Formazione a Distanza Contattologia medica
Numero di Accreditamento Provider: 77 Data di Accreditamento Provvisorio: 22/04/10 (validità: 24 mesi) Questa attività ECM è stata predisposta in accordo con le regole indicate dalla Commissione Nazionale ECM dalla Fabiano Group. La Fabiano Group è accreditata dalla Commissione Nazionale a fornire programmi di formazione continua per Oculisti e Ortottisti e si assume la responsabilità per i contenuti, la qualità e la correttezza etica di queste attività ECM. Iniziativa FAD rivolta a Medici Oculisti e Ortottisti. Obiettivo formativo: Contenuti tecnico/professionali (conoscenze e competenze) specifici di ciascuna professione, specializzazione e attività ultraspecialistica. Modulo didattico n. 1 del Percorso Formativo “Contattologia medica” (Rif. 77-5361), della durata complessiva di 12 ore. Numero di crediti assegnati al programma FAD una volta superato il test di apprendimento: 12
Provider: Fabiano Group S.r.l. - Reg. San Giovanni 40 - 14053 Canelli (AT) Tel. 0141 827827 - Fax 0141 033112 - fad@fabianogroup.com
Materiali per lenti a contatto e proprietà chimico-fisiche Responsabile Scientifico: Prof. N. Pescosolido
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• Struttura delle lenti a contatto − Materiali morbidi ……………………………………………………………………………......
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− Tecniche di manifattura delle LAC …………………………………………………………....
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− Caratteristiche fisiche e geometriche delle LAC ……………………………..…….............
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• Permeabilità e compatibilità delle lenti a contatto − Caratteristiche fisiche delle lenti a contatto …………………………………..…….............
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− Disponibilità di ossigeno per la cornea durante il porto di lenti a contatto ………………
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− Caratteristiche chimico-fisiche delle lenti a contatto e loro compatibilità …….................
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− Metodi standard di misura della trasmissibilità………………………..…………….............
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− Metodo alternativo di stima della permeabilità: misure di Risonanza Magnetica Nucleare (LF-NMR) ……………………………………………........
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− Misura fisiologica della permeabilità e della trasmissibilità …………………....................
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− Modelli ……………………………………………………………………………………...........
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− Interazione tra LAC e lacrime artificiali: uno studio LF-NMR …………..……...................
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− Conclusioni ……………………………………………………………………………...............
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Struttura delle lenti a contatto La conoscenza dei materiali e di alcuni fenomeni chimici, fisici e biologici è di fondamentale importanza per capire e valutare il comportamento della lente sull’occhio. Infatti molti degli insuccessi di un’applicazione di una lente a contatto e il non stabile comfort, dipendono dalle caratteristiche chimico-fisiche delle lenti usate; ed inoltre da eventuali problematiche legate ad una non adeguata applicazione, dipendente sia dalle caratteristiche geometriche sia dal non adeguato valore diottrico. Appare chiaro quindi, come grande importanza abbiano assunto i materiali di cui sono costituite le lenti a contatto e come questi siano oggetto di continuo studio e ricerca. Risulta inoltre evidente che la continua evoluzione dei materiali rende presto obsoleta una qualsiasi classificazione degli stessi, tuttavia occorre avere delle linee guida di riferimento, onde poter procedere allo studio ed all’approfondimento dell’argomento. Attualmente quando parliamo di lenti rigide, viene naturale associare questo termine ai materiali gaspermeabili, così come quando parliamo di lenti morbide, associarle ai materiali idrofili. Tuttavia ciò non è molto esatto, in quanto il termine “rigide” (dure) era stato coniato, riferendosi al materiale, sia per lenti gas-non permeabili che gas-permeabili ed il termine “morbide” (flessibili) era stato coniato per tre tipi di materiali: elastomeri, idrogel e biopolimeri. Tutte le lenti a contatto sono costituite da sostanze ottenute mediante un processo chimico detto polimerizzazione. Tale processo consiste nella formazione di lunghe catene a legami stabili dette polimeri, formate dall’unione chimica di molecole semplici dette monomeri. Se i monomeri che compongono la
Materiali duri (rigidi) 1) Gas-non permeabili 2) Gas-permeabili Materiali morbidi (flessibili) 1) Idrogel
Bassa idrofilia Alta idrofilia
2) Elastomeri di silicone 3) Biopolimeri Tabella 1. Classificazione dei materiali.
Non ionico Ionico Non Ionico Ionico
Materiali rigidi Gas-non permeabili
PMMA
Gas permeabili
CAB Stirene Silossano-acrilato Fluoropolimeri
Tabella 2. Classificazione dei materiali duri (rigidi).
catena non sono tutti di un solo tipo, la sostanza è detta copolimero. I rapporti percentuali tra i diversi monomeri definiscono e caratterizzano le proprietà chimico-fisiche della sostanza ottenuta. Esistono due tipi di polimerizzazione: per addizione e per condensazione. Nel primo tipo le unità monomeriche si legano senza eliminazione di molecole secondarie: nel secondo tipo invece, l’unione avviene con eliminazione di molecole secondarie (per esempio molecole d’acqua nella sintesi del silicone o del CAB). In seguito, il processo di polimerizzazione va incontro o alla “ricombinazione”, attraverso il quale due radicali liberi della stessa catena si legano tra loro, oppure al “transfert”, caratterizzato dalla formazione di legami tra i radicali liberi di catene diverse. In questo modo si ottiene la chiusura di tutti i monomeri, procedimento fondamentale per la stabilità chimico-fisica del polimero e per impedire interazioni chimiche coi tessuti. Nel caso in cui la polimerizzazione non fosse completa, si avrebbe un’irregolarità di superficie con possibilità di lesioni di tipo meccanico, instabilità chimica con possibile liberazione di ioni che potrebbero esercitare un effetto tossico sui tessuti e possibilità di azione di enzimi con potere litico o sintetico (associazione con molecole biologiche che portano alla formazione di complessi tossici e/o allergici). Facendo riferimento alla composizione chimica, i polimeri o i copolimeri usati in contattologia possono essere suddivisi in materiali duri (gas permeabili e gas non permeabili) e morbidi (idrogel, elastomeri di silicone e biopolimeri). La prima sostanza plastica utilizzata nella creazione delle lenti a contatto e ancora oggi diffusa, è il polimetilmetacrilato (PMMA). Il PMMA è un materiale termoplastico ottenuto dalla polimerizzazione del monomero di metilmetacrilato. L’elevata qualità ottica (è un materiale trasparente, omogeneo, stabile, con scarsa tendenza alla forma-
2. Struttura delle lenti a contatto
OCH3 CH3 C CO
CO CH2
C
CH2
CH3
OCH Formula chimica del polimetilmetacrilato (PMMA)
zione di depositi), la leggerezza, la facilità e la qualità della lavorazione del PMMA, come pure la mancanza di irritazione o di una risposta allergica nei pazienti, hanno contribuito alla rapida diffusione di questo materiale nell’ambito della produzione delle lenti a contatto. È anche conosciuto con le denominazioni commerciali di “Plexiglas” o “Perpex”. Il PMMA è un polimero ottenuto dall’acido acrilico CH2=CHOOH addizionato all’alcol metilico CH3OH. L’alcol acrilico è un liquido incolore, molto corrosivo che, per le sue caratteristiche, tende a polimerizzare all’aria solidificando; per questo motivo è comunemente usato nell’industria delle materie plastiche e della gomma sintetica. La lunga catena centrale del polimero PMMA è paraffin-like e per questo altamente idrofoba. Ogni unità ripetuta nel polimero ha un estere nella catena laterale; sebbene il radicale estere sia leggermente idrofilico, il carattere idrofobo della catena centrale del polimero è dominante nel PMMA. Nonostante esso possa assorbire umidità fino all’1,5% del peso, le LAC in PMMA rimangono idrofobe. Questo tipo di lenti a contatto, sono quindi praticamente impermeabili all’ossigeno, all’acqua o a qualsiasi altra sostanza prodotta o richiesta dal normale metabolismo corneale. Il coefficiente di diffusione dell’ossigeno nel PMMA, D = 11x10–7 cm2 all’ora, è quattro volte più piccolo rispetto a quello delle LAC in idrogel e cinque volte più piccolo rispetto a quelle in gomma siliconica. La superficie corneale deve essere costantemente bagnata e ossigenata per rimanere trasparente e sana. Quando la cornea viene privata dell’ossigeno atmosferico, si riduce il glicogeno epiteliale e aumenta la produzione di acido lattico come risultato di una glicolisi anaerobia. Normalmente sono le lacrime che svolgono l’importante ruolo di fornire l’ossigeno atmosferico all’epitelio corneale. Anche un minimo disordine nel ricambio lacrimale potrebbe provocare l’adesione della lente alla cornea, con alterazione dello scambio gassoso e notevoli complicanze. Si ricordi inoltre che il PMMA è un materiale relativa-
