MAG'ZINE ISSUE #7

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MAG'ZINE


Mar 2016 ISSUE #7


Cover Photo: Giuseppe Carotenuto

Founders Gaetano Fisicaro Claudio Menna Editor in Chief, Design Gaetano Fisicaro gaetano.fisicaro@yahoo.it Editorial Staff Gaetano Fisicaro Claudio Menna Orazio di Mauro Duration Bimestrial

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Timeline Photo: Federica Mameli

Photographers

CONTENTS Thinking About a cura di Sandro Bertola

Giuseppe Carotenuto Italy

Federica Mameli Italy

PhotoTalk

Gianmarco Maraviglia


THINKING About Mobile Photography di

© Michael Christopher Brown

Sandro Bertola Perchè parlare di “mobile photography” come se si volesse indicare un genere fotografico? Perché utilizzare l’hashtag #mobile, sui social, a corredo di una foto? Esiste anche la #DSLRphotography, la #MirrorlessPhotography? Perchè specificare il fatto che siano state scattate con lo smartphone? Siamo dinanzi alla nascita di nuovo genere fotografico? A mio avviso, assolutamente no. Semplicemente abbiamo a disposizione un nuovo strumento con il quale poter scattare fotografie, la cui potenzialità ancora non si vuole accettare. Tutto il clamore suscitato dal lavoro “The libyan revolution” di Michael Christopher Brown [1], è un ottimo esempio per smascherare questo equivoco. Si tratta di un bellissimo lavoro che purtroppo ha fatto parlare di sè più per l’utilizzo dello smartphone come strumento utilizzato da Brown che per l’effettiva qualità fotografica e narrativa. Le immagini sono quasi passate in secondo piano, tutti a disquisire dell’ingresso dello smartphone in Magnum. Ad ogni modo, le immagini ci sono e contengono una forza meravigliosamente drammatica. Ma, nessuna rivoluzione stilistica. Puro fotogiornalismo di guerra.


© Jian Wang

L’assenza di un effettivo cambio epocale ce lo dimostra anche il “Mobile photography award”, premio fotografico internazionale destinato esclusivamente alle foto prodotte con lo smartphone. Le categorie previste sono le solite: “Architecture&Design”, “Portraits”, “Photojournalism”, “Streetphotography”, e così via [2]. Le immagini? Anche qui, nessuna rivoluzione. Anche la questione dell’estetica eccessivamente impattante, spesso associata all’utilizzo di alcune app (instagram o hipstamatic su tutte), mi sembra essere sterile e fuorviante. Questo perché la scelta di un’estetica forte, quasi ingombrante, non è certo nata con l’utilizzo dello smartphone. Per rimanere nel campo del fotogiornalismo, pensiamo alle im-

magini di Paolo Pellegrin, oppure al lavoro di Davide Monteleone “Dusha”[3]. E’ sempre il fotografo a decidere quale estetica adoperare per veicolare, nel modo più opportuno, il proprio discorso, indipendentemente dallo strumento usato. Un interessante utilizzo dello smartphone inteso come strumento fotografico si rinviene nel lavoro di Geert Van Kesteren “Baghdad Calling”. Il progetto racconta le storie dei profughi iracheni in Siria e Libano. Van Kesteren ha utilizzato, insieme alle proprie fotografie, quelle della vita quotidiana in Iraq scattate dagli iracheni stessi, con i propri cellulari. Un utilizzo del cellulare, come mezzo fotografico, progettuale e funzionale ai fini della narrazione. Un cellulare in grado di scattare fotografie e una relativa connessione internet è oggi alla portata di tutti , ed è proprio questo lo snodo cruciale. Il cellulare ha rivoluzionato la condivisibilità dei nostri scatti. Un giorno magari avremo la possibilità di postprodurre e condividere sui social direttamente dalle nostre reflex/mirrorless, e lo smartphone perderà questa esclusività e potrà essere considerato semplicemente per quello che è: un mezzo fotografico con una propria dignità. Questa è la vera rivoluzione, con tutti i limiti e relativi “pericoli” che ne conseguono. © Davide Monteleone



© Stephanie Gengotti

Giuseppe Carotenuto Italy

www.giuseppecarotenuto.com

Giuseppe Carotenuto è nato a Pompei il 31 ottobre 1984. All’età di dodici anni ha il suo primo approccio con la fotografia come fotografo di cerimonia. Decide allora di iniziare gli studi nel campo della fotografia e nel 2003 si diploma come “tecnico della produzione e progettazione dell’immagini fotografica”, a Napoli. Nel 2004, dopo tre anni di collaborazioni e diverse pubblicazioni ottiene l’iscrizione all’ordine nazionale dei giornalisti. Dal 2004 al 2007 lavora come fotografo per l’ufficio stampa dell’esercito italiano. Guidato da una crescente passione continua la sua ricerca in campo fotogiornalistico e propone i suoi lavori per pubblicazioni nazionali ed internazionali. Per due anni lavora per l’agenzia fotografica LUZ e dopo decide di diventare freelance coprendo le principali questioni politiche, sociali ed economiche d’Italia. Comincia a concentrarsi anche su temi internazionali fotografando la rivoluzione in Tunisia, la guerra in Libia, l’esercito italiano in Afghanistan, i profughi siriani e sudanesi. I suoi lavori sono stati pubblicati su diverse testate italiane e internazionali tra cui: L’Espresso Magazine, Vanity Fair e Stern.



Cosa rappresenta per Giuseppe la fotografia?

