MAG'ZINE
Jun 2016 ISSUE #8
Cover Photo: Flaviana Frascogna
Founders Gaetano Fisicaro Claudio Menna Editor in Chief, Design Gaetano Fisicaro gaetano.fisicaro@yahoo.it Editorial Staff Gaetano Fisicaro Claudio Menna Orazio di Mauro Duration Quaterly
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Timeline Photo: Zoe Vincenti
CONTENTS
Thinking About a cura di Giada AlĂš
Photographers Flaviana Frascogna Italy
Zoe Vincenti Italy
PhotoTalk
MariaTeresa Salvati
Festival
Gibellina Photo Road
THINKING About LA FOTOGRAFIA E’ (una) DISCIPLINA di
Giada Alù
Tutti oggi possiamo convenire nel definire la Fotografia lo strumento di comunicazione universale per eccellenza. Tutti noi abbiamo in tasca un telefonino con il quale poter scattare delle immagini e poterle mandare e condividere con chiunque in qualsiasi parte del mondo. Ciò è molto affascinante ma anche molto pericoloso, perché già solo il possesso di uno strumento “che fa click”, che immortala l’attimo, che conserva il ricordo, ci autorizza a definirci “fotografi”. Questo ha portato a una produzione infinita di immagini che per lo più rimangono su supporto digitale, e vanno ad intasare milioni di hard disk e, nota ancora più dolente, andranno in giro per il web nei vari social network aspettando il “mi piace” che gratifica l’ego di ogni fotografo non-fotografo! Inoltre, tutti riusciamo a fare click e tutti, quindi, scattiamo e immagazziniamo immagini, ma non tutti abbiamo studiato Fotografia e soprattutto molti non hanno ancora riflettuto sul fatto che la Fotografia è un linguaggio e come tale deve essere studiato per poterlo utilizzare. E penso non sia azzardata la mia provocazione se dico che la diffusione dello strumento fotografico, inteso sia come macchina fotografica sia come macchina fotografica integrata nello smartphone, tra qualche anno sarà pari alla diffusione della “penna bic”. Ed allora, così come abbiamo imparato a scrivere con una penna, con la macchina fotografica dovremmo imparare a “scrivere con la luce”. La Fotografia è un linguaggio, cioè un insieme di “segni” atto a comunicare, il “segno” è ciò che sta per qualcos’altro, è ciò che (conosciuto) fa conoscere; è il veicolo della comunicazione. Facendo riferimento all’etimologia latina del verbo, comunicare vuol dire “fare comune”, prevede un arricchimento reciproco, non generico, ma in una direzione logica, tra chi “comunica” e chi “riceve” la comunicazione.
Per rendere comprensibile l’azione del “comunicare” con la fotografia possiamo far riferimento allo schema elaborato da Nazareno Taddei, che già nel 1953 fonda il C.I.S.C.S (Centro Internazionale dello Spettacolo e della Comunicazione Sociale) di Roma, per l’educazione ai mass media e l’uso delle nuove tecnologie della comunicazione. Tale schema lega tra loro i quattro elementi essenziali (una realtà, il comunicante, il segno cioè la fotografia realizzata ed il recettore cioè colui che osserva la foto) affinché si realizzi l’atto del comunicare. Il comunicante conosce la realtà ed esprime la sua conoscenza nel Segno; il recettore non conosce direttamente la realtà, ma conosce il segno e, attraverso questo, conosce la conoscenza del comunicante e indirettamente la realtà da questi conosciuta. Soltanto riconoscendo la Fotografia come linguaggio e come strumento di comunicazione universale, possiamo, allora, assurgerla a Disciplina, studiarla così come le altre materie, l’italiano, la matematica, le scienze, etc. Alla luce di ciò ritengo che ormai bisognerebbe inserire nell’ordinamento scolastico la fotografia. Fare ciò significherebbe elevare la Fotografia educando le nuove generazioni già nelle scuole dell’obbligo, insegnando a guardare il mondo e a renderlo “più bello”! So che queste mie affermazioni possono sembrare anacronistiche in un periodo in cui tutte le riforme della scuole varate dai vari governi che si sono succeduti in Italia, sono state finalizzate al taglio della spesa e all’innovazione dell’impianto didattico producendo una omogeneità e un appiattimento dei molteplici percorsi scolastici che hanno prodotto l’annullamento della specificità culturale e didattica proprio dell’indirizzo artistico, ma ritengo necessario fare queste affermazioni perché proprio adesso, proprio in questa società dominata dai mezzi di comunicazione di massa, proprio in questa “iconosfera” così come definita da Giuseppe Di Napoli, docente all’Accademia di Belle Arti di Brera e all’Istituto Europeo del Design di Milano, è importante formare individui che sappiano utilizzare tali mezzi e che abbiano sviluppato una coscienza critica in merito. Quando siamo in viaggio in un paese straniero e guardiamo un cartellone pubblicitario, magari non sapremo tradurre ciò che c’è scritto, ma sicuramente il significato ci risulterà chiaro e diretto.
