di un paesaggio di alta montagna al contempo una trasfigurazione simbolica degli impulsi e dei fermenti propri delle forze della natura. Sul dipinto sembra vibrare l’alito degli stimoli che si risvegliano: e tuttavia ogni cosa è raffigurata in una placida chiarezza, come ce la rispecchierebbe un’esistenza eterna. È mattina presto, e la valle è ancora immersa nella penombra della notte. Ma sulle luminose creste dei ghiacciai splende già la luce brillante del sole che tutto indora. Presto avrà inondato dei suoi vivaci bagliori tutta l’ampia conca valliva, che sta già cominciando a destarsi. Alcune donne con dei carichi sulle spalle scendono per gli scalini di un sentiero erboso, per recarsi al lavoro. Un contadino batte il suo vitello con un bastone. Sul pascolo si distribuisce una mandria di vacche: la bestia fra tutte più grossa e possente sta muggendo sul bordo di uno stagno azzurro, nel quale

58 Lettera a Vittorio Pica del 4 maggio 1898 da Maloja; in Scritti e lettere, cit., pp. 105-106. 59 In realtà qui Servaes descrive il dipinto La Vita. 171


ancora si riflette pallidamente la luna. Stormi di uccelli attraversano il cielo, e sotto un imponente larice, che a mo’ di baldacchino dispiega i propri ampi rami verdi verso il cielo blu opaco, troneggia come una Madonna (si pensi alla Madonna della seggiola di Raffaello) una donna del popolo, una madre con in grembo il suo bambino. Tutto è così semplice e immediato che si crede di aver già visto questa scena centinaia di volte, e di poterla rivedere altrettante volte. Ma essa è al contempo così grandiosa e significativa, che non la si è davvero mai vista prima, e non si può sperare di rivederla mai più. Il paesaggio è saturo di vita; ma ogni forma di vita è una pura espressione del paesaggio. Qui (come del resto anche negli altri due dipinti) il ruolo giocato dalle figure è limitato rispetto alle consuete creazioni segantiniane: non è la nota principale, ma piuttosto un tono che vibra insieme agli altri. Ed è appunto questo a risvegliare in noi il sentimento della grandezza e dell’infinitezza della natura. Tutte queste forme di vita erompono in seno alla natura, e vi eromperanno per l’eternità. Il simbolo risiede già in questo; l’artista doveva solo accentuare il carattere simbolico della sua visione della natura in alcuni dettagli, ad esempio ricorrendo alla figura di quella vacca mugghiante (in certo qual modo l’incarnazione della fregola animale) e all’apparizione della madre, in cui viene per l’ennesima volta celebrato l’amore come forza conservatrice della vita. Ma questi tratti particolari sono assolutamente discreti e non soffrono per nulla di esangue concettosità. Si intonano pienamente nel corale dei sensi. Non dirigono l’arte, ma ne sono piuttosto il risultato. L’arte stessa è la dominatrice incontrastata, il contenuto stesso del dipinto. Essa è scopo a se stessa, e meta dello sviluppo. Davanti a questo quadro – come forse davanti a tutta l’opera segantiniana – si può ripetere una frase illuminata di Nietzsche, che così recita: «Si è artisti solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano «forma» come contenuto, come «la cosa stessa»»60. Non è mai stato detto nulla di più appropriato e di più profondo riguardo all’arte. Ogni elemento «significativo», «simbolico» non è che secondario; la «cosa stessa», il «contenuto» di un’opera d’arte è la sua forma, cioè il suo stile individuale. In questo si esprime il sentire più fine dell’anima dell’artista, il suo segreto più intimo e la sua chiarezza più limpida, il suo volere più profondo e il suo saper fare più risoluto. Ciò

60 Friedrich Nietzsche, frammento 11 [3] datato Nizza, 24 novembre 1887, in Id., Frammenti postumi 18871888, in Opere, testo critico originale stabilito da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1979, vol. VIII, tomo II, p. 223. 172


che in Segantini costituiva la tensione verso la forma è stato esposto, a quanto pare in modo del tutto occasionale, in una delle sue lettere a Vittore, e lì scolpito in una frase che può ben aspirare all’eternità, e che nella sua semplicità e apparente ovvietà integra degnamente la massima di Nietzsche or ora citata: «Oggi, se si vuol fare qualche cosa che sia duraturo, bisogna concentrare le forze, eliminare tutto quanto non sia strettamente necessario all’espressione dell’insieme»61. Un artista che crei ispirandosi alla pienezza delle manifestazioni della natura non può immaginare di imporre a se stesso un’esigenza più rigorosa di questa. La necessità come principio che plasma la forma e determina lo stile: un pensiero possente, lapidario, pensato per l’eternità! Occorre conseguire un’impressionante padronanza del soggetto affinché questa esigenza non debba diventare un’arida formula, capace di soffocare la vita che prorompe nella sua spontaneità. Ma per chi possegga quella padronanza, quella sarà una formula davvero magica. A noi tedeschi vien fatto di pensare subito al fatto che si tratta della medesima formula magica che anche Goethe all’acme della sua evoluzione professava per sé. Ma è appunto in ciò che si dà a vedere l’artista: in lui la pienezza non sgorga a casaccio, ma si muove secondo un ritmo suo proprio. E questa dinamica cadenzata è appunto l’espressione artistica della necessità. Questa non esclude affatto la pienezza, anzi la presuppone. È un dominio spirituale e creativo a sovrastarla, un dominio il cui segno e marca è la forza della forma. Sulle ultime opere di Segantini si può avvertire l’alito di questa forza della forma, generata dalla necessità e nemica di ogni casualità, così come si può cogliere chiaramente l’infinita pienezza della vita che si risveglia al di sotto di essa! Si consideri, nel dipinto La natura, la distribuzione delle figure: il modo in cui ciascuna è stata collocata con sicurezza al posto giusto, esercita il proprio effetto nello spazio, esprime il proprio significato in modo non artificioso. Si osservi poi la raffigurazione della campagna: come si solleva in delicate ondulazioni, rigonfiandosi nel ritmo del suo respiro fino a toccare le montagne, che svettano infine nel cielo. E poi il conflitto fra l’ombra e la luce! Non vi è nulla di sfibrato, anche se si vede la luce conquistarsi gradualmente la valle. Ma questo suo movimento acquisisce una forza per così dire epica grazie a quella linea così grandiosamente e potentemente sentita, che nella parte superiore del dipinto delimita le masse bluastre d’ombra sotto i ghiacciai e le creste rocciose rispetto al regno

61 Lettera a Vittore Grubicy del 1° febbraio 1891 da Conters; in Scritti e lettere, cit., p. 182. 173


rosso oro della luce. L’oscurità grava sulla valle come un drago sonnecchiante, col dorso sollevato e la testa piegata, e il sole sembra l’eroe raggiante che lo uccide con la lancia di Sigfrido. Questa grande e placida linea d’ombra è stata tracciata con un finissimo senso del contrasto sotto il massiccio dentellato delle creste dei ghiacciai illuminate, che si stagliano scoscese nel blu del cielo mattutino. Ma è proprio perché linee così semplici risultano dominanti che la singola forma di vita può riccamente svilupparsi senza apparire al confronto di quelle meschina. È in questa vivificazione dei singoli fenomeni che si mostra l’incommensurabilità della pienezza della natura così domata. Tutte queste masse sono scomposte fin nel più piccolo elemento. La tecnica della scomposizione prismatica dei colori celebra qui il suo supremo trionfo. Il modo in cui il giallo, il bianco, l’arancio, il blu, il nero e il verde confliggono reciprocamente per poi risuonare in armonia è un risultato fra i più sorprendenti che la pittura moderna abbia mai prodotto. E che dire dell’oro, come splende meravigliosamente sul tutto nelle sue differenti sfumature! Più sotto, in mezzo al verde del pascolo, è stato spruzzato un poco di rosso, che gli conferisce una luminosità più intensa e restituisce al contempo il carattere fertile del terreno. Ci si può porre dinnanzi al dipinto e studiarne ogni singolo centimetro quadrato: in questa esplorazione intensiva se ne godrà altrettanto intensamente. Occasioni per stupirsi se ne trovano ovunque: basta osservare un paio di semplici radici, oppure il terreno paludoso presso il laghetto blu, o ancora la pelle pelosa della mucca che contiene un corpo vivo, o infine l’occhio bramoso dell’animale, in cui lampeggia la fregola. Si riconoscerà alla fine che non vi è centimetro quadrato in questo dipinto nel quale non guizzi la vita, nel quale non si siano fatte sentire, proprio in quel guizzare vitale, la mano e l’anima dell’artista. Tutto ciò ci trasmette l’impressione di quella infinita pienezza che poi viene domata in modo così armonico ed energico grazie al tratto libero e maestoso delle linee. Lo stesso discorso vale anche per il dipinto La vita62, almeno per quelle parti che sono state completate dall’artista. Qui a scatenare la nostra ammirazione è soprattutto lo sfarzo del cielo serotino. Forse mai in tutta la storia della pittura una superficie di luce irradiante è stata articolata in modo così raffinato. La sfera di fuoco è sprofondata dietro i monti scuri. Ma ancora fiammeggia, infuocando tutto il cielo. Vediamo la luce prorompere con l’ardore di una vampa, per poi gradualmente estinguersi in

62 In realtà qui Servaes descrive il dipinto La Natura. 174


una corona di raggi sempre più spenti. Questa dinamica dell’irraggiamento luminoso è espressa con la maestria più eccelsa che si possa immaginare. I filamenti di colore si giustappongono nei colori dell’arancio e di due generi di giallo. Fra di essi interviene il bianco, e anche un azzurro chiaro. L’arancio gradualmente si ritrae, mentre il bianco e l’azzurro si introducono sempre più frequentemente fra i due gialli, fino a dominarli. Affinché tuttavia questo lento impallidire non si risolva per così dire in una sorta di scala gerarchica di carattere matematico, finendo per sembrare monotona, l’artista inserisce in alto nel cielo un punto di luce ancora più intenso: una piccola nuvola solitaria veleggia in mezzo al mare di raggi e, assorbendo tutto il bagliore della luce in se stessa, risplende in una vibrazione di rosso e arancio. Questa suprema intensificazione dell’effetto luminoso, ottenuta là dove sembrava impossibile potenziare ulteriormente alcunché, poteva essere conseguita solo da un genio della tecnica, e oltretutto con mano leggera, come se fosse qualcosa di ovvio. Al di sotto di questa sinfonia della luce – nella quale si intrecciano risuonando in modo incantevole fanfare, oboi e dolci violini – si distende placida e stanca la terra nel morbido crepuscolo serotino. La riconduzione del contrasto fra i due regni (quello del cielo e quello della terra) al gran finale in cui potessero accordarsi all’unisono deve essere sicuramente stato il compito terminale dell’artista, che voleva ulteriormente cesellare in modo più preciso le montagne che si interpongono fra i due domini. Il fatto che questo compimento non sia stato possibile è una perdita che patiremo per l’eternità! Quei monti, che sembrano starsene lì mezzi morti, sono l’unico elemento del dipinto che non esercita il suo pieno effetto. La bacchetta magica di Segantini sarebbe indubbiamente riuscita a infondervi una vita intensa ed enigmatica. Ma le bellezze sopra e sotto quella catena montuosa sono così numerose che l’occhio scivola involontariamente oltre queste strisce opache, forse nemmeno percependone le carenze. Stupenda è la valle ombreggiata, che proprio nella sobrietà degli stimoli che offre allo sguardo riesce di una solennità quasi religiosa. Tutt’intorno vediamo spuntare dell’erba secca e mezza bruciata. Qualche cespuglio dispiega i suo rami quasi spogli; grandi e pesanti pietre grigie punteggiano il terreno, a testimonianza di antiche eruzioni vulcaniche. La valle della vita appare scabra e inospitale, riscaldata solo dallo splendore dorato del cielo. Si vedono avanzare stancamente gli animali e gli esseri umani, bisognosi di riposo dopo aver adempiuto i doveri e i lavori della giornata. I buoi vengono richiamati dai campi. Un contadino barcolla dietro le bestie, e già li si vede mentre stanno per scomparire dietro la curva del sentiero. In mezzo alla strada bruna cammina 175