mente rigido, per cui, per evitare abrasioni non deve sfregare l’epitelio corneale. È comunque importante ricordare, a questo proposito, che anche una lente a contatto ben adattata altererà l’ambiente corneale normale; infatti circa il 90% dei portatori di LAC soffre di un qualche grado di scompenso epiteliale corneale. Affinché una lente corneale fluttui nel film lacrimale e si comporti come un efficiente dispositivo ottico, la sua superficie deve essere adeguatamente bagnata. Numerosi tentativi sono stati fatti per cercare di migliorare la bagnabilità delle LAC in PMMA come l’aggiunta di un rivestimento idrofilico permanente sulla superficie della lente o modificazioni chimiche degli strati superficiali della lente, ecc. Nessuno di questi trattamenti comunque, sembra essere sufficientemente efficace o di effettivo interesse pratico, per cui la maggior parte delle LAC rigide in commercio vengono costruite con PMMA puro. Le lenti rigide sono state introdotte negli anni ’40, e sebbene molti considerino questo tipo di lenti obsolete, vengono ancora oggi adoperate, anche se con minore frequenza. La scarsa permeabilità della lente all’ossigeno porta, nel tempo, ad un’alterazione del pattern endoteliale, la poca flessibilità può modificare i parametri corneali e la rigidità e la scarsa bagnabilità rendono questa lente difficile da tollerare. Nello stesso tempo però questo materiale offre il vantaggio di avere delle eccellenti qualità ottiche, di essere facilmente manipolabile e di mantenere costanti i parametri geometrici della lente. Secondo l’AICLE (International Association of Contact Lens Educators), questo tipo di materiale viene attualmente usato con una frequenza che rimane al di sotto dell’1%. Le sostanze successivamente introdotte, sono costituite da polimeri derivati dal PMMA classico; le lenti costituite da questi materiali vengono definite gaspermeabili (RGP) o impropriamente semirigide. Il lungo periodo intercorso tra la nascita del primo materiale compatibile e lo sviluppo di polimeri che garantissero una maggiore ossigenazione corneale è dovuto alla difficoltà di trovare un giusto equilibrio tra le proprietà di insieme del materiale (permeabilità all’ossigeno, durezza del materiale, durata, ecc. ) importanti per il successo clinico, e le proprietà della superficie (idrofilia, bagnabilità, resistenza ai depositi, ecc.) necessarie per garantire una buona compliance tra superficie oculare e film lacrimale. Lo scopo era quello di ottenere una lente con le caratteristiche di stabilità e durezza simili alle lenti rigide classiche, ma che permettessero una maggiore ossi-
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O
CO
CH3
CH2 CH
O
O CH
CH
O
O
CO CH2 CH2 CH3
CH
CH
CH
CH
CH
O
OH
CH2
CH2 CH2 CH3
CO CH3
CH
CH
CO
O
O
O
CO CH3
Formula chimica dell’acetato butirrato di cellulosa (CAB)
genazione corneale e quindi una minore alterazione del pattern corneale. La prima sostanza innovativa appartenente a questo gruppo fu l’acetato-butirrato di cellulosa (CAB). Il CAB, introdotto come materiale già nel 1930, è stato utilizzato per la prima volta nella costruzione delle lenti corneali nel 1973. Esso deriva dall’esterificazione della cellulosa, che contiene molti gruppi ossidrilici nella sua molecola, due di questi gruppi ossidrilici per monomero di glucosio reagiscono con un gruppo acetato CH3COO–, derivato dall’acido acetico CH3COOH, e un butirrato CH3CH2CH2COO–, derivato dall’acido butirrico CH3CH2CH2COOH. Gli OH ed H che rimangono, permettono di far avere al materiale un contenuto di acqua pari al 2-3%, tuttavia la sua permeabilità all’ossigeno rimane molto scarsa (Dk = 6-9 x 10-11). In commercio si trovano molti tipi di questi polimeri, con percentuali variabili di butirrile e acetile, che si aggirano attorno al 37% per il primo e al 17% per il secondo, con il 2-3% degli ossidrili. All’aumentare della percentuale di butirrile aumenta la flessibilità del polimero. Si ricordi inoltre che, la sua permeabilità all’anidride carbonica è otto volte maggiore rispetto a quella dell’ossigeno. Oltre alla scarsa permeabilità all’ossigeno, altre proprietà negative caratterizzano il CAB: bassa resistenza all’abrasione, ridotta stabilità dimensionale (per migliorare la quale, questi materiali vengono sottoposti ad un processo di tempera in olio di silicone), ridotta bagnabilità (per migliorarla si aggiunge etilene acetato di vinile -EVA-). Al fine di ottenere materiali caratterizzati da una maggiore permeabilità all’ossigeno, in seguito l’attenzione è stata rivolta soprattutto ai materiali al silicone e fluorinati. I copolimeri del silossano (elastomeri al silicone) sono costituiti da una struttura principale in metil-
metacrilato (MMA), e caratterizzati dalla presenza di legami silossano (Si-O). Il gruppo solissanico è di fondamentale importanza, poiché responsabile di una maggiore permeabilità ai gas. Si ricordi però che l’accentuazione di questa proprietà può portare all’acquisizione di altre caratteristiche, che risulterebbero non ideali per una lente a contatto. Per ovviare a questo problema si sono inseriti altri monomeri che migliorano la funzionalità della lac, ed in modo particolare la stabilità e la bagnabilità. Sappiamo bene che la caratteristica più negativa del silicone nell’uso di esso come materiale per le lac, è l’idrofobia, ed è proprio per controbilanciare la sua natura idrofobica che vengono inseriti monomeri idrofilici. I monomeri utilizzati possono essere composti neutri, come l’HEMA e l’NVP, acidi, come l’acido acrilico o metacrilico, o basici e quindi gli aminometacrilati. I composti silossano +PMMA possono essere divisi in due categorie: quelli a bassa permeabilità di ossigeno (Boston II, Alberta, Paraperm O2), che presentano un Dk simile al CAB ma una buona stabilità dimensionale; e quelli ad alta permeabilità (Boston IV, GP20, Hyperm) nei quali, pur mantenedo una buona stabilità, il grado di permeabilità all’ossigeno risulta essere maggiore. Le lenti silicone-acrilato non risultano idonee all’uso prolungato per due principali svantaggi: valori di Dk che oscillano tra 25 e 60, e la tendenza alla formazione di depositi a causa della elevata percentuale di silicone che le compone. Quando i diversi materiali vengono a contatto con l’ambiente oculare, presentano differente affinità per le sostanze ivi presenti, diversificando i depositi che vengono a formarvisi. Su lenti in PMMA e CAB, infatti, per la loro evidente scarsa idrofilia, si accumulano prevalentemente lipidi; sulle lenti costituite da copolimeri di silicone acrilato e su quelle in silicone puro, invece, si ha prima un accumulo proteico e poi lipidico; infine, i polimeri costituiti da fluorosilicone acrilato e i fluoropolimeri, in genere, hanno scarsa affinità per tutti i tipi di depositi. La successiva introduzione dei fluoroacrilati si basava sull’osservazione che i fluorinati presentano bassa carica superficiale, buone proprietà di lubrificazione, alto peso specifico e basso indice di rifrazione. Questi materiali garantiscono una maggiore permeabilità all’ossigeno e una minore tendenza alla formazione di depositi. La migliore permeabilità all’ossigeno è dovuta al fatto che questo gas presenta un alto K di solubilità nei composti fluorinati. Si ricordi però che questo materiale è estremamente delicato nel processo di lucidatura, per cui tali vantaggi non sempre si traducono in pratica.
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2. Struttura delle lenti a contatto
La quantità di fluoro presente varia nei materiali, quella presente nei fluoroacrilati è 3-10 volte minore rispetto a quella presente nei fluorocarbonati, nei quali ammonta al 40-50% del peso, e ciò determina in tali composti, un maggiore free-volume e quindi un minore ostacolo fisico al passaggio dell’ossigeno. Nei fluorocarbonati, il fluoro è polimerizzato con il metilmetacrilato e con il n-vinilpirrolidone. Ognuno di questi elementi conferisce proprietà importanti al composto: il MMA conferisce alla lente resistenza e scarsa deformabilità, il n-vinilpirrolidone invece una buona bagnabilità, e il fluoro una migliore permeabilità all’ossigeno. Va inoltre ricordato che, nonostante la sua idrofobicità, la componente fluorinata attrae sulla superficie della lente la mucina, alterandone l’equilibrio elettrolitico. A causa di ciò, proteine e lipidi del film lacrimale non vengono più attratti verso la lente, con conseguente minore formazione di depositi proteici, determinando così un maggiore comfort. Lo stirene ha la caratteristica di essere un materiale molto leggero, con l’indice di rifrazione più alto fra tutti i materiali usati in contattologia: nD = 1.59, gaspermeabilità bassa ed enorme fragilità. Le lenti RGP continuano ad essere indicate per la correzione di difetti rifrattivi e per scopi terapeutici. Negli Stati Uniti d’America ci sono circa 4,2 milioni di portatori di lenti a contatto GPR, il 15% di tutti i portatori di LAC. Questo perché la possibilità di personalizzare e di scegliere il materiale più adeguato per ogni singolo soggetto garantisce una migliore compliance. Infatti le lenti a contatto gas-permeabili attualmente in commercio, contengono i seguenti “ingredienti” in quantità variabile per migliorarne la qualità: • silicone, per la permeabilità; • metilmetacrilato, per la durata nel tempo, l’elasticità e la qualità ottica; • fluoro, per aumentare la bagnabilità e la resistenza ai depositi; • agenti imbibenti, per ritardare l’essiccamento della superficie della lente e opporsi alla formazione dei depositi sulla superficie; • agenti cross-linking, per impedire l’alterazione della stabilità del polimero; • coloranti, per ottenere la colorazione della lente.
