MAG'ZINE
Nov 2015 ISSUE #5
Cover Photo: Karim El Maktafi
Founders Gaetano Fisicaro Claudio Menna Editor in Chief, Design Gaetano Fisicaro gaetano.fisicaro@yahoo.it Editorial Staff Gaetano Fisicaro Claudio Menna Orazio di Mauro Duration Monthly
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Timeline Photo: Gisella Congia
Photographers
CONTENTS Thinking About a cura di Claudio Leoni
Karim El Maktafi Italy
Gisella Congia Italy
PhotoTalk
Arianna Catania
THINKING About La ricetta della felicita’ fotografica di
Claudio Leoni
Ho avuto modo di ascoltare David Hallan Harvey ad una manifestazione TED Talk che vi consiglio di cercare sul relativo canale youtube, in cui David chiedeva al pubblico se ci fossero dei musicisti ed ovviamente qualche mano si alzava, poi chiedeva se ci fossero dei fotografi e praticamente tutti i presenti si sentivano interessati da questa affermazione, dando luogo ad una successiva grande risata plateale. Mi sembra chiaro cosa sia successo in quell’auditorium, tutto si spiega con il fatto che nella fotografia non c’è filtro, si identifica ai giorni nostri la fotografia con il gesto fotografico, tutti abbiamo in tasca una macchina fotografica integrata negli smartphone e tutti abbiamo l’urgenza di attestare tramite un’immagine che esistiamo, che abbiamo fatto le vacanze, che amiamo la cucina giapponese o che abbiamo avuto un figlio ma non è questo la fotografia. Narrare per immagini è difficile almeno quanto scrivere un libro. Del linguaggio fotografico bisogna conoscere la storia, la grammatica e soprattutto se stessi, più di quanto non si sia curiosi del mondo che ci circondi per poterlo raccontare con una sintassi e dei significati profondi che varchino la superficie del supporto fotografico. Non basta avere una buona idea o dei buoni intenti per produrre un buon racconto, così come non è sufficiente la tecnica soltanto, senza un contenuto valido da rappresentare che sfoci in un lavoro di qualità. In un recente incontro a Cortona, ci si poneva la domanda su quale potesse essere la ricetta per rivitalizzare la fotografia contemporanea e quale indirizzo stesse prendendo il lavoro del fotografo.
Fondamentalmente in Italia ci sono tre problemi da affrontare. La questione culturale per prima, in un paese in cui non c’è un’università che rilasci un percorso di laurea in fotografia come negli Stati Uniti, ci saranno sempre serie difficoltà a far percepire questo linguaggio come un argomento serio e una professione. La questione economica poi, in passato diversi fotografi hanno potuto vivere bene con i proventi del loro lavoro, le agenzie pagavano bene, bastava un minimo di iniziativa, oggi l’evoluzione tecnica del digitale e la facilità con cui si possono produrre immagini, fa si che ci sia un surplus di lavori svenduti o addirittura non pagati, per apparire su qualche rivista online gratuitamente, creando un mercato al ribasso che mortifica la qualità ma questo alle testate soprattutto quelle on line sembra non interessare, l’importante è il conteggio dei click sulle singole foto, necessari a portare guadagno, mentre il fotografo sembra un essere mitologico che non ha necessità di mangiare e quindi di essere pagato. In ultimo i filtri, le riviste online accettano foto da qualsiasi fonte, con qualsiasi qualità, spesso non remunerata e ormai ci stiamo abituando a questo standard cosa che non fa bene alla fotografia, inoltre ormai la moda del crowdfounding consente a chiunque di pubblicare una raccolta fotografica, sensata o meno che sia, un libro invece dovrebbe essere l’epilogo di un percorso personale, che ci dimostri la storia di un autore, il suo impegno e la sua costanza nel perseguire un argomento, il cui frutto sia una sorta di tesi di laurea e non una manifestazione egocentrica di forza. La mia ricetta per tornare ad avere lavori di qualità, consiste quindi nello studio, nella valorizzazione economica del lavoro e nei giusti filtri che consentano ai talentuosi di perseguire con successo le proprie ossessioni, facendo in modo di restituirci così, dei concetti universali sotto forma di immagini che ci possano nuovamente far godere lo spettacolo del linguaggio fotografico.