una tipica figura segantiniana: una contadina giovane e robusta, col capo chino, ormai semiaddormentata, che si tira dietro un vitello bianco. Trotterellando lemme lemme, la grossa mucca dal mantello marrone segue il suo piccolo recalcitrante, che procede irrequieto a piccoli passi. È ora di tornare tutti a casa: la mandria alla stalla, gli esseri umani alle loro casupole. Il momento migliore e più appagante della vita è il ritorno a casa la sera, quando la giornata lavorativa è stata condotta a termine: i più vivono questo momento nell’intorpidimento dei sensi e con lo sguardo stanco rivolto a terra. Ma l’artista ci mostra quel che essi non vedono: lo sfarzoso splendore del cielo, nel quale lascia che appaia (quasi al di sopra del capo di quella figlia di Dio gravata dalle proprie preoccupazioni) la nube ebbra di luce dorata, come una corona di diamanti a segno di adempimento di nascoste speranze. E tuttavia la fine di tutto è sempre la morte, anche se l’anima può poi salire in cielo. Perciò anche in questo trittico il dipinto conclusivo doveva essere un paesaggio di morte. Ancora una volta, come già nel quadro Il dolore confortato dalla fede, la natura ha indossato il suo abito mortuario e giace avvolta dal lenzuolo funebre di un’abbondante nevicata. Nere e tristi figure risaltano sullo sfondo bianco come ombre tetre. Se ne stanno davanti a una casupola che sembra sia sul punto di schiantare sotto il peso della neve, che si è accumulata sul tetto fin quasi a seppellirla. Attendono ansiosamente il defunto che sta per essere condotto fuori. Sono tre donne e un bambino, in piedi, a tremare dal freddo e a piangere. Di fianco a loro aspetta il misero carro che dovrà trasportare la bara. Vi è attaccato un cavallo bianco: la testa gli pende mesta, come se piangesse pure lui. Eppure, nonostante il dolore sembri invadere queste creature, il quadro non è dominato da alcuna forma di sentimentalismo. Gli uomini quasi scompaiono nell’atmosfera luttuosa della vasta e desolata landa montana innevata; e questa appare sublimemente indifferente nella sua aspra magnificenza. Per quanto fredda risulti qui la natura, essa è tuttavia indicibilmente bella. Questa valle ammantata di neve violetta, con le bianche creste dei ghiacciai, il cielo blu sullo sfondo, la nuvola dorata carica di pioggia: dinnanzi a un quadro di tale maestosità non è possibile abbandonarsi a inezie quali personali sentimenti di dolore, neppure se si vedesse piangere l’intero genere umano. Proprio al cospetto di una tale scena comprendiamo quanto piccina sia al confronto l’umanità! E come sia di conseguenza insignificante anche il suo dolore, che viene assorbito dalla natura come un vapore nocivo, che sale alla nuvola per poi venirne scaricato al momento opportuno. Le nostre avversità si trasformano in benedizione e bellezza, e sopraggiungeranno un giorno delle generazioni che giubileranno sopra le 176


nostre tombe, proprio come ormai da più di un secolo tutta l’umanità colta venera con gratitudine la terribile scomparsa dei pompeiani. Così anche in questo caso è la natura a determinare il tono più alto che sovrasta limpido il lamento terreno. E proprio quella nuvola, che si insedia come un drago minaccioso sulla vetta più alta, è un’immagine di tale inebriante bellezza che noi, invasi dal godimento, sprofondiamo nella sua contemplazione, mormorando preghiere in sua lode. Il quadro è stupendo già così com’è, nonostante sia ben lungi dall’essere concluso. Riusciamo appena a intuire lo splendore che ancora per così dire vi sonnecchia, come addormentato per un incantesimo. L’insieme sarebbe diventato ancor più articolato, più puro, più limpido e festoso. Avremmo avvertito in modo ancor più evidente la vittoria sulla morte. Non è accaduto qui come per qualche altro lavoro, che l’artista silenzioso ha portato con sé nella tomba come un progetto appena accennato. Segantini alluse infatti solo vagamente alla concezione della sua opera successiva, un dipinto che doveva raffigurare il Cristianesimo. Intendeva realizzare un trittico, con al centro il presepio, e gli oranti sulle pale laterali. Al di sopra del presepe dovevano però ergersi i prediletti monti, davanti ai quali si sarebbero librati gli angeli. Occasionalmente ebbe anche a parlare di una Giovanna d’Arco, che immaginava come pastorella in un paesaggio collinare. Aveva anche progettato – ma ne sappiamo davvero poco – un’importante incursione nel paese incantato della storia. All’inizio doveva esserci l’Età romana, che l’artista identificava in particolare con il passaggio dei romani al valico del Settimo. Anche in questo caso il pittore sarebbe dunque rimasto fedele all’alta montagna. Possiamo così supporre che, dopo essersi dedicato all’eterno presente, il suo piano fosse quello di richiamare alla vita tramite la sua arte anche il passato mutevole dell’Engadina e del suo mondo alpino. Non dubitiamo che pure in questa circostanza avrebbe ricondotto a un ingegnoso contrasto la transitorietà delle opere dell’uomo e le imperiture bellezze della natura.

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Quindicesimo capitolo Il grande uomo Le grandi opere d’arte sono manifestazioni dell’umanità. Oltre all’incanto dell’arte esse posseggono quella magia della mistica, che sale dalle profondità celate nell’anima umana. In modo involontario e spontaneo esse si esprimono nella confessione di una personalità. Sulle opere di Segantini risplende ovunque e per ogni dove l’uomo: quell’uomo che, nel grande come nel piccolo, cerca in ogni cosa l’anima del mondo; che ritiene degno di rispetto tanto il singolo filo d’erba quanto il blu scintillante del cielo; che trabocca di amore per tutte le creature e che venera nella maternità il sacro simbolo della forza di conservazione; che riconosce la bellezza nella verità e nel bene e nella fiera purezza del carattere; e che soprattutto si impegna solerte a essere un uomo «buono», a mantenersi lontano ed estraneo rispetto a qualsivoglia forma di violenza, a intrecciarsi intimamente a ciò che ama, proteggendolo e soccorrendolo caritatevolmente. In tutto ciò egli si mostra di una concisione tale da confinare con l’asprezza e il rigore, e di una riservatezza così pudica da tradire il suo carattere spirituale di eremita. Del resto, è in questo modo che Segantini condusse la sua vita: ritirato da quel che si chiama il mondo, e tuttavia connesso in ogni sua fibra a quel che il mondo è in verità. Un mondo che egli seppe cogliere negli aspetti più generali e più particolari, nell’infinità della natura e nel sacro e premuroso ambito della famiglia. Natura e famiglia: questa diade era tutto per lui. In questi due elementi egli si sentiva se stesso, nei suoi più profondi impulsi come nella sua essenza suprema. Era in questo ambito che poteva cogliere l’altra persona, nel suo valore di eternità e nelle relazioni affettive. Del suo amore per la natura non occorre aggiungere altro rispetto a quanto si è già detto. Esso si annuncia nelle sue opere al suono della fanfara. In modo più sommesso e intimo, ma non meno evidente, vi si manifesta anche il suo raffinato senso della fa178


miglia. Quasi come nessun altro artista Segantini ha compreso come realizzare per se stesso una perfetta gioia famigliare. Chiunque frequentasse la sua casa ne veniva per così dire sopraffatto. Era una gioia che veniva lodata da tutti come una condizione che non si sarebbe potuta facilmente ritrovare altrove. E più di una persona riconosceva che «Segantini era grande come artista, ma ancor più grande come uomo». Prese soprattutto sul serio i suoi doveri di padre, senza tuttavia attribuire al proprio ruolo una soverchia importanza. Lasciò tranquillamente alla madre e ai precettori il ruolo principale nell’educazione dei figli, e si preoccupò solo in linea generale che per la formazione della loro sfera affettiva e intellettuale i bambini ricevessero sempre gli stimoli migliori che si potessero immaginare. Desiderava allevarli in modo da orientarli all’attività artistica. Ma evitò scrupolosamente di persuaderli in un modo o nell’altro a seguire la sua arte. Al contrario, si risolse saggiamente a tenerli lontani: non permise mai che fossero presenti quando dipingeva, e li mandava subito via se si avvicinavano. Voleva piuttosto che si formassero in maniera eccellente nell’ambito delle arti ornamentali e ausiliarie, in modo che un giorno potessero impiegarsi utilmente nel mondo dell’artigianato artistico, per il quale egli prevedeva un grande sviluppo nella nostra epoca. Inoltre attribuiva un grande valore all’insegnamento delle lingue straniere, e si rallegrava quando i figli riuscivano a intrattenersi con gli ospiti, perlopiù tedeschi, nella loro madrelingua. Personalmente Segantini non era molto ferrato dal punto di vista linguistico, conosceva solo qualche parola straniera; ma il suo amore per le lingue era talmente intenso da provare gioia a scriverne le parole anche se non le avrebbe sapute trovare lui. Ci sono rimaste non poche lettere in tedesco di sua mano. Sono state tutte scritte dietro dettato di Baba, sulla base di testi in italiano preliminarmente approntati. Voleva che i suoi ragazzi si esercitassero anche nella musica, e accarezzò l’idea di organizzarli in una specie di domestico quartetto strumentale. Ma il suo speciale orgoglio consisteva nel saperli tutti e quattro dotati nella sfera poetica, e ogni mese spediva agli amici di famiglia un foglio, intitolato «Il Maloja», che conteneva le loro poesie. Anche in questo caso, però, si limitò a fornire gli stimoli. Erano i bambini a doversi trovare per conto loro i soggetti e il trattamento formale. Fu in modo particolare la figlia Bianca a rivelarsi già precocemente dotata dal punto di vista poetico, tanto nel sentimento quanto nella forma. La gioia dei sensi compenetrati dallo spirito determinava dunque il tono in casa Segantini, in rigorosa adesione a una frase che una volta l’artista aveva scritto alla poetessa Neera: «La vita non poteva avere valore, che pel godimento dei sensi 179


intellettuali»63. L’artista rimase fedele a questo principio anche quando si concedeva alla compagnia delle altre persone, alla quale poteva comunque facilmente rinunciare. Chi gli faceva visita, veniva accolto con cordialità. E negli ultimi anni erano in molti a presentarsi. Qualche volta Segantini si domandava che cosa volesse tutta questa gente da lui. Era un uomo troppo ingenuo e privo di malizie da sospettare che fra i turisti dell’Engadina stesse cominciando ad affermarsi la moda di far visita al «celebre artista». La sua natura, di gran lunga troppo elevata per abbassarsi alla parola «réclame», non avrebbe mai compreso questo fenomeno. Tuttavia, con il suo naso fine, distingueva le simpatie personali, anche se non fu mai scortese nemmeno con quelli che riteneva i meno simpatici. Non ne sarebbe mai stato capace, come non avrebbe del resto mai potuto invidiare un collega a causa della sua fama. Il suo comportamento fu sempre mite, amichevole, allegro e premuroso. Così ebbe a dire il pastore protestante tedesco Hoffmann nel discorso funebre tenuto davanti al feretro dell’artista: «Avete mai saputo di un qualche giudizio ignobile o invidioso che sia mai uscito dalla sua bocca? Di un qualche accesso passionale che potesse tradire una qualche disarmonia della sua anima? Nessuno potrebbe raccontarne. La cordiale benevolenza era la tonalità fondamentale di questa personalità: lo possiamo ben testimoniare noi amici, che avemmo la possibilità di gettare uno sguardo nelle profondità della sua più intima natura». Segantini considerava la propria arte qualcosa di puramente ideale. L’idea di farne un commercio non gli sarebbe mai venuta in mente. Era felice di non doversene occupare per nulla, grazie agli uffici svolti da Grubicy. Quando tuttavia gli capitava di dover negoziare direttamente con i mercanti d’arte, si presentava con una timidezza che rasentava l’imbarazzo, quotava le sue opere fissando prezzi molto bassi e rispondeva sì a ogni offerta pur di liquidare rapidamente la faccenda. Ciononostante, sapeva esattamente quanto valesse la sua arte come arte pura, e si sentiva come un pioniere e un apripista. Gli ripugnava tuttavia in massimo grado di tradurre quella consapevolezza in valore monetario. Dipingeva sorretto da un profondissimo e appassionato entusiasmo; durante l’estate, già alle 5 del mattino era spesso operativo, lavorando ai suoi quadri all’aperto, e non abbandonava il campo fino al tramonto del sole, eccettuata una pausa di un paio d’ore a mezzogiorno. D’inverno il freddo non lo spaventava di certo; dipingeva all’esterno con una temperatura anche di 25 gradi [sic], in piedi nella neve,