Ho incontrato la fotografia molto presto, probabilmente già dalle prime ore di vita, ragion per cui scherzosamente dico di esser “nato con la pellicola”. Mio padre Vincenzo, primogenito di sette figli di famiglia contadina, suo padre Giuseppe, rimasto prigioniero a Tripoli in Libia durante la “Campagna del Nord Africa” tra il 1940 e il 1943. I suoi fratelli e sorelle tutti artigiani, meccanico, panettiere, imbianchino, pizzaiolo, sarta, pasticciera. Mio padre l’unico ad aver avuto la fortuna del “posto fisso”, impiegato comunale adesso in pensione, nel suo paese di origine. Fotografava tutto mio padre, con la sua compatta Konika C35 EFP con 35mm fisso. Fotografare era la sua passione, ma anche uno dei tanti modi per esprimere il suo amore verso la famiglia. Oggi lo definirei un buon escamotage per non dispensare abbracci e carezze. I ricordi sono vivi, come se tutto fosse accaduto ieri. Conservava la sua Konika in custodia in pelle nera che puntualmente riponeva in un cassetto del mobile in salone, sotto il telefono. Ricordo anche il telefono, grigio, ancora senza tastiera ma col disco bucherellato. Da piccolo mi divertito a formulare numeri a caso e sotto le festività provavo a lasciare messaggi a Babbo Natale chiedendo di portarmi a casa i sogni che avevo nel cassetto. Il vero sogno, era nascosto proprio li, sotto a quel telefono, in un cassetto. Fotografava tutto mio padre, dalle uscite domenicali in famiglia, me, mio fratello, ogni festa di compleanno, i parenti ai matrimoni, qualunque occasione degna di dover essere ricordata nel tempo. Scattava almeno una pellicola a settimana e se si faceva prendere la mano o gli eventi in famiglia erano dalla sua, era capace di scattarne anche tre di pellicole. Era consuetudine la domenica pomeriggio andare a Pompei. Dopo un giro al parco giochi nelle macchine “tozza tozza”, dove nel frattempo portava soddisfatto a 36 il contafotogrammi della macchina fotografica, si andava a consegnare le pellicole da sviluppare al laboratorio difronte. Alla bottega del Signor Alfonso Di Paolo, l’istituzione della fotografia matrimoniale in tutto l’hinterland napoletano. Come a Broadway, nelle due grandi vetrine all’ingresso, ogni settimana andava in scena uno spettacolo nuovo, ma le trame erano sempre le stesse, il racconto di grandi storie d’amore. Il pubblico non pagante e nemmeno sedente, dal marciapiede rispondeva con applausi di bocche aperte e occhi sgranati per lo scintillio dei brillanti sui vestiti delle spose, metri e metri di velo che prendevano lo spazio di un vicolo intero, sostenuto da dieci damigelle, altre dieci piccole spose. Il tutto tra il brusio di voci di donne vestite a festa per la domenica, accompagnate alla “prima” dai loro rispettivi fidanzati o mariti che già posavano lo sguardo altrove. Insomma! La fila partiva da lì e per entrare c’era da sgomitare. Una volta dentro, si scendeva giù per tre gradini prima di arrivare al bancone, dietro il quale dominava un mega poster fotografico in cornice del Signor Alfonso. Scattata da un suo assistente. Lo ritraeva in abito classico, camicia dalle maniche ripiegate fino ai gomiti che toccavano per terra e il corpo completamente disteso su un manto di san pietrini. Impugnava un HASSELBLAD 903 SWC con 38mm Biogon, pronto a immortalare un coppia di sposi. Non avrei mai immaginato che da li a qualche anno, avrei impugnato anch’io la stessa Hasselblad e che avrei trovato nella foto del Signor Alfonso Di Paolo una similitudine con la copertina del dvd del documentario “War Photographer”, che ritraeva uno dei più grandi maestri del fotogiornalismo del ventesimo secolo, James Nachtwey. Fù ancora lui a metterci lo zampino, mio padre, in quello che ho considerato e considererò per sempre, il più grande atto d’amore nei miei confronti. Voleva trasmettermi la sua stessa passione e ci riuscì sin da subito, quando a dodici anni iniziai a frequentare il negozio di un suo amico fotografo in paese. Erano gli anni in cui per strada dilagava l’uso di sostanze stupefacenti, l’eroina in primis, raccoglieva adepti e mieteva vittime in quelle che divennero le stanze del buco. Quel piccolo negozio fu per me baluardo e allo steso tempo il primo tassello di un grande mosaico. Fu lì che imparai a conoscere le prime fotocamere 6x6 e 4.5x6 Zenza Bronica, caricare i dorsi e capire la luce dei flash Metz, il perché andavo in battuta o diretti. Lì ci fu anche il primo contatto con un pubblico adulto, venne poi l’allestimento della vetrina, le foto tessere Polaroid e i pomeriggi interi a spalmare metri di scotch sul dietro di foto da attaccare in album in pelle ancora maleodoranti di fabbrica. Nello Lamberti, divenne il mio primo datore di lavoro nonché amico dei miei sabati sera e domeniche passati in giro per case delle famiglie più assurde, paesi dell’hinterland napoletano di cui nemmeno conoscevo l’esistenza, ristoranti con sale stracolme di invitati in festa chiamati alle danze da orchestrali più strampalati che di tanto in tanto cedevano la scena alle esibizioni di cantanti neomelodici più in voga. Fu sempre Nello a farmi guidare per la prima volta un motorino, un Free Piaggio, di un colore verde bottiglia e sellino marrone.