Sempre più spesso, negli spot pubblicitari vengono inserite tutta una serie di fotografie in sequenza, senza dialoghi, senza voce fuori campo, senza scritte, semplicemente delle immagini montate seguendo determinati criteri per veicolare appunto dei messaggi con lo scopo di sedurre il potenziale consumatore. Soltanto con l’immagine, riusciamo a comprendere il significato di molte pubblicità, soltanto con l’immagine possiamo sedurre, vendere, mentire, comunicare, per l’appunto. Inoltre, proprio in questo periodo si sente tanto parlare di “bellezza”, di trasformare, rigenerare i luoghi attraverso la “bellezza”, portare e generare “bellezza”, ridare dignità alle periferie delle nostre città attraverso la “bellezza”. Ritengo che la Fotografia possa avere anche questo ruolo, così come definita e spiegata in “La Bellezza in fotografia” da Robert Adams. Come fare questo se nessuno ci insegna ad allenare lo sguardo? Se nessuno ci regala la possibilità di guardare da un’altra prospettiva? Se nessuno ci insegna che esiste un altro modo di guardare il mondo, che non solo il nostro occhio può farci vedere in modo differente le cose, ma anche la luce stessa, la luce naturale che illumina il mondo dà pennellate di colore e di vita? E i fotografi devono imparare a “giocare” con queste pennellate in modo da poter riprodurre su di un foglio bidimensionale la realtà tridimensionale. Quindi che vuol dire studiare Fotografia? Oggetto di studio deve essere il processo della visione, le competenze visive vanno acquisite con metodologie specifiche. Il fatto di avere gli occhi non implica di per sé che si sappia utilizzarli nel migliore dei modi! La visione non è affatto un processo passivo né di seconda serie rispetto al pensiero discorsivo e lo studio della visione ci porta a prendere coscienza che l’occhio non vede mai tutto quello che ha davanti, ma vede ciò che è necessario, vede solo quel che gli serve per capire dove si trova e cosa gli sta intorno, compie continuamente completamenti e integrazioni tra ciò che appare e ciò che non si vede. Non esiste una differenza rilevante tra pensare e vedere. Studiare Fotografia vuol dire affidarsi ad un “maestro”, ad un “magister artium”, seguire un percorso di formazione e poi emanciparsi e aggiungere delle innovazioni alla disciplina.
La questione importante rimane però la capacità di avere un apparato critico per discernere tra una buona immagine e un’immagine qualsiasi. In un mondo dominato ormai dall’immagine possedere strumenti critici può fare la differenza. Una differenza basata sul “vedere”, la differenza tra vedere e guardare. Noi tutti vediamo ma “guardare” viene dal francone, “wardon” e cioè “fare la guardia”, tutelare ciò che ci riguarda, ciò che ci interessa perché siamo in grado di riconoscerlo e di trasmetterlo agli altri.
Flaviana Frascogna Italy
www.flavianafrascogna.com
Flaviana Frascogna nasce a Napol inel 1981. Dopo il Liceo Classico si iscrive alla facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II dove si laurea, dopo una ricerca sul campo in America Latina, con una tesi in Etnografia sulle modalità di acceso delle popolazioni native alle tecnologie audiovisuali. Per i successivi tre anni lavora per la cattedra di Antropologia Visuale ed Etnofotografia della Federico II e diventa “Cultore della Materia”. Attualmente insegna fotografia e collabora con diverse agenzie fotogiornalistiche e di comunicazione. Divide il suo tempo tra lavori commerciali su commissione e progetti di sua iniziativa che esplorano temi legati all’isolamento inteso in senso visivo, geografico, culturale, politico e sociale. I suoi lavori sono stati pubblicati da diversi Magazine Italiani e stranieri ed esposti in diverse gallerie e musei nazionali.
Cosa rappresenta per Flaviana la fotografia? La fotografia per me è innanzitutto una licenza per curiosare nella vita delle persone e nei luoghi che attirano la mia attenzione per qualche ragione. E’ un mezzo innanzitutto per me stessa che mi permette di rappresentare quello che io vedo e poi per farlo vedere a qualcun altro. Quello che io vedo è quello che io percepisco, quindi anche quello che io immagino delle cose che fotografo. Allo stesso tempo percepisco la fotografia come documento e spero che nelle mie immagini ci sia sempre questo impianto.