Materiali morbidi Quando si parla di lenti a contatto morbide, in genere, ci si riferisce alle lenti a contatto in idrogel, materiale diventato di uso comune nella fabbricazione
delle lenti in quanto corrisponde in modo esauriente alle caratteristiche dei polimeri da usare in contattologia, nonostante la loro tendenza alla formazione dei depositi, che comunque possono essere evitati con un’accurata manutenzione. Allo stato secco questi materiali sono duri ma, una volta idratati, diventano flessibili ed elastici; presentano inoltre un’elevata affinità per l’acqua, che si può trovare sia libera che legata alle maglie del polimero, e la cui percentuale determina l’idrofilia del polimero stesso. Secondo la classificazione FDA gli idrogel vengono suddivisi in quattro categorie, a seconda della loro carica ionica e del loro contenuto in acqua: Gruppo I Bassa Idrofilia <50% di acqua, polimeri non ionici Gruppo II Alta Idrofilia >50% di acqua, polimeri non ionici Gruppo III Bassa Idrofilia <50% di acqua, polimeri ionici Gruppo IV Alta Idrofilia >50% di acqua, polimeri ionici Gruppo 1 (bassa Idrofilia <50% di acqua, polimeri non ionici) Tefilcon (38%) Tetrafilcon (43%) Crofilcon (38%) Hefilcon A & B (45%) Isofilcon (36%)
Polymacon (38%) Mafilcon (33%) Hioxifilcon B (49%) Genfilcon A (48%)
Gruppo 2 (alta Idrofilia >50% di acqua, polimeri non ionici) Lidofilcon B (79%) Surfilcon (74%) Lidofilcon A (70%) Netrafilcon (65%) Hefilcon C (57%) Alfafilcon A (66%)
Omafilcon A (59%) Vasurfilcon A (74%) Hioxifilcon A (59%) Nelfilcon A (60%) Hilafilcon A (70%)
Gruppo 3 (bassa Idrofilia <50% di acqua, polimeri ionici) Deltafilcon (43%) Droxifilcon A (47%) Phemfilcon A (38%)
Ocufilcon A (44%) Balafilcon A (36%)
Gruppo 4 (alta Idrofilia >50% di acqua, polimeri ionici) Perfilcon (71%) Etafilcon A (58%) Ocufilcon B (53%) Ocufilcon C & D (55%) Ocufilcon E (65%)
Phemfilcon A (55%) Methafilcon A & B (55%) Vifilcon A (55%) Focofilcon A (55%)
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L’idrogel è costituito da due componenti: una solida, stabile ed una liquida, quantitativamente variabile. La componente solida consiste in un polimero reticolato derivato dalla polimerizzazione di più monomeri. Il monomero altro non è che il singolo anello della catena macromolecolare; quando esso si ripete costantemente porta alla formazione di omopolimeri attraverso un processo di sintesi che prende il nome di omopolimerizzazione; quando invece si alterna a monomeri differenti porta alla formazione di copolimeri, e il processo di sintesi si chiama invece copolimerizzazione. Le proprietà dei materiali utilizzati per la costruzione delle LAC, dipendono dalla caratteristiche di queste macromolecole, ed in particolare dalla lunghezza, dall’ordine, dalla composizione e dalla stereoregolarità, che si ha nel caso in cui le molecole successive possiedano la stessa configurazione. In relazione alle unità monomeriche utilizzate, i copolimeri si suddividono in: – random: -x-y-xxx-yy-x-y-y-xx– alternati: -x-y-x-y-x-y-x-y-x-y– block: (xxx)n- (yyy)n– graft: catena principale con catene laterali. In relazione alla struttura tridimensionale, invece si dividono in: – copolimeri lineari: catene senza ramificazioni – branched polymers: catene con ramificazioni – cross linked polymers: catene crociate che conferiscono al polimero un aspetto ramificato. I polimeri lineari hanno in genere caratteristiche meno nobili: sono termoplastici, solubili, instabili; i polimeri con legami trasversali invece sono inerti, stabili e insolubili nei comuni solventi e il numero dei legami trasversali influenza alcune caratteristiche: un numero relativamente basso infatti rende il materiale meno rigido e più facilmente rigonfiabile per imbibizione, un numero di legami alto invece, lo renderà più rigido e incapace di assorbire solventi. Temperatura, pressione e tempo sono i parametri che indirizzano la polimerizzazione in un senso o in un altro. La polimerizzazione si può ottenere per addizione, e in questo caso il monomero, che risulta essere un composto insaturo, necessita di un catalizzatore, oppure per condensazione, e allora i monomeri reagiscono tra di loro formando legami estere ed eliminando molecole d’acqua. Il risultato finale deve però portare alla formazione di un composto che possieda determinate caratteristiche chimico-fisiche: trasparenza, otticamente stabile, omogeneo, atossico (la sostanza deve essere inerte e non rilasciare alcuna
componente durante l’uso), biocompatibile, facilmente lavorabile, resistente e stabile nel tempo, inattaccabile dai microrganismi patogeni, maneggevole. La componente liquida del polimero costituisce dal 28% all’80% del materiale in toto. Tra le proprietà ottiche dei materiali si hanno un buon indice di rifrazione ed una buona trasparenza, che dipendono dall’omogeneità del polimero. Infatti, si ha perdita di trasparenza per idrolisi, ossidazione o degradazione termica, processi a cui vanno facilmente incontro i polimeri idrofili, per cui questi materiali risultano essere molto fragili. Si ricordi inoltre che, poiché queste caratteristiche sono legate soprattutto alle proprietà chimiche del polimero, la facile alterazione di queste, rende le lenti di difficile manutenzione. I fattori ambientali che influiscono maggiormente sulla disidratazione del polimero sono la temperatura e il PH. Le lenti a basso contenuto d’acqua tendono ad aumentare di diametro con l’aumento della temperatura, mentre lenti ad alto contenuto d’acqua tendono a disidratarsi e quindi a ridurre la loro dimensione, come nel caso del passaggio dal contenitore (temperatura ambiente) all’occhio (35°). La permeabilità all’ossigeno di una lente idratata dipende principalmente dal contenuto d’acqua, più basso esso sarà e minore sarà la sua permeabilità; per cui, una lente al 38% d’idrofilia avrà un Dk pari a 9 unità, una lente al 55% avrà invece un Dk di 18 unità, ecc. Si ricordi però che anche la mobilità termica delle catene polimeriche influisce sulla permeabilità all’ossigeno del materiale. Occorre inoltre tenere in considerazione che l’acqua si trova nel polimero sia in forma libera che legata. L’acqua libera viene assorbita dal polimero attraverso i suoi pori e può evaporare facilmente, aumentare il suo volume vicino al punto di congelamento e rappresentare un buon solvente. L’acqua legata forma invece, legami ad idrogeno con i gruppi idrofili presenti nel polimero: -COOH, -NH2, -CONH2, -OH. Più gruppi idrofili sono presenti nel materiale della lente, più si formano legami stabili. Con l’aumento dell’idratazione della lente, aumenta il valore medio del diametro dei pori dell’idrogel, che comunque non supera mai i 4 µm, è per questo che molte sostanze idrosolubili che si trovano nelle lacrime possono facilmente diffondere tra le maglie dell’idrogel (come nel caso delle molecole di glucosio, acido lattico e cloruro di sodio). Tutto ciò però, non fa altro che aumentare la tendenza all’accumulo di depositi di vario tipo, inoltre le sostanze organiche
2. Struttura delle lenti a contatto
possono fungere da nutrimento per diversi microrganismi, soprattutto batteri, rendendo il polimero un substrato facilmente colonizzabile. Il primo idrogel ad essere utilizzato per la costruzione delle lenti morbide è l’idrossietilmetacrilato (HEMA), una sostanza flessibile ed elastica che è in grado di assorbire fino al 38,6% di acqua. Questo avviene perché le molecole dell’HEMA possiedono gruppi OH dotati di una lieve carica negativa. Le molecole di acqua hanno una carica positiva e sono attratte verso i gruppi OH dell’HEMA. Dalla polimerizzazione dell’HEMA deriva il poli idrossietil metacrilato (pHEMA).