Karim El Maktafi Italy
www.karimelmaktafi.com
Karim El Maktafi è un fotografo italo/marocchino nato a Desenzano del Garda nel 1992. Nel 2013 si diploma presso l’istituto italiano di fotografia di Milano. Vive e lavora tra la città e il lago di Garda. Il suo percorso formativo lo ha portato a collaborare come assistente con diversi fotografi in ambito commerciale; fotografia di moda, produzioni editoriali. Parallelamente si occupa di reportage e ritratto portando avanti storie e progetti personali. Nel 2015 vince il Premio Voglino Giovane Talento al Frame Foto Festival e il primo posto all’IPA nella sezione Eventi con il progetto “Pobeda”.
Cosa rappresenta per te la fotografia? La fotografia è la mia lingua, il modo migliore in cui riesco a esprimermi. Il linguaggio visivo prende il posto della parola, scattare o anche solo guardare fotografie quotidianamente mi permette di arrivare a fine giornata, senza non riuscirei a dialogare con il mondo esterno. E’ la possibilità che mi sono creato, attraverso passione e sacrifici, per dire la mia e mostrare come vedo il mondo, è quell’energia che mi da soddisfazione giorno dopo giorno, per questo non mi basta mai. Il tuo progetto Italian Holidays ricorda quell’ironia di Martin Parr con una ventata di freschezza, data dalla tua giovane età, parlaci di come è nato questo progetto. Noi tutti abbiamo vissuto almeno una volta una vacanza italiana, una piccola pausa da stress, lavoro, disagio urbano, una breve sosta che a volte sembra solo una boccata d’aria pulita, dove l’unica cosa che conta è stare in riva al mare e prendere un po’ di colore. Italian Holidays è nato in questa situazione estiva alla ricerca di un po’ di pace, osservando la gente evadere dal monotono stress delle giornate lavorative. Scegliendo di fotografare dei turisti alle prese con le vacanze estive, l’associazione con Martin Parr è immediata: ho cercato di realizzare un progetto che fosse meno ironico ma più descrittivo, sul modo di trascorrere le vacanze degli italiani. Invece con il tuo progetto Pobeda ti sei aggiudicato il Premio Voglino Giovane Talento al Frame Foto Festival e il primo posto agli IPA nella sezione Eventi . Cosa rappresenta per te questo progetto? I miei contatti con “l’immensa russia” sono iniziati paradossalmente nel posto che per anni è stato la mia più certa quotidianità: lo studio in cui lavoravo. E in un giorno qualsiasi che mi è stato proposto di intraprendere un viaggio verso una terra che fino ad allora avevo visto tramite stampe, foto e video, il mio capo con onore patriottico mi mostrava la grande parata del 9 maggio in streaming. Forse è perché avevo visto la Russia in così poche occasioni, o forse perché alla fine non l’avevo davvero vista, che ho potuto farmi guidare dall’istinto più primitivo e spontaneo: la curiosità. Prima di diventare progetto, Pobeda è stata curiosità, vento gelido, kilometri di nulla, fuochi d’artificio, spillettte commemorative, bandiere sovietiche, odore di smog, capelli castani, polvere e cappellini verde oliva. Poi è diventato progetto. Poi premi. E ora è traguardo.
Un tuo progetto a cui sei più legato Sono ancora agli inizi e sento di essere legato a tutti i progetti che ho realizzato fin ora, nonostante diversi tra loro, ogni lavoro rappresenta un periodo della mia vita, una continua crescita personale e narrativa. Progetti per il futuro. Nella mia testa in questo momento ci sono parecchie idee che vagano, mi lascerò trascinare dall’istinto per raccontare nuove storie. Sicuramente voglio portare avanti il lavoro sul Marocco che ho appena iniziato. Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro. La fotografia secondo me sta vivendo un bel momento, nonostante siano moltissime le riviste, sia di informazione giornalistica, documentaristica che di immagine moda che con il tempo sono state costrette a chiudere. Abbiamo assistito ad un effervescente nascita di una miriade di nuove riviste, ovviamente online, ma non per questo meno interessanti e importanti e di un enorme quantità di Festival in giro per il mondo, tutto ciò credo che abbia iniziato a dare nuovo slancio alla fotografia in generale e nello specifico alla fotografia documentaristica sociale. Sono convinto che la gente abbia sempre più fame di “storie di vita” e di conseguenza non posso che esserne fiducioso.