Nel tuo lavoro Route 1 ci racconti di questa Isola e Nazione affascinante e magica per alcuni versi che è l’Islanda. Da dove nasce questo progetto e perchè? Quasi tutti i miei ultimi progetti personali esplorano temi legati all’isolamento inteso in senso visivo, geografico, culturale, politico e sociale. Ho deciso di realizzare un viaggio in auto lungo la Route 1, la principale strada statale islandese che percorre ad anello per 1300 km l’intera isola e che solamente dal 1974 collega tutte le sue regioni. L’Islanda è un’isola di soli 320.000 abitanti ed oltre un terzo degli islandesi vive nella capitale Reykjavik che è il solo centro di grandi dimensioni. Le campagne sono sempre più soggette ad un fenomeno di spopolamento e pochissimi sono i centri al di fuori della capitale che possono essere definiti “città”. La natura in Islanda condiziona i rapporti e gli scambi sociali: il clima non rende tutte le parti dell’isola completamente accessibili per tutto l’anno e i fenomeni vulcanici non di rado sconvolgono gli abitati. Si può definire un luogo molto isolato dove l’assenza di infrastrutture e l’incapacità di molti giovani di adeguarsi alla vita dell’isola hanno lasciato di frequente spazio a contaminazione con la vicina cultura statunitense: dallo stile di vita alla popolarità di alcune serie televisive americane, dalle planimetrie delle città all’enorme diffusione di junk food in tutta l’isola. Per tutte queste ragioni ho pensato di raccontare visivamente questa nazione molto particolare che stimola la mia immaginazione e curiosità.
In Promise Land hai raccontato la vita dei giovani Isralieni, l’altra parte di un conflitto a cui siamo soliti guardare dal lato palestinese, perché questa scelta? Promise Land è un lavoro realizzato tre anni fa e vuole raccontare la vita quotidiana in Israele. Mi sembrava interessante suggerire un punto di vista diverso e rivolgere lo sguardo sulla questione israelo-palestinese mostrando alcuni lati che fanno più fatica ad emergere. Chi vive in Israele sa che il conflitto è sempre imminente, soprattutto i giovani assorbono questo stato di particolare instabilità e reagiscono vivendo in uno stato di perenne presente senza particolari proiezioni nel futuro. Il futuro è tutto quello che riesce a riempire momentaneamente il loro vivere quotidiano. Questa condizione è particolarmente visibile nella costante ricerca di divertimento e occupazione, nella esuberante nightlife di Tel Aviv, nella grande crescita urbanistica, economica, culturale e demografica del paese. Con questo progetto sono finalista al Premio Mediterraneo 2016, rivolto ai fotografi italiani al di sotto dei 40 anni che hanno lavorato o lavorano all’estero ed ai fotografi stranieri al di sotto dei 40 anni che hanno lavorato o lavorano nel Mediterraneo e sarà esposto dal 1 giugno al 25 giugno a Napoli presso la Biblioteca Nazionale e poi a Venezia dal 28 giugno al 25 luglio. Vuoi parlarci di Province, questo progetto collettivo nato con altre due fotografe? Province è una serie fotografica che ho realizzato con due fotografi francesi Eleonora Strano e Laurent Carrè, sulla nuova rappresentazione della provincia nella fotografia contemporanea. Il motivo che ci ha spinto a lavorare su questo tema è la difficoltà con cui oggi possiamo circoscrivere la provincia. La logica binaria secondo cui distinguiamo la città dalla provincia è superata dal neo-nomadismo dell’era globale, dal processo di globalizzazione e dai cambiamenti spazio–temporali legati alla contemporaneità in cui viviamo. Tutti fenomeni che favoriscono nuovi assetti urbani fatti di metissage, contaminazioni, ibridazioni, dove si creano nuovi rapporti tra centro e periferia, tra centralità e marginalità. Abbiamo prodotto il lavoro grazie a delle residenze artistiche nazionali ed internazionali ed abbiamo voluto proporre un’idea di provincia fatta di rappresentazioni e di visioni mediate dalle figure umane e dai paesaggi presenti nella fotografia. I soggetti sono quelli di tutti i giorni, ordinari, di familiarità immediata che cerchiamo di isolare dal contesto abituale e riproporre fotograficamente in una diversa narrazione che li carica di un significato nuovo. Il lavoro è stato pubblicato lo scorso maggio sul Courrier International ed il Magazine Artwort e speriamo che possa avere in futuro ulteriori riconoscimenti.