63 Lettera a Neera, s.d., da Savognino; in Scritti e lettere, cit., p. 83. 180


riscaldandosi di tanto in tanto le mani grazie a un braciere che si portava con sé. Nell’eseguire le sue opere era sempre estremamente preciso: le dipingeva di solito almeno tre o quattro volte, poiché raschiava via tutto quello che gli sembrava insoddisfacente. Di conseguenza, nonostante il suo enorme zelo, negli ultimi anni di attività mise mano solo a pochi dipinti; ma in ciascuno di essi riuscì a creare qualcosa di perfetto. Non sapeva molto degli artisti stranieri, ma nutriva per quelli veramente grandi una profonda e schietta venerazione. Apprezzava spontaneamente anche lavori minori, se eseguiti onestamente. Giudicava l’arte nordica superiore a quella italiana, alla quale lo vincolavano solo scarsi legami. Ammirava molto Israels; anche Liebermann gli sembrava molto valido. Nei confronti di Menzel e di Lenbach intratteneva un rapporto di tipo più platonico. Fra tutti, però, e a ragion veduta, quello che sembrò sentire spiritualmente più affine fu il suo coetaneo Max Klinger, al quale lo legavano numerosi rapporti interiori, anche se i due non si conobbero mai personalmente. Di altri pittori, come Böcklin e Watts, abbiamo già detto in precedenza. Complessivamente, come pittore e come uomo, fu un caloroso ammiratore della razza tedesca, che definiva una «razza forte nel fatto e nello spirito»64. Ebbe a mostrarsi profondo estimatore anche di Bismarck, del quale apprezzava tanto le dichiarazioni quanto le gesta. Un rapporto particolarmente affettuoso lo legava a Vienna: in quella città si sentiva compreso nel modo più adeguato e più sottile, come riconobbe in più di un’occasione sia nelle conversazioni sia nelle lettere. Perciò partecipava con calorosa cordialità agli avvenimenti artistici viennesi, soprattutto allo sviluppo del movimento moderno innescato dalla «Secessione». Amava appassionatamente la musica, ed era un attento frequentatore dei concerti organizzati dalla piccola cappella locale annessa a una casa di cura. La signora tedesca della quale riproduciamo qui il ritratto ci ha illustrato in un suo appunto il modo in cui Segantini intendeva l’ascolto della musica. Un pomeriggio, una pianista inglese che era ospite dell’artista si mise a suonare Beethoven e Bach: «Ma per quanto suonasse in maniera splendida e disinvolta, quel che più ci incantava era osservare l’effetto della musica su Segantini: il pittore, completamente rapito, guardava a un mondo nuovo e maestoso. In quell’occasione ho avuto la nettissima sensazione che la vita interiore e la

64 In italiano nel testo. La definizione si trova in una lettera al gallerista berlinese Felix Koenigs, inviata da Maloja il 2 settembre 1897; in Scritti e lettere, cit., p. 162. 181


sensibilità di Segantini andassero totalmente al di là della nostra quotidianità. Per lui esisteva un mondo speciale di lotte e di aspirazioni del quale non sapevamo sostanzialmente nulla, e che tuttavia ci lascia presagire nelle sue opere». Dal punto di vista letterario Segantini, dato che non conosceva le lingue straniere, doveva affidarsi esclusivamente alla produzione italiana. Ma poiché, come abbiamo già ricordato, mentre dipingeva si faceva sempre leggere a voce alta (e fra i libri in lettura vi erano anche traduzioni di opere straniere), col tempo riuscì ad acquisire una buona conoscenza letteraria. Fra gli autori italiani contemporanei apprezzava soprattutto Neera e Fogazzaro, il maestro dell’arte realistica del dettaglio sulla quale aleggia un alito moralistico cristiano; al contrario Gabriele d’Annunzio gli sembrava sì degno d’ammirazione per la prorompente sfarzosità del suo linguaggio, ma come fenomeno complessivo non destava le sue simpatie, risultandogli soffocante e malsano. Fra le letture di Segantini, soprattutto negli ultimi tempi, giocarono un ruolo di particolare importanza gli scritti sullo spiritismo e sul mesmerismo. L’artista credeva infatti a presagi e ammonimenti pronunciati dalle voci dell’aldilà, e come prova adduceva il seguente aneddoto: una volta, d’inverno, si era perduto durante una lunga camminata e alla fine, spossato, era crollato nella neve e si era addormentato. A un certo momento udì una voce che lo chiamava: era la voce di sua madre, defunta ormai da molto tempo. Se non l’avesse seguita, non si sarebbe potuto salvare. Da allora l’artista sosteneva di credere a un mondo altro, anche se non poteva descrivere come lo si sarebbe dovuto immaginare. Nella sua inclinazione a rimuginare alimentò in se stesso un tratto fortemente mistico. Diceva che la natura traboccava ovunque di miracoli, e che non si dovevano ritenere le cose impossibili solo perché non si riusciva a comprenderle e a spiegarle. La scienza, del resto, aveva già scoperto alcune forze nascoste della natura e ne avrebbe in futuro scoperte altre. Anche gli esseri umani erano differenti per costituzione, e ad alcune nature privilegiate erano concesse visioni che restavano precluse alle persone comuni. A sentirlo parlare in questo modo, la gente ne riceveva involontariamente l’impressione che dentro di sé Segantini ritenesse di appartenere a quella schiera di speciali medium e visionari, il che era indubbiamente vero almeno sul piano dell’arte. Questo mondo di presagi e premonizioni proietta sugli ultimi giorni dell’artista una strana luce crepuscolare, operando in parte come illusione in parte come profezia trascurata. Se prescindiamo da rare oscillazioni passeggere dell’umore, Segantini credeva fermamente (come del resto anche sua moglie) che gli sarebbe stato conces182


so di raggiungere un’età veneranda. Era sano e forte, ben temprato come cacciatore, alpinista e gagliardo camminatore; gli strapazzi cui si sottoponeva nel lavoro non gli facevano un baffo. Perciò, il giorno in cui, leggendogli la mano, una inglese esaltata gli predisse che avrebbe raggiunto l’età di Tiziano e sarebbe morto a novantanove anni, questa profezia potrebbe anche aver corrisposto al suo più profondo stato d’animo. Ripetutamente egli fece mostra di credervi, ritenendosi immune da sventure in virtù di quella predizione. Può essere questa la ragione per cui un curioso evento, che accadde all’incirca due settimane prima della sua morte, non fece alcuna impressione al suo animo altrimenti così accessibile alle suggestioni superstiziose. È sua moglie a raccontarci l’accadimento con queste parole: «L’ultima domenica che passò al Maloja, si distese su alcune sedie nella sua stanza da lavoro per riposarsi. Io rimasi fuori a divertirmi coi bambini. Quando rientrai, pensai che stesse dormendo, e dissi: «Oh, mi spiace di averti svegliato; avevi così bisogno di un buon sonno!». E lui subito replicò: «No, mia cara, hai fatto bene a entrare. Pensa, stavo sognando (e credimi, ne sono sicuro, stavo sognando a occhi aperti) di essere io quello che portavano sul feretro fuori dalla capanna (si riferiva al dipinto La morte). Una delle donne che piangevano nelle vicinanze eri tu, e io vedevo come piangevi. Naturalmente gli ho detto che stava dormendo, e che era stato solo un sogno. Ma egli restò fermamente convinto di essere stato sveglio, e di aver visto tutto quanto a occhi aperti. Poco dopo disse alla nostra cara Baba esattamente quel che aveva detto a me. Quel che aveva visto era destinato a realizzarsi dopo dodici giorni. Il suo quadro sulla morte raffigurava la sua stessa fine: era la sua stessa bara a essere portata fuori da quella capanna. Il paesaggio corrispondeva a quello che aveva dipinto nel quadro; la donna che nel dipinto si vede piangere di fianco al feretro ero io. Si noti che al tempo di quella visione egli stava ancora benissimo, tanto che proprio quella stessa domenica procedette nella scrittura. Il giorno seguente lavorò dalle quattro del mattino fino alle nove, quindi riportò il dipinto, chiuso in una cesta, dal luogo dove si era messo a dipingere a casa. Quella sera stessa volle fare tre ore di camminata impegnativa da Pontresina fino alla cima dello Schafberg. Credeva in maniera così convinta allo spiritismo che dopo quella visione non si sarebbe certamente mai allontanato da Maloja se non si fosse sentito in perfetta salute»65.

65 Qui, in mancanza del documento originale, traduciamo questa testimonianza della moglie direttamente dal testo di Servaes. 183


Siamo così entrati nella tetra atmosfera di quei giorni pieni di tristezza che condussero alla dipartita dell’artista. Ma, per quanto terribili siano stati quei momenti per tutti coloro che li dovettero vivere soffrendo insieme, per chi li consideri con uno sguardo retrospettivo si intravede pur sempre il riverbero di un raggio di bellezza. Poteva forse un Segantini morire in modo più sontuoso che non su un monte alto, scosceso e solitario, colto improvvisamente dai brividi della morte proprio dinnanzi al supremo fasto della natura, in mezzo ai suoi quadri, strappato alla sua battaglia indomita come una gloriosa vittima sacrificale?! Un poeta non avrebbe potuto immaginare una fine più possente, nulla che nella sua terribile bellezza potesse risultare più sublime. Così moriva un grande uomo: è questo che avvertiamo, quando sentiamo raccontare la storia di quei giorni. Il lunedì 18 settembre 1899, accompagnato dalla fida Baba e da suo figlio (quello più giovane, il biondo Mario, che all’epoca aveva quattordici anni), Segantini era dunque salito sul monte Schafberg. A 2700 metri sul livello del mare, su una cresta brulla, si trovava una misera baita in pietra. Era una serata meravigliosa, che divampava di tutti i colori dell’autunno. Segantini contemplava rapito il paesaggio e il suo cuore si beava alla vista delle bellezze di quel panorama alpino, che si stendeva dinnanzi a lui in un’ampia catena ondulata dalle linee affascinanti. Ebbro, l’artista eruppe esclamando: «Io voglio dipingere i vostri monti, o Engadinesi, affinché tutto il mondo parli della loro bellezza!». Quindi entrò nella baita e vi trascorse tranquillamente la notte. Il giorno seguente il dipinto centrale del grande trittico, il quadro della Vita, venne trasportato in una cassa chiusa e collocato appena più in basso rispetto alla casetta, a circa cinque minuti di cammino. Il mercoledì che seguì fu l’unico giorno in cui Segantini dipinse contemplando le montagne. Ma già alla sera, in seguito a un repentino abbassamento della temperatura e forse anche a una limonata contaminata tracannata avidamente, insorsero violenti dolori al ventre accompagnati da diarrea. Seguì una notte orribile. La tempesta di neve ululava attorno alla baita; nonostante il rivestimento ligneo interno, il freddo penetrava da tutte le parti. Tormentato dai dolori e agitato dalla febbre alta, il malato si rigirava nel letto. Giaceva nell’unica soffitta della casa, lunga circa cinque passi per tre o quattro di larghezza. Non sopportava di rimanere chiuso lì dentro, e più di una volta volle scendere barcollando nel soggiorno: veniva giù per una misera scala che sembrava più quella di un pollaio che di un’abitazione per esseri umani e, col pessimo tempo che imperversava, cercava di notte un po’ di libertà, senza nemmeno proteggersi con dei vestiti adeguati. Il giorno seguente si sentiva enormemente spossa184


to, ma volle comunque lavorare e si fece accompagnare al suo quadro. Non aveva però nemmeno preso in mano il pennello, che subito si addormentò. La sua accompagnatrice lo svegliò, e Segantini, pieno di dolori, dovette riconoscere che gli era impossibile dipingere, e si risolse alla fine malvolentieri a fare ritorno a casa. Durante il breve cammino fu costretto a sedersi più volte per riposarsi. Finalmente risprofondò nel suo giaciglio, per non lasciarlo mai più. Nonostante la spossatezza e il dolore, Segantini non voleva saperne di chiamare un medico. Confidava nella sua forte costituzione, nonché in quella profezia, che gli prometteva di raggiungere un’età tizianesca. Alle obiezioni pressanti di Baba ribatteva che si sarebbe vergognato a far venire fin lassù un dottore, se poi questi lo avesse trovato in buona salute dopo essersi sobbarcato tutta la fatica di quella salita. Il malato era così ostinato e prevenuto in questa sua avversione che, quando il sabato il figlio Mario scese giù a Samedano per far visita a suo fratello che era malato, poté solo limitarsi a menzionare en passant l’«indisposizione» di suo padre per richiedere al medico dell’ospedale locale, il dottor Oskar Bernhard, un leggero rimedio contro il mal di pancia. Quando poi il dottore, colto da uno scrupolo istintivo, inviò un messo allo Schafberg e si dichiarò senz’altro disponibile a salire lui stesso in caso di richiesta, Segantini respinse testardamente l’aiuto offertogli. Ma poche ore più tardi le sue condizioni erano talmente peggiorate che Mario dovette scendere a Pontresina per chiamare il dottor Bernhard e pregarlo di salire alla baita. Senza indugiare il valente dottore si mise in viaggio, e raggiunse la casupola all’una di notte, sotto una pioggia battente e una bufera di neve. L’immediato esame del malato diede un esito sconfortante: era scoppiata una grave infiammazione del peritoneo, che avrebbe sicuramente condotto alla morte. Il trasporto dell’infermo, in quelle condizioni di maltempo e lungo quel sentiero, era impensabile; parimenti impossibile era un intervento chirurgico in loco, poiché non si riusciva a riscaldare l’ambiente oltre i 4 gradi. Anche se fosse stato possibile operare, si sarebbe comunque trattato di una battaglia disperata quasi senza alcuna prospettiva di riuscita. Per essere sicuro, il dottor Bernhard si consultò il sabato con il professor Erb di Heidelberg, che era a St. Moritz per le cure termali, e convinse il professor Neißer di Breslavia, da anni amico e mecenate di Segantini, a recarsi il lunedì a visitare il malato sullo Schafberg. Egli stesso dalla notte della domenica non volle più allontanarsi dal moribondo. Il lunedì si intravide un debole raggio di speranza. Ma poi subentrò un nuovo peggioramento, e la partita fu data per persa. Nel frattempo anche la famiglia dell’artista era pian piano salita alla baita: prima 185