Gisella Congia Italy
www.gisellacongia.com
Psicologa dal 2003, nel 2008 riprende la fotografia dopo una lunga pausa e decide di dedicarvisi come strumento per approfondire tematiche di carattere sociale riguardanti il vivere quotidiano, spesso intrisi di tabù sociali e culturali. Abita e lavora a Cagliari, madre di Adalia oramai sua modella e complice di diversi progetti fotografici. Nel 2013 scopre il fascino e la potenza del reportage dedicandosi al quartiere cagliaritano di Sant’Elia. Il tema della maternità e dei risvolti meno poetici di questo passaggio rimane una costante nel lavoro degli ultimi anni. Da anni si occupa di studiare e promuovere l’autoscatto come strategia di conoscenza e esplorazione personale, unendolo alla riappropriazione della consapevolezza dell’atto fotografico, attreverso brevi incontri e workshop. Nel 2013 ha prodotto, insieme alla regista Emanuela Cau, il cortometraggio “La mamma è il posto fisso”, primo premio del concorso “Il Cinema Racconta il Lavoro - 2012” sezione documentario. Nel 2014 ha preso parte al progetto fotografico internazionale Project 192 dedicato alle vittime della strage ferroviaria del 2004 a Madrid. Ama mischiare sociale e fotografia e tutti i progetti a cui si dedica nascono attraverso un confronto con chi è portatore delle esperienze dirette, bagagli preziosi da cui poi nascono le immaginazioni fotografiche.
Quando è nato in te l’interesse per la fotografia?
Il mio interesse per la fotografia è nato quasi 20 anni fa. Ho iniziato ad approcciarmi alla fotografia nell’ambito teatrale e musicale: amavo guardare gli spettacoli o i concerti attraverso il mirino della macchina fotografica, innescava in me un livello di concentrazione altissimo per cercare di captare – quasi anticipare – l’attore o il musicista e coglierlo nei suoi atti scenici più significativi. Conoscenza e studio in camera oscura e la passione all’uso delle diapositive hanno portato alla creazione di un lavoro fatto di sovrapposizioni delle stesse, per creare immagini astratte e oniriche. Ho poi avuto un lungo momento di crisi nel quale ho avuto molte difficoltà a scattare. Volevo affrontare la strada, la gente, la quotidianità che mi circondava ma non avevo ancora la struttura emotiva e empatica per farlo. E così, ritenendomi inadeguata, ho abbandonato per diversi anni la macchina fotografica. Ma si sa… quando qualcosa ci appartiene ritorna e nel 2008 ho sentito la necessità di riniziare, di riprovare, di fare della fotografia il mio strumento per veicolare messaggi e significati. Ho ripreso da dove mi ero fermata: un intenso progetto creato con le sovrapposizioni di immagini in diapositiva per poi pian piano cercare di avvicinarmi alla produzione di immagini più realistiche e immediate.
L’essere psicologa, quanto ha influito sullo sviluppo di un tuo personale linguaggio fotografico?
Rispetto alla piega che ha preso il mio lavoro fotografico credo molto, anche se l’ho scoperto solo nel corso del tempo. Ho scelto di dedicare i miei lavori a tematiche sociali che spesso mi hanno portato a confrontarmi con vissuti difficili. Ho sviluppato molto l’ascolto e la consapevolezza che sapere accogliere con curiosità rispettosa i bagagli narrativi di chi incontravo, era la risorsa principale per dar vita alle suggestioni che si sarebbero poi tradotte nelle mie immagini. Il mio percorso accademico mi ha insegnato ad approcciarmi alle varie tematiche anche attraverso la letteratura, lo studio dei saggi, le altri arti. Insomma uno sguardo a 360 gradi che non può che arricchire il mio, che passa attraverso l’obiettivo
I tuoi principali progetti hanno come punto di vista quello della Donna. In Chiaroscuri nella Maternità, Ritratti di pancia e Me, the imperfect Mother, le donne in questione sono tutte ”mamme”. Quanto ha influito il tuo essere madre nella nascita e nella crescita di questi progetti ? L’universo materno è divenuto per me una rivelazione con l’arrivo di mia figlia. Fino a quel momento non mi ero mai soffermata su come la figura materna venisse descritta nell’immaginario collettivo, dando io stessa per buono che una donna che diventa madre sia mossa esclusivamente da sentimenti di amore e dedizione. Con la costante rimodulazione della mia vita, fin dalla gravidanza e poi con l’arrivo di mia figlia, ho scoperto che l’universo emotivo e psichico di una madre può essere ben più complesso e articolato. Ho trovato profondamente lesivo e ingiusto che in generale si cerchi di far affiorare quasi esclusivamente gli aspetti armoniosi della maternità, celando come tabù quelli più conflittuali, ma altrettanto legittimi e naturali.