Tanti progetti in giro per il mondo, ma anche un interesse verso questioni locali, per così dire a chilometri zero, con Under The Vulcano ti sei occupata della tua città e del rapporto con i suoi abitanti con il Vesuvio. Da dove nasce questo progetto e cosa prospetti per il futuro? Ho voluto iniziare questa ricerca fotografica sul Vesuvio non solo considerandolo un vulcano, una montagna e quindi un elemento della natura, ma anche come un oggetto culturale, un’espressione dell’immaginario collettivo che trova riconoscimento in larga parte del pianeta. Under the Volcano è un lavoro a lungo termine che porto avanti da due anni. Racconta la vita ai piedi del vulcano in quella che viene chiamata Zona Rossa, un’area composta da 25 comuni che in caso di eruzione del vulcano rischia di essere compromessa da sismi ed invasa da flussi piroclastici, lava e colate di fango. Si tratta di un territorio ad alta pericolosità, abitato da 700 mila persone fino a settecento metri di altura. Mi interessa conoscere come gli abitanti “sentissero” il vulcano e come la sua presenza entrasse dentro le loro vite a tal punto da riuscire ad addomesticare il pericolo del rischio. Cerco di approfondire il complesso rapporto tra l’essere umano e la natura che lo circonda ricercando le qualità del luogo nell’immaginario e nei racconti che vi ruotano attorno, concentrando la mia attenzione sulla relazione con lo spazio abitato, che sia esso immaginato o reale e osservando come le persone sono disconnesse dai luoghi in cui vivono ma dai quali allo stesso tempo sono estremamente condizionate. Il mio progetto futuro è di lavorare per la pubblicazione di un libro sull’argomento. Come vedi la fotografia oggi e il sui futuro Oggi tutti abbiamo la possibilità di scattare fotografie molto più di ieri e questo rappresenta un aspetto senza dubbio positivo. Quando qualcosa è fruibile da molti è sempre un aspetto importante anche se aumenta il rischio della massificazione che comporta quasi sempre una banalizzazione. La questione sta quindi nella maniera in cui le persone si avvicinano alla fotografia. Oggi dunque tutti hanno a disposizione un meccanismo capace di produrre fotografie ma questo significa solamente che sempre più persone vengono a contatto con le fotografie ma non con la fotografia, ossia con l’intero mondo che l’utilizzo di questo termine ci fa immaginare. Diventare consapevoli di ciò che si fa, studiare la tecnica, possedere quindi una “cultura fotografica” costa fatica e forse non tutti possiedono la pazienza ed anche le capacità per svilupparla. Ma i bravi fotografi esistono sempre e sono questi che, oggi così come in passato e spero in futuro, contribuiranno ad arricchire l’arte fotografica contemporanea sperimentando anche le più diverse commistioni tra i mezzi che il digitale ci offre.
Zoe Vincenti Italy
www.zoevincenti.photoshelter.com
Zoe Vincenti è una fotografa e videografa con base a Milano. Il suo lavoro si concentra su temi come: identità e genere, diritti umani e contraddizioni della società contemporanea. Laureata in Belle Arti in Italia , ha lavorato soprattutto su progetti personali ed editoriali. Dopo 7 anni nel mondo della musica, scopre la fotografia documentaria e inizia a viaggiare attraverso il Sud America, India, Europa, Nord Africa lavorando come freelance per riviste nazionali e internazionali, aziende e ONG. Le sue immagini sono state pubblicate in riviste come: National Geographic Traveller USA/ Cina/ India, D-la Repubblica, The Oprah Magazine, Wirtshafts Woche, Cosmopolitan, Elle, Wired, Touring, Rolling Stone, Internazionale, Sportweek, VITA. E’ appena entrata a far parte dell’agenzia fotografica LUZ/about stories.