CH3 H2C = C
O
″
metacrilato
C O CH2
etile
CH2 OH
ossidrile
Formula chimica dell’idrossi-etil-metacrilato
Se l’HEMA viene copolimerizzato con monomeri quali la N-vinilpirrolidone (NPV), il contenuto d’acqua può arrivare fino all’80%; ovviamente maggiore è il contenuto d’acqua, maggiore è il rischio, come abbiamo precedentemente detto, di disidratazione della lente e di denaturazione proteica. A questo proposito si ricordi che una delle più gravi cause d’offuscamento visivo non è rappresentato dalle proteine, che infatti sono otticamente trasparenti, ma dalla loro denaturazione correlata agli sbalzi di temperatura. È molto importante anche, tenere in considerazione la carica ionica, che influenza diverse caratteristiche del materiale. Le cariche di superficie degli idrogel sono in genere complessivamente negative o neutre, e ciò li rende particolarmente affini a quelle proteine che presentano una carica prevalentemente positiva. L’HEMA è stato anche polimerizzato con il glicerilmetilacrilato (GMA), con lo scopo di rallentare il tasso di disidratazione della lente esposta all’atmosfera e di rendere più veloce la reidratazione con il liquido lacrimale. Le lenti costruite con questi materiali, sebbene pre-
sentino una buona idratazione e una buona resistenza meccanica hanno due svantaggi principali: a causa della loro consistenza gommosa sono più difficili da manipolare, inoltre, per la presenza delle cariche di superficie dei materiali hanno la tendenza alla formazione di depositi proteici che a loro volta legano lipidi, glicidi. Questi rappresentano un ottimo substrato per la colonizzazione da parte di numerosi microrganismi. Queste ed altre problematiche hanno favorito e favoriscono lo studio di nuove sostanze polimeriche. Prendiamo adesso in considerazione i polimeri più comunemente usati per la fabbricazione di lenti idrofile: • Perfilcon A, approvato per primo dalla FDA nel 1979 per l’uso prolungato, costituito da 29% terpolimer di 2 HEMA, Vynilpyrrolidone ed altri metacrilati, presenta un’idratazione approssimativamente del 71% se pesata a 38ºC; • Bufilcon A, polimero contenete tre differenti monomeri uniti con un trifunzionale cross-linkage idratato al 45% o al 55%, in questa seconda forma presenta un DK pari a 15 x 10-11; • Crofilcon A, copolimero di methacrylato e methylmetacrilato, idratato al 40%; • Vifilcon A, copolimero di 2-hydroxiethylmetacrilate e povidone, idratato al 55% e Dk 16 x 10-11; • TC 75, costituito da una mistura di HEMA, acido metacrilico, un catalizzatore e un agente reticolante in appropriate proporzioni; ha un’idratazione del 68-75%, una permeabilità Dk pari a 32 x 10-11, ed una trasmissibiltà che varia da 39.6 a 6.5 x 10-9, a seconda della temperatura e dello spessore; • Etafilcon A, costituito da HEMA e MMA, che risulta essere flessibile, elastico, dotato di eccellenti proprietà ottiche; esso inoltre, essendo ionico, permette legami con proteine tipo il lisozima, presente nelle lacrime, possiede un’elevata idratazione (58%) e permeabilità all’ossigeno Dk 28 x 10-11. Un altro materiale utilizzato nella costruzione delle lenti a contatto morbide è rappresentato dagli elastomeri di silicone. La sintesi del polimero inizia dall’alosilano, composto chimico caratterizzato da atomi d’idrogeno, un atomo di silicone e gruppi alchilici, che viene idrolizzato a silanolo. Successivamente si ha la polimerizzazione per condensazione di due molecole di silanolo in una soluzione di siloxano e acqua, l’aggiunta di altre molecole di silanolo dà inizio alla formazione di una lunga catena. Qualora la catena venisse bloccata da un gruppo metilico, la polimeriz-
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zazione termina con la formazione del polisilossano. La qualità ottica di queste lenti è eguagliabile a quella delle lenti rigide. Inizialmente, poiché il materiale è estremamente idrofobo, era stato escluso dalla gamma di materiali utilizzabili per la costruzione delle LAC. Successivamente però si arrivò alla ideazione di un procedimento chimico-fisico che conferiva alle lenti al silicone una certa idrofilia. Questo procedimento consiste nel bombardamento della lente al silicone con ioni di ossigeno ed elettroni che colpendola ad alta velocità ne modificano la struttura molecolare a livello superficiale rendendola umettabile. Cerchiamo adesso di prendere in considerazione le caratteristiche principali di tale materiale: 1. Alta permeabilità all’ossigeno ed assorbimento minimo di liquidi, questo consente un elevato apporto di ossigeno senza alcuna reazione edematosa dell’endotelio, e per ciò risulta molto più sicuro dell’idrogel per l’uso prolungato. La gomma siliconica, grazie alla flessibilità del Si-O-Si, legami che conferiscono parziale mobilità alla catena del polisilossano, è altamente permeabile ad ossigeno e anidride carbonica, permettendo il normale processo di respirazione a livello della superficie corneale. 2. Eccellente conduzione termica, che consente un’utilizzo prolungato. 3. Basso indice di rifrazione, n = 1.41, inversamente proporzionale allo spessore ottico della lente ed un’eccellente trasmissibilità alla luce. 4. Scarsa bagnabilità; abbiamo già parlato precedentemente delle conseguenze di una scarsa bagnabilità, qui vogliamo solo ricordare che la superficie di una lente scarsamente bagnabile presenta un’irregolare distribuzione del film lacrimale, determinando un’alterazione del sistema diottrico e una riduzione delle performances visive. È da queste osservazioni che è partita la necessità di associare alla matrice in silicone, fondamentale per l’apporto di ossigeno ma idrofobica, un idrogel per rendere idrofila la superficie e consentire il trasporto dei fluidi. Tutto ciò si può ottenere con la copolimerizzazione del silicone con materiale organico idrofilo come l’HEMA, oppure con un aumento della densità cross-link, con modifiche della superficie oppure ancora aumentando i gruppi organici polari alla catena siliconica. 5. Tendenza ad aderire alla cornea nell’uso notturno. L’alta permeabilità ai vapori e l’elevata elasticità che caratterizzano la gomma siliconica, provoca-
no il fenomeno di pervaporazione, caratterizzato dal fatto che il liquido lacrimale, sotto forma di vapore si diffonde attraverso la lente determinando un assottigliamento del film lacrimale presente sotto la lente con conseguente adesione della lente all’occhio e intrappolamento dei detriti cellulari al di sotto di essa. 6. Tendenza alla formazione di depositi, in particolare di natura lipidica. Una diminuzione del film lacrimale sulla superficie oculare o la presenza di un film lacrimale instabile, aumentano la possibilità di formazione di depositi sulla superficie della lente, i depositi a loro volta riducono la bagnabilità accelerando la formazione di nuovi depositi e creando così un circolo vizioso. I depositi che si formano sulla lente possono essere staccati e allontanati grazie al movimento delle palpebre che sfregano sulla superficie della lente, ma se la formazione dei depositi è costante nel tempo la lente alla fine sarà permanentemente coperta da questi. L’essiccazione della lente e dei depositi ad essa aderenti, che può verificarsi fra due ammiccamenti successivi, comporta la denaturazione delle proteine e la formazione di legami stabili tra queste molecole e il polimero, aumentando l’adesione fra i due e rendendo a questo punto molto difficile, se non addirittura impossibile, la rimozione dei depositi. A questo si aggiunga il fatto che i depositi interferiscono con le caratteristiche chimico-fisiche della lente compromettendo la diffusione dei gas attraverso la lente. Diversi detergenti, enzimi o un processo di pulizia meccanica possono asportare i depositi dalle lenti, al contrario lenti in silicone, idrofobe ma con un rivestimento idrofilo sulla superficie, non possono essere pulite meccanicamente, perché così facendo verrebbe rimosso anche lo strato idrofilo, fondamentale per la tollerabilità della lente stessa. Alla luce di quanto detto fin’ora, appare chiaro che gli svantaggi principali delle lenti al silicone sono rappresentati dall’adesione della lente alla superficie corneale e dalla tendenza alla formazione di depositi lipidici, fenomeni, questi, che possono compromettere il normale metabolismo corneale annullando quindi tutti i vantaggi derivanti dall’elevata permeabilità all’ossigeno. Per quanto riguarda invece le caratteristiche meccaniche della gomma siliconica, ricordiamo innanzitutto che questo materiale risulta possedere una certa durezza, è possibile infatti graffiare o danneggiare
2. Struttura delle lenti a contatto
