MAG'ZINE ISSUE #4

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MAG'ZINE


Oct 2015 ISSUE #4



Timeline Photo: Luciana Latte

Photographers

CONTENTS Thinking About a cura di Orazio Di Mauro

Filippo Venturi Italy

Luciana Latte Italy

PhotoTalk

Irene Alison


THINKING About Formazione Fotografica di

Orazio Di Mauro

Durante una conversazione tra amici e colleghi si discuteva su alcuni corsi, master e scuole di fotografia che vale la pena frequentare per migliorarsi e crescere nel settore. La sera, tornato a casa, mi sono reso conto che la questione del frequentarli era molto più complessa e difficile di quanto pensassi. Ad un certo punto mi è venuto in mente il grande Andrej Tarkovskij e quello che disse riguardo le scuole e la professione. Andrej Tarkovskij è un grande regista e fotografo, le cui parole, essendo dure e a loro modo rivoluzionarie, sono purtroppo passate quasi inosservate; tali affermazioni riguardanti proprio il problema della formazione didattica nel settore fotografico e artistico, mi hanno colpito direttamente in quanto professionista legato a questo settore. Nel suo libro “Scolpire il tempo”, l’artista scrive: “La mia esperienza dimostra l’impossibilità di insegnare a essere regista per mezzo di un istituto di istruzione superiore. “ Dopo qualche riga, ecco un altro passaggio importante: “...qui si pone un problema etico, dato che l’ottanta per cento degli allievi che studiano per diventare registi, (ed io aggiungo che vale anche per i fotografi), va poi a ingrossare le file delle persone professionalmente inette, che gravitano tutta la vita nell’orbita del cinema e alle quali, nella schiacciante maggioranza dei casi, manca la forza di abbandonare il cinema, (e la fotografia) e di abbracciare un’altra professione.” Ho riflettuto molto sulle durissime parole di Tarkovskij, e mi trovo pienamente d’accordo con ciò che lui afferma.


Il problema riguarda proprio la natura e le finalità di questo tipo di scuole. Spero che tutti gli insegnanti di fotografia siano coscienti dell’importanza che c’è nell’interpretare il loro ruolo con la dovuta professionalità ed etica; formare degli allievi, è una questione di serietà professionale e di coscienza soggettiva. Concludo con un’altra domanda: A cosa serve una scuola di fotografia? Personalmente non credo che lo scopo sia quello di “creare” professionisti, quanto piuttosto di contribuire alla formazione e crescita culturale degli allievi.

La realtà dei fatti, e di questo ne è conferma la storia della fotografia, è che per fare questo mestiere ci vuole passione, desiderio di conoscenza, determinazione, talento, capacità, intuito, coraggio e follia. Quindi il compito di una scuola di fotografia e arti visive potrebbe essere quello di riuscire a stimolare il desiderio di conoscenza, la passione e la professionalità degli alunni valorizzando ogni potenziale talento.



Filippo Venturi Italy

www.filippoventuri.it

Filippo Venturi (Cesena, 1980) è un fotografo e videomaker. Vive e lavora principalmente in Italia. Ăˆ specializzato in lavori commerciali, documentari, reportage e ritratto. I suoi lavori sono stati pubblicati su The Washington Post, Internazionale, Io Donna/Corriere della Sera, La Repubblica, Marie Claire Italia, Marie Claire Indonesia, Marie Claire Korea e altri magazine e quotidiani. Collabora con diverse agenzie, in Italia e soprattutto all’estero, per progetti pubblicitari e commerciali. Ha ricevuto diversi riconoscimenti e premi, fra i quali il Fine Art Photography Awards (London) e il PX3 Prix de la Photographie (Paris).