Mi ci divertivo ad andare con l’acceleratore a manetta lungo la strada principale del paese che portava verso casa. Di quel periodo che fu per me il secondo incontro con la fotografia e dunque la firma di un sodalizio, ricordo una frase che incarnava una regola fondamentale. “L’ordine, - mi disse Nello il primo giorno di lavoro - è la prima regola di un buon fotografo”. Dopo qualche settimana di lavoro ricevetti il mio primo stipendio, cinquantamila lire. Ero così felice di quel momento che pensai quasi incorniciarlo quel Bernini. Qualche mese dopo mi ritrovai ad incrociare il Signor Alfonso, che imparai ad osservare più da vicino sul suo campo di battaglia, quali erano chiese, santuari, basiliche dove si svolgevano innumerevoli celebrazioni di comunioni e battesimi ed ogni cliente aveva il suo fotografo. Si aggirava abile e scaltro con il suo corpo minuto tra banchi di chiese e sagrestie. Aveva una lunga e folta chioma bianca, il viso sempre liscio e ripulito dalla barba, gli occhi azzurri fulminanti come due flash Metz e di poche parole. Il Signor Alfonso, oltre a predominare il mercato della fotografia di cerimonie, era il primo riferimento per tutti coloro che come mio padre scattavano fotografie in famiglia e volevano sviluppare e stampare pellicole 35mm. Nel sottoscala della sua bottega aveva due grandi macchine chiamate MiniLab, che lavoravano a ritmo serrato, ad ogni ora del giorno e della notte. Girava voce che nei periodi di intenso lavoro, il Signor Alfonso rimanesse lì nella sua bottega di Via Roma, anche la notte per poter smaltire l’innumerevole quantità di pellicole. Dietro al bancone era un centometrista da fermo un croupier attento ad ogni mossa del cliente che, aveva poco tempo per rispondere alle domande: quanti rulli? formato 10x15 o 13x18? Con bordino o senza? Quanto lasciate di acconto? Ricordo per questo che insieme a mio padre mia madre e mio fratello si decideva tutto prima di entrare e mentre si dava un’occhiata alla vetrina si ripassava la lezione. Ad ogni risposta, lui appuntava tutto sulla busta di color giallo con il vistoso marchio Kodak. Ci riponeva dentro i rulli e chiudeva con due punti di spillatrice. Infine, dopo aver preso i soldi dell’acconto che aggiungeva al mazzetta di banconote che gli fuoriusciva dalla tasca dei pantaloni, riponeva le buste nelle enormi ceste colorate dietro di lui. Oggi non c’è più il Signor Alfonso e anche la sua bottega non è più quella di una volta. Portata avanti dalla moglie e suoi due figli maschi, ha resistito alla crisi e all’avvento della fotografia digitale fino a qualche anno fa. Oggi ci vendono capi d’abbigliamento “Made in China”. Pensare che anche l’azienda americana Kodak spostò la sua produzione in Cina. Resta soltanto il ricordo, fortuito di un maestro della fotografia chiamato Alfonso Di Paolo.


Negli ultimi anni ti sei interessato ai movimenti che hanno scosso il NordAfrica, a parte il discorso giornalistico, cosa ti ha spinto ad andare in quei luoghi?

A metà degli anni novanta, finita la scuola dell’obbligo, decisi di iniziare il mio percorso di studi in fotografia, presso un istituto superiore statale. La sveglia suonava presto al mattino, con zaino in spalla correvo in stazione per saltare su un treno che mi portava dall’altro lato della montagna, il Vesuvio, dove a cambiare non era soltanto il suo profilo, come potrebbe accadere banalmente in una foto riflessa, a Napoli mi affacciavo al mondo. Dalla stazione di Porta Nolana salivo su per il quartiere Forcella, regno del contrabbando a cielo aperto e “spase” di lenzuola tra i vicoli stretti ancora sorretti dalle impalcature post terremoto. Incrociavo via Duomo e poi su per Spaccanapoli dove il profumo di caffè e musica neomelodica scandiva i miei passi verso Santa Chiara. Quale modo migliore per allungare il mio cordone ombelicale, prima che avvenisse il distacco totale. Erano gli anni in cui nasceva l’organizzazione “World Press Photo” che assegnava il più grande e prestigioso premio di fotogiornalismo mondiale. Iniziava una nuova epoca per il fotogiornalismo. La fotografia digitale entrava a gamba tesa nel mercato editoriale, lasciando vagare solo per poco tempo i più romantici fotogiornalisti free lance, i quali dovettero correre ai ripari e allinearsi al mercato per contrastare le grandi agenzie di distribuzione. Anche il concetto “foto in 1 ora”, efficace messaggio pubblicitario di tutti i negozi di sviluppo e stampa rapido come quel del maestro Alfonso Di Paolo, era cambiato in “sviluppo e stampa in 15 minuti”. Nel frattempo me ne stavo a guardare tutti questi cambiamenti, con l’occhio destro nel mirino di una Yashica 109 multi program. La barattai con mio padre al posto di un viaggio a Bruxelles con i compagni di scuola media. Ci volle poco a convincerlo, ma soprattutto ne fu molto entusiasta. Avere una fotocamera tutta mia con la quale esercitarmi anche fuori dalle ore scolastiche, mi diede modo di portarmi molto avanti nelle varie esercitazioni ma sopratutto capire che fotografare la vita quotidiana era molto interessante. Iniziavo a cibarmi di libri di fotografia, che andavo a sfogliare nella piccola sezione dedicata alla fotografia nella storica libreria Guida a Port’Alba. Fu lì che spesi ventidue mila lire per acquistare il mio primo libro di fotografia, “Un altro mondo è possibile”. Un notevole documento fotografico che raccontava le manifestazioni del Movimento No Global in Europa da Davos a Praga passando per Napoli e Bologna fino al G8 di Genova. Fu proprio quel libro ad incuriosirmi e portarmi avanti con le ricerche. Poco tempo dopo, accadde qualcosa. Non avevo mai visto un cadavere in vita mia, da bambino mi era stata negata l’esperienza della fine, anche quella dei miei nonni, non sapevo cosa si provasse a vederne uno. Un giorno al ritorno da scuola il treno sul quale viaggiavo arrestò la sua corsa alla fermata Barra, tutti i passeggeri furono invitati a scendere dal treno e allontanarsi dalla banchina, io risalii fino alla testa del treno dove, sui binari giaceva il corpo di una donna suicida. Avevo con me la mia Yashica, la estrassi dallo zaino, con freddezza e lucidità scattai tutta la sequenza di foto. Corsi subito a sviluppare per accertarmi della riuscita. Nel pomeriggio stesso, mi recai ai Quattro Palazzi, nella sede del quotidiano “La Verità di Napoli” e proposi le foto a Gabriele Scarpa uno dei capo redattori del giornale. Fu la mia prima “macabra” pubblicazione, un battesimo editoriale, faccia a faccia con la morte. Di li a poco nacquero una serie di collaborazioni, tra queste con il periodico “Informacittà”, diretto da Michele Inserra. Oltre ad essere responsabile della sezione foto con Gianni Cesariello noto fotoreporter partenopeo, scrivevo come corrispondente da alcuni comuni dell’hinterland napoletano, tra questi Boscoreale il mio paese. Gli stage formativi scolastici mi portarono alla “Copyright”, importante laboratorio per lo sviluppo e la stampa della fotografia analogica e digitale di Soccavo. Fu lì che conobbi Luciano Ferrara e Mimmo Iodice ed ebbi modo di appassionarmi al fotogiornalismo grazie a Ciro De Luca, il capo laboratorio. Ciro era anche lui un fotografo, lavorava per il quotidiano Roma e dirigeva una piccola agenzia, AgnFoto. Ciro divenne il mio papà del fotogiornalismo, grazie ai suoi consigli, che misi presto in pratica e che portano a raggiungere buoni risultati in breve tempo. Ricordo ancora la corsa in edicola e la mia faccia stupita a vedere la mia prima pagina de Il Giornale di Napoli con la foto della famiglia Savoia al rientro in Italia, affacciata al balcone del Palazzo Reale di Napoli.