queste lenti solo se vengono maneggiate in modo molto grossolano. Caratteristica molto importante è poi l’elevata elasticità, intendendo per “elasticità” la caratteristica che consente alla lente di recuperare e mantenere la forma primitiva dopo essere stata deformata. Si ricordi che troppa elasticità potrebbe portare all’adesione della lente alla superficie corneale, compromettendo l’arrivo di metaboli alla cornea e l’eliminazione dei cataboliti; d’altro canto però, una scarsa elasticità porterebbe una modificazione della forma della lente con conseguente perdita delle caratteristiche di curvatura necessarie ad un’adeguata applicazione (fenomeno comune nei polimeri di idrogel). Per ovviare a questo problema sono stati sintetizzati dei copolimeri in silicone-idrogel. Le conoscenze acquisite nel corso degli anni in merito alle caratteristiche dei materiali per la costruzione delle lenti a contatto, ha portato ad evidenziare l’importanza della permeabilità all’ossigeno, della bagnabilità e delle adeguate proprietà meccaniche. La scoperta della notevole permeabilità all’ossigeno del silicone ha spinto i produttori a cercare di migliorare la sua bagnabilità e le sue proprietà meccaniche in modo da ottenere LAC adeguate, utilizzabili nell’uso comune; ciò ha portato all’introduzione dei copolimeri silicone-idrogel. Si notò che l’incorporazione degli elementi strutturali della gomma di silicone ad alcuni elementi portava ad un notevole potenziamento della permeabilità all’ossigeno (DK), aumento che viene spiegato col fatto che Dk è il prodotto della diffusione D per la solubilità K e che l’ossigeno ha un K elevato, cioè un’elevata solubilità, nella gomma siliconica grazie ai legami silicone-ossigeno, silicone-carbonio. Formare un copolimero che unisse le proprietà idrofiliche dell’idogel a quelle idrofobiche del silicone è stato possibile grazie all’introduzione di un gruppo idrossile, ottenendo così un copolimero con un’eccellente permeabilità all’ossigeno e un basso contenuto d’acqua. Nell’associazione polimerica dell’idrogel col silicone esistono comunque, problemi molto complessi, come dimostra il fatto che sono trascorsi molti anni prima che si arrivasse all’uso diffuso di questo tipo di LAC, anni in cui si è cercato di risolvere i diversi inconvenienti in diversi modi. Uno di questi è rappresentato dall’aggiunta del fluoro. Si è visto infatti che i legami carbonio-fluoro hanno una solubilità maggiore rispetto a quella dei legami carbonio-idrogeno. Si è arrivati così all’idrogel di fluorosilicone che sembra rispondere ai criteri di bagnabilità, ossigeno-permeabilità e flessibilità; proprietà
che comunque vengono rispettate anche dai copolimeri polisilossano e poliossialchilene. Le lenti a contatto costituite con biopolimeri come il collagene, di origine bovina ed umana, sono state utilizzate per scopi terapeutici come ad esempio il lento rilascio di farmaci o per favorire la riepitelizzazione corneale dopo traumi o interventi chirurgici. Questo materiale ha un contenuto di acqua vicino al 90%, sono biodegradabili in tre tempi: 12, 24 o 72 ore. Per tali motivi possono anche non essere rimosse poiché col tempo si dissolvono da sole.
Tecniche di manifattura delle LAC Le materie prime di cui saranno costituite le lenti, vengono ovviamente prima testate, per assicurarsi che rispondano alle caratteristiche, purificate e variamente associate; dopodiché vengono sottoposte alle tecniche di manifattura. I principali sistemi di costruzione delle lenti a contatto sono differenti per le lenti morbide e quelle rigide (tabella 3). Il primo metodo utilizzato per la manifattura delle lenti è la tornitura che può essere impiegata sia per le lac rigide che per le morbide. In questa tecnica il monomero è polimerizzato a formare un’asta che viene poi tagliata per ottenere dei bottoni. Questi vengono posti su di un tornio che, guidato da un computer, taglia il bottone in modo da ottenere la lente. Le lenti ottenute con questa tecnica garantiscono un miglior centraggio e un miglior movimento dopo l’applicazione. Inoltre essendo più spesse possono essere maneggiate più facilmente dai pazienti. Tramite questo sistema è possibile ottenere lenti dalla complessa geometria come quelle toriche o bifocali. Le lenti tornite presentano a volte piccole imperfezioni ed irregolarità della superficie causate dal tornio stesso che le possono rendere meno confortevoli e più sensibili alla captazione di depositi. Anche se ci sono stati significativi miglioramenti nella tecnica di produzione, grazie all’introduzione di torni completamente automatizzati, la riproducibilità Lenti rigide Tornitura Lenti morbide Centrifuga Tornitura Stampaggio convenzionale/stabilizzato allo stato morbido Tabella 3. Tecniche di manifattura delle LAC.
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per le lenti morbide tornite non è comunque così buona come quella ottenuta con la tecnica dello spin-casting (centrifugazione). La centrifugazione, propria delle lenti morbide, introdotta da Otto Wichtrle, consiste nell’inserire in uno specifico stampo il monomero allo stato liquido. Lo stampo viene fatto centrifugare ad una velocità prestabilita in modo da ottenere una lente dalla curvatura desiderata. Questa viene esposta alla luce ultravioletta in modo da disidratare il materiale che viene poi reidratato in un secondo tempo. Le lenti così ottenute sono più sottili e hanno i bordi più smussati. La superficie posteriore è asferica e non presenta irregolarità. Per questo però possono dare un maggiore decentramento in fase applicativa che però spesso non influenza le performance ottiche. Anche se la riproducibilità e la qualità del prodotto finito sono migliori delle lenti ottenute con la tornitura l’espansione del polimero in fase di reidratazione mantiene bassa la riproducibilità della lente. Altra metodica impiegata nella fabbricazione delle lenti morbide, è lo stampaggio convenzionale e quello stabilizzato allo stato morbido (SSM). Nello stampaggio convenzionale il monomero liquido viene posto tra due stampi, uno concavo e l’altro convesso, e riscaldato in modo da ottenere una lente disidratata che poi in seguito viene reidratata. Anche in questo caso, pur ottenendo una buona qualità della superficie, un’alta capacità e un basso costo produttivo, la necessità di reidratare la lente abbassa la riproducibilità e la qualità del prodotto. Ciò non si verifica nello stampaggio SSM in cui il polimero rimane idratato durante tutte le fasi di produzione grazie all’aggiunta di un diluente. Questa tecnica permette di ottenere la migliore riproducibilità e qualità della lente.
Caratteristiche fisiche e geometriche delle LAC Dopo aver classificato le LAC attraverso i diversi materiali e individuato le relative tecniche produttive è importante conoscere anche le caratteristiche fisiche e geometriche delle lenti. Le caratteristiche fisiche più importanti sono:
Indice di rifrazione
Indice di rifrazione (n) L’indice di rifrazione di un mezzo ottico è dato dal rapporto tra la velocità della luce nel vuoto c e la velocità della luce nel mezzo considerato ν : n = c/v. Nella costruzione delle lenti, esso deve essere tenuto bene in considerazione visto che, a parità di potere, più alto è l’indice di rifrazione del materiale impiegato, minore sarà lo spessore della lente. Ciò sarà importante soprattutto per le alte ametropie, che potranno così essere corrette con lenti di minore spessore. I valori dell’indice di rifrazione dei vari materiali usati nelle LAC non sono molto diversi tra loro, oscillano per lo più tra 1.43 e 1.49, non arrivando mai ai valori della cornea (1.376), cosa che sarebbe molto utile per la correzione dei difetti astigmatici (tabella 4).
Trasparenza e trasmissibilità della luce Vengono in genere calcolate sulla trasmissibilità dello spettro visibile tra 4000 e 7000, e per i materiali utilizzati arriva circa al 90%.
Stabilità dimensionale È la capacità, da parte del materiale, di mantenere le proprie caratteristiche originali (curvatura, diametro, spessore, ecc.) al variare delle condizioni d’uso. Particolare importanza riveste la stabilità in condizioni d’importanti variazioni ambientali, quali PH, temperatura, grado d’umidità dell’aria, ecc. È inoltre necessario che un materiale mantenga le sue caratteristiche stabili nel tempo. Alcuni polimeri, per esempio, se si trovano in un ambiente basico o neutro, tendono a modificarsi allargando i legami delle loro catene polimeriche, determinando così una maggiore idrofilia con conseguente aumento dimensionale del raggio e del diametro; in ambiente acido invece, i legami possono divenire più serrati, diminuendo così l’idrofilia, il raggio e il diametro della lente. Oltre alla stabilità è, però, anche importante la reversibilità delle dimensioni al variare dei parametri sopra riportati. Durante un processo di sterilizzazione, per esempio, non è importante che le caratteristiche geometriche non si modifichino, quanto invece è fondamentale che le eventuali variazioni si annullino con il ripristino del valore iniziale della temperatura.
PMMA
Gomme al silicone
pHEMA
Cornea
1.49
1.43
1.43
1.37
Tabella 4. Indice di rifrazione di alcuni materiali per lenti a contatto.