la moglie (accorsa con urgenza da Milano, dove si era recata a visitare la tomba di sua madre) con il figlio Alberto, quindi Gottardo con Bianca. I loro lamenti di angoscia riempirono le stanze inferiori. Si erano dovuti tutti necessariamente installare in quelle camere, da dove ascoltavano con ansia e timore ogni gemito, ogni sospiro, ogni voltolamento nel letto che proveniva dal piano superiore, così terribilmente vicino. Solo il malato era allegro. L’unica cosa che aveva potuto offrirgli l’arte medica era stata la soppressione del dolore. Così egli giaceva, ignaro della sorte che lo attendeva, nella piccola camera priva di ornamenti che ormai poteva dirsi mortuaria. Il suo umore era talmente vivace che, quando lo coglievano degli attacchi di violentissimi singhiozzi (il cosiddetto «singultus») che duravano anche delle ore, scherzando paragonava i suoi latrati al canto a squarciagola di un tenore come Tamagno. Ma quando il tempo tornò a rasserenarsi e l’aria annunciava, fra bagliori, brillii, lampi e fulmini, l’arrivo di una meravigliosa limpida giornata, il malato fu invaso da un’ardente nostalgia per i suoi monti. «Voglio vedere le mie montagne!»66, esclamò supplicando i presenti, e si fece spostare il letto verso la finestra piccola e bassa. Rimaneva così lì davanti, sprofondato nella immota contemplazione della catena montuosa che gli stava di fronte, la stessa che aveva voluto alla fine dipingere sul suo quadro. Ma nel suo sguardo non vi era alcun senso di melanconico congedo; piuttosto, l’appetito vorace del pittore e dell’innamorato: egli assorbiva in sé quei colori, quelle forme, le luci e le linee, perché pensava di trarne qualche figura, che doveva assurgere ad arte suprema. Ispirandosi a quella veduta egli non smise mai di creare interiormente, e vedeva le pennellate con le quali immaginava di migliorare ulteriormente la sua capacità espressiva. In tutti quei giorni nulla nel moribondo seppe commuovere i presenti più di quell’ardente e vivace sguardo creativo. Ma, per quanto intensa, nessuna passione interiore ormai poteva più resistere alla natura, che venne inesorabile a reclamare i propri diritti. Giovedì 28 settembre 1899, alle ore 11 di sera, Giovanni Segantini era cadavere: tre mesi e mezzo più tardi avrebbe compiuto il suo quarantaduesimo anno di età. Quel che seguì è così descritto da un testimone oculare: «Venerdì mattina, per lo stretto sentiero di montagna, scendeva verso valle un corteo serio e afflitto. Davanti lo conducevano uomini semplici e valenti, che trasportavano il prezioso carico di un grande uomo defunto; dietro la povera vedova con quattro orfani giovanissimi… L’En-

66 In italiano nel testo. 186


gadina ha onorato il suo amico più nobile come meglio poteva. Gli uomini più insigni dei comuni dell’Alta Engadina scortarono il corteo funebre, aggregandosi man mano che si attraversavano le singole località. Ovunque risuonarono le campane, confuse con i belati e i muggiti colmi di triste nostalgia delle greggi e delle mandrie, come se i prediletti dell’arte di Segantini sapessero di dover onorare per l’ultima volta il loro amico più premuroso. Tutti erano sconvolti. Se mai un lutto è stato condiviso, allora è stato appunto questo. Persino la natura si è voluta ammantare in un abito funebre, Le nuvole gravavano basse, serie e pesanti, e non appena su a Maloja il seguito si mosse in direzione della chiesetta solitaria, un ultimo raggio di sole, penetrando attraverso la nebbia e le nubi, baciò lievemente quell’immagine di dolore; luci meravigliose scintillarono per un momento sul lago e sui ghiacciai. Quindi delle mani invisibili tornarono a tessere un fitto velo attorno al corpo esanime di Giovanni Segantini e al suo corteo funebre». Il cadavere fu condotto nella chiesa, una piccola e graziosa cappella, che si vede spesso nei quadri di Segantini: qui esso venne imbalsamato la notte successiva dal dottor Bernhard e dal suo fidato assistente, il dottor Paravicini. Contemporaneamente un engadinese che era stato amico e allievo di Segantini, Giacomettti, sedeva davanti alla bara e mentre i medici compivano il loro lavoro, disegnava alla luce delle candele i tratti dell’amato defunto. Domenica 1° ottobre ebbe luogo la sepoltura solenne, proprio in quel piccolo cimitero sopra Maloja che l’artista aveva eternato nel suo dipinto Il dolore confortato dalla fede. Dopo che un sacerdote italiano ebbe benedetto la salma, il pastore Hoffmann di St. Moritz tenne in lingua tedesca la vera e propria orazione funebre, durante il quale lodò con calorose parole la figura dell’amico e dell’artista. Centinaia di fiori dai colori vivaci venivano gettati sulla tomba fresca. Sopra il sepolcro era stata collocata una stupenda corona che portava la dedica: «Al grande Maestro – i Secessionisti di Vienna». L’Engadina ha amato l’artista quando era in vita e lo ha onorato nella morte come uno dei suoi figli e come uno dei suoi uomini migliori. Quella gente dal carattere aspro e chiuso si era spontaneamente aperta all’amore dinnanzi a questo cuore grande. Ed era intenzionata a conferire all’artista il diritto di cittadinanza. In verità, Segantini aveva comunque già trovato in quella terra la sua patria, come artista e in parte anche come uomo. Ma solo in parte! Perché l’altra parte apparteneva alla sua vera madrepatria, alla quale non era più tornato dai tempi della sua fanciullezza, ma vi era ciononostante attaccato dai fili forti e resistenti di un amore trasognato. Nella sua stanza era appesa un’immagine di Arco, con le pareti della rocca che cadono a strapiombo e il Sarca che 187


scorre tumultuoso ai suoi piedi. Tra le rocce e il fiume una linea scendeva ripidamente fino a toccare un tetto basso. Nel punto dove la linea cominciava, al bordo del quadro, era inscritta (e lo è tutt’ora) una sola semplice parola: «casetta»67. Con questo termine il grande artista celebrava la piccola casetta che un tempo aveva custodito la sua culla. Quanto amasse questa sua patria, lo ebbe a esprimere in forma solenne ancora nell’aprile del 1898, in una lettera al sindaco della sua città natale: «Niuna cosa poteva giungermi più gradita, del saluto che Ella a nome dei miei concittadini volle mandarmi. Benché sia partito dal mio paese natale che non avevo ancora cinque anni, pure questo mi è rimasto negli occhi, nella mente e nel cuore come se l’avessi lasciato ieri. Il ricordo del mio paese mi accompagnò sempre nella mia triste infanzia, e fu come il sole interno, la cui luce è ancora quella che illumina l’opera mia. Faccio voti perché questo mio caro paese natale prosperi, sia economicamente che moralmente ed esteticamente, ed ai miei concittadini auguro salute»68. Sembra in effetti che i dintorni di Arco abbiano continuato a condurre una loro silenziosa vita spirituale nel sangue e nei nervi più nascosti di Segantini. Se si confrontano con precisione i monti così come Segantini era solito dipingerli con la natura così come la si incontra in Engadina e soprattutto a Savognino, si noteranno delle piccole deviazioni nell’andamento delle linee che non sono affatto ovvie, ma richiedono una spiegazione. Il loro corso si presenta nei dipinti più placido, maestoso, armonico di quanto non sia nella realtà. Esse non scendono mai verso valle seguendo una linea obliqua; riempiono invece tutta la prospettiva come se fossero il bordo di un cratere. Se ci si reca ad Arco, si riconosce proprio quel medesimo andamento, maestoso e ondulato, dei contorni delle montagne che circondano il paese e i suoi dintorni fino al lago di Garda come un’arena sopraelevata. Si potrebbe così credere che le linee di questi monti si fossero già impresse nel bambino come una sorta di canone di bellezza, e che perciò l’uomo maturo, in modo forse inconsapevole e involontario, tendesse a riprodurle come modelli nella sua arte. Quel che però sopravviveva così enigmaticamente in lui, Segantini avrebbe anche voluto rivederlo ancora una volta con i propri occhi, per così dire in carne ed ossa. Per quanto vivesse solitario sui suoi monti e vi si fosse risolutamente ritirato, talvolta pensava tuttavia di poter accogliere in sé il mondo esterno, anche se magari solo durante

67 In italiano nel testo. 68 Lettera a Carlo Marchetti del 24 aprile 1898 da Maloja; in Scritti e lettere, cit., p. 205. 188


qualche breve viaggio. Voleva visitare Zurigo, Monaco, Berlino e Vienna: ma questi progetti rimasero sempre come avvolti in una remota nebulosità. Fra tutti, però, un piano fattibile sembrava invece essersi delineato: nella primavera dell’anno 1900, quando sarebbe stato completato il suo grande trittico, avrebbe fatto visita alla sua città natale, Arco, quale «premio» che si sarebbe concesso, come ebbe a scrivere scherzosamente69. Questo progetto era stato risolutamente stabilito, e con un’eccitazione quasi febbrile (affatto insolita agli occhi di chi conosceva quest’uomo altrimenti così tranquillo) egli parlava ai famigliari della sua grande nostalgia, e si rallegrava di poterla presto placare. Il destino lo impedì. Prima che potesse terminare il suo trittico, la morte lo colse. Con dolce violenza essa prese fra le sue braccia l’anima nobile dell’artista combattente, per condurla silenziosa e fiera in un’altra patria. Concluso il 31 ottobre 1901. Franz Servaes

69 Si veda la lettera a Tommaso Bresciani del 12 febbraio 1899 da Maloja; ivi, p. 208. 189



Catalogo delle opere Il compito di redigere un regesto delle opere di Segantini che sia completo e pienamente affidabile sotto il profilo cronologico risulta impossibile. In modo particolare per il periodo brianzolo una precisa datazione dei suoi lavori appare oltremodo difficile. Dato che lo stesso Segantini ha attribuito a diversi quadri un numero identificativo, deve aver avuto un prospetto preciso delle date, che tuttavia non abbiamo ritrovato. Oggi, per potersi orientare nella sua produzione, bisogna basarsi su vari tipi di inferenze, cercare l’opera a partire dal titolo1 o, viceversa, il titolo a partire dall’opera, e anche distinguere fra diverse raffigurazioni del medesimo soggetto. Ciononostante il catalogo che qui presentiamo dovrebbe approssimarsi alla completezza e risultare affidabile nelle precisazioni cronologiche. I proprietari passati e presenti sono stati perlopiù individuati, e vengono qui menzionati anche allo scopo di favorire possibili ritrovamenti delle relative opere in loro possesso. Quando note, vengono specificate le misure dei quadri; in caso di approssimazione è stato introdotto il segno *. Per le opere che non è stato possibile riprodurre in questo volume si sono indicate, laddove possibile, le pubblicazioni che ne riportano le riproduzioni.

1 In corsivo indichiamo il titolo dell’opera in italiano e in tedesco riportato dallo stesso Servaes. 191


A. DIPINTI A OLIO I. Milano, 1878-1881 1.

Il coro di Sant’Antonio (Der Chor von Sant’Antonio). Completato nel 1879. Altezza 117 cm, larghezza 81 cm. Proprietario: signora Maria Melano Barberis,Torino. Riprodotto in: «Emporium», vol. XI, n. 61, gennaio 1900.

2. Il ponte di via San Marco a Milano (Die Brücke an der Strasse San Marco in Mailand). Proprietario: ignoto. 3. Ritratto della signora Torelli (Bildnis der Frau Torelli). Altezza 120 cm, larghezza 90 cm. Proprietario: signor Consigliere di giustizia Kempner, Berlino. 4. Il prode (Der tote Held). Proprietario: signor Pompeo Mariani, Monza. 5. Tisi galoppante (Die Schwindsüchtige). Distrutto. 6. La Ninetta del Verzée (Die Ninetta aus Verzee). Proprietario: signor G. B. Bareggi, Milano. Riprodotto: Primo Levi, Segantini, p. 8. 7.

La falconiera (Die Falknerin). Altezza 180 cm, larghezza 115 cm*. Proprietario: signor avvocato Podreider, Milano.

8. Il campanaro (Der Glöckner). Altezza 140 cm, larghezza 70 cm*. Proprietario: signor Giovanni Torelli, Milano. 9.

Interno di stalla (Stallinterieur). a) con cavallo. Altezza 40 cm, larghezza 50 cm; b) con polli. Altezza 30 cm, larghezza 41 cm. Proprietario: signor Giovanni Torelli, Milano.