Cosa rappresenta per te la fotografia? La fotografia è uno splendido linguaggio in cui mi sono imbattuto fortuitamente nel 2007. Nel 2008 scelsi di fare tutto il possibile, studiando, osservando e praticando, per comprendere meglio il mondo vasto e ignoto che si era aperto davanti a me e che fino a quel momento coglievo soltanto nel suo aspetto più banale e luccicante. Grazie anche ai maestri con cui mi sono rapportato, ho cercato di perfezionare la mia conoscenza del linguaggio e di imparare a narrare con un mio stile i temi e le storie che mi interessano; la semplice conoscenza del linguaggio non è sufficiente. Si può conoscere perfettamente l’italiano, ma non essere un bravo poeta o romanziere. Vedo molte assonanze fra lo scrivere e il realizzare un lavoro fotografico, fra il leggere e l’osservare. Fra i vari linguaggi e le varie arti, è uno dei più semplici da praticare e, anche per questo, uno dei più complessi da maneggiare con sapienza. È anche uno dei più potenti, perché alcune fotografie sanno rimanere impresse nella nostra mente e condizionarci nella percezione del mondo e di ciò che vedremo successivamente. Rimanendo nel paragone letterario, la stessa potenza si verifica meno frequentemente nella letteratura, a tal proposito mi viene in mente il bel racconto Amnesia in litteris, di Patrick Süskind, dove il protagonista si trova a leggere con entusiasmo un bel libro, fino al punto di sottolinearne delle parti, per poi accorgersi con disperazione che ci sono già delle sottolineature, le stesse che aveva fatto in un passato dimenticato, in cui si era già promesso di fissare nella mente quelle splendide parole. Il tuo progetto Made in Korea ha ottenuto vari riconoscimenti, parlaci di come è nato questo progetto Nel 2014 ho realizzato a Forlì, dove vivo, il progetto L’Ira Funesta. Terminato questo lavoro ho sentito il bisogno di allontanarmi da casa per avvicinarmi a una cultura e società completamente diversa dalla mia. Era un modo per mettermi nuovamente alla prova e cercare di realizzare un lavoro più maturo rispetto ai precedenti e, al tempo stesso, arricchirmi personalmente. La scelta della Corea del Sud risale circa a 1 anno prima della partenza effettiva. L’Estremo Oriente mi ha sempre affascinato e incuriosito per le sue peculiarità a volte così distanti dal mondo occidentale. Questo paese in particolare, poi, estremizza alcuni fenomeni e problematiche comuni a paesi come Giappone, Cina e altri. Il lavoro si è concluso a giugno 2015. Da allora mi sta dando parecchie soddisfazioni, sta ricevendo consensi e riconoscimenti, tra cui il primo premio al Portfolio dello Strega di Sassoferrato che fa parte del Portfolio Italia e il premio Crediamo ai tuoi occhi del Centro Italiano Fotografia d’Autore.


C’è una foto del progetto Nero Orgoglio che ci ha colpito e arriva come un pugno allo stomaco, ed è quella della madre con i suoi figli, di cui uno fa il saluto fascista. Hai intuito fin da subito che era la foto simbolo di quell’evento? Era la prima volta che andavo a un raduno di nostalgici fascisti, per la precisione si teneva a Predappio, per la commemorazione dei 70 anni dalla morte di Benito Mussolini. Fin da subito mi ero focalizzato sui ritratti ai partecipanti. Dopo un po’ mi sono accorto che c’erano anche diverse famiglie con bambini appresso (i nostalgici di domani), per l’occasione vestiti di nero e con addosso simboli fascisti, a cui veniva chiesto di esibirsi in saluti e gesti tipici. A quel punto la mia attenzione è andata unicamente a quell’aspetto, ho realizzato diverse fotografie, fino a quella in questione. Ancora prima di scattarla ho intuito che sarebbe potuta essere quella che avrebbe colpito e fatto riflettere di più l’osservatore. Trovo interessante quella fotografia per vari motivi ma il più forte è nei 3 sguardi, che svelano ognuno la realtà dietro la recita. Un tuo progetto a cui sei più legato Sono molto legato a In Oblivion, fatto a New York nel 2012. È il mio primo progetto e rappresenta il momento in cui penso di aver superato un grosso esame personale su ciò che sarei potuto essere in fotografia e non solo. In quei giorni ho raggiunto un grado di risolutezza che non pensavo di avere e che poi ho replicato negli altri progetti, fotografici e non. Convivevo mentalmente con alcuni seri problemi familiari, con la diffidenza che percepivo in alcune persone, per le quali la fotografia era solo un gioco, mentre per altre era un lavoro troppo grande per me. È una delle esperienze più utili che mi sia capitata, per conoscermi e per migliorarmi.