Cosa rappresenta per Zoe la fotografia? La fotografia è sempre stata un mezzo per rendere visibile il flusso dei miei pensieri mescolandoli alle storie del mondo. Fin da quando sono bambina ho sempre enfatizzato l’aspetto evocativo delle immagini come racconto completo, che coinvolge tutti i sensi. L’esigenza di comunicare con questo mezzo nasce intorno ai 19 anni, ed è iniziato tutto come bisogno di tirare fuori i miei racconti interiori. Dopo un cambio di rotta di 8 anni nella musica, torna il bisogno di esprimermi con la fotografia, questa volta rivolgendo lo sguardo verso le vite altrui e verso il bisogno di denunciare realtà in cui sono stati calpestati diritti fondamentali. Quindi la passione per il fotogiornalismo, a modo mio, senza seguire regole formali imposte. Questo perchè a me, le regole e le categorie predefinite, sono sempre state strette. Ti sei occupata di immigrazione con due diversi progetti, Exodus,The Balcan Route e Transmigrantes, il primo riguarda il nostro continente il secondo l’America. Da dove arriva l’interesse verso la questione e perchè? Sono attratta dal concetto di confine, di soglia, di limite e la questione delle “Migrazioni” è diventata uno dei principali fenomeni che racconta il cambiamento culturale e fisico nella società contemporanea. Dal dopoguerra ad oggi non è mai stato così veloce e imponente, si può considerare come uno stato in movimento: circa 60 milioni di persone che si spostano dal loro luogo d’origine verso altri luoghi, tra rifugiati, richiedenti asilo, apolidi, migranti per lavoro, migranti ecologici...etc.. Ciò che mi porta verso questi temi è in parte l’attenzione verso i diritti umani violati e l’esigenza di raccontare chi non ha una quotidianità così fortunata come la nostra e il desiderio di testimoniare un cambiamento storico, sociale che sta già demolendo le nostre coscienze. Nessuno è e sarà immune al cambiamento, perchè la questione “migrazioni” che qualche anno fà sembrava un lontano affare che riguardava altri mondi, adesso è qui a casa nostra. Il primo lavoro Transmigrantes, racconta una tappa del passaggio di un gruppo di migranti dal Centro America attraverso il Messico e verso gli Stati Uniti. Mi trovavo in Messico e decisi insieme ad una giornalista di mostrare e di raccontare una delle storie che più ha caratterizzato quei luoghi per decenni, fino ad arrivare ad ora, dove pare che la tendenza si sia invertita. Exodus, The Balcan Route racconta del settembre 2015 in cui un enorme massa di profughi provenienti da paesi in guerra e sotto regime, dal Medio Oriente si spostarono a piedi per raggiungere l’ Europa. Qui ammetto che il sentimento di urgenza e la voglia di fare qualcosa per sensibilizzare l’opinione pubblica, mi fece muovere d’impeto per andare a raccontare questo avvenimento.
In Slaves on Border hai documentato la prostituzione, sempre comunque legata alla questione immigrazione, cosa ti ha spinto a realizzare questo lavoro? Pensi che sia stato più semplice entrare in questo ambiente essendo donna? Questo progetto nasce dalla volontà di raccontare la gabbia della povertà e della mercificazione del corpo femminile, la negazione della libertà e del diritto alla felicità. Insieme alla giornalista Sara Milanese, abbiamo passato alcune settimane lungo i bordelli sulla frontiera tra Chapas e Guatemala, ed è stato un percorso molto difficile sia dal punto di vista della pericolosità che da quello dell’intensità della storia. Siamo riuscite ad entrare in confidenza con queste ragazze, forse perchè donne e con noi sentivano che non sarebbero state maltrattate o usate. Ci hanno raccontato insieme alle loro storie, cose terribili che hanno subito in questi anni. Ne siamo uscite con un senso di fortissima frustrazione e con l’angoscia di aver constatato che (sebbene io ami profondamente questo paese), in Messico la vita sembra valere molto poco e se sei povero sei condannato ad essere sopraffatto. Con Burlesque Voodoo, hai svestito per un attimo i panni di fotografa impegnata, lasciando che la leggerezza prendesse il sopravvento, cosa ti interessava di questo mondo e perche? Beh, in realtà questo lavoro è il mio primo progetto d’immersione nella realtà altrui e di reportage e racconta molto anche di me. L’ho portato avanti tra il 2009 e il 2010 frequentando assiduamente le serate e gli eventi che raccoglievano la tribù dei Neo Retrò a Milano. Amo raccontare la vita delle persone, le sottoculture, i movimenti, i cambiamenti sociali e di costume. Raccontare questa tendenza che si faceva strada in questi anni è stato come affrontare diversi temi tutti assieme: la rivisitazione del concetto di femminile, la nostalgia del passato, le mode, il gioco e i riti collettivi. Lo considero uno dei miei progetti più riusciti, perchè ricordo che il coinvolgimento fu totale, quasi potrei dire di aver raggiunto la dimensione tanto agognata dai fotografi: quella dell’invisibilità!