10. Quattro nature morte (Vier Stilleben). Proprietario: signor A. Casiraghi, Milano. 11. Ritratto del signor Pisonis (Bildnis des Herrn Pisonis). Proprietario: signor G. Pisonis, Milano. 12. Studio di testa / Ritratto della sorella? (Studienkopf / Porträt der Schwester?). Altezza 35 cm, larghezza 30 cm. Proprietario: signor Giovanni Torelli, Milano. 13. Testa di ragazza che ride (Kopf eines lachenden Mädchens). Altezza 28 cm, larghezza 44 cm. Proprietario: dott. Oskar Bernhard, Samedano. 14. Il Redefoss e altri paesaggi (Der Redefoss und andere Landschaften). Proprietario: ignoto. II. Brianza, 1881-1886 15. Colle d’anitre (Entenhügel). Due versioni. a) Altezza 120 cm, larghezza 65 cm. Proprietario: signor Manusardi, Milano. b) Proprietario: sconosciuto. 16. Alla fontana (Wasserschöpfendes Mädchen). Proprietario: signor Mayster, L’Aja. 17. Pompejana. Proprietario: signor Mayster, L’Aja. 18. L’Amazzone al pozzo (Amazone). Proprietario: signor Eden Fox White, Londra. 19. Cavalli all’abbeveratoio (Pferde in der Tränke). 1882. Quadro di piccolo formato. Proprietario: galleria d’arte J. P. Schneider, Francoforte. 192


20. Studio di una beccaccia (Studie einer Schnepfe). 1882. Quadro di piccolo formato. galleria d’arte P.Schneider, Francoforte. 21. La mia famiglia (Meine Familie). 1882. Proprietario: sconosciuto. 22. Dalla balia (Die Amme). Proprietario: signor Benigno Crespi, Milano. 23. Piccolissime pecore (Ganz kleine Schafe). Proprietario: signor van Greillmez (?), Rotterdam. 24. Il dì dei santi (Der Tag der Heiligen). Proprietario: signor van Greillmez (?), Rotterdam. 25. Il fumo (Schafe im Rauch). Proprietario: signor De Ghens (?), Bruxelles. 26. Pastorale (Singendes Mädchen mit flötendem Hirtenbuben). Proprietario: sconosciuto. 27. Ave Maria a trasbordo (Ave Maria bei der Überfahrt). 1882. Prima versione. Distrutto. Riprodotto in: Primo Levi, Segantini, p. 12. 28. Amore sui monti e Un bacio alla fontana (Liebe auf den Alpen). Altezza 90 cm, larghezza 70 cm. Proprietario: reverendo vicario Gibbs, Herts, Inghilterra. 29. Ritorno all’ovile (Heimkehr zum Schafstall). 1882. Proprietario: signor Eden Fox White, Londra. Riprodotto in disegno in: «Ver Sacrum», a. II, fasc. 5, p. 8. 30. Effetto di luna (Mondesschatten). 1883. Proprietario: signor G.V.Grubicy, Milano. Riprodotto in: «Die Kunst unserer Zeit», a. XI, fasc. IV, p. 48. 31. Pastorella (Träumendes Hirtenmädchen). Altezza 45,5 cm, larghezza 28 cm. Proprietario: dott. Oskar Bernhard, Samedano. 32. Pastorale (Hirtengesellschaft mit Schafen an einer Quelle). Quadro di grande formato. Proprietario: sconosciuto (Rotterdam?). 33. Pastore innamorato (Der verliebte Hirtenknabe). Proprietario: signor J. Schmidt, Rotterdam. 34. Uno di più (Das Neugeborene). Altezza 65 cm, larghezza 50 cm. Proprietario: signor E. Merkel, Eßlingen. Riprodotto in: disegno in: William Ritter, Giovanni Segantini. 35. La culla vuota (Die leere Wiege). Altezza 65 cm, larghezza 46 cm. Proprietario: signor Giovanni Torelli, Milano. Riprodotto in «Emporium», vol. XI, n. 61, p. 9. 36. Allora (Fra’ Angelico). 1883. Altezza 77 cm, larghezza 45 cm. Proprietario: signor Carlo Redaelli, Milano. 37. Oggi (Atelierszene). 1883. Altezza 77 cm, larghezza 45 cm. Proprietario: signor G. Facheris, Milano. N. 36 e 37 riprodotti in «Emporium», vol. XI, n. 61, p. 13. 38. La stalla (Im Stall). 1883. Proprietario: signor H.W. Mesdag, L’Aja. 39. Pei nostri morti (Andacht am Kreuz). Proprietario: sconosciuto. 40. Idillio (Lagernde Hirtin mit flötendem Hiternbuben). Proprietario: signor Casiraghi, Milano. 41. Maggio (Lagernde Hirtin). Proprietario: ingegner Pesaro, Milano. Riprodotto in: disegno a pastello in «Kunst für Alle», a. XV, fasc. 13. 42. Ave Maria sui monti (Ave Maria in den Alpen). Proprietario: signor Dell’Acqua Corto, Legnano. 193


43. Ritorno dal pascolo (Heimkehr von der Weide). Proprietario: ignoto. Riprodotto in disegno in: «Emporium», vol. III, n. 15, p. 170. 44. I zampognari di Brianza. (Der Dudelsackpfeifer). 1883. Altezza 100 cm, larghezza 200* cm. Proprietario: cavalier Felice Grondona, Milano. 45. Un temporale su le Alpi (Gewitter in den Alpen). 1883. Proprietario: sconosciuto. 46. Sull’Alpe dopo un temporale (Nach dem Gewitter). Proprietario: signor Oswald Vitali, Milano. N. 45 e 46 sono composizioni quasi identiche. N. 46 riprodotto in «Emporium», vol. III, n. 15, p. 168. 47. Le Madri (Die Mütter). Proprietario: signor De Angeli, Milano. Riprodotto in: «Die Kunst unserer Zeit», a. XI, fasc. 4, p. 57. 48. La fascina (Die Reisigsammlerin). Proprietario: signor G. Facheris, Milano. Prima versione di: 49. Le ultime fatiche del giorno (Die letzen Mühen des Tages). 1884. Altezza 117,5 cm, larghezza 81,5 cm. Proprietario: Museo Nazionale Ungherese, Budapest. 50. La raccolta delle zucche (Die Kürbissammler). Proprietario: signor G. B. Bareggi, Milano. 51. Il raccolto dei bozzoli o delle galette (Die Kokonernte). 1884. Proprietario: sconosciuto. Un soggetto simile è riprodotto in «Emporium», Vol. XI, N. 61, p. 15. 52. La benedizione delle pecore o Un giorno di San Sebastiano (Die Einsegnung der Herde). Proprietario: signor G.B. Facheris, Milano. Riprodotto in disegno in: «Ver Sacrum», a. II, fasc. 5. 53. Cavalli al guado (Die Furt). Altezza 100 cm, larghezza 180 cm*. Proprietario: Cavalier Felice Grondona, Milano. 54. Un bacio alla croce (Die Liebe zum Kreuz). 1884. Proprietario: signor Mayster, L’Aja. 55. Primi allori (Erste Lorbeeren). Proprietario: ignoto. 56. Gli inondati (Die Überschwemmten). Proprietario: signor J.G. Damas, Parigi. 57. Babbo è morto (Der Vater ist tot). Proprietario: signor G.B. Zaccheris, Milano. 58. Gli orfani (Die Verwaisten). 1885. Proprietario: ignoto. 59. Testa di bambino malato / Il figlio Gottardo (Kopf eines kranken Kindes / Der Sohn Gottardo). 1885. Proprietario: galleria d’arte J.P. Schneider, Francoforte. 60. Il reddito del pastore (Der Ertrag des Hirten). Proprietario: galleria d’arte Dowdeswell, Londra. Riprodotto in: «Emporium», vol. III, n. 15, p. 167. 61. Vecchio che tosa pecore (Alter Mann bei der Schafschur). Proprietario: signor Vittore Grubicy, Milano. Riprodotto in: «Die Kunst für Alle», a. XV, fasc. 13, p. 296. 62. A messa prima (Frühmesse). Altezza 105 cm, larghezza 205 cm. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 63. La tosatura delle pecore (Schafschur). Altezza 120 cm, larghezza 200 cm*. Proprietario: Cavalier Felice Grondona, Milano. Riprodotto in: Primo Levi, Segantini. 194


64. Alla stanga (An der Barre). 1886. Altezza 180 cm, larghezza 400 cm*. Proprietario: Galleria Nazionale, Roma. Riprodotto in: Primo Levi, Segantini. 65. Diverse nature morte (Verschiedene Stilleben). In parte di proprietà privata milanese, in parte della galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 66. Oca morta (Tote Gans). Altezza 115 cm, larghezza 80 cm. Proprietario: signor N.X., Budapest. 67. Tacchino (Truthahn). Altezza 115 cm, larghezza 80 cm. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. III. Savognino, 1886-1894 68. La vacca bianca (Die weiße Kuh). 1886. Proprietario: signor Dell’Acqua, Milano. 69. Contrasto di luce (Schafe unter Dach). Proprietario: ignoto (Londra?). 70. Ave Maria a trasbordo (Ave Maria bei der Überfahrt). Seconda versione. 1887. Altezza 120 cm, larghezza 91 cm. Proprietario: signor Ernst Königs. Colonia. 71. Ritratto di Vittore Grubicy (Bildnis von Vittore Grubicy). Classificato come Opus LXXIII, 1887. Altezza 151 cm, larghezza 91 cm. Proprietario: Städtisches Museum, Lipsia. 72. Aratura prima (Die Pflüger). Distrutto. Riprodotto in: Primo Levi, Segantini. 73. I miei modelli (Meine Modelle). Proprietario: galleria d’arte Dowdeswell, Londra. Riprodotto in: «Die Kunst unserer Zeit», vol. XI, fasc. 4. 74. Vacca bruna al trogolo / Vacca che beve (Die braune Kuh). Classificato come Opus LXXVI, 1887. Altezza 85 cm, larghezza 69 cm. Proprietario: signor Consigliere superiore di governo Richard Königs, Düsseldorf. Riprodotto in: «Die Kunst unserer Zeit», vol. XI, fasc. 4. 75. Donna che slitta (Schlittende Dame). Classificato come Opus LXXVII, 1888. Proprietario: ignoto. Riprodotto nel catalogo illustrato della mostra dei dipinti italiani, a cura di Grubicy, Londra 1888. 76. Lo squagliarsi delle nevi (Schmilzender Schnee). Proprietario: ignoto. Riprodotto in: W. Fred, Giovanni Segantini. 77. Cavallo bianco al pascolo (Schimmel auf der Weide). Altezza 85 cm, larghezza 100 cm. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 78. Ragazza che fa calze (Strickendes Mädchen). Classificato come Opus LXXX, 1888. Altezza 60 cm, larghezza 100 cm. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 79. Raccolto delle patate (Kartoffelernte). Altezza 115 cm, larghezza 220 cm. Proprietario: signor dott. Eisler, Vienna. 80. Vacche aggiogate (Kühe im Joch). Classificato come Opus LXXXII, 1888. Altezza 85 cm, larghezza 142 cm. Proprietario: signor Consigliere di commercio Henneberg, Zurigo. 195


81. Costume Grigione (Trinkende Graubündnerin). Altezza 50 cm, larghezza 75 cm. Proprietario: signor A. Rasini, Milano. 82. Alla sorgente montana (An der Bergquelle). Proprietario: galleria d’arte Paul Cassirer, Berlino. Riprodotto in: William Ritter, Giovanni Segantini. 83. Ore del mattino (Morgenstunde). 1888. Altezza 135 cm, larghezza 95 cm. Incompiuto. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 84. Due madri (Die beiden Mütter). 1889. Altezza 160 cm, larghezza 300 cm. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 85. Petalo di rosa (Ein Rosenblatt). 1889. Proprietario: signor pittore Pugliese-Levi, Torino. Riprodotto in: William Ritter, Giovanni Segantini. 86. Da un fiore dell’alpe / Frutto d’amore (Die Frucht der Liebe). Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. Riprodotto in: William Ritter, Giovanni Segantini. 87. Ritorno all’ovile (Heimkehr zum Stall). 1889. Altezza 80 cm, larghezza 135 cm. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 88. Alpe di maggio (Alpe im Mai). Altezza 70 cm, larghezza 120 cm. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 89. Madre amorosa (Liebevolle Mutter). Altezza 60 cm, larghezza 105 cm. Proprietario: signor A. Rasini, Milano. 90. Seconda aratura (Die Scholle). 1890. Altezza 116 cm, larghezza 227 cm. Proprietario: Neue Pinakothek, Monaco. 91. All’arcolaio (Spinnerin im Stall). Altezza 55 cm, larghezza 85 cm. Proprietario: National Art Gallery, Adelaide, Australia. Riprodotto in: «Emporium», vol. III, n.15. 92. La vacca bagnata (Die verregnete Kuh). 1890. Altezza 60,5 cm, larghezza 109 cm. Proprietario: signor Martin Flersheim, Francoforte. 93. Autoritratto (Selbstporträt). Proprietario: ignoto. 94. Il castigo delle lussuriose / Nirwana (Die Hölle der Wollüstigen). 1891. Proprietario: Museo di Liverpool. 95. Ritorno dal bosco (Heimkehr vom Gehölz). Proprietario: ignoto. Riprodotto in: disegno a pastello in: William Ritter, Giovanni Segantini. 96. Mezzogiorno sulle Alpi (Hirtin, die Augen beschattend). 1891. Altezza 78 cm, larghezza 70 cm. Proprietario: signor Consigliere segreto professor dott. Neisser, Breslavia. 97. Meriggio (Hirtin am Baum). 1892. Proprietario: signor Thomas Knorr, Monaco. Riprodotto in: «Die Kunst unserer Zeit», vol. XI, n. 4. 98. Sul balcone (Auf dem Balkon). 1892. Altezza 63 cm, larghezza 38 cm. Proprietario: signor Consigliere di commercio Zeiss, Berlin. 99. Riposo all’ombra (Ruhe im Schatten). 1892. Altezza 44 cm, larghezza 68 cm. Proprietario: signor E. Kalkmann, Amburgo. Riprodotto in: W. Ritter, Giovanni Segantini.

