MAG'ZINE
Mar 2017 ISSUE #10
Cover Photo: Carlo Rainone
Founders Gaetano Fisicaro Claudio Menna Editor in Chief, Design Gaetano Fisicaro gaetano.fisicaro@yahoo.it Editorial Staff Gaetano Fisicaro Claudio Menna Orazio di Mauro Duration Quaterly
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Timeline Photo: Michela Chimenti
CONTENTS Photographers Carlo Rainone
Italy
Michela Chimenti Italy
Carlo Rainone Italy
www.carlorainone.com
Carlo Rainone, napoletano classe 89 è un fotogafo documentarista. Lavora principalmente su progetti a lungo termine improntati sul senso di appartenenza culturale e identità. Dopo gli studi universitari all’Arizona State University si trasferisce a Instabul, dove documenterà la nascente protesta di Gezi Park. Nel 2015 torna a Napoli e nello stesso anno segue la master class di fotogiornalismo alla Fondazione Studio Marangoni (Firenze, Italy) tenuta dai fotografi del collettivo Terraproject Simone Donati e Michele Borzoni..
Cosa rappresenta per Carlo la fotografia? Mi piacerebbe raccontare storie del mio avvicinamento alla fotografia da bambino, di come me ne sia innamorato sostituendo fin da piccolo la macchina fotografica ai peluche. Ma ahimè niente di tutto ciò è mai accaduto. Il mio rapporto con la fotografia è nato per scopi puramente utilitaristici. In un periodo di transizione della mia vita in cui tutto sembrava cambiare molto velocemente, fotografavo per prendere appunti e aiutare la mia memoria a ricordare, senza alcuna velleità artistica o da narratore. Solamente con il tempo, scattando, ho preso coscienza delle potenzialità del mezzo ed ho incominciato ad usare la fotografia per soddisfare la mia curiosità, potendo così esplorare in prima persona luoghi o fenomeni che stimolano il mio interesse e il desiderio di approfondimento. La fotografia è semplicemente un pretesto, il modo per penetrare in maniera professionale mondi che altrimenti mi sarebbero stati preclusi. In due tuoi progetti parli della città di Napoli e soprattutto di elementi collegati alla sua tradizione e cultura, da dove nasce questo interesse? La mia ricerca e l’interesse nei confronti dei caratteri che delineano l’identità napoletana e la storia della città, nascono lontano da Napoli. Ho vissuto per qualche tempo lontano da casa, tra cittadini immersi completamente in un enorme orgoglio nazionalista. Prima di andare via dalla mia città natale non mi ero mai chiesto se mi sentissi più o meno napoletano, non sentivo il bisogno di definirmi come tale. Ma il vivere lontano mi ha fatto scontrare spesso con gli stereotipi e le etichette che io in quanto straniero avrei dovuto rispettare. Ho incominciato allora a chiedermi se ci fossero tratti evidenti che mi accomunassero i miei concittadini. La cosa non mi era chiara. Una volta a Napoli, sono rimasto per esplorare alcuni fenomeni che sembrano da fuori la quintessenza della napoletanità.