Ritornando alla fotografa impegnata, il tuo progetto che ti vede attualmente impegnata in Marocco Invisible Mothers ci porta in un mondo che sembra molto lontano, ma che è una realtà molto diffusa purtroppo, e torna nuovamente protagonista la donna nel tuo lavoro, cosa dobbiamo aspettarci da questo progetto? Credi ancora che la fotografia abbia il ruolo di smuovere le coscienze? Questo progetto (in corso) nasce da due viaggi fatti in Marocco e dal desiderio di conoscere meglio questo paese e la sua cultura. Durante il primo viaggio ho cercato di mantenere uno sguardo libero e di guardare al paese come un viaggiatore lo osserva dai finestrini di un treno. Mi serviva spazio mentale per avvicinarmi ad una cultura che non conoscevo. Durante questo primo viaggio ho avuto modo di osservare la vita anche all’interno delle famiglie e dal punto di vista delle nuove generazioni: mi sono subito accorta della fatica, spesso mai compresa, che fanno le giovani donne a sopravvivere secondo le vecchie regole! Dalle confessioni fatte da alcune giovani ragazze già sposate a 20 anni e che avevano dovuto abbandonare tutti i loro sogni per fare le mogli è nata la spinta a fare ricerche su quale fosse la reale condizione della donna in questo paese. Qualche mese prima della partenza per il secondo viaggio ho iniziato a fare ricerche sulla situazione delle Madri single, che mi aveva colpito per la forte discriminazione subita da parte delle famiglie, della società e dello stato. Da qui ho capito che in Marocco questo è un fenomeno in preoccupante aumento, ma a causa delle consuetudini sociali e religiose, questa situazione resta ancora un tabù. La fotografia può avere un grande potere comunicativo, perché crea un immediata connessione emotiva con lo spettatore, al contrario delle parole che hanno bisogno di più tempo per colpire il segno. Certamente non risolvono tutti i problemi sociali, ma se ben veicolate possono servire a sensibilizzare le persone su un determinato problema e incitarle a fare di più per cambiare le cose. Credo fermamente nel potere curativo ed educativo delle immagini specialmente se legate ad una fruizione ampia e popolare. Per questo progetto ancora in corso, infatti, ho previsto una doppia versione del racconto per immagini che sarà un mix tra campagna sociale e street art, ma non voglio anticipare nulla.. Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro? La fotografia è palesemente in enorme espansione, siamo nell’era dell’immagine… tra un pò sostituiremo le immagini alle parole… anzi sta già accadendo (vedi il linguaggio emoticons e le Gif!). Stanno cambiando i supporti e le modalità del fare fotografia, ma a parte lo shock iniziale, penso che ogni crisi, nasca da un cambiamento sociale e quindi non si può far altro che cavalcarla e vedere dove ci porterà. Credo che la cosa migliore che si possa fare è continuare ad indagare il presente, con onestà, cuore e curiosità.
Maria Teresa Salvati Cosa rappresenta la fotogafia per Maria Teresa? Quello che mi ha inizialmente avvicinato alla fotografia è stata la sua capacità di raccontare storie, di documentare la realtà da ogni angolo del mondo. Ero interessata a storie meno conosciute, ad angoli del mondo meno battuti, a comunità inesplorate. Per anni la fotografia per me è stato un modo di viaggiare in questi luoghi, attraverso gli occhi dei fotografi. Slideluck, per la sua componente internazionale mi permetteva proprio di fare questo. Col tempo, gli studi, la vicinanza ad editori, fotografi, curatori, ma anche attraverso una consapevolezza personale più orientata verso la parte che va oltre l’immagine, la fotografia ha acquisito un duplice ruolo, e a quello documentario, si è aggiunto, o meglio si è affiancato, quello più autoriale e intimo. Un linguaggio visivo che diventa un racconto personale, a volte attraverso la realtà, altre volte con l’artificio della finzione, o di un mondo immaginario, o di una interpretazione creativa del mondo che ci circonda. Parlaci di Slideluck e del ruolo che ricopri a livello Europa? Slideluck è una piattaforma che ha come missione quella di connettere una comunità attraverso il cibo e la fotografia. Iniziata nel 2000 a Seattle, dal fotografo Casey Kelbaugh, ad oggi conta oltre 100 città in tutto il mondo, attraversando tutti i continenti. Il mio ruolo, partito come direttrice di Slideluck London si è poi esteso a livello europeo, per aiutare i direttori locali che vogliono portare il format nella propria città. Negli anni ho curato e lo faccio ancora, slideshow di progetti multimediali in vari festival europei, e spesso sono coinvolta nella selezione dei lavori da proiettare, a volte andando a selezionare lavori dall’archivio globale di Slideluck, che ha migliaia di progetti. Quello che mi sta davvero a cuore è che Slideluck venga vista come una vetrina, un trampolino di lancio per tanti fotografi che non hanno la forza (per via di conoscenze, di budget, di canali), per arrivare a farsi conoscere dal grande pubblico.