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100. Ora mesta (Trübe Stunde). 1892. Altezza 82 cm, larghezza 161 cm. Proprietario: Galleria Nazionale, Berlino. 101. Ora mesta (Trübe Stunde). Riproduzione in formato più piccolo. Altezza 40 cm, larghezza 60 cm. Proprietario: signor Carlo Dell’Acqua, Milano. Uno schizzo che raffigura il medesimo soggetto è di proprietà del signor Vittorio Zippel, Trento. 102. Capriolo morto (Verendetes Wild). 1892. Altezza 65 cm, larghezza 110 cm. Proprietario: signor J.M. Kohn, Vienna. 103. Cappone di Stiria (Toter Kapaun). Altezza 60 cm, larghezza 90 cm. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 104. Nell’ovile (Schlummerndes Mädchen im Schafstall). Altezza 68 cm, larghezza 115 cm. Proprietario: signor A. v. Rothermundt, Dresda-Blasewitz. 105. Angelo della vita / Dea christiana (Der Lebensengel). Proprietario: Cavaliere Albrici, Milano. 106. Angelo della vita (Der Lebensengel). Riproduzione in tempera in formato più piccolo. 1894. Altezza 59,5 cm, larghezza 48 cm. Proprietario: Ungarische Bildergalerie, Budapest. 107. Dea d’amore / Dea pagana (Die Göttin der Liebe). Ovale. Altezza 190 cm, larghezza 130 cm. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 108. Cattive madri (Die schlechten Mütter). 1894. Altezza 120 cm, larghezza 225 cm. Proprietario: k.k. Ministerium für Kultus und Unterricht, Vienna. 109. Pascoli alpini (Alpenweide). 1893/94; completato e firmato nel 1895. Altezza 165,5 cm, larghezza 272,5 cm. Proprietario: signorina Magda Mautner von Markhof, Vienna. IV. Maloja, 1894-1899 110. Ritratto dell’anziana signora Casiraghi (Bildnis der alten Frau Casiraghi). Proprietario: signor Casiraghi, Milano. Riprodotto in: Fred, Giovanni Segantini. 111. Sul Maloja (Auf Maloja). Studio per il n. 112. Altezza 60 cm, larghezza 124 cm. Proprietario: Kunsthalle, Amburgo. 112. Ritorno al paese natio (Rückkehr ins Heimatland). 1895. Altezza 159 cm, larghezza 298 cm. Proprietario: National-Galerie, Berlino. 113. Pascoli di primavera (Frühlingsweide mit weißer Kuh). Altezza 100 cm, larghezza 160 cm. Proprietario: signor Consigliere di commercio Henneberg, Zurigo. 114. Vacca al truogolo (Kuh am Trog). Altezza 60 cm, larghezza 40 cm. Proprietario: signor Fritz Redlich, Göding (Moravia). 115. Il dolore confortato dalla fede (Glaubenstrost). Dipinto inferiore: altezza 150 cm, larghezza 130 cm. Dipinto superiore: altezza 84 cm, larghezza 130 cm. Proprietario: Kunsthalle, Amburgo.

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116. Amore alla fonte della vita / Fontana della giovinezza (Die Liebe an der Lebensquelle). 1896. Altezza 75 cm, larghezza 112 cm*. Proprietario: Principe Jusupov, San Pietroburgo. 117. Fonte del male (Die Quelle des Übels). 1897. Altezza 78 cm, larghezza 123 cm. Proprietario: signor C. Wittgenstein, Vienna. 118. Evocazione creatrice della musica (Musikalische Allegorie, Triptychon). 1897. Altezza 52 cm, larghezza 91 cm*. Proprietario: signor A. Rasini, Milano. 119. Ritratto d’un benefattore (Bildnis eines Wohltäters). Altezza 190 cm, larghezza 115 cm*. Proprietario: Ospedale Maggiore, Milano. 120. Raffigurazione della primavera sulle Alpi (Frühling in den Alpen). 1897. Altezza 116 cm, larghezza 227 cm*. Proprietario: galleria Stern, San Francisco (California). Riprodotto in: «Die Kunst unserer Zeit», vol. XI, n. 4. 121. Ritratto di una signora tedesca (Bildnis einer deutschen Dame). 1898. Altezza 115 cm, larghezza 121 cm. Proprietario: signorina Elise Königs, Berlino. 122. Raccolto del fieno (Heuernte). 1899. Altezza 170 cm, larghezza 145 cm. Proprietario: signor A. Rasini, Milano. 123. Sbucciatrice di patate (Kartoffelschälerin). Altezza 50 cm, larghezza 37 cm. Proprietario: dott. O. Bernhard, Samedano. 124. Paesaggio (Landschaft). Altezza 90 cm, larghezza 140 cm. 125. Paesaggio con figura femminile (Landschaft mit Frau). Altezza 90 cm, larghezza 140 cm. 126. Radice di albero (Baumwurzel). Altezza 80 cm, larghezza 55 cm. 127. Rododendro (Alpenrose). Incompiuto. Altezza 70 cm, larghezza 70 cm. 128. Edelweiß. Incompiuto. Altezza 70 cm, larghezza 70 cm. Nn. 124-126: studi per il Trittico del mondo alpino; nn. 127-128: parti del Trittico stesso. Proprietario: galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 129. – 131. Il trittico del mondo alpino (Das Triptychon der Alpenwelt). Dipinti principali: a) La Natura (Die Natur). Altezza 190 cm, larghezza 320 cm. b) La vita (Das Leben). Montagne incompiute. Altezza 235 cm, larghezza 400 cm. c) La morte (Der Tod). Incompiuto. Altezza 190 cm, larghezza 320 cm. Proprietario: famiglia Segantini, Maloja e galleria d’arte A. Grubicy, Milano. 132. Paesaggio con ghiacciaio (Gletscherlandschaft). Incompiuto; completato da Giacometti. Altezza 76 cm, larghezza 126 cm. Proprietario: dott. O. Bernhard, Samedano.

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B. DISEGNI E PASTELLI In gran parte di proprietà della galleria d’arte A. Grubicy, Milano. Non è previsto un ordinamento cronologico. 1. e 2. Cadavere nudo (Nackter Leichnam), dal dipinto n. 4 L’eroe morto (Der tote Held). Disegni. 3. Tristezza (Trauer). Pastello. Cfr. il dipinto L’eroe morto (Der tote Held). Proprietario: signor Vittore Grubicy, Milano. 4. e 5. Disegno e pastello dal dipinto n. 16 Alla fontana (Wasserschöpfendes Mädchen). 6. Disegno dal dipinto n. 17 Pompejana. 7. Disegno dal dipinto n. 25 Il fumo (Schafe im Rauch). Proprietario: galleria d’arte Dowdeswell, Londra. 8.-10. Due disegni e un pastello, Ritorno all’ovile (Heimkehr zum Schafstall), dai dipinti nn. 29 e 87. 11.-12. Disegno e pastello dal dipinto n. 30 Effetto di luna (Mondesschatten). Il pastello è di proprietà di H.W. Mesdag, L’Aja. 13. Disegno dal dipinto n. 31 Pastorella (Träumendes Hirtenmädchen). Proprietario: galleria d’arte Dowdeswell, Londra. 14. Pastello dal dipinto n. 33 Pastore innamorato (Der verliebte Hirtenknabe). 15. Pastello dal disegno n. 34 Uno di più (Das Neugeborene). 16. e 17. Due disegni dal dipinto n. 35 La culla vuota (Der leere Wiege). 18. Disegno dal dipinto n. 36 Allora (Fra Angelico). 19. Disegno dal dipinto n. 88 Alpe di maggio (Der Stall). 20. Pastello dal dipinto n. 39 Pei nostri morti (Andacht am Kreuz). 21. Pastello dal dipinto n. 40 Idillio (Lagernde Hirtin mit flötendem Hirtenbuben). 22. Pastello dal dipinto n. 41 Maggio (Lagernde Hirtin). Proprietario: signor Vittore Grubicy, Milano. 23. Pastello dal dipinto n. 42 Ave Maria sui monti (Ave Maria in den Alpen). 24. Pastello dal dipinto n. 43 Ritorno dal pascolo (Heimkehr von der Weide). Di proprietà della k.k. Akademie der Bildende Künste, Vienna. 25. e 26. Disegno e pastello dalla figura dello zampognaro nel dipinto n. 44. 27. e 28. Disegno e pastello che rielaborano liberamente il dipinto n. 45 Un temporale su le Alpi (Gewitter in den Alpen). 29. e 30. Disegno e pastello dal dipinto n. 47 Le Madri (Die Mütter). Pastello di proprietà di W.H. Mesdag, L’Aja. 31. Disegno dal dipinto n. 48 La fascina (Die Reisigsammlerin). 32. Ritorno dal bosco (Heimkehr vom Gehölz). Disegno che rielabora liberamente il dipinto n. 49 Le ultime fatiche del giorno (Letzte Mühen des Tages). 33. Disegno dal dipinto n. 50 La raccolta delle zucche (Die Kürbissammler). 199


34. Pastello dal dipinto n. 51 Il raccolto dei bozzoli o delle galette (Kokonernte). 35. e 36. Disegno e pastello dal dipinto n. 52 La benedizione delle pecore o Un giorno di San Sebastiano (Einsegnung der Herde). Pastello di proprietà del dott. O. Bernhard, Samedano. 37. e 38. Disegno e pastello dal dipinto n. 53 Cavalli al guado (Die Furt). Pastello di proprietà della k.k. Akademie der Bildenden Künste, Vienna. 39. Disegno dal dipinto n. 54 Un bacio alla croce (Liebe zum Kreuz). Di proprietà della contessa Lamberg, Steyr. 40. Disegno dal dipinto n. 26 Pastorale. Di proprietà del signor Holzmann, Francoforte. 41. Coppia di amanti alla fontana (Liebespaar am Brunnen). Pastello dal dipinto n. 55 Primi allori (Erste Lorbeeren). Di proprietà della kgl. Nationalgalerie, Berlino. 42. Disegno dal dipinto n. 57 Babbo è morto (Der Vater ist tot). 43. Pastello dal dipinto n. 58 Gli orfani (Die Verwaisten). Di proprietà del signor Consigliere di commercio Henneberg, Zurigo. 44. Disegno dal dipinto n. 60 Il reddito del pastore (Der Ertrag des Hirten). 45.-48. Tre disegni e un pastello dal dipinto n. 63 La tosatura delle pecore (Die Schafschur). 49. Disegno dal dipinto n. 64 Alla stanga (An der Barre). 50. e 51. Pastorello addormentato (Eingeschlafener Hirtenbub). Disegno e pastello. 52. Mio figlio (Mein Sohn). Disegno. 53. Uscita del gregge (Auszug der Herde). Disegno. 54. Alla fontana (Am Brunnen). Pastello. 55. Due ragazze alla fonte (Zwei Mädchen an einer Quelle). Pastello. 56. Ultima messa (Letzte Messe). Pastello. 57.-60. Tre disegni e un pastello dal dipinto n. 60 Ave Maria a trasbordo (Ave Maria bei der Überfahrt). Solo la madre e il bambino, liberamente rielaborati. Di proprietà del signor Vittorio Zippel, Trento. 61. Due disegni dal dipinto n. 73 I miei modelli (Meine Modelle). Uno è di proprietà del signor Holzmann, Francoforte. 62. Pastello dal dipinto n. 74 Vacca bruna al trogolo (Die Braune Kuh). Di proprietà dell’Albertina, Vienna. 63. Inverno in Engadina (Winter im Engadin). Pastello. Di proprietà del signor Marozzi, Milano. 64. e 65. Due disegni dal dipinto n. 76 Lo squagliarsi delle nevi (Schmilzender Schnee). Uno è di proprietà del signor Consigliere di commercio Henneberg, Zurigo. 66. Disegno dal dipinto n. 77 Cavallo bianco al pascolo (Schimmel auf der Weide). 67. Due disegni dal dipinto n. 81 Costume grigione (Trinkende Graubündnerin). 68. Madre e bambino (Mutter und Kind). Disegno di un dettaglio dal dipinto n. 84 Due Madri. 200