Progetti per il futuro. Ne ho diversi in mente, sia in campo fotografico che video, ma quello che oggi mi ossessiona di più riguarda la Corea del Nord, che andrebbe a ultimare il mio lavoro “Made in Korea”. L’asticella è più alta, le condizioni per lavorare sono difficili se non proibitive, già solo entrare nel paese non è semplice… ma nonostante questo spero di riuscire a realizzarlo. Come vedi la fotografia oggi e il suo futuro. La fotografia è morta! Direbbe qualcuno. E non sarebbe la prima volta. Io invece sono convinto che sia viva e vegeta e in continua evoluzione. Il digitale non ha ancora terminato la propria rivoluzione, nemmeno possiamo immaginare dove ci porterà. Il digitale assottiglierà sempre di più la differenza fra illustratori, game designer, fotografi, videomaker e così via. A quel punto, sarà sempre più importante per il fotogiornalismo essere fedele a certi principi per mantenersi legato alla realtà, mentre molta fotografia assomiglierà alla fiction (filtri, automatismi, rendering, ecc. saranno sempre più a portata di mano e invasivi). Già ora la fotografia di massa, con gli smartphone, si sta allontanando dalla realtà.




Luciana Latte Italy

www.lucianalatte.com

Tre regole mi caratterizzano: Regola numero uno: siate innamorati, lavoro e passione sono sinonimi. Regola numero due: siate curiosi; ho un’ estrema continua necessità di scattare per strada, la gente, i vicoli, le strade, le storie la quotidianità, la vita. Vivo a Napoli dove sono nata nel 1970. Ma spesso e volentieri avverto il direttore quando già sono in aeroporto pronta a partire per la prossima missione fotografica. Ultime avventure, gennaio 2013, Thailandia, febbraio 2013 Benin. Quando sono ancorata alla città, invece, non dimentico le sperimentazioni espressive del linguaggio fotografico, partecipo a mostre ed esposizioni. Regola numero tre: siate creativi. Tre regole ed una sfida: continuare a scattare sempre.



Cosa rappresenta per te la fotografia?

Come ho più volte detto, ho sempre fotografato. In maniera del tutto elementare e cercando, forse, di copiare sempre ed ancora mio padre, in una delle sue tante qualità. Poi da curiosa quale sono, ho comprato una bella macchina professionale, di quelle che ti lasciano il portafogli, vuoto! E da qui il pensiero di seguire corsi, e corsi. Nella vita c’è sempre da imparare diceva qualcuno. E’ vero! Io continuo ancora, non credo di essere arrivata. Ma arrivare dove poi? C’è uno scopo ma non credo ci siano traguardi. Lo scopo è quello di riuscire a trasmettere quello che i miei occhi vedono.

Parlaci del progetto in Benin “The Innocent” durante la spedizione umanitaria con l’Associazione Sorridi Konou Konou Africa Onlus. E’ nato al bar con il mio carissimo amico Umberto Bracale. Sorseggiavamo un caffè “sai vado in Benin”. E da qui la curiosità, dopo il mio rientro dalla Tailandia di voler scoprire una realtà diversa. Una realtà che ti lascia senza fiato anche se la vedi due volte l’anno. The Innocent è stato un racconto ed ho voluto ringraziare delle persone uniche. Delle persone che si sacrificano soprattutto per i deboli e per gli innocenti. The Innocent non è solo l’essere innocente. Innocente è anche colui che diventa spettatore di questo popolo, spettatore inconsapevole, per quanto se ne parli, di tanta sofferenza. Probabilmente l’innocenza è troppo elevata perché un essere umano la raggiunga pienamente se non in casi eccezionali che riguardano appunto solo pochi individui straordinari.”

Quando inizi un nuovo progetto hai un metodo prefissato di approccio alla storia ed ai protagonisti o varia in base alle differenti situazioni? Le idee nascono spesso sotto la doccia. Sorrido al pensiero del volto del lettore, ma è vero. Realizzo una sorta di disegno ed editing nel mio immaginario e poi sono pronta per gli scatti. Al momento ho 4 disegni pronti forse a diventare realtà. Mi piacerebbe avere più tempo da dedicare alla fotografia ed ai mie progetti.