E così mi sono appassionata all’idea di farlo, sotto varie sfaccettature, attraverso la fotografia. Chiaroscuri nella maternità è stato il primo lavoro in questa direzione, ho cercato di esplicitare le paure, i turbamenti e i rifiuti che una madre può vivere nell’acquisire il suo nuovo ruolo. Dopo aver conosciuto le paure e averle elaborate profondamente mi sono sentita pronta per giocare con ironia sullo stesso tema, ponendomi senza paure in prima persona. E’ così nato il progetto di autoscatti Me, The Imperfect Mother. Ora mi sto dedicando al progetto Ritratti di pancia un lavoro che vuole dare voce ad un altro tabù dell’esperienza materna, quello della ferita emotiva che molte donne, che hanno avuto un parto cesareo, testimoniano ma che troppo spesso non condividono.
Fotografia e donna. Viviamo in un mondo ormai totalmente globalizzato, ma alcuni contesti restano ancora prepotentemente maschilisti. Come vivono le Donne il mondo della fotografia ? Esattamente non so come vivono le Donne il mondo della fotografia. Posso parlarti della mia esperienza come fotografa e come amante di immagini. Conosco diverse donne che sono riuscite a fare della propria arte fotografica un atto riconoscibile e riconosciuto. Non credo che la questione di genere nella fotografia abbia delle limitazioni in termini di possibilità di riconoscimento e successo. Credo per lo più che all’interno del mondo della fotografia si utilizzi ancora un’immagine femminile molto stereotipata, basata su cliché che la maggior parte delle donne vorrebbero superati e abbandonati. In questo forse cadono per lo più gli uomini, ma anche le donne ogni tanto ci inciampano, volontariamente o meno. In generale penso che, in un momento storico di incontrollata produzione e, conseguente, assuefazione al consumo di immagini, chiunque decida di porsi come fotografo/a, professionista o meno, dovrebbe sforzarsi doppiamente per generare contenuti significativi.
Parlaci di come è nata l’idea del tuo progetto Ma tu di dove sei? dedicato al quartiere Sant’Elia di Cagliari.
Sant’Elia è, nell’immaginario collettivo cagliaritano, il quartiere ghetto, il covo della delinquenza passata e attuale, un luogo incapace di emanciparsi da uno stereotipo oramai cristallizzato. Nato come Borgo di pescatori nel dopoguerra, è divenuto negli anni ‘70/’80 il centro nevralgico della delinquenza e dello spaccio, a causa di un piano di edilizia popolare rivelatosi fallimentare dal punto di vista di riqualificazione sociale. Questo ha decretato la sua nomea a quartiere ghetto, obnubilando nel tempo le sue antiche memorie e la dignità di buona parte dei suoi abitanti. Io sono entrata nel quartiere Sant’Elia per caso. Poterlo conoscere a fondo lo ritengo un privilegio. Nel 2013 ho incontrato le donne dell’associazione Sant’Elia Viva, una piccola associazione culturale che si muove per creare nuove realtà in quartiere. La loro conoscenza è divenuta così intensa e genuina che non sono più riuscita a staccarmi, sono divenute parte del mio mondo affettivo e di conoscenza quotidiana. Con loro ho iniziato a esplorare il quartiere, a cercare di guardare oltre quell’idea di Sant’Elia conosciuta attraverso la cronaca.
Nel quartiere ho incontrato persone, ascoltato storie, condiviso lacrime ma più spesso sorrisi. Perché gli abitanti di Sant’Elia di fronte ai disastri, sociali o personali, non si abbattono, ma lottano. E di ragioni per lottare ce ne sono tante. Troppe per essere concentrate in un unico quartiere. Ma tu di dove sei? è un viaggio fotografico, durato sette mesi, in questo quartiere che mi ha osservato e accettato nel mio curioso, ma rispettoso, girovagare con una macchina fotografica al collo. Ora, a distanza di quasi un anno dal debutto di questo progetto, so che il mio compito di “guardare” dentro il quartiere non è ancora finito. Sono pronta a tornare e continuare a esplorare la ricchezza delle sue storie di vita.