Sei stato anche in zone di conflitto, come l’Afghanistan, documentando la vita dei militari italiani dal fronte, raccontaci un po’ com’è nato questo progetto?

Il 17 febbraio del 2004, staccavo completamente il cordone ombelicale dalla mia terra. Feci in tempo a ritirare prima della partenza, il tesserino da giornalista pubblicista, che chiudeva il triennio di collaborazione con il periodico “Informacittà”. Con i capelli più corti e senza gelatina, la barba che ancora stentava a crescere, feci la mia prima valigia e partii alla volta di Roma. Mi arruolavo come volontario in ferma annuale nell’Esercito Italiano. L’Esercito, una seconda famiglia, un percorso, la pietra miliare che segnava il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Ricevetti anche un buon incarico, fotografo del capo di stato maggiore presso l’ufficio pubblica informazione. “Prima della divisa viene l’uomo”, mi disse un giorno qualcuno non ricordo Chi. Nonostante il brevetto da paracadutista non riuscivo a trovare più il giusto slancio, quello che mi faceva sentire libero come quando ero tra cielo e terra. A spingermi a lasciare fu la forte passione per il fotogiornalismo che covava sotto la divisa, dentro di me. Tre anni dopo, il 27 febbraio 2007, firmai per la mia libertà e mi congedai per sempre dalla mia seconda famiglia, con la promessa che un giorno avrei raccontato quella vita mancata. Nel luglio del 2010, atterravo per la prima volta ad Herat, in Afghanistan, nella base italiana Camp Arena. Nonostante fosse passato qualche anno dal congedo, mi sentii subito a casa. Tutti quegli uomini e quelle donne in divisa avevano un viso familiare, cosi cordiali e accoglienti da annientare le vere ostilità di quel luogo tanto lontano da una vita normale. Il primo viaggio fu breve, come un saluto di un capo di stato che passa in rassegna dinanzi allo schieramento di uomini e riparte subito dopo il discorso di ringraziamento. Galeotto fu il secondo viaggio in dicembre dello stesso anno. Ero in assignment per la rivista Vanity Fair e in compagnia dello scrittore Paolo Giordano. Raccontammo per la prima volta l’esistenza di un avamposto segreto, la COP (Combat Outpost) “Snow” di Buji, collocato nel distretto a sud della Valle del Gulistan. In quell’occasione scattai una serie di ritratti che ritraevano i ragazzi del terzo plotone della 66ma Compagnia del 7mo Reggimento Alpini di Belluno, in partenza per l’avamposto “Snow”. Tra loro c’era anche Matteo Miotto, Caporal Maggiore, che perse la vita il 31 dicembre 2010 durante il suo turno di guardia a Buji. Fatalità avevo chiesto allo stato maggiore dell’esercito di poter ritornare a Buji per seguire i ragazzi durante le festività natalizie, permesso che mi fu negato. Da quel tragico episodio decisi che avrei continuato il mio lavoro in Afghanistan, per quello che mi sarebbe stato concesso di raccontare da parte dello Stato Maggio della Difesa, concentrandomi sulla condizione umana dei giovani militari italiani all’interno degli avamposti. Tra mille difficoltà, grazie alla rivista Vanity Fair, tornai in Afghanistan per altre due volte. Ricordo che non fu facile convincere i vertici di Stato Maggiore della Difesa sull’importanza del progetto. In fondo, volevo soltanto raccontare la vita di giovani ragazzi, soldati, comandati a difendere il loro paese in un’altra terra, dove in sei mesi, avrebbero messo in gioco la loro stessa vita.

Ti occupi anche di news, cosa pensi del mercato fotografico e del fotogiornalismo in Italia.