Si parla sempre più spesso negli ultimi tempi del concetto di “etica” nella fotografia; qual è il tuo pensiero al riguardo? Questa domanda mi piace. Mi piace oggi in un contesto dove tutti si sentono liberi di poter fotografare la qualunque solo perché posseggono uno smart phone. Non è così. Ma forse è proprio questo che fa la differenza tra un foto amatore ed un fotogiornalista.

Oramai viviamo in un’era globalizzata dove anche con uno smartphone è possibile scattare foto di alta qualità. Come giudichi questa evoluzione digitale della fotografia? Secondo uno studio tre oggetti sono considerati essenziali nella vita moderna: le chiavi, i soldi ed il telefono cellulare. Quest’ultimo diventato ormai prolungamento del braccio. Ogni giorno nel mondo si scattano più foto con iPhone che con qualsiasi altra macchina fotografica. Ormai siamo tutti “IPhoneography”, fenomeno sempre più diffuso anche grazie all’ oggetto informatico “IPhone” diventato più una macchina fotografica oltre ad essere un cellulare. A differenza di altri colleghi non temo chi usa un cellulare. Anzi ad ottobre ho in programma con la Visual Instant un corso con smart phone. Vi aspetto!

Progetti per il futuro

I have a dream :) Dovete seguirmi per saperlo.






Irene Alison Irene Alison è nata a Napoli nel 1977. Irene Alison lavora ad ampio raggio nel settore della fotografia. Giornalista professionista, ha cominciato il suo percorso nelle redazioni del quotidiano il manifesto e del settimanale D-La Repubblica delle Donne. Insieme ai fotografi, ha sviluppato e realizzato sul campo progetti di reportage pubblicati su magazine italiani e internazionali come Geo France, The Independent, l’Espresso, D-La Repubblica delle Donne, XL, Marie Claire e Riders. I suoi articoli di approfondimento fotografico sono apparsi negli ultimi anni su magazine e quotidiani come La Lettura, settimanale culturale de Il Corriere della Sera, IlSole24ore, D-La Repubblica delle Donne e Pagina99. Collabora in qualità di tutor, insegnante e consulente con l’Istituto Superiore di Fotografia di Roma, la Scuola Romana di Fotografia e la Fondazione Studio Marangoni di Firenze e tiene e tiene regolarmente letture portfolio, conferenze e workshop di approfondimento fotografico. Come critico e curatore, ha collaborato, tra gli altri, con il Brighton Photo Fringe, Festival Internazionale FotoGrafia di Roma, Officine Fotografiche (Roma), Open Mind Gallery (Milano), Scuola Holden (Torino). Dal 2009 al 2014 è stata direttrice di Rearviewmirror, quadrimestrale di fotografia documentaria edito da Postcart. Il suo primo libro, My Generation – Dieci autori under-40 della fotografia documentaria italiana, è uscito nel 2012 per Postcart. Nel 2014 ha fondato lo studio di progettazione e produzione fotografica DER*LAB, di cui è direttore creativo.

Qual’è il tuo rapporto con la fotografia Non è facile rispondere a questa domanda perché la fotografia, per me, non è solo un lavoro, è un linguaggio che attraversa e collega ogni aspetto della mia vita. Lavoro come giornalista occupandomi di fotografia da un punto di vista critico; come direttore creativo di uno studio di consulenza e progettazione dedicato alla fotografia documentaria, svolgo un ruolo creativo in fase di ideazione e di scrittura dei progetti fotografici e lavoro come editor e curatrice, cercando di ideare e di realizzare, insieme ai fotografi e alle mie socie, gli output editoriali ed espositivi più adatti a ciascun progetto. Infine, attraverso il mio account Instagram @irene_alison77 faccio un uso puramente autobiografico della fotografia, tenendo insieme in un flusso costante tutti i frammenti visivi che compongono il mio percorso. In generale, dunque, il processo di traduzione del pensiero/idea in immagine (e viceversa) è una costante sfida creativa che permea ogni momento della mia giornata!