Come scegli di sviluppare l’idea di un progetto? E quale sarà il prossimo .
Come spesso accade a chi affronta la fotografia come noi, ovvero come un bisogno di portare fuori dei contenuti sociali è il tema che sceglie te. Incontri un luogo, delle esperienze, delle persone e senti che una vena inizia a pulsare in te più delle altre. E allora sai che sei di fronte a qualcosa che prima o poi avrai bisogno di sviscerare con la macchina fotografica in mano. E’ qualcosa che smuove delle corde intime, che deve trovare pian piano la via verso l’esterno, verso la condivisione più ampia. Hai la netta sensazione di percepire qualcosa oltre la sua apparenza. In questo momento sono ancora in produzione di Ritratti di pancia che deve assumere una sua completezza e organicità. Sento di aver voglia di esplorare ancora il filone della maternità, sciogliere gli stereotipi che la investono, e mi piacerebbe farlo ancora col senso ironico, approccio a me sconosciuto fino a un anno fa. … ma lascio che le vene pulsino …
Come vedi la fotografia oggi, ed il suo futuro
Io sono nata fotograficamente nell’era dell’analogico. Riconosco grandi meriti al digitale, ma anche alcuni limiti. Fra i tanti tendenzialmente smettere di studiare lo strumento fotografico di cui si è in possesso e con il quale invece credo sia necessario avere un profondo legame e, dall’altro lato, smettere di essere parsimoniosi e coscienti dell’atto fotografico che si sta compiendo. Il futuro degli strumenti fotografici è dinamico e ricco di possibilità, oramai a disposizione di chiunque, ma la ricerca della qualità estetica e/o di contenuto è qualcosa a cui bisogna aver voglia di propendere.
Arianna Catania Photo editor, curatrice indipendente, giornalista e fotografa. Come vivi la fotografia e quale di questi è l’aspetto più preponderante nella tua vita. È una domanda a cui non so dare una risposta netta. Amo la fotografia nella sua interezza e mi piacciono tutte le sue gradazioni: non mi sono fermata ad approfondire un solo aspetto, perché credo che uno completi l’altro e che ogni disciplina è assolutamente intrecciata all’altra. Se dovessi definirmi solo in un modo, mi sento più photo editor. Ma reputo sia fondamentale avere diverse competenze complementari. Per questo a mio avviso è consigliabile che un photo editor sia, o sia stato, anche fotografo. Io attingo moltissimo dalle competenze acquisite nel mio passato da fotografa (non scatto più da un po’ di anni, per questo mi definisco “fotografa in aspettativa”) preziose nel mio lavoro da photo editor e curatrice. Anche scrivere di fotografia mi piace molto: è un modo diverso per comprendere ancor di più i lavori in profondità e coglierne dettagli che ampliano lo sguardo.
Mostra di Dario Coletti a Castelnuovo Fotografia 2015
Sei curatrice del progetto Emerging European Talents, rassegna che ha portato nella Capitale alcuni tra i migliori talenti europei. Come vedi i giovani fotografi italiani rispetto al resto d’Europa. Trovi che ci sono delle differenze? Credo che il nostro Paese abbia alcuni tra i migliori fotografi a livello europeo. Purtroppo però stentano a fare il salto. Per svariate ragioni che esulano da problematiche fotografiche. Alcuni, ad esempio Nicolò De Giorgis o Tommaso Tanini hanno ricevuto importanti riconoscimenti a livello internazionale, come ai Rencontres d’Arles, per i loro splendidi libri self-published. Ma di solito nei vari festival internazionali, gli italiani che espongono sono sempre pochi rispetto a quelli di altri Paesi. Dunque l’attenzione verso la fotografia italiana deve crescere. Questo dipenderà dalle energie che gli stessi fotografi, e i curatori, spenderanno per promuovere i lavori. L’attenzione per gli emergenti deve crescere. Per questo è nato Emerging European Talents l’anno scorso. Quest’anno lo sguardo si è ampliato al mondo, non più all’Europa. Insieme alla collega Sarah Carlet, abbiamo pensato di portare quegli autori emergenti, che non hanno ancora mai esposto in Italia. Proprio perché nel nostro Paese, e a Roma, non si dà molto spazio agli emergenti ma si prediligono i grandi autori. Forse si ha paura di rischiare, o forse il pubblico di non addetti ai lavori stenta ancora a interessarsi alla fotografia di qualità.