Hai indagato il mondo del neomelodico, com’è stato entrare in questo ambiente e soprattutto ci sono degli aneddoti a cui sei più legato di questa esperienza? Dando uno sguardo da fuori al fenomeno neomelodico ero completamente incapace di determinarne la sua estensione e il numero di persone coinvolte in questo business. Una volta dentro, invece, sono rimasto esterrefatto nel vedere quanto fosse grande e ben oliata questa macchina, partendo dalla creazione dei brani fino ad arrivare al consumo degli stessi. Avevo di fronte a me un modello di business unico nel suo genere, uno strano modo di creare e condividere la musica, così ho cercato di concentrarmi sugli elementi più importanti di questo mondo: gli artisti e i fan, l’offerta e la domanda. Sono arrivato alla conclusione che è proprio grazie allo strettissimo legame tra essi che la musica neomelodica è riuscita ad essere cosi fiorente. Alle prese con una vexata quaestio simile a quella dell’uovo e della gallina, non riuscivo a capire se fosse nato prima il bisogno di un nuovo genere di musica popolare o se, invece, fosse stata la musica neomelodica stessa a plasmare ed alimentare il suo pubblico. La fidelizzazione dei fans passa per strategie di marketing che sembrano decise da un guru del settore ma che invece avvengono in modo molto organico. Ci sono delle dinamiche interessanti che muovono questo mondo, mi sono divertito non poco mentre cercavo di comprenderle. Viva ‘o Re, rappresenta quella parte di popolo legata ancora ai fasti del Regno delle due Sicilie, come e quando e nata l’idea di questo progetto? L’idea di lavorare su questa storia è nata per caso una mattina dell’Ottobre 2015, su un materasso gonfiabile in un salotto di Istanbul. Sto leggendo delle notizie sul mio cellulare, quando vedo che un amico ha condiviso su Facebook la notizia della morte di un certo Don Carlo di Borbone - Due Sicilie con la frase ad effetto “Il Re e’ morto!!” (forse con molti punti esclamativi in più). La cosa mi incuriosisce a tal punto che incomincio a fare delle ricerche e scopro che ci sono ancora due rami della famiglia Borbone che si contendono la successione a capo del casato. Don Carlo appartieneva al ramo spagnolo dei Borbone - Due Sicilie, e per alcuni era il legittimo proprietario di un trono oramai inesistente. Rimango sorpreso nell’apprendere che alcuni napoletani guardano cosi nostalgicamente al passato, al punto da aver creato associazioni e movimenti volti a riscoprire e condividere la gloriosa storia di un regno scomparso. Una storia, che a loro dire, era stata in parte nascosta e in parte falsificata da chi aveva orchestrato l’unificazione d’Italia. Molti addirittura chiedono il ritorno a gran voce della famiglia reale. Dopo vari mesi di documentazione e di ricerca, nel Gennaio 2016 mi sono presentato ad un incontro del movimento Neoborbonico a Marra, piccola frazione di Scafati e lì è incominciato il mio lavoro.
Tra i tuoi progetti anche la Turchia, quella Turchia fatta di giovani e meno che contesta il proprio autoritario presidente e cerca una via più libera per questo Paese, com’è stato lavorare in lì in un momento così teso? Mi ero trasferito ad Istanbul da un paio di settimane e vivevo in un appartamento con degli amici nei pressi di Piazza Takism. Conoscevo il malcontento verso l’operato di Erdogan da quando era salito al potere, ma a quel tempo, nel 2013, la deriva autoritaria del governo era stata solamente annusata e la possibilità che questa divenisse più concreta doveva essere assolutamente scongiurata. I tempi sembravano maturi, la misura era stracolma, e i ragazzi che in seguito occuparono Gezi Park sembravano davvero poter richiamare l’attenzione della popolazione verso gli abusi del presidente e riaffermare i valori secolari che erano stati alla base della fondazione della repubblica. L’occupazione del parco fu una tangibile dimostrazione di protesta verso il governo. Non immaginavo che una cosa del genere potesse accadere, rimasi totalmente sorpreso. La guerriglia contro la polizia, la conquista della piazza e del parco, le barricate improvvisate, l’isola felice che era in quei giorni Gezi Park, soprattutto quella. Ricordo che verso le 8 di sera, tutta la popolazione che era d’accordo con l’occupazione del parco usciva sul balcone o apriva le finestre e incominciava a sbattere pentole e padelle per far baccano o ancora accendeva e spegneva le luci delle proprie abitazioni in segno di protesta. Erano tantissimi. Tutto quel supporto, quella vicinanza, anche da parte di chi non poteva o non se la sentiva di essere al parco, mi faceva venire la pelle d’oca. Ho dei ricordi belli di quel periodo, le persone con cui ho condiviso quell’esperienza sono diventate amici per la vita. Purtroppo le cose si stanno irrimediabilmente mettendo male per la Turchia, sembra quasi che la prossima guerra civile stia per scoppiare lì, spero di sbagliarmi. Quella storia nacque senza nessuna pianificazione, un prodotto acerbo, brutto, senza nè capo nè coda, ma quello rimane un evento fondamentale per la mia crescita fotografica. Progetti per il futuro Sono impegnato a lavorare su storie qui a Napoli e continuo ad interessarmi a fenomeni che esplorano il nazionalismo e il senso di appartenenza culturale, un po’ come è avvenuto in Viva ‘o Rre.
Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro? Mi sono affacciato alla fotografia e al mondo dell’editoria da poco, quindi non conosco molto bene lo stato in cui versa attualmente il mercato fotografico nè voglio azzardare future previsioni. Ma mi pare che l’evoluzione e la democratizzazione del mezzo fotografico avvenuta in questi anni, non sia andata di pari passo con un l’evoluzione dell’editoria che invece è rimasta un po’ al palo ed incapace di sfruttare internet. Una crescente mole di lavori fotografici non riesce a trovare sbocchi editoriali che permettano ai fotografi di continuare ad esercitare la professione. Non penso che la carta stampata sia morta, ne sia destinata a divenire tale, ma credo che la maggior parte dei magazine e dei giornali, per continuare a vendere, debba trovare una nuova dimensione, specializzandosi in certi settori ed evitando di essere dei contenitori di “tutto un po’ ”. Dal canto nostro, noi fotografi dovremmo imparare a diversificare le nostre capacità magari sovrapponendoci in certi casi alla figura del photo editor, ed essere dunque capaci di ricercare e mettere insieme materiale preesistente, facendo leva sull’enorme mole di foto prodotte. Inoltre, la cosa di cui maggiormente si necessita è senza dubbio la divulgazione dell’educazione all’immagine, in modo che le persone imparino a guardare e leggere in maniera critica le immagini. Questo potrebbe essere un modo per scalfire l’autoreferenzialità che mi sembra attanagli il mondo della fotografia contemporanea..
Michela Chimenti Italy
www.myownlens.com
Michela Chimenti (Voghera, 1981) studia Diplomazia Politica per il Medioriente (110/110 cum laude) con una tesi dal titolo: “L’ingresso della Turchia in Unione Europea dal punto di vista dei diritti LGBTI”. Nel 2009, grazie ad una borsa di studio dell’Università degli Studi di Pavia, si trasferisce in Cisgiordania, ritornando di anno in anno per raccogliere testimonianze dai campi rifugiati palestinesi. Da qui in poi la fotografia diventa un nuovo strumento per raccontare queste storie. È iscritta all’Albo dei Giornalisti dal 2008. Nel 2011 inizia a lavorare in un’agenzia di comunicazione di Milano e nel 2012 diventa responsabile delle produzioni video, seguendo creatività e realizzazione di video corporate, spot tv e web serie. In viaggio fra Asia e Medioriente, l’ultimo suo reportage, Transmandu, racconta la situazione della comunità LGBTI in Nepal. “La fotografia è quel mistero che mi fa sentire in pace con me stessa. Ancora non so quale sia la mia strada, ma la fotografia è il sentiero che voglio percorrere”.