Ho iniziato questo lavoro da professionista lavorando per un’agenzia fotogiornalistica italiana basata a Roma. I “compiti” del giorno, esposti sulla bacheca in ufficio, erano ritrarre personaggi italiani di politica ed economia. Successivamente il lavoro prese altre forme, furono integrate anche le news giornaliere da distribuire ai maggiori quotidiani nazionali italiani. Tutto il “Team” di fotografi, ognuno con la sua partita iva, veniva puntualmente stipendiato alla fine di ogni mese. Io non avevo la minima idea di cosa fosse il mercato fotografico italiano e purtroppo nemmeno il fotogiornalismo. Conclusa la collaborazione con l’agenzia, durata tre anni, iniziai ad indagare e indagarmi su come avrei potuto evolvermi. Decisi di ripartire dalle cose che mi più mi interessavano e come poter riuscire a costruire un linguaggio personale che mi permettesse di raccontarle in maniera diversa. L’impresa che stavo per intraprendere era abbastanza complessa, in un momento storico dove vivere di fotografia iniziava ad essere utopia. L’influenza del mio segno, faceva la sua parte, ero governato da Marte, dio della guerra, dunque accoglievo qualsiasi sfida. Non potevo mollare, ero solo all’inizio e quindi decisi che valeva la pena rischiare. Ero pronto ad abbracciare l’illusione e conoscere il peso della sconfitta. Volere è potere! Pazienza e perseveranza! Questa era la mia formula magica, il sim sala bim che mi permetteva di ignorare i tanti squali e gli ultimi dinosauri del fotogiornalismo italiano.


Fu Tiziana Faraoni, photo editor de L’Espresso, a quell’epoca diretto da Daniela Hamaui, ad avere fiducia in me e a propormi il mio primo lavoro commissionato. Nacque la mia prima collaborazione che diede spazio a tanti altri lavori, seguita successivamente anche da numerosi lavori per la rivista Vanity Fair, grazie a Marco Finazzi. Nel 2009 con la chiusura della storica agenzia fotografia Grazia Neri si chiudeva un capitolo del fotogiornalismo italiano durato quasi mezzo secolo. Il mercato fotografico era gia in crisi da qualche tempo e gli editori iniziavano a tagliare decine di pagine di giornale. Nel frattempo si faceva spazio il lavoro audiovisivo e lo storytelling. Ricordo uno dei primi, Brian Storm con il progetto “MediaStorm”. Le agenzie fotografiche, tentarono di replicare il modello della Signora Grazia Neri, ma il mercato era già cambiato e per adeguarsi dovettero puntare sulla quantità di immagini in archivio non più sulla qualità. Intanto i budget degli editori per le redazioni iniziavano a diminuire e i fotografi ricevevano sempre meno lavori assegnati, all’estero e successivamente anche in Italia. In tutto questo marasma iniziava a decadere l’elemento fondamentale della professione, l’etica. A contribuire al crollo, i corsi di fotografia, talvolta tenuti da stessi colleghi e/o agenzie nel tentativo di sopperire alle perdite economiche in ambito editoriale. Un vero disastro, che ha creato una generazione di “professionisti” allo sbaraglio. Non può inoltre, un’agenzia fotografica sostenere corsi di fotografia e parlare di etica, quando al tempo stesso stipula contratti con gli editori per la vendita di foto nello stesso modo in cui venderebbe un commerciante della merce di abbigliamento in saldo. Tutto questo si ritorce contro gli stessi fotografi/collaboratori, destinatari di miseri rendiconti, con pagamenti che arrivano fino a 120 giorni. In questo caso è chiaro che vi è la morte della professione. Nel frattempo tra Milano e Roma nascevano gli “harem” della fotografia, dove a pochi fotografi era concesso entrare e godere da parte di figure molto influenti anche in ambito internazionale, di veri e propri percorsi di crescita professionale. Tutto questo, sulla base di quello che Loro stessi, photo editor, curatori, giurati, avevano deciso di lanciare sul mercato fotografico. Eressero fotografi a loro immagine e somiglianza, ai quali furono attribuiti per merito premi prestigiosi, molto spesso per sopravvalutazione il titolo di “maestri della fotografia”. Ricevere premi non ha mai arricchito i fotografi, bensì ha nella maggior parte dei casi, alimentato all’inverosimile quel già persistente atteggiamento egoistico, portandoli a scadere in forme di ridicole di narcisismo. Entrare nell’olimpo della fotografia, purché possiamo affermare che questo esista ancora, non significa perdere l’umiltà e dimenticare chi si era prima. Ma nonostante tutto non possiamo dire che l’Italia non sia stata la madre di tanti giovani fotografi che hanno riscosso successo in tutto il mondo, realizzando progetti fotografici di grande impatto visivo, storico e culturale.

Sei stato tra i protagonisti di Foto Factory Modena, raccontaci qualcosa di questa esperienza, cosa ti ha insegnato e cosa ti ha lasciato non solo a livello fotografico.

La scelta di candidarmi come alunno, alle selezioni di un nuovo format televisivo sulla fotografia, è partita da un periodo introspettivo che ancora oggi persiste, rafforzato dalla volontà di una continua ricerca ed evoluzione, personale e professionale. Decisi di mettermi ancora una volta in gioco e il punctum sarebbe stato il “confronto”. Nessuna sfida, nessun premio, nessun vincitore ne vinto. Se solo uno di questi aggettivi, rientravano nelle idee dell’autore e della produzione non avrei mai partecipato al format. Mi stavo dando invece la possibilità di una ulteriore crescita professionale, cosa che alcuni colleghi vedevano come la possibilità di uscire in tv e diventare famoso. Purtroppo si sbagliavano di grosso, in quanto io ero l’alunno e non il docente, “maestro della fotografia” così recitava la réclame. Giusto per ricordare la formula “ego-fotografia”. Ritornando al confronto prendo in prestito le parole di Vincenzo Castella, uno dei sei docenti, quando parlava de “l’esigenza di imparare quello che nessuno può sapere e che nessuno può insegnare”. L’esigenza! In quel momento io avevo l’esigenza di imparare attraverso il confronto, che non nasceva solo con i docenti ma sopratutto da un gruppo di persone completamente estranee al fotogiornalismo, qualcosa di cui ancora non ero a conoscenza. Quell’esperienza per me doveva essere una sorta di inquinamento dell’anima, al tempo stesso, un lavaggio del sangue per ripulirmi da tutto ciò che era divenuto inutile. Da questo nutritivo confronto, è nata la collettiva “NOVE”, un frutto ancora acerbo, che si presta grazie al desiderio di mostrare, attraverso la molteplicità, senza la pretesa di esaurire gli argomenti. Abbiamo deciso di unire Nove occhi originali e autonomi, lontani da sterili individualismi, attraverso una visione personale, libera, anarchica ed eccentrica, senza cadere nella trappola dell’isolamento.



Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro?

In principio, quando mi avvicendavo al fotogiornalismo, molti colleghi annunciavano come annunciano la fine del mondo i testimoni di Geova, la fine della fotografia. Da allora sono passati dodici anni, la fotografia esiste ancora nonostante sia stata più volte attentata. Essa resta ancora un grande mezzo di comunicazione, seppur a volte ritenuto scomodo. Bisognerebbe ricominciare a riconoscere la fotografia come il mezzo più importante per la memoria storica della nostra civiltà. Non solo, per evitare che questa memoria si disperda, bisognerebbe innanzitutto riaprire il dialogo e discutere di fotografia con chi, la politica nella veste dei beni culturali, gli intellettuali, che per anni hanno dimenticato l’importanza delle immagini. A differenza di qualche tempo fa, mi capita sempre più raramente di partecipare a “vernissage” di mostre fotografiche o festival di fotografia. Sono noiosi i “vernissage”, trovi sempre le stesse persone, o meglio sempre i stessi fotografi, quelli attaccati al muro e quelli attaccati al tavolo dove servono in tristissimi bicchieri di carta vino di cartella. Da questi piccoli dettagli capisci che la fotografia è diventata povera, come poveri sono diventati gli editori che non possono più permettersi di inserire i contenuti nei loro giornali e di conseguenza anche i photo editor. Sono costretti a riempire i layout del giornale con foto di agenzie, comprate a pacchetti, e cestinare centinaia di email di fotografi, autori di notevoli reportage, cui meriterebbero almeno una risposta di ringraziamento. Ma sembra che i mancati ringraziamenti sia solo una tradizione Made in Italy. Ai vernissage non ci trovi solo i fotografi, ci trovi anche i photo editor, sempre accerchiati da vortici di fotografi che talvolta lasciano dietro di loro imbarazzanti scie bavose. Insomma, ad esclusione di mostre i cui curatori godono di importanti conoscenze in ambito politico e nell’intellighenzia radical chic che della fotografia poco importa, nessuno si è mai chiesto chi sono i veri assenti a queste manifestazioni. I veri assenti, sono purtroppo i comuni mortali, ovvero il popolo, il lettore, lo spettatore, tutti coloro i quali ogni giorno vengono bombardati da milioni di immagini. Queste persone andrebbero educate, stimolate ad una più approfondita ricerca e conoscenza e per le quali il mondo dell’informazione, quale noi rappresentiamo, dovrebbe avere la coscienza di non raccontare più il mondo con delle storie “usa e getta”. Con persone così educate, ma anche più rispettose del nostro lavoro, i vernissage diventerebbero molto più interessanti, si eviterebbero tanti sterili discorsi tra fotografi e molti convenevoli sorrisi. Infine un augurio, che l’interesse e il giusto approccio all’arte della fotografia, possa ripartire ben presto da una delle più importanti istituzioni, la scuola.




Federica Mameli Italy

www.federicamameli.com

Nata a Milano, vive a Roma. Federica, per alcuni anni, si è occupata di formazione, poi l’incontro con la fotografia e la scelta di studiare Fotogiornalismo a Roma. Da qualche tempo il suo lavoro si è focalizzato sul tema dell’immigrazione e in particolare all’attraversamento del Mediterraneo e dell’Egeo, tappe del lungo viaggio che molti migranti percorrono nel tentativo di raggiungere l’Europa. Impressionata dal livello di deumanizzazione che caratterizza i trattamenti riservati a coloro che fuggono dal proprio paese (come se la condizione di migrante o richiedente asilo giustificasse una perdità di dignità) è convinta che il racconto per immagini possa servire a far emergere questo fenomeno condannandolo e spingendo verso un atteggiamento collettivo di solidarietà e sostegno.



Cosa rappresenta per te la fotografia? Un modo meraviglioso per guardare le cose sforzandosi di capirle. Landed on Lampedusa e Lampedusa 35° Parallelo, raccontano i due aspetti di un isola, approdo per i migranti nel primo caso, fluire del quotidiano nell’altro, da dove nascono questi due progetti e perchè? Mi sono avvicinata al vasto tema migrazione lo scorso anno, in seguito ad un piccolo commissionato a Palermo presso un centro di accoglienza per rifugiati. Di lì a poco ho cominciato a lavorare a Lampedusa, primo approdo italiano ed europeo per coloro che scappano in particolare dall’Africa. Ho assistito a diversi trasbordi e ho vissuto l’isola fuori stagione. Una frontiera in mezzo al mare con una capacità di accoglienza rara nonostante le difficoltà quotidiane e amministrative che un’isola geograficamente così lontana vive. Lampedusa è nota per essere transito di un flusso migratorio epocale ma lo è molto meno per la sua bellezza e per la sua storia Il progetto è nato così. In India Iphone, hai deciso di raccontare l’India tramite la mobile photography, perché la scelta di questo mezzo e cosa pensi in merito? Perchè è stato il mio primissimo approccio alla fotografia. Quando sono tornata da quel viaggio mi sono iscritta al Master di fotogiornalismo presso l’ISFCI a Roma.