Locandina Emerging Talents 2015
Da photo editor quali sono gli aspetti che per te non devono mancare in un buon progetto fotografico. In primis la narrazione e la progettualità. Sono questi gli aspetti che differenziano un buon lavoro da un altro. Le immagini singole difficilmente riescono a raccontare qualcosa; inoltre non c’è bisogno di crearne di nuove, dato che il mondo ne è sommerso. Difficilmente singoli spot resteranno impressi nella memoria. O comunque lo sapremo tra 100 anni. Nella storia della fotografia si ricordano immagini diventate icone, che oggi viaggiano anche da sole e raccontano più di cento scatti. Ma queste sono firmate da grandi autori, che sapevano qual era il loro posto nel mondo e che avevano sicuramente ben chiaro ciò che stavano facendo.
Negli ultimi anni stiamo assistendo al fenomeno ad una sovrapproduzione di immagini dove a volte l’estetica supera il contenuto. Qual è la tua visione a riguardo? Non me ne preoccupo più. Evito di considerarle fotografia. La sovrapproduzione è data dal fatto che tutti hanno una o più fotocamere a portata di mano. Si dovrebbe evitare di chiamare “fotografia” questi momenti. Bisognerebbe chiamarli in un altro modo. Per questo sono molto contenta che sia stata coniata la parola Selfie, che la differenzia nettamente dall’autoritratto, che è ben altro. Selfie è un gioco di protagonismo, lasciamolo fare. Senza alzare barricate a difesa della buona fotografia che, se è realmente buona, non ha bisogno di paladini e si protegge da sola.
Locandina Emerging Talents 2014
Quali consigli ti senti di dare ad un giovane che si avvicina a questo mondo. Studiare, approfondite, leggere. Guardare attentamente e in modo unico, senza seguire mode o tendenze. Trovare il proprio percorso fatto di qualcosa che parta da presupposti forti. Scovare dentro le cose un taglio che dica e comunichi qualcosa in più, anche nella massima semplicità. Produrre immagini che escano dal rumore di fondo e che restino impresse nel tempo. Non fermarsi a un solo buono scatto, perché una singola buona foto non fa un lavoro. Non farsi prendere dall’ansia di pubblicare o di fare mostre a tutti i costi. Come vedi il futuro della fotografia, soprattutto per quanto riguarda la fotografia documentaria e il fotogiornalismo. Il fotogiornalismo deve interrogarsi maggiormente sul proprio ruolo nel mondo. Le immagini oggi sono drammaticamente sempre più usate come “figurine” nei giornali, che a loro volta stanno attraversando una grave crisi di identità. Quindi non basta andare in posti esotici per essere convinti di aver fatto un buon lavoro. Essere presenti nei posti dove avvengono le cose è importante per essere testimoni della storia. Ma bisogna farlo in un certo modo, ricordarsi sempre del rispetto per la vita delle persone. Abbiamo tutti una grande responsabilità, fotografi e photo editor, perché ci occupiamo di immagine. Un’immagine è da sola dentro un rettangolo o un quadrato. Non ha parole che possano smussarne i contorni. Per questo bisogna stare attenti a cosa mettiamo nell’inquadratura. Inaugurazione mostra Emerging Talents 2015
Arianna Catania è photo editor, giornalista e curatrice indipendente. Scrive di fotografia e arte su Huffington Post, dove segnala autori, progetti e mostre. Laureata in Scienze Politiche e diplomata all’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata di Roma, inizia a lavorare come fotografa. Dal 2007 si dedica all’editoria. È stata photo editor del settimanale de l’Unità, Left-avvenimenti e del mensile di Legambiente, La Nuova Ecologia. È photo editor dell’associazione Witness Image e curatrice del progetto Emerging Talents, una rassegna che ha portato nella Capitale alcuni tra i migliori talenti (in collaborazione con LensCulture e Circulation(s), esposto a Officine Fotografiche in occasione di Fotografia, Festival Internazionale di Roma). Collabora con Yet magazine e con altre riviste. È stata nella giuria di PhotoTales (Call for Multimedia Projects) esposto al Macro di Roma e nella giuria del Premio Bastianelli 2015, sezione Self-publishing. È nata nella punta sud della Sicilia. Oggi vive e lavora a Roma. La fotografia è il suo lavoro, il suo tempo libero, la sua passione.
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