2. Struttura delle lenti a contatto
Bagnabilità
Conducibilità termica
È definita come la capacità che un liquido ha nel distribuirsi sulla superficie di un solido. È una caratteristica molto importante se si pensa che per la compatibilità fisiologica tra paziente e lente un sottile strato di film lacrimale pre-corneale è fondamentale. Le forze chimico-fisiche che intervengono nel fenomeno della bagnabilità sono: tensione superificiale del liquido bagnanate, tensione superficiale del solido, in realtà non molto importante, e la tensione interfacciale tra liquido e solido. Si ricordi che per tensione superficiale e tensione interfacciale si intende l’insieme delle forze molecolari di coesione tra le molecole della stessa sostanza e le molecole di sostanze diverse. Se la tensione superficiale del liquido è molto alta rispetto alla tensione interfacciale, il liquido si raccoglierà in forma di gocce sulla superficie; se invece la tensione superficiale del liquido è bassa rispetto alla tensione interfacciale, il liquido bagnerà diffusamente la superficie. La bagnabilità viene quantificata attraverso l’angolo di bagnabilità, o angolo di contatto, ovvero l’angolo delimitato dalla superficie del solido e dalla tangente alla superficie di separazione tra solido e liquido presa nel punto di contatto tra solido e liquido stesso. Un liquido che tende spontaneamente a bagnare e spandersi su tutta la superficie ha angolo di contatto pari a zero. Più acuto è l’angolo, maggiore sarà la bagnabilità; più è ottuso e minore sarà la bagnabilità. Si ricordi inoltre che dalla bagnabilità dipende anche la formazione di depositi proteici: una lente scarsamente bagnabile, infatti, facilita la formazione di depositi proteici e la loro denaturazione, creando legami saldi col polimero stesso e determinando così una modificazione delle caratteristiche con conseguente riduzione del comfort, della tolleranza della lente e potendo determinare inoltre fenomeni irritativi ed allergici
Intesa come capacità di condurre il calore, è una proprietà da non trascurare. Si ricordi infatti che fra la superficie esterna della lente e quella a contatto con l’esterno possono verificarsi differenze di temperatura abbastanza rilevanti. Durante il suo normale metabolismo, la cornea, come tutti i tessuti, produce calore, che se non viene disperso all’esterno porta ad un aumento del metabolismo e ad un conseguente maggiore consumo di ossigeno. Una lente a contatto con bassa conducibilità termica impedirà tale dissipazione determinando sensazione di fastidio e bruciore.
Resistenza al calore Intesa come capacità a non deformarsi con il calore. Essa è strettamente correlata alla presenza di legami crociati (crosslinkage), cioè legami tridimensionali tra le catene polimeriche: l’assenza di legami crociati comporta infatti una certa “termoplasticita”, ovvero la capacità di modificare la propria forma col calore (PMMA); al contrario i polimeri che possiedono legami crociati vengono detti “termostabili”, poiché resistono anche alle elevate temperature senza modificarsi.
Idrofilia È la capacità di un materiale di assorbire una certa quantità d’acqua; rende il materiale morbido e permette una certa trasmissibilità dell’ossigeno veicolato dall’acqua di imbibizione. Il grado di idrofilia è legato alla presenza di legami ossidrilici. Nei diversi materiali, le molecole d’acqua possono essere legate e far parte quindi dell’impalcatura strutturale, intermedie ed essere allora legate al polimero con legami deboli, oppure infine libere e in grado quindi di muoversi liberamente. Il grado di idrofilia infatti, è legato alla presenza di radicali idrossilici, questo spiega perché il PMMA è assolutamente idrofobico, mentre altre sostanze come l’HEMA possono arrivare anche al 78-80% d’acqua. I rapporti tra le catene polimeriche e le molecole d’acqua possono essere di diverso tipo: si può avere “acqua di legame” in cui le molecole d’acqua sono legate alle catene polimeriche per forza di attrazione molecolare, e sono abbastanza stabili; “acqua intermedia” con legami deboli tra le molecole d’acqua e i polimeri; infine “acqua libera” quando le molecole d’acqua si muovono liberamente ai poli del polimero. Tutte le lenti a contatto in materiale idrofilo vanno incontro ad un fenomeno di disidratazione quando vengono applicate; tale fenomeno è in genere direttamente proporzionale al contenuto di acqua del polimero, per cui la tendenza alla disidratazione sarà tanto maggiore quanto maggiore è il contenuto d’acqua polimerico. Per questo motivo lenti ad alta idrofilia si disidratano maggiormente rispetto a quelle a bassa idrofilia. La disidratazione comporta una riduzione della permeabilità all’ossigeno e una modificazione della curvatura della lente con conseguente alterazione della tollerabilità.
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Flessibilità La flessibilità di un materiale viene definita come la capacità di sopportare modificazioni e riprendere lo stato originario. Se le lenti hanno subito nel tempo piccole modificazioni dei parametri, entro certi limiti, questi possono ripristinarsi solo se queste sono state lavorate a freddo e tornite; non accade se invece sono state fabbricate a caldo e per stampaggio.
Permeabilità ai gas (Dk) Indica la capacità di un materiale di lasciarsi attraversare da un gas e varia con la temperatura. “D” esprime il coefficiente di diffusione attraverso quel materiale mentre “K” è il coefficiente di solubilità del gas all’interno del materiale. Moltiplicando D per K si ottiene la permeabilità al gas che è espressa in unità fattoriali Nx 10-11. L’apporto di un’adeguata quantità di ossigeno è di fondamentale importanza per il mantenimento dell’integrità corneale. L’ossigeno che arriva alla cornea è di provenienza atmosferica e la presenza di una lente a contatto potrebbe rappresentare un ostacolo fisico al passaggio di questo gas, inoltre potrebbe determinare un aumento del fabbisogno poiché essa, isolando la cornea, provoca un’alterazione della temperatura corneale. In presenza di una lac l’ossigeno può raggiungere la cornea o attraversando la lente oppure passando intorno ad essa. È chiaro quindi che, soprattutto per le lenti rigide che non sono permeabili all’ossigeno e per le quali quindi, l’unico sistema valido per il passaggio dell’ossigeno è quello della pompa lacrimale, l’applicazione della lente deve essere eseguita in maniera adeguata. Per le lenti idrofile invece, la permeabilità è legata all’acqua di imbibizione, per le lenti in silicone puro alle affinità chimico-fisiche dell’ossigeno per il polimero. Si ricordi che proprio per aumentare la permabilità all’ossigeno, l’HEMA viene in genere copolimerizzato col polivinil-pirrolidone, ottenendo così lenti con idratazione fino all’85%. Le caratteristiche del materiale che influenzano la permeabilità all’ossigeno sono: stato termodinamico e natura chimica del polimero, valore dell’idratazione; le caratteristiche della lente invece: spessore, bagnabilità, geometria. Il rapporto esistente tra la permeabilità e lo spessore della lente viene definito trasmissibilità e si ottiene dividendo il Dk del materiale con lo spessore della lente L (Dk/L); esso si esprime in unità fattoriali Nx 10-9. È chiaro che, essendo lo spessore “L” inversamente proporzionale alla permeabilità “DK”, più è spessa la lente e meno ossigeno passa.
Stabilite le principali caratteristiche chimico-fisiche dei materiali, un cenno meritano forma e geometria delle lenti a contatto. Prima di soffermarci sulla geometria propria della lenti è opportuno conoscere la nomenclatura dei parametri costruttivi (figure 1 e 2): – il raggio di curvatura, che rappresenta la parte esterna della lente che contiene la zona ottica esterna; – il raggio base, che rappresenta il raggio di curvatura della superficie interna della lente si deve adattare alla curvatura della cornea del portatore; – la flangia (curve periferiche), che è quella zona compresa tra la zona ottica e il bordo. A seconda del numero delle flangie le lenti prendono il nome di bicurve, tricurve, tetracurve ecc. Ogni flangia ha una sua larghezza che contribuisce al diametro totale; – il diametro della zona ottica inteso come il diametro della parte centrale della lente; – il diametro totale che è la somma dei diametri della zona ottica e delle flange; – lo spessore centrale è importante ai fini della trasmissione di ossigeno per le lenti morbide e gas permeabili;
Diametro della lente Zona ottica anteriore (AOZ)
= = = Zona ottica esterna (EOZ) = Zona ottica posteriore (POZ) = = Zona ottica interna (IOZ) = = - spessore = - angolo = Curve periferiche = = = Fusione =
Larghezza totale della lente Diametro della parte ottica anteriore, escluso il bordo Sinonimo di AOZ Diametro della curva maggiore (“curva base”) del retro della lente Sinonimo di POZ misurato solo nel centro esatto parte assottigliata della lente tra AOZ e bordo Da 1 a 3 curve formanti unʼarea arrotondata tra la curva base e il bordo estremo Giunzione liscia delle curve periferiche
Figura 1. Terminologia e misure delle lenti a contatto.