69. e 70. Pastello e disegno dal dipinto n. 86 Da un fiore dell’alpe, Frutto d’amore (Die Frucht der Liebe). 71. e 72. Pastello e disegno dal dipinto n. 91 All’arcolaio (Spinnerin im Stall). Disegno di proprietà del signor Holzmann, Francoforte. 73. Vacca sull’aia (Kuh im Gehöft). Disegno dal dipinto n. 92 La vacca bagnata (Die verregnete Kuh). 74. Pastello dal dipinto n. 95 Ritorno dal bosco (Heimkehr vom Gehölz). Di proprietà dello Schweizerisches Unterrichts-Ministerium. 75. Disegno dal dipinto n. 97 Meriggio (Hirtin am Baum). 76. Studio di nudo dal dipinto n. 107 Dea d’amore, Dea pagana (Göttin der Liebe). 77. Nirwana. Sgraffito. Cfr. il dipinto n. 94 Il castigo delle lussuriose (Die Züchtigung der Wollüstigen). 78. Infanticide (Kindesmörderinnen). Sgraffito. Cfr. il dipinto n. 108 Cattive madri (Die schlechten Mütter). 79. La fede (Die Glaubenszuversicht). Pastello. Di proprietà della kgl. Nationalgalerie, Berlino. 80. La montanara (Sitzendes Bauernmädchen). Disegno. Di proprietà del kgl. Kupferstichkabinett, Dresda. 81. Due donne in pelliccia (Zwei Damen im Pelz). Disegno. 82. Pastore che beve (Trinkender Hirt). Pastello. Di proprietà del signor Sinigaglia, Torino. 83. Ora del caldo (Die heisse Stunde). Disegno. Proprietario: galleria d’arte Dowdeswell, Londra. 84. Sole d’autunno (Herbstsonne). Pastello. 85. Sull’Alpe (Auf der Alpe). Pastello. 86. Ultimi raggi (Letzte Strahlen). Pastello. 87. e 88. Lavoratori dei campi (Feldarbeiter). Due disegni. 89. Il seminatore (Der Säemann). Disegno. 90. e 91. Due disegni da (per?) il dipinto n. 122 Raccolta del fieno (Die Heuernte). 92. Disegno dal dipinto n. 116 Amore alla fonte della vita (Die Liebe an der Lebensquelle). 93. Coppia di amanti (Liebendes Paar). Studio di nudo per il dipinto n. 116 94. Disegno dal dipinto n. 117 Fonte del male (Die Quelle des Übels). 95. La voce (Verkündigungsengel). Disegno. 96. L’Annunziazione del nuovo verbo (Die Verkündigung). Disegno. 97. Vita eterna (Ewiges Leben). Pastello. 98. Amore eterno (Ewige Liebe). Pastello. Di proprietà del signor Sinigaglia, Torino. 99. Dolore eterno (Ewiger Schmerz). Di proprietà del signor Sinigaglia, Torino. 100. Peccato e pentimento (Sünde und Reue). Pastello. 201


101. e 102. Due disegni per l’edizione olandese di lusso della Bibbia illustrata. 103. Cartone per il Trittico del mondo alpino (Triptychon der Alpenwelt). Di proprietà della famiglia Segantini, Maloja. 104. Rododendro (Alpenrose). Disegno per il dipinto n. 127. 105. Edelweiss. Disegno per il dipinto n. 128. 106. St. Moritz di notte (St. Moritz bei Nacht). Disegno per un dipinto superiore del Trittico del mondo alpino (Triptychon der Alpenwelt). 107. Schizzo per l’edificio del panorama delle Alpi. 108.-110. Autoritratti (Selbstbildnisse), 1890, 1895, 1898.

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Bibliografia Non aspiriamo qui alla completezza. A. Scritti di Segantini Così penso e sento la pittura, scritto nel gennaio del 1891, pubblicato nel maggio del 1894 nel catalogo delle «Esposizioni riunite» di Milano. Il sogno d’un lavoratore, 1893 (manoscritto). Autobiografia, pubblicata in «Il Focolare», 15 marzo 1896. Betrachtungen über die Kunst, in risposta a un’inchiesta francese riguardo al saggio di Tolstoj Che cos’è l’arte?; pubblicato per la prima volta in tedesco in «Ver Sacrum», II anno, fasc. V, 1899. B. Considerazioni critiche espresse quando Segantini era in vita Carlo Borghi, Giovane arte milanese, Milano 1881. = descrive il giovane Segantini come il pomo della discordia fra due partiti contrapposti. Primo Levi, Il secondo Rinascimento. Forma e colore, Roma 1883 e 1884. = vivace scritto polemico che parteggia energicamente per Segantini. «Riforma», luglio 1887 (Primo Levi). Catalogo illustrato della Galleria di Alberto Grubicy alla «Italian Exhibition» di Londra, Milano 1888. Louis Gowse & Alfred de Lotzalot, Les Beaux-Arts et les Arts Décoratifs, Imprimerie du «Temps», Parigi 1889. «Strenua trentina letteraria artistica pro 1892», Trento = breve biografia scritta da Vittorio Zippel al fine di rettificare alcune imprecisioni. Richard Muther, Geschichte der Malerei im neunzehnten Jahrhundert, Monaco di Baviera 1893 (vol. III, pp. 86 e sgg.). = testo impreciso nel riportare i fatti, ancora incerto nella valutazione. Segantini vi è trattato più che altro come una curiosità. «Gegenwart», vol. 44, n. 35, 1893 (Franz Servaes; si veda dello stesso autore «Berliner Kunstfrühling» 1893). 203


«Gazette des Beaux-Arts», gennaio 1895 (William Ritter). «The Art Journal», marzo-aprile 1895. «Pan», fasc. 3, settembre-novembre 1895 (anonimo: Meier-Gräfe?) «Illustrazione Italiana», ottobre 1895. «Natura ed Arte», Milano, gennaio-febbraio 1896. «Emporium», vol. 111, n. 15, marzo 1896 (Neera). = contiene i primi dati biografici attendibili e una valutazione affettuosa. È stato pubblicato contemporaneamente all’Autobiografia di Segantini. «Le foyer domestique», Neuchâtel, agosto 1896. «Die Kunst für Alle», settembre 1896. «Leipziger Illustrierte Zeitung», ottobre 1896. «The Magazine of Art», novembre 1896. «Die katholische Welt», Vienna, gennaio 1897. «Natura ed Arte», Milano, gennaio-febbraio 1897. «Scribners Magazine», febbraio 1897. William Ritter, Giovanni Segantini, con sei tavole e sedici riproduzioni; estratto da «Die Graphischen Künste», Vienna 1897. = fondamentale apprezzamento in lingua tedesca; bella composizione, valore duraturo. «Il Marzocco», Firenze, aprile 1897. «The Studio», agosto 1897. «Die Kunst für Alle», settembre 1897. «L’Art Français», ottobre 1897 (Champavier). = estratto con il titolo Un peintre de la montagne, Giovanni Segantini, Parigi 1898. Si scusa perché Segantini non è francese. Ugo Ojetti, Vittorio Pica, Edmondo de Fonseca, passim, in occasione dell’Esposizione Internazionale, Venezia 1897. «La Cathedrale», Bruxelles, febbraio-aprile 1898. «Revue des deux Mondes», 15 marzo 1898, pp. 359-379: Le peintre de 1’Engadine, Giovanni Segantini, di Robert de la Sizeranne. = Fondamentale apprezzamento in lingua francese; soffre di una prospettiva turistica e non è esente da inclinazioni romanzesche e fantasiose; più che una descrizione dell’evoluzione dell’artista è un tentativo di trovare una formula che ne sintetizzi l’essenza. «Die Zeit», Vienna, marzo 1898 (Hermann Bahr). = ripubblicato nel libro dell’autore Secession, Vienna 1900. = «Ecco l’espressione giusta per Segantini: le frère de tous les êtres et de toutes les choses! Egli supera la separazione dell’essere umano dalla natura. La pietra, l’albero, l’animale, l’uomo e l’angelo = sono tutti la medesima creatura, sono tutti la stessa sacra vita ». «Gazette des Beaux-Arts», aprile 1898 (William Ritter). Si vedano anche i numeri di agosto e ottobre. 204


«Minerva», Roma, maggio 1898. «L’Arte», Roma, giugno-settembre 1898 (Domenico Tumiati). = una trattazione chiara e attendibile, apparentemente ispirata dallo stesso artista; positivo apprezzamento di singole opere; comunicazioni epistolari. «Black and White», luglio 1898. «Art et Décoration», agosto 1898. «Über Land und Meer», ottobre 1898. «L’Arte all’Esposizione di Torino», n. 6, Torino 1898. «Das Museum», Berlin 1898, anno IV, fasc. 8. Tommaso Bresciani, Giovanni Segantini, conferenza tenuta ad Arco, febbraio 1899 = traduzione tedesca di Emil e Franz Diettrich-Kalkhoff, Arco 1900. = un breve scritto, grazioso e raccomandabile. «L’Anthologie, Revue», Parigi e Milano, marzo 1899 (Edward Sansot-Orland). = sintesi sobria e oggettiva dei fatti. «The Dome», aprile 1899. «Revue encyclopédique», settembre 1899.

C. Considerazioni critiche espresse dopo la morte dell’artista Gabriele D’Annunzio Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi. Per la morte di Giovanni Segantini. = in «Il Marzocco», ottobre 1899. Il medesimo numero contiene: Angelo Conti, L’alta pace; Domenico Tumiati, Giovanni Segantini; Vittore Grubicy, Lettera; Enrico Corradini, La montagna delle visioni, e altro. Ugo Ojetti, Elogio, Arco 1900. «Tribuna», ottobre 1899: Il Solitario (L’Italico = Primo Levi). «La Nazione», ottobre 1899 (Romualdo Pontini). «Minerva», ottobre 1899. «Gazetta letteraria», ottobre 1899. «L’educazione politica», ottobre 1899. «La critica sociale», ottobre 1899. «La vita internazionale», ottobre 1899. «Il Secolo illustrato», ottobre 1899. «L’Illustrazione italiana», 8 ottobre 1899: I tormenti e la gloria d’un Artista. Giovanni Segantini (Raffaello Barbiera). «Nuova Antologia», fasc. 668, 16 ottobre 1899: In memoria di Giovanni Segantini e di Filippo Palizzi (Ugo Ojetti). Catalogo della mostra di opere di Segantini, Milano, novembre e dicembre 1899; con uno schizzo biografico di Claudio Treves. 205


«Nuova Antologia», fasc. 670, 16 novembre 1899: Giovanni Segantini 1858-1899 (Luca Beltrami) = pubblicato anche in estratto. Eugenio Bermani, Commemorazione di Giovanni Segantini, Milano 1899 = entusiastica analisi estetico-filosofica. «Corriere della sera», 27 e 28 novembre 1899: Il trittico alla Permanente (Ugo Ojetti). «Il Marzocco», 10 dicembre 1899: La Face della vita. Ai figli di Giovanni Segantini (Angiolo Provieto) (sic). «Emporium», gennaio 1900, vol. XI, n. 61: Giovanni Segantini. In memoriam (Lorenzo Benapiani). = confuso e retorico, contiene tuttavia del materiale pregevole. Ettore Zoccoli, Giovanni Segantini, Milano 1900 (37 pagine). = caloroso, penetrante, grave. Primo Levi, Segantini, Roma 1900 (78 pagine; estratto dalla «Rivista d’ltalia» = a tutt’oggi la raccolta più significativa di materiali; contiene le lettere a Vittore Grubicy. Tratta con acuta e partigiana partecipazione la vita e l’opera di Segantini, esclusivamente sotto il profilo del suo rapporto con Vittore Grubicy. È la pubblicazione più importante in lingua italiana. * «Le Temps», 6 ottobre 1899: Un Millet Italien. Giovanni Segantini (Thiebault-Sissons). «Revue de l’Art ancien et moderne», novembre 1899, vol. VI, n. 32: In memoriam. Giovanni Segantini, le peintre de l’Engadine (Robert de la Sizeranne). = parafrasi del saggio precedente dello stesso la Sizeranne. «Revue encyclopédique», dicembre 1899. «Bulletin de l’Art ancien et moderne», gennaio 1900. «Le Gaulois», 15 maggio 1900: Une grande victime de l’Art (Fourcaud). * «Frankfurter Zeitung», 3 ottobre 1899. «Engadiner Post», 5 ottobre 1899 (descrizione degli ultimi giorni). Orazione funebre per Segantini del parroco Camill Hoffmann, St. Moritz («Engadiner Post», 26 ottobre 1899). «Die Wage», 8 ottobre 1899, II anno, n. 41 (Ludwig Hevesi). «Die Nation», 14 ottobre 1899, XVII anno, n. 2 (Otto Stößl). «Heimatglocken», novembre 1899. «Neue Freie Presse», 5 novembre 1899: Giovanni Segantini (Franz Servaes). «Neue Freie Presse», 19 gennaio 1901: Segantini-Ausstellung (Franz Servaes). «Neue Freie Presse», 22 agosto 1901: Auf den Spuren Segantinis (Franz Servaes). «Die Kunst für Alle», 1° aprile 1900, XV anno, n. 13: = Betrachtungen über die Ausstellung der Werke Segantinis in Mailand (Alfred Peltzer); Erinnerungen an Giovanni Segantini (Franz Wolter). Richard Muther, Studien und Kritiken, Vienna 1900. «Nekrolog», pp. 112-116; «Wiener Ausstellung», pp. 100-104. 206


Kunst und Kunsthandwerk, Vienna, novembre 1899, II anno, fascicolo 11 = Das Werk Giovanni Segantinis (W. Fred). È la base di: W. Fred, Giovanni Segantini, Vienna 1901. Con una riproduzione in facsimile a colori, due tavole in collotipia e trenta autotipie (due fogli in formato gr. 4°). = testo e illustrazioni discreti; sufficiente per un rapido orientamento. Conte S. C. von Soissons, Giovanni Segantini, Die Kunst unserer Zeit, XI anno, fasc. IV, Hanfstängl, Monaco di Baviera, 1901. Un foglio in formato gr. 4° con sei tavole e sedici autotipie = testo insignificante, buone riproduzioni. * L. Villari, Giovanni Segantini. The story of his Life together with seventy five reproductions of his pictures in half tone and photogravure, London 1902. = biografia dettagliata, fondata su materiale ampio e affidabile; riporta numerose lettere. La composizione manca nel complesso di chiarezza e di energia. Le illustrazioni non sono all’altezza delle odierne possibilità.