Per me ogni show è un lancio di nuove storie e talenti che hanno qualcosa di interessante da raccontare. Infatti, sono molto orgogliosa del ruolo di Slideluck come apri-pista, per fotografi come Fan Shi San (Cina), Alvaro Laiz (Spagna) ed altri. Nel 2014 ho curato e prodotto un libro speciale insieme a Louise Clements e Federica Chiocchetti. Si tratta di Hungry Still, un foto-libro che unisce ricette e fotografia, in un modo da creare un’esperienza multisensoriale. I 24 autori selezionati per la retrospettiva di Slideluck London, nata nel 2007, sono stati invitati a rivedere le loro foto-storie, e fornire una ricetta che si intrecciasse con i loro progetti fotografici, e ad accompagnarla da un anedotto personale, in una sorta di contaminazione di linguaggi Nel 2015 abbiamo anche lanciato Slideluck Editorial, una piattaforma che si pone come obiettivo quello di mostrare l’ampio raggio di progetti che presentiamo in tutto il mondo, che si distinguono dal punto di vista tecnico (quindi multimediale) e/o fotografico. Sei contributor per GUP Magazine, parlaci di questa esperienza? Abbiamo cominciato a collaborare anni fa con Slideluck London, ma ora c’è una sorta di accordo per cui quando ci sono delle call in corso nelle varie città, identifico dei progetti in linea con il magazine e li sottopongo all’attenzione del capo redattore, sia per portfolio online che per interviste. Sono molto affezionata a questa collaborazione per due motivi: sia perché è un ottimo canale per dare visibilità a fotografi che meritano una vetrina come GUP Magazine, sia perché ho totale autonomia editoriale. Ho la possibilità di intervistare fotografi conosciuti e non, e di andare a sviscerare informazioni circa la loro pratica professionale o i loro progetti. Negli anni ho avuto l’onore di intervistare fotografi come Phillip Toledano, Anastasia Taylor-lind, Cristina De Middel; o di dare una vetrina a fotografi allora sconosciuti come Alvaro Laiz.
Cosa deve avere un progetto fotografico per interessarti e cosa invece non deve avere? Non penso si possa parlare di una cosa in particolare. Intanto sono abituata a guardare serie di immagini, progetti coesi, anziché singole fotografie. In generale, non mi piacciono le post-produzioni aggressive e invasive e mi affascinano progetti sostanziati da idee originali e punti di vista nuovi. Forse posso dire di non essere (ma per un limite mio) interessata alla fotografia commerciale, di moda o strettamente paesaggistica. Per mia inclinazione personale, comprendo e sono più legata alla fotografia con una forte componente personale, umana, creativa e intima. Un consiglio ad un giovane che intraprende la strada della fotografia. Sembrerebbe scontato, ma studiare. Studiare non solo la fotografia contemporanea, la storia e la tecnica, ma anche altro. Ritengo che si possa diventare un fotografo interessante, qualora si abbia qualcosa da raccontare che vada ben oltre la tecnica. Ecco se posso dire cosa non mi interessa è la “fotografia tecnicamente perfetta” (anche se è fondamentale conoscere le regole di tale linguaggio). Molto importante è lavorare sulla conoscenza e consapevolezza di sè, il chè porta a sviluppare una propria personale e intima visione del mondo, che a sua volta distingue da tutti gli altri e diventa una cifra stilistica distinta e riconoscibile. Da un anno insegno un corso di Personal Branding per fotografi presso la scuola di fotografia F.project a Bari; e in questo corso lavoro con i ragazzi per andare a ricercare questa cosa unica che chiamo ‘neo di bellezza’. Ce l’abbiamo tutti, ma non sempre ne siamo consapevoli. E questo viene fuori attraverso la pratica, lo studio, la curiosità, la passione per determinati ambiti di interesse, la propria storia.
Qual è la tua visione della fotografia oggi e come pensi che si evolverà in futuro. Io penso che siamo in un periodo che potremmo definire d’oro, per la fotografia. Tantissimi lavori, tante produzioni, il boom dell’editoria indipendente, tantissimi giovani che si affacciano al mondo della fotografia. Insomma, è più viva che mai. Si dice che sia stato fatto già tutto e, benché sia forse vero dal punto di vista tecnico (tanto che si parla quasi sempre di imitazione di cose già fatte), io penso che per la fotografia autoriale e personale non ci potrà mai essere una ‘crisi’. Nell’accezione della fotografia intesa come interpretazione personale della realtà, la cosa più importante è lo sviluppo di un’estetica dell’immagine, che rappresenta il legame tra lo sguardo del presente e la cultura visiva passata e storica che ognuno ha. A questo riguardo, sarebbe bello vedere sempre maggiori sperimentazioni estetiche, ma in tal senso ci sarà sempre qualcosa di nuovo da guardare.