2. Struttura delle lenti a contatto
periferali coassiali intersecanti, tutte di raggio diverso. Tali lenti verranno chiamate tetracurve, pentacurve ecc. a seconda del numero di curve periferali. La ragione dell’uso delle multicurve risiede nel fatto che esse consentono un migliore avvicinamento della lente alla cornea, di conseguenza la loro applicazione risulta essere di notevole importanza in condizioni particolari, ovvero quando la differenza di curvatura fra le varia flange è notevole (per esempio nel cheratocono) (figura 3). Figura 2. Alcuni parametri costruttivi per lenti a contatto.
– del bordo della lente è importante considerare sia lo spessore che la rifinitura. La sopportazione della lente, infatti, dipende principalmente da questi fattori. Il bordo, in particolare, non deve essere ne tanto sottile da tagliare ne tanto spesso da rappresentare un ostacolo al movimento delle palpebre. Per quanto riguarda la forma, è necessario sottolineare che la faccia posteriore concava della lente è a contatto con la cornea e con il bordo palpebrale, e determina il comfort; la faccia anteriore convessa definisce invece la correzione ottica. Le lenti possono essere: • Sferiche: lenti le cui superfici sono porzioni di superficie sferica. La superficie interna di una lente a contatto può avere una, due o più curve. Nelle lenti monocurve la superficie posteriore è caratterizzata da una zona ottica totale che arriva fino al bordo, che sarà arrotondato per impedire sofferenza ai tessuti con cui viene a contatto. Le lenti a curva singola hanno però oramai solo un interesse storico. Nelle bicurve la geometria precedente è migliorata con l’introduzione di una flangia periferica che consente un migliore ricambio lacrimale. La superficie interna presenta così, due zone coassiali che si intersecano, ognuna con un diverso raggio di curvatura Nelle lenti tricurve viene aggiunta una flangia intermedia tra la zona sferica centrale e la flangia periferica, in modo da accompagnare meglio l’appiattimento periferico corneale. Si ottiene così una lente che ha una zona ottica e due zone periferali coassiali intersecanti, ognuno con raggio di curvatura diverso. Una lente invece si dice multicurva quando più flange intermedie vengono aggiunte per migliorare l’adattabilità, ottenendo una lente che ha una superficie interna con una zona ottica e più di due zone
• Asferiche: lenti le cui superfici sono porzioni di superficie asferiche (ellittiche, paraboliche, iperboliche, ecc.). La superficie interna della lente è caratterizzata da un graduale appiattimento dal centro verso la periferia (figura 3). • Toriche interne: lenti la cui superficie interna è una porzione di toroide (con due raggi di curvatura). Si utilizzano quando si ha una cornea con toricità accentuata, poiché in questo modo si può ricorrere ad una zona di appoggio (curva base) che accompagna l’andamento della cornea. • Toriche esterne: lenti la cui superficie esterna è una porzione di toroide (con due raggi di curvatura). Questo tipo di lenti si è utilizzato in presenza di un astigmatismo non corneale, infatti in questo caso la superficie interna della lente è sferica, mentre quella esterna torica (figura 4). • Bifocali e multifocali: le bifocali presentano due zone ottiche funzionalmente distinte, una per lontano e una per vicino. Nelle multifocali asferiche il potere varia sulla superficie della lente. In entrambi i casi le lenti possono essere costruite con il centro per la visione da vicino o per la visione da lontano. Le lenti a pupilla intelligente sono costituite da 5 aree concentriche: quella centrale è per la visione da lontano, le altre aree si alternano per vicino e per lontano (figure 5 e 6).
Figura 3. Curvatura delle superfici.
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Figura 6. Lenti multifocali multizonali “a pupilla intelligente”.
Figura 4. Geometria di una lente torica esterna.
La geometria delle lenti morbide, può essere analizzata anche in relazione al procedimento produttivo, poiché esso, spesso, determina anche le caratteristiche geometriche: – lenti morbide prodotte per tornitura, che generalmente presentano una geometria bicurva, con curva periferica molto piatta in quanto va ad appoggiarsi alla sclera, oppure con geometria asferica; – lenti morbide prodotte per centrifugazione, generalmente asferiche; – lenti morbide prodotte per stampaggio, che presentano in genere una geometria bicurva.
Figura 5. Lenti bifocali concentriche e multifocali asferiche.
L’impossibilità di avere a disposizione lenti a contatto in un materiale perfetto, ha costretto i fabbricanti a prendere in considerazione meteriali molto diversi tra loro, con la speranza di ottenere una lente ideale, che dovrebbe essere rigida per correggere la toricità corneale, morbida per un ottimo comfort e gas-permeabile per non alterare la fisiologia corneale. Tutto ciò ha portato, nel tempo, alla utilizzazione di diversi materiali e alla presentazione di una grande varietà di prodotti.
NOTE
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Permeabilità e compatibilità delle lenti a contatto Già negli anni 60, Hill collaborò con Fatt per la realizzazione di misure volte alla determinazione del consumo di ossigeno della cornea. L’approccio fu di tipo clinico, rivolgendo l’attenzione alla sofferenza ipossica, quantificata misurando le variazioni di parametri ad essa collegati, quali ad esempio il pH, la concentrazione di enzimi, l’edema, il consumo di glicogeno, la riduzione della sensibilità corneale, questi ricercatori dimostrarono che una buona sopportabilità delle LAC è legata alla possibilità di permeazione dell’ossigeno delle stesse. La permeabilità all’ossigeno è, quindi, considerata un predittore di compatibilità. Per questo, le ricerche sono andate sempre nella direzione di migliorare tale caratteristica nei materiali utilizzati, portando alla realizzazione delle attuali lenti, che permettono periodi di porto molto lunghi. Per supportare questi studi è importante sviluppare tecniche sperimentali utili alla caratterizzazione dei materiali e modelli teorici che permettano la miglior comprensione dei fenomeni fisiologici indotti dalle lenti. Al tempo stesso, è utile investigare sulle caratteristiche chimico-fisiche delle lenti e dei cambiamenti indotti nelle stesse per interazione con altre sostanze, come ad esempio le soluzioni di lacrime artificiali. Una migliore comprensione dei meccanismi fondamentali di interazione porterà ad un uso delle LAC come dispositivi terapeutici, non solo per la correzione dei difetti visivi, ma anche come strumenti per veicolare farmaci e regolare, in associazione con questi, le condizioni dell’occhio.
Caratteristiche fisiche delle lenti a contatto Le caratteristiche fisiche, quali l’elasticità, la bagnabilità, la resistenza alla disidratazione e la permeabilità all’ossigeno, dipendono dai materiali che costituiscono le LAC ed è molto importante porre l’attenzione su di esse per riuscire ad indicare la lente più opportuna per le diverse situazioni patologiche. L’uniforme distribuzione del film lacrimale sulla superficie anteriore della LAC, tra un ammiccamento e l’altro, evita la produzione di aree disseccate, minimizzando le deformazioni, garantendo le qualità
ottiche del diottro oculare ed evitando la formazione di depositi sulla superficie della lenti, specie delle lenti morbide. Inoltre, quando il film lacrimale è distribuito regolarmente sulle sue superfici, una lente a contatto è meglio tollerata poichè viene ridotto il trauma prodotto dallo sfregamento della lente sulla cornea e sulla congiuntiva palpebrale. Purtroppo, ogni LAC mostra una naturale tendenza alla disidratazione, generalmente più accentuata tanto maggiore è il suo contenuto d’acqua. La disidratazione comporta una modificazione della curvatura della lente, sindrome della lente stretta e riduzione della permeabilità all’ossigeno, con le ovvie conseguenze sulla salute dell’occhio e la tollerabilità della lente. La disidratazione e le modificazioni di forma e prestazioni della lente sull’occhio sono stati i principali responsabili delle complicanze e dei fenomeni di intolleranza e “drop-out” delle lenti a contatto morbide ad uso continuo. Per prevenire la disidratazione delle lenti si cerca di utilizzare dei materiali idrofili caratterizzati da un’alta percentuale di molecole d’acqua che risultino in forte interazione con il polimero (acqua “legata”), per le quali è necessaria una maggiore energia per allontanarsi dalla LAC. Tuttavia, ad oggi, non è ancora del tutto chiaro se, a parità di idratazione del materiale, un maggior tasso di acqua legata possa limitare la possibilità di diffondere l’ossigeno. Altri parametri fisici legati all’idratazione della lente sono la permeabilità e la trasmissibilità dell’ossigeno, caratteristiche ad una data temperatura di ogni materiale, fondamentali per definire la possibilità di un porto prolungato della lente stessa. La permeabiltà (Dk) è definita come prodotto del coefficiente di diffusione dell’ossigeno attraverso la lente D per il coefficiente di solubilità (k) dello stesso gas nel materiale di cui è costituita la lente. Unità di misura per la permeabilità* 10-11(cm2/s) (ml O2/(ml mmHg)) oppure, 10-11 (cm3O2cm) / (cm2 s mmHg). La trasmissibilità (DK/t) è il rapporto tra la permeabilità e lo spessore (t) delle lenti. Unità di misura per la trasmissibilità* 10-9(cm/s) (ml O2/(ml mmHg)) oppure, 10-9 (cm3 O2)/(cm2 s mmHg). Fin dalla comparsa delle prime LAC, tale parametro è sempre stato utilizzato per indicare le prestazioni delle diverse lenti.