Il tuo reportage Puerto Escuso, ci porta in Sardegna, dove hai documentato uno dei tanti conflitti ambientali ed economici d’Italia, e che riguarda una delle più povere province italiane. Cosa rappresenta per te questo lavoro? Il Sulcis è un angolo di Sardegna incantevole. Portoscuso e la zona industriale di Portovesme, vivono da qualche anno una profonda crisi economica aggravata dalla mancanza di alternative di lavoro e da un conflitto ambientale praticamente ignorato. Nei mesi in cui ho lavorato al reportage, ho trascorso tanto tempo con gli ex operai Alcoa, nel presidio permanente aperto da ormai due anni. Perchè innanzitutto su loro - e sulle loro famiglie - impatta questa crisi. In Sardegna ho le mie radici paterne. E’ un lavoro che non considero concluso, spero di riuscire a tornarci presto.

Hai anche prodotto un multimediale a riguardo, come mai la scelta di un altro mezzo oltre la fotografia? Non penso sia un mezzo lontano dalla fotografia, credo anzi che soprattutto nel fotogiornalismo abbia sempre più senso una loro integrazione per cercare di raccontare i fatti in maniera più completa. Nel caso di Puerto Escuso l’idea del multimedia è nata perchè ho utilizzato un drone per riprendere il bacino dei fanghi rossi, una discarica sul mare alta 30 metri in cui sono stati versati per 20 anni scarti industriali pericolosi. Il multimedia mi ha permesso di mescolare la fotografia con il video e le voci preziose dei protagonisti.



Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro? La fotografia e le sue evoluzioni risentono spesso dei canali e degli spazi usati per veicolarla. Non so fare previsioni ma se da una parte assistiamo da tempo alla riduzione drastica di spazio sulla stampa, dall’altra si aprono sul web nuove declinazioni di questo linguaggio. Per il fotogiornalismo, ambito su cui sono concentrata, il web e le sue continue novità rappresentano qualcosa da esplorare e sperimentare.




Gianmarco Maraviglia www.gianmarcomaraviglia.com; www.echophotojournalism.com

Fotografo, docente e direttore di Echo Photojournalism, come vivono tutte queste figure in Gianmarco?

Sono tutte componenti inseparabili di quello che faccio e di quello che mi piace fare. E’ come se avessi sommato tutte le esperienze che ha fatto negli anni, e avessi deciso di non sprecare niente. La mia parte “fotografo” è quella che mi da la carica e l’energia, quella che mi porta al centro degli avvenimenti e soddisfa alcune di quelle che per me sono esigenze primarie, come per esempio viaggiare e sentirmi partecipe del grande flusso degli eventi, arrivare in un posto senza sapere bene cosa aspettarsi, ma anche il raccontare e dare un punto di vista su situazioni poco conosciute. Se dovessi dire quale parte di me è quella che più rappresenta la mia essenza direi quella del fotografo. Ma nel tempo ho fatto anche delle importanti esperienze nella gestione e direzione di gruppi di lavoro, soprattutto in ambito fotogiornalistico, e per me è un grandissimo piacere coordinare un team di persone del livello di Echo. C’è veramente un’alchimia speciale, che mi ha regalato la possibilità di conoscere alcune persone che con il tempo sono diventate anche carissimi amici. Infine c’è il mio lato di docente, in particolare allo IED di Milano, dove tra l’altro ho anche studiato. E’ un aspetto a cui tengo moltissimo. Faccio il possibile perchè i miei corsi siano il più possibile utili e pratici, a volte anche sembrando forse un po’ duro nel mettere i miei allievi di fronte alla realtà di quello che sarà poi il mondo del lavoro, cerco sempre di dare degli strumenti concreti, senza perdersi in autocelebrazioni o grandi discorsi filosofici. Questa è anche l’approccio di una nuova iniziativa di Echo, cioè l’apertura della sezione di educational, con il progetto “Wide – Enlarge your vision” una serie di workshop tenuti da noi, in cui si punterà sulle specificità di ogni singolo autore, proprio per poter dare il meglio dal punto di vista pratico e didattico a chi si isciverà. Questa è un po’ la sintesi delle diverse cose che faccio, una sintesi che mi permette anche di poter stare con la mia famiglia, ho due figli, visto che alterno i viaggi al lavoro in agenzia e allo IED. E’ un equilibrio perfetto in cui tutte le componenti si rafforzano e si sostengono.


Negli ultimi periodi il tuo interesse si è concentrato sulla religione e i suoi rituali, da dove arriva questo interesse e perchè? Nasce per caso, come spesso succede. Inizia con la scelta di fare un progetto che parlasse di immigrazione in modo diverso. In quel periodo era molto forte la tematica delle radici cristiane dell’unione europea, e in italia, con il solito strisciante razzismo che contraddistingue la destra ma anche quelli che si fanno chiamare moderati, si cercava di instillare la paura del diverso e della contaminazione culturale. In un paese che invece si dichiara profondamente cristiano, ho deciso di provare a dimostrare che la religione, la spiritualità, potrebbe essere un terreno comune di confronto e di riconoscimento dell’altro. Ho iniziato così a seguire alcuni culti e cerimonie portati in Italia dalle comunità di stranieri che vivono qui. Ho iniziato a capire che la religione poteva essere un interessante “filtro” per raccontare altro, un pretesto per parlare di storie e di persone. Decido quindi di partire per l’Armenia, dove poi mi sono recato altre volte, e dove ritornerò a breve, per raccontare la fuga dei siriani armeni cristiani, perseguitati per il loro essere cristiani. L’Armenia è stato il primo paese ad adottare il cristianesimo come religione di stato, e mi sembra a una interessante chiave di lettura. Subito dopo, proprio in virtù del fatto che stavo lavorando sulla religione da tempo, sono stato chiamato da Vanity Fair per un progetto che dura ancora oggi, per il quale stiamo documentando, con la giornalista Tamara Ferrari, diversi luoghi al mondo dove è apparsa la Madonna.