© I Photo(Note)Book di Der*Lab, Temporary Life di Francesca Cao e Im/Mobili Resti di Michela Palermo, a cura di Irene Alison, instagram.com/dollseyereflexlab


Oggi siamo sommersi da immagini di cui siamo sia produttori che consumatori. Cosa cerchi in un progetto e quali sono le caratteristiche che lo stesso deve possedere per destare il tuo interesse. Il dibattito intorno alla fotografia documentaria contemporanea ruota tutto attorno all’idea di quali siano i presupposti sui quali fondare oggi una fotografia “utile”: una fotografia che emerga dal costante rumore iconografico di fondo che tutti produciamo per proporre contenuti e riflessioni utili a leggere e comprendere il presente. In un’epoca in cui la fotografia si è trasformata da “mestiere” in un linguaggio universale, è indispensabile da parte del professionista un uso profondamente meditato dell’espressione visiva: non solo nella produzione di immagini, ma anche nelle diverse articolazioni dello storytelling. Solo se la progettualità fotografica è sorretta da una scrittura solida, articolata in modo coerente – dalla scelta funzionale degli strumenti di ripresa a un uso significativo e mai decorativo degli stili, fino a un utilizzo espressivo e non effettistico degli strumenti di post-produzione – oggi può emergere sull’incessante rumore visivo di fondo che ci affolla gli occhi. I progetti che mi interessano hanno tutti queste caratteristiche. E sono in grado di stupirmi e emozionarmi, rivelandomi una prospettiva diversa sul mondo. Il tuo primo libro My Generation – Dieci autori under 40 della fotografia italiana, ha descritto e disegnato uno spaccato della fotografia italiano e tra i più in gamba e riconosciuti fotografi del Nostro panorama. Come vedi le nuove generazioni che stanno crescendo e formandosi adesso, anche rispetto alle altre nazioni. Chi oggi vuole guadagnarsi da vivere con la fotografia si trova davanti a una sfida straordinariamente complessa, ancora più complessa di quando, tre anni fa, ho scritto My Generation. In questo breve di lasso di tempo, il processo di democratizzazione della fotografia ha compiuto ulteriori passi avanti, molti vecchi interlocutori economici sono definitivamente tramontati dall’orizzonte del mercato, e nuove formule di produzione e di diffusione delle immagini si sono sviluppate.


Oggi, ancora più di tre anni fa, credo che il fotografo contemporaneo non possa limitarsi a “guardare” ma debba attivare un’analisi approfondita su “come guardare” e come comunicare il proprio messaggio visivo. Vivere e lavorare in Italia, da molti punti di vista, rende la sfida della professione fotografica ancora più ardua: scarsa cultura fotografica, una formazione che spesso risente di pesanti lacune culturali in favore di un approccio alla materia di natura puramente tecnica, giornali e magazine che (a dispetto dell’impegno di molti bravi photoeditor) non riconoscono alla fotografia le risorse e lo spazio che merita, un sostegno limitato o assente da parte di musei e istituzioni. Questi ostacoli richiedono ai giovani fotografi italiani una motivazione ancora più ostinata e un talento più brillante per emergere.

Nel 2014 hai fondato Doll’s Eye Reflex Laboratory, parlaci di questo progetto e qual è il suo scopo. Doll’s Eye Reflex Laboratory è uno studio di consulenza e produzione specializzato nel campo della fotografia documentaria. L’idea nasce dalla volontà di associare competenze diverse e complementari in un progetto comune legato alla produzione e all’offerta di servizi per la fotografia. È una squadra tutta al femminile, che conta sull’esperienza consolidata dei suoi membri per un approccio nuovo e completo al mercato: associando l’aspetto creativo/progettuale a quello produttivo/organizzativo, impegnandosi nella ricerca e nella gestione di investimenti destinati alla produzione fotografica e mettendo in campo le proprie risorse e il proprio know-how tipografico-editoriale. DER*LAB è una struttura flessibile, che si presta a rispondere a esigenze diverse. Dalla relazione con realtà consolidate del panorama fotografico internazionale all’attività di ricerca, scouting e formazione rivolta ai fotografi emergenti. Il nostro è un approccio organico e onnicomprensivo: dal concept fino alla realizzazione e alla promozione, dal layout fino alla stampa, accendiamo le idee o le accogliamo nel nostro studio per farle crescere. © Prove di stampa di iRevolution, instagram/irene_alison77