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Ispirato dalla monumentale mostra delle opere di Segantini esposte a Vienna agli inizi del 1901, l’Imperial Regio Ministero per il Culto e l’Istruzione deliberò di pubblicare la presente monografia, al fine di celebrare uno dei figli più geniali della terra austriaca. A tal scopo venne insediato un comitato, che si riunì il 1° marzo 1901, e che era composto dai seguenti signori: L’imperial Regio Consigliere ministeriale dott. R. v. Wiener (presidente); il Consigliere di corte professor dott. Franz Wickhoff; il direttore dell’Imperial Regio Istituto di Ricerca e di Educazione per le Arti Grafiche, Consigliere di corte dott. Josef Eder; il professor Kolo Moser; il pittore Ferdinand Andri; l’Imperial Regio stampatore di corte Adolf Holzhausen; lo scrittore dott. Franz Servaes, come membro aggiunto. Su proposta di tale comitato furono stabiliti i passi necessari alla realizzazione del volume, e vennero commissionate alle ditte indicate qui in calce le riproduzioni delle opere di Segantini, da condurre esclusivamente su nuove fotografie degli originali. La copertina e la composizione della monografia furono affidate al professor Kolo Moser, mentre al dottor Franz Servaes fu assegnato il compito di redigere la biografia e il testo critico. Quest’ultimo, dietro incarico del Ministero, visitò le più importanti città d’arte tedesche, l’Engadina e l’Italia settentrionale, al fine di raccogliere ulteriore materiale sia dal punto di vista artistico sia da quello biografico. Molte personalità eminenti hanno offerto un lodevole contributo alla realizzazione di questa monografia. In primo luogo va ricordata la famiglia dell’artista, che ha amorevolmente sostenuto l’impresa, arricchendola in maniera fondamentale con informazioni relative a dati biografici, documenti scritti, racconti orali e riproduzioni fotografiche. In secondo luogo si è impegnato in maniera particolarmente meritevole il mercante d’arte signor A. Grubicy di Milano, concedendo i diritti di riproduzione per un numero significativo di opere, rendendo possibile la visione di lavori conservati in collezioni private milanesi, e fornendo preziose notizie statistiche. Molti amici dell’artista scomparso hanno parimenti assicurato il loro appoggio: in particolare il medico ospedaliero di Samedano dott. Oskar Bernhard e la signorina Elise Königs di Berlino; quindi il banchiere e proprietario di hotel signor R. Bavier e il signor parroco Camill Hoffmann di St. Moritz; il signor Pianta, proprietario di hotel a Savognino; il 208


signor Enrico Dalbesio e il pittore e scrittore signor Vittore Grubicy di Milano; il signor Consigliere di commercio August Zeiss di Berlino. Nel ruolo di consulenti furono specialmente attivi il professor Max Klinger di Lipsia, il professor dott. Hugo Tschudi, direttore della königl. Nationalgalerie di Berlino; il professor dott. Max Lehrs, direttore del königl. Kupferstichkabinett di Dresda; il professor dott. Alfred Lichtwark e il signor A.W.F. Müller, rispettivamente direttore e segretario della Kunsthalle di Amburgo. Anche il Governo reale della Baviera, così come le amministrazioni museali di Monaco, Lipsia e Budapest, hanno concesso il loro benevolo sostegno, autorizzando – come nei casi di Berlino e di Amburgo – la riproduzione di dipinti di Segantini in loro possesso. Un analogo ringraziamento per l’amichevole concessione dei diritti di riproduzione va tributato ai seguenti signori: Consigliere di commercio Henneberg di Zurigo; Principe Jusupov di San Pietroburgo; A. Rasini di Milano, Karl Wittgenstein, dott. Hermann Eisler, Fritz Redlich, J.M. Kohn, e alla signorina Magda Mautner v. Markhof di Vienna; A. v. Rothermundt di Dresda-Blasewitz; E. Merkel di Esslingen; curato Gibbs di Herts (Inghilterra).

Alla realizzazione della presente opera hanno contribuito in maniera egregia le seguenti istituzioni: k.k. Graphische Lehr- und Versuchsanstalt di Vienna: stampa combinata (héliogravure e litografia a colori) della tavola 40, e collotipia in quadricromia delle tavole 37 e 54. C. Angerer & Göschl, «k.u.k. photochemigraphische Hof-Kunstanstalt» di Vienna: autotipia in quadricromia delle tavole 19, 20, 23, 43. Blechinger & Leykauf, atelier per héliogravures e incisioni in rame di Vienna: fotografia, héliogravure e stampa delle tavole 1, 2, 11, 12, 14, 15, 32, 38, 44, 56; stampa delle héliogravures delle tavole 16, 17, 34, 36, 47, 48, 51, 57. J. Löwy, «k.u.k. Hof-Photograph, Kunstanstalt für Autotypie, Photogravüre und Lichtdruck» di Vienna: riproduzione e collotipia delle tavole 5, 6, 10, 13, 18, 22, 26, 30, 39, 41, 45, 46, 52, 53, 58, 62; realizzazione delle autotipie in tricromia delle tavole 31, 33, 49, 50; collotipia a colori delle tavole 35, 42, 55, 59, 60, 61; collotipia delle tavole 3, 4, 7, 8, 9, 21, 24, 25, 27, 28, 29, 63. Adolf Holzhausen, «k.u.k. Hof- und Universitäts-Buchdrucker» di Vienna: stampa del testo e delle otto autotipie a colori. Julius Franke, «k.u.k. Hoflieferant»: realizzazione della copertina. Meisenbach, Riffarth & co., Berlino: realizzazione delle lastre di rame per le héliogravures delle tavole 17 e 47. Al di fuori di Vienna le fotografie del volume sono state realizzate con lodevole cura dalle seguenti ditte: 209


Hanfstängl di Monaco (tavole 3, 7, 8). Rudolf Döttl di Berlino (tavole 4, 27, 28, 36, 57). R. Dührkoop di Amburgo (tavola 51). Nicola Perscheid di Lipsia (tavola 16). Brunner & Co. di Zurigo (tavole 9 e 48). Polygraphisches Institut A.-G. Vormals Brunner & Hauser di Zurigo (tavola 34). Alwin Arnold di Blasewitz presso Dresda (tavole 21 e 24). Wilhelm Hofmann di Dresda (tavola 29). Flury di Pontresina (tavola 63).

* Nell’indice delle tavole si riporta la traduzione dei titoli delle opere riprodotte nell’edizione originale. 210


Indice delle tavole* 1. Autoritratto. Disegno a pastello 2. Studio di nudo. Disegno dal dipinto L’eroe morto 3. Pastorella sognante. Dipinto a olio 4. La preghiera ai piedi della croce. Disegno a pastello dal dipinto Per i nostri morti 5. La culla vuota. Disegno a pastello dall’omonimo dipinto a olio 6. Fra’ Angelico. Disegno dall’omonimo dipinto a olio 7. Amore sui monti. Dipinto a olio 8. L’ultima fatica del giorno. Dipinto a olio 9. Gli orfani. Disegno a pastello dall’omonimo dipinto a olio 10. Bacio alla croce. Disegno a pastello dall’omonimo dipinto a olio 11. A messa prima. Dipinto a olio 12. La tosatura delle pecore. Disegno a pastello dall’omonimo dipinto a olio 13. Alla stanga. Disegno a penna dall’omonimo dipinto a olio 14. Tacchino appeso. Dipinto a olio 15. Cappone morto. Dipinto a olio 16. Ritratto di Vittore Grubicy. Dipinto a olio 17. Ave Maria a trasbordo. Dipinto a olio 18. Ave Maria a trasbordo. Disegno a pastello 19. Ragazza che fa la calza. Dipinto a olio 20. Le due madri. Dipinto a olio 21. Ragazza dormiente nell’ovile. Dipinto a olio 22. I miei modelli. Disegno a pastello dall’omonimo dipinto a olio 23. Una grigionese che beve. Dipinto a olio 24. Ritorno all’ovile. Dipinto a olio 25. Sul balcone. Dipinto a olio 26. Vacca nel cortile. Disegno a pastello dal dipinto Vacca bagnata 27. La fede. Disegno a pastello 28. Amore alla fontana. Disegno a pastello dal dipinto Primi albori 211


29. Contadina seduta. Disegno 30. Due donne in pelliccia. Disegno 31. La raccolta delle patate. Dipinto a olio 32. Cavallo al pascolo. Dipinto a olio 33. Madre amorosa. Dipinto a olio 34. Vacche aggiogate. Dipinto a olio 35. La zolla. Dipinto a olio 36. L’ora mesta. Dipinto a olio 37. Pascoli alpini. Dipinto a olio 38. Le ore del mattino. Dipinto a olio 39. Nirvana. Sgraffito 40. L’angelo della vita (Dea cristiana). Dipinto a tempera 41. Dea d’amore (Dea pagana). Disegno dal dipinto omonimo 42. Le cattive madri. Dipinto a olio 43. Capriolo morto. Dipinto a olio 44. Il lavoratore della terra. Disegno a mano 45. Il seminatore. Disegno a pastello 46. Ritorno dal bosco. Disegno a pastello 47. Ritorno al paese natio. Dipinto a olio 48. Pascoli di primavera. Dipinto a olio 49. La raccolta del fieno. Dipinto a olio 50. Vacca al truogolo. Dipinto a olio 51. Il dolore confortato dalla fede. Dipinto a olio 52. L’angelo dell’Annunciazione. Disegno a mano 53. Disegno di coppia. Studio della coppia di amanti per il quadro L’amore alla fonte della vita 54. L’amore alla fonte della vita. Dipinto a olio 55. La fonte del male. Dipinto a olio 56. Allegoria musicale. Dipinto a olio 57. Ritratto di una signora tedesca. Dipinto a olio 58. Rododendro. Disegno 59. La vita. Dipinto a olio. Primo quadro del trittico del mondo delle Alpi 60. La natura. Dipinto a olio. Secondo quadro del trittico del mondo delle Alpi 61. La morte. Dipinto a olio. Terzo quadro del trittico del mondo delle Alpi 62. La sbucciatrice di patate. Dipinto a olio 63. La casa in cui Segantini è morto. Fotografia

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Comune di Riva del Garda Comune di Arco Provincia autonoma di Trento Riva del Garda | Museo Arco | Galleria Civica G. Segantini Comune di Riva del Garda Adalberto Mosaner Sindaco Maria Flavia Brunelli Assessore alla Cultura Anna Cattoi Dirigente Area Servizi alla Persona e alla ComunitĂ Comune di Arco Alessandro Betta Sindaco Stefano Miori Assessore alla Cultura

Giovanni Pellegrini Responsabile MAG Museo Alto Garda Alessandro Demartin Direttore Biblioteca Civica B. Emmert Arco Alessandra Tiddia, Mart Coordinatrice del progetto Segantini e Arco


Finito di stampare nel mese di aprile 2015 da la grafica S.r.l. - Mori (TN)


Collana diretta da Alessandra Tiddia Vita nascente. Da Giovanni Segantini a Vanessa Beecroft. Immagini della maternitĂ nelle collezioni del Mart, 2014 Segantini e Arco, 2015 Franz Servaes. Giovanni Segantini. La sua vita e le sue opere Trad. in italiano del testo originale, 2015

www.museoaltogarda.it



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