Nel 2015 ti sei recato in Armenia, per documentare il Paese a distanza di 100 dal Genocidio, e da dove hai prodotto il lavoro Hayastan 1915/2015. Ma nella tua carriera ci sono anche il Kosovo, l’Egitto, la Bosnia e in ultimo il Rwanda. Cosa ti spinge a recarti in un luogo per raccontarlo? Quale preparazione richiede la realizzazione di un reportage? In Armenia mi ero già recato l’anno precedente ed ero per caso arrivato nel paese il 24 aprile, il giorno in cui si ricordavo i 99 anni dal Genocidio. E’ stata una fortissime esperienza di memoria e dolore collettivo, il giorno stesso avevo già deciso che sarei tornato anche per le celebrazioni dei 100 anni. Succede spesso che decida di tornare in un posto, perchè magari trovi delle storie che altrimenti non troveresti mai, e quindi torni magari mesi dopo. La grande capacità di chi fa questo lavoro, e non vuole lavorare sulla stretta attualità, è proprio nel trovare una storia che sia universalmente interessante, questa è la prima fase della preparazione, magari leggere decine di siti di informazione locale, un quotidiano Ruandese piuttosto che un magazine del Montenegro, per individuare una notizia, anche piccola, ma con delle grandi potenzialità di racconto. Fatto questo, il resto viene di conseguenza...la ricerca dei contatti, dei vari aspetti della storia, le verifiche, la logistica, il supporto, magari dei partner sul posto...e poi si parte. Parliamo anche di Echo Photojournalism, qual è l’idea che ci sta dietro e come nasce?. Nasce dopo la fine della mia esperienza come direttore in un’altra agenzia. Avevo davanti due strade, fare solo il fotogiornalista o mettere a frutto anche quello che avevo fatto negli ultimi anni. Ho chiamato subito alcuni amici e colleghi con cui avevo già lavorato, in particolare Giorgio Palmera, Ugo Borga e altri...dopo qualche giorno la decisione era presa, apriamo Echo. Decisione diffcile, anche azzardata se vuoi in quel momento. L’idea che sta alla base narrativa e visiva del progetto è proprio nel nome, Echo, raccontare cioè non le news l’attualità stretta, ma le storie che nascono dall’eco delle grandi storie di attualità, per poter raccontare i retroscena, le conseguenze...



Oggi il citizen journalism è spesso al centro del dibattito fotografico, che rapporto hai con la mobile photography e cosa ne pensi a riguardo. Non sono un appassionato di citizen journalism. E non credo, come altri, che rappresenti un pericolo per i professionisti in termini economici. Chi lo teme per questi motivi ha già sbagliato in partenza, il fotogiornalismo è, secondo me, più giornalismo che fotografia, quindi credibilità e verifica delle fonti. Poi non ho niente in contrario all’utilizzo del telefono, io stesso l’ho usato per due miei lavori, ATM e The Plague. Ma non penso sia automatica la sovrapposizione telefono/citizen journalism. Anzi, abbiamo appena creato l’account istangram di Echo e a breve annunciaremo una partnership molto interessante tra Echo una una nuova realtà operante proprio nel campo della mobile photography. Personalmente non mi interessa molto l’aspetto tecnico dello scatto, io per scattare uso una mirrorless Fuji come primo corpo macchina, ma posso anche scattare con un telefono, l’importante è la consapevolezza di ciò che stai facendo.


Qual è la tua visione del fotogiornalismo oggi e come pensi che si evolverà in futuro. Sono meno pessimista di altri. Ma non sono neanche tra chi pensa che siano completamente mutate le forme espressive del giornalismo. Sono molto legato ad una fotografia di impostazione più “classica”, se vuol dire qualcosa. Una fotografia fatta più di “pancia” che di testa. I progetti troppi intimisti, quelli che parlano più del fotografo che della storia, quelli che devi leggere dieci pagine per capirli, o quelli che ammiccano a linguaggi più legati alla moda non mi interessano tanto. Sono per una fotografia tuttosommato sporca, ruvida, immediata. Quello che invece mi interessa è la possibilità di mischiare media, tecnologie, sensi. Guardo con interesse alla realtà virtuale, a oculus, ai video a 360°, a tutto ciò che può rendere più immersivo il mio racconto. Certo, tutto questo ha un costo che non ci possiamo permettere, e non vorrei che rimanessero frontiere narrative inesplorate ai più solo per motivi economici. In questo caso sono anche i giornali, gli editori, che dovrebbero iniziare a guardare un po’ più in là dell’oggi e del risparmio sui contenuti. Il grande cambiamento nell’informazione e nella sua fruizione lo si può fare solo se c’è un patto tra chi la crea, chi la pubblica e chi la legge.

Nato a Milano, nel 1974, nutre l’interesse nel fotogiornalismo già in giovane età. Si diploma in fotografia, presso l’Istituto Europeo di Design (IED), approfondendo anche gli aspetti imprenditoriali, e la ricerca di giovani e nuovi talenti. Lavora principalmente su progetti a lungo termine ed è affascinato da temi multiculturali e sociali. Negli ultimi anni, sta seguendo una ricerca personale sulla religione, riti, cerimonie in tutto il mondo, con l’aspetto spirituale come pretesto per raccontare storie di persone o popolazioni. Curioso di tutti gli aspetti dell’essere umano, interessato alle questioni dei rapporti tra culture diverse. Prima di tutto racconta storie ai lettori, sempre alla ricerca di una interpretazione non banale. Più che la notizia cerca di raccontare le conseguenze di un avvenimento. Le sue foto sono state esposte in diverse gallerie e festival internazionali. I suoi lavori sono stati pubblicati su Die Zeit, Washington Post, D La Repubblica, Sette del Corriere della Sera, Panorama, Io Donna, Aftenposten, Vanity Fair, Gioia, Svenska Dagbladet, Brigitte, Marie Claire, Woz, Emaho. E‘ anche membro fondatore e direttore di Echo Photojournalism.




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