Cosa rappresenta per Michela la fotografia? Oggi ho fatto pace con il voler essere una cosa sola, e la fotografia rappresenta uno strumento in più per fare ricerca e stare bene. Da giornalista, ho sempre raccontato storie con le parole. Imparare a farlo solo con la fotografia è stata una necessità, ma anche un esercizio fisico e mentale qualche volta doloroso. La sperimentazione mi spaventa e mi affascina allo stesso tempo, e ho capito che non c’è alcuna necessità di rinchiudersi dentro una sola categoria. Il reportage è la mia cultura, sia scritta che fotografica, e non lo abbandonerò, anche se mi sto avvicinando ad altro. Come scegli un tuo progetto e perché? Sono le storie che ti cercano. Pensavo fosse sciocco, ma con il tempo ho capito che è tutto vero: sono le storie che scelgono te, non viceversa, nel momento in cui sei pronta e libera da altri pensieri. Sto lavorando ad un progetto che ho avuto sotto gli occhi per ben 11 anni. Non lo avevo “visto” perché mi sono dedicata ad altro. Sono pronta adesso per raccontare questa storia, perché le posso donare l’attenzione e la dignità che merita, e che prima nemmeno vedevo. Le persone sono fonte inesauribile di esperienze straordinarie: basta sedersi ed essere pronti ad ascoltare. Secondo te ci sono dei punti a favore e/o a sfavore a essere donna in questo mestiere rispetto ai colleghi uomini? Premetto di essere fermamente contraria a tutto quello che fa dell’essere donna un qualcosa di protetto. Sappiamo onorarci e farci del male benissimo da sole, esattamente come gli uomini. Credo esistano approcci e intuizioni geneticamente diversi fra uomo e donna, ma questo non è un limite, è solo un percorso diverso per arrivare allo stesso obiettivo. Avendo viaggiato molto in Medioriente e Asia, non mi sono mai sentita limitata o avvantaggiata nel mio essere donna. Questo è ciò che – per fortuna – ci permette di raccontare la stessa storia in tanti modi diversi. Mal sopporto i concorsi dedicati solo alle donne: non ne ho mai capito la necessità. Molti uomini, nella storia del giornalismo, nella fotografia e nell’arte in generale, hanno saputo affrontare, in maniera eccelsa e mai scontata, tematiche intimamente femminili. E viceversa.
Un tuo progetto a cui sei più legata e perché? Transmandu, il mio reportage sulla condizione della comunità LGBTI nepalese. Mi sono sempre occupata di diritti LGBTI. Nel 2016 ho trascorso 2 mesi in Nepal e anche qui ho fatto ricerca sulla stessa tematica, scoprendo quanto la Blue Diamond Society sia all’avanguardia, sia dal punto di vista politico che sociale. Lo scorso anno è stata approvata la legge secondo cui, sul passaporto, oltre alla M (male) e alla F (female) è possibile scegliere la O di other (altro). Ho seguito con ammirazione e passione l’elezione di Miss Pink, il più bel transessuale di Kathmandu…Tutte esperienze che in Italia sarebbero impossibili da concretizzare. Progetti per il futuro. Innumerevoli. Ho una lista scritta in un quaderno acquistato a Kathmandu. Non sono in ordine di priorità: sono in ordine di necessità. Quando sento di essere pronta, mi attivo e mi immergo in una nuova idea, che sia lì da anni o solo da poche ore. Non ho ancora pianificato il prossimo viaggio perché sento di dover stare a casa per un po’, a lavorare su quello a cui mai ho dato attenzione in passato. Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro? Parlo per me e per quello che ho avuto modo di vedere e sperimentare direttamente. Da una parte ho conosciuto grandi professionisti, che non hanno avuto mai paura di condividere consigli o nuovi progetti, che non si sono mai sentiti minacciati da uno studente, come me, ma che anzi hanno supportato e aiutato genuinamente chi ha qualcosa da dire e crede davvero nella fotografia, sia essa lavoro o pura passione. Dall’altra parte, ci sono professionisti o aspiranti tali che lottano come pazzi per affermarsi, pestando piedi qua e là. In realtà non c’è nulla di cui stupirsi: il nostro Paese, anche in campo fotografico, replica le caratteristiche poco edificanti di una cultura troppo radicata per poter cambiare. Ci si barrica nel proprio orto e lo si difende, qualunque cosa si stia coltivando, quando invece si vivrebbe meglio se si coltivasse, senza paure, tutti insieme.
Thank you all
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