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Quali consigli daresti ad un giovane che si avvicina a questo mondo. Oggi un fotografo non può limitarsi a “fare foto”. Sempre più spesso, infatti, si trova ad essere contemporaneamente giornalista che cerca le storie, producer, agente che cerca di collocare i suoi contenuti sul mercato, artista che cerca di entrare in relazione con galleristi e collezionisti, editore. Il mio consiglio, quindi, è di avere un orizzonte globale, creando relazioni e cercando risorse fuori dal ristretto confine del proprio paese o della propria nicchia di riferimento. Progettare in un’ottica crossmediale, pensando e realizzando i propri contenuti per diffonderli attraverso piattaforme diverse e per raggiungere audience differenti. Non avere pregiudizi né preclusioni ma guardare con curiosità verso tutto ciò che è nuovo. Fare network. E puntare su ciò che, ancora oggi, distingue il comune cittadino armato di smartphone da chi ha fatto della fotografia una professione: l’esercizio autoriale di un punto di vista sul mondo e la qualità dell’approfondimento. Come vedi il futuro della fotografia, soprattutto per quanto riguarda la fotografia documentaria e il fotogiornalismo. Il critico e teorico Fred Ritchin, nel suo libro Bending the Frame, propone una distinzione che a mio avviso intercetta in modo efficace il cambiamento che la fotografia ha vissuto negli ultimi anni, quella fra il “fotografo intrepido” e il “fotografo dialettico”. Il “fotografo intrepido” è quello che abbiamo conosciuto nel Novecento: un professionista della visione col mandato di “testimoniare” il mondo per quello che è, unico fornitore autorizzato di informazioni visive. Il “fotografo dialettico” è il fotografo contemporaneo: autore più che reporter, un interprete del mondo in cui il ruolo non è più testimoniare, ma riflettere e analizzare. Raccontare andando alla periferia dell’azione o cercando tagli di visione assolutamente personali sull’evento. Evocare più che registrare, creando immagini che non siano semplicemente strappate alla realtà ma che nascano da un’interazione profonda tra fotografo e soggetto, tra fotografo e contesto. Contaminare creativamente i generi e i codici dello storytelling. Tutto questo fa, oggi, la differenza tra una fotografia che è semplice rincorsa del reale, sua bulimica riproduzione e autoreferenziale condivisione, e una fotografia che, della realtà, diventa una rappresentazione culturale, un simbolo, una metafora che ci aiuti a comprendere il tempo e il mondo in cui viviamo. Foto a lato 1 - © Un dettaglio dell’ufficio di Kathy Ryan al New York Times Magazine, fotografato nel corso delle interviste realizzate per iRevolution, instagram/irene_alison77 2 - © Al lavoro sull’installazione di Im/Mobili Resti nella villa confiscata al boss Alfonso Diana a Casal di Principe, instagram.com/dollseyereflexlab 3 - © Florian Meissner, fondatore e Ceo di EyeEm, ritratto nei suoi uffici di Berlino nel corso delle interviste realizzate per iRevolution, instagram/irene_alison77


La fotografia a cui sei più legata e perché. Più ci penso più mi rendo conto che questa domanda, per me, ha due risposte. La prima è quella della mente: Sharecropper family, Alabama, 1936, di Walker Evans, uno dei fotografi che più ammiro e che non finisce mai di affascinarmi e sorprendermi. È la prima foto di cui mi sia capitato di scrivere da giornalista, quando fui inviata da il Manifesto a recensire una mostra di Evans esposta a Roma, ed è uno scatto su cui sono tornata molte volte in seguito, per studiare e comprendere l’opera di Evans e l’idea stessa di fotografia documentaria. La seconda risposta è quella del cuore: uno scatto realizzato dal fotografo Paolo Cappelli al mio matrimonio. Ci siamo io e mio marito, di spalle, che camminiamo mano nella mano nel buio che avanza, alla fine della nostra festa di nozze. In quel gesto, in quel movimento, in quel buio, per me c’è tutto il mistero del futuro. E dell’amore.

Foto sotto © La prima machette digitale di iRevolution, instagram/irene_alison77

Foto a lato 1 - © Der*Lab al lavoro sul dummy di Fabio Moscatelli, Gioele Quaderno del Tempo Libero, in uscita a novembre 2015, instagram.com/dollseyereflexlab 2 - © L’installazione Temporary Life, a cura di Irene Alison con fotografie di Francesca Cao, allestita a Officine Fotografiche, Roma, instagram.com/dollseyereflexlab 3 - © Prove di stampa di iRevolution, instagram/irene_alison77


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Thank you all


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