Editor-in-Chief a Slideluck Editorial (www.slideluckeditorial.com). La nostra missione è quella di dare spazio a fotografi che sperimentare con questo nuovo linguaggio visivo, fornendo un ambiente di ispirazione comune in cui imparare. Direttore di Slideluck London dal 2007 e nominata Direttore di Slideluck European nel 2012. Maria Teresa ha lavorato come curatore anche in collaborazione con le più importanti personalità del mondo fotografico, producendo multimedia slide mostrati a Londra e in Europa. Alcuni tra i più importanti: Format International Photography Festival (Derby), Entre Margens (Portugal), PhotoIreland Festival (Dublin), Warsaw Photo Days (Warsaw), Encontros Da Imagem (Portugal), Bitume Photofest (Lecce), Documentaria (Bari), Planar (Bari). Contributor per GUP Magazine tramite la pubblicazione di interviste e dei portfololio degli artisti selezionati agli eventi Slideluck Europe, per approfondire la conoscenza dei progetti e dell’artista. Personal Branding Consultant. Per molti hanni ha lavorato come creative strategist e planner in alcune agenzie pubblicitareie tra Londra, Milano e Bari con la specializzazione in Social Media.
Festival Gibellina PhotoRoad Festival Internazionale di Fotografia Open Air I Edizione www.gibellinaphotoroad.it La città di Gibellina si prepara ad ospitare nelle sue strade e piazze la I edizione di Gibellina PhotoRoad - Festival Internazionale di Fotografia Open Air dal 29 luglio al 31 agosto. In programma 30 mostre di autori affermati nel panorama artistico internazionale e di fotografi emergenti accompagnate, nelle giornate inaugurali, da talk, workshop, incontri, proiezioni e letture portfolio. Durante le giornate di apertura, inoltre, sarà possibile assistere agli spettacoli in programma per la XXXV edizione delle Orestiadi, il festival di teatro contemporaneo che la Fondazione Orestiadi promuove dal 1981. Il Festival, ideato e diretto da Arianna Catania, è organizzato dalla Galleria X3 di Palermo e dalla Fondazione Orestiadi di Gibellina. L’intera città di Gibellina, ricostruita dopo il terremoto del 1968, è oggi un museo di arte contemporanea “a cielo aperto” con opere architettoniche e sculture dei più noti artisti del ‘900 come Alberto Burri, Arnaldo Pomodoro, Pietro Consagra e Renato Guttuso. La prima edizione del Festival esplora il Disordine: parola chiave del nostro tempo, puntellato da cataclismi, turbamenti e sperimentazioni, non è caos né anarchia. È invece un movimento continuo, non lineare, che si oppone all’ordine statico, producendo connessioni inedite in cui fioriscono arti, avanguardie, rivoluzioni. Proprio Gibellina - città insolita e unica, nata dal caos di un terremoto - si interroga sul “disordine”. E lo fa in uno “spazio aperto”, nello spazio pubblico, privo di ogni tipo di inquinamento visivo e luminoso, tra le sue strade piene di arte e di bellezza. È così quindi che ogni lavoro è presentato con un allestimento site-specific che nel dialogo con le architetture e il tessuto urbano espande il significato e gli intenti dei progetti stessi. Le mostre in programma accompagneranno i visitatori in un viaggio tra le grandi questioni che disegnano la nostra storia e tra i meccanismi caotici della creatività contemporanea. Tra gli autori in mostra: collettiva con Olivo Barbieri, Letizia Battaglia, Enzo Brai, Giovanni Chiaramonte, Vittorugo Contino, Guido Guidi, Arno Hammacher, Andrea Jemolo, Mimmo Jodice, Melo Minnella, Sandro Scalia, Silvio Wolf; Valerie Jouve; Alice Grassi; Petros Efstathiadis; Giulio Piscitelli; Daesung Lee; Issa Touma; Andrea&Magda; Massimo Mastrorillo; Sarker Protick; Alessandro Calabrese; Emma Wieslander; Turiana Ferrara; Ezio Ferreri; Dario Coletti; Rori Palazzo; Anouk Kruithof; Maria Vittoria Trovato. In più Letture Portfolio, Workshop e tante altre iniziative. Quindi non resta che prenotare il biglietto!!!
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