* Nel seguito del testo riportando i valori di trasmissibilità e permeabilità si intende essi siano espressi nelle unità di permeabilità e trasmissibilità così definite.
3. Permeabilità e compatibilità delle lenti a contatto
Disponibilità di ossigeno per la cornea durante il porto di lenti a contatto Dopo aver descritto le caratteristiche fisiche delle LAC, passiamo a considerare la loro interazione con l’occhio e individuare quali siano gli aspetti più importanti su cui indirizzare l’attenzione del clinico. Prima di ogni altra cosa dobbiamo considerare le lacrime. Esse rappresentano l’interfaccia naturale tra l’occhio e l’ambiente esterno e, quindi, è importante considerare il loro ruolo e come la lente possa alterare l’interazione tra l’occhio e l’ambiente. Le lacrime sono un importante veicolo di nutrienti (glucosio e ossigeno), di scarti metabolici potenzialmente flogogeni e tossici (CO2, nitrati, cellule morte), di sistemi di protezione ed attivazione biologica quali le immunoglobuline, proteasi, ormoni etc. che devono liberamente circolare per mantenere l’omeostasi dell’occhio. La LAC determina la formazione di un nuovo menisco lacrimale che sottrae fluido lacrimale alla superficie oculare e modifica le forze che pongono sotto tensione il film lacrimale creando aree di assottigliamento a livello della congiuntiva bulbare. Tutto questo perturba il sistema lacrimale con un aumento dei rischi di instabilità del film lacrimale e successivo instaurarsi di un occhio secco. Per tale motivo, la lente a contatto deve essere costituita da materiali il più possibile permeabili ed avere una forma tale da consentire un buon spostamento della lente, che consenta il ricambio del fluido lacrimale sotto della stessa (effetto pompa). È estremamente complesso studiare le variazioni operate sul sistema occhio da una lente a contatto, come anche la sola descrizione dei flussi attraverso la stessa ed è necessario evidenziare, da subito, la differenza tra la valutazione da parte del clinico del danno indotto dalla lente e la misura dei parametri chimico-fisici che la caratterizzano. La valutazione clinica riguarda il caso reale, non sono necessarie approssimazioni o modelli di alcuna natura, la lente viene posta sull’occhio, che attiva tutti i processi reattivi che competono a tale sistema, e il medico valuta gli effetti. Le misure chimico-fisiche, tranne rarissimi casi, sono eseguite esaminando la lente al di fuori del sistema reale e correlare al comportamento che si avrà nell’occhio i risultati ottenuti nei vari sistemi modello è operazione non banale. Nonostante questo, come già accennato, è sempre stata utilizzata la misura della permeabilità all’ossi-
geno come parametro caratterizzante la LAC, spesso adottando protocolli sperimentali così lontani dalla condizione operativa della lente che i risultati ottenuti non si rivelano utili a caratterizzare la reale compatibilità di tali lenti. Soltanto negli ultimi anni si è cominciato a riconsiderare tale problematica partendo dall’evidenza dei danni provocati da materiali poco compatibili, che tra le altre caratteristiche hanno la scarsa permeabilità all’ossigeno, per arrivare a correlare le documentate patologie con parametri chimico-fisici della lente a contatto, misurati secondo adatti protocolli sperimentali, per poi utilizzare questi ultimi come predittori di una buona portabilità e compatibilità. Quindi è necessario approcciare il problema osservando le patologie indotte da un ridotto apporto di ossigeno alla superficie dell’occhio cercando scale che quantifichino il danno. L’ipossia corneale offre una vasta gamma di risposte misurabili quali l’edema corneale[1-3], le variazioni del pH[4], la deplezione di glicogeno[5], la riduzione della sensibilità corneale[6], l’insorgenza del polimegatismo endoteliale, la formazione di microcisti. Trials clinici si sono avvalsi di tali alterazioni come markers di sofferenza corneale insorta per deficit di ossigeno. Quindi, molto importante è correlare l’effettivo apporto di ossigeno alla cornea con gli eventi fisiopatologici, innanzi citati. Ma, essendo processi complessi, che spesso coinvolgono una serie di eventi a cascata, almeno inizialmente è stato utilizzato come indicatore di ipossia più diretto il “tasso di deplezione” di ossigeno da parte della cornea da un dispositivo che fornisce ossigeno a pressione nota[7]. Allo scopo di quantificare l’ipossia corneale indotta dal porto di lenti a contatto è stata introdotta la tecnica dell’EOP (Equivalent Oxygen Percentage). Tale tecnica inizialmente introdotta da R.M. Hill su sistemi modello animale, è poi stata trasferita all’uomo. EOP prevede una procedura sperimentale a due stadi (figura 1). Prima si valuta l’assorbimento dell’ossigeno conseguente all’esposizione dell’occhio ad ambienti con diversi tassi noti di ossigeno, in modo da operare una calibrazione del metodo. Quindi, si misura l’assorbimento dell’ossigeno da parte della cornea conseguente al porto della lente da valutare e, confrontando il valore ottenuto con la curva di calibrazione, si determina EOP corrispondente. In altre parole, l’ossigeno assorbito dalla cornea in questa fase determina l’intensità dell’ipossia sofferta dall’occhio in presenza della lente. La scala in cui vengono espressi i risultati della misu-
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Figura 1. Valutazione della percentuale di ossigeno equivalente (EOP).
ra EOP fissa il valore massimo al 20,9% corrispondente ad una tasso di ossigeno pari 155 mmHg, cioè quello che in condizioni normali viene misurato nell’atmosfera ed al quale corrisponde la condizione ottimale per l’occhio. Se l’individuazione del valore cui corrisponde la condizione ottimale dell’occhio non comporta alcuna difficoltà, la valutazione del valore minimo per garantire un porto accettabile della lente è stata oggetto di molti studi, in quanto ad esso è legata la compatibilità stessa della lente. A tal proposito, inizialmente è stato considerato lo stato dell’occhio dopo un lungo periodo di riposo e quindi dopo una prolungata chiusura dello stesso ed è stata determinata per tale situazione una EOP pari al 7,4% corrispondente a 55 mmHg. Dopo aver caratterizzato la “normalità”, lo scopo della ricerca è estendere sempre più il periodo di porto della lente e quindi valutare l’effetto di un ridotto apporto di ossigeno e i valori minimi per garantire la compatibilità della lente. A tal fine risulta molto utile corrrelare all’EOP la valutazione dell’integrità metabolica della cornea fatta attraverso la misura dell’edema corneale.
Figura 2. Una percentuale di ossigeno equivalente del 10% è necessaria per evitare l'edema corneale patologico.
Notiamo che la presenza di un edema corneale pari al 4%, ritenuto “fisiologico” al risveglio mattutino in assenza di LAC, testimonia che la linea dell’edema non corrisponde allo zero di EOP[2,8] (figura 2). Nel 1970 Polse e Mandell[1], avendo come riferimento la variazione di spessore corneale per effetto dell’alterazione del fenomeno della deturgescenza, dimostrarono che la pressione parziale minima di ossigeno a livello dell’interfaccia film lacrimale-cornea, al fine di evitare l’edema corneale era di 11-19 mmHg (EOP 1,5-2,5%). Mandell e Farrel, nel 1980[9], spostano questo limite al 5%. Tali ricerche, sebbene condotte con metodi rigorosi avevano come punto debole il fatto che consideravano un numero estremamente limitato di soggetti, proprio per un aspetto che presenta una enorme variabilità individuale. Inoltre, risultava evidente che un certo numero di individui non portatori di LAC evidenziavano un edema stromale, dopo un certo periodo di sonno, condizione cui corrisponde un EOP di 7,5%, ben superiore quindi, al 2-5% trovato dai ricercatori americani. Differenti valori di pressione parziale minima sono stati trovati da altri ricercatori (tabella 1) ma, essendo diverso il criterio di riferimento della disfunzione corneale, non sono comparabili. Generale consenso, successivamente, hanno ottenuto i lavori effettuati nel 1984 al CCLRU di Sidney, dove Holden et al.[2] proponevano la concentrazione di ossigeno tra lente e cornea (EOP) del 10% ad occhi aperti, per garantire un edema corneale nullo durante l’uso diurno.
Caratteristiche chimico-fisiche delle lenti e loro compatibilità Tenendo conto delle valutazioni cliniche, si è cercato di correlare le caratteristiche chimico-fisiche delle diverse lenti (permeabilità (Dk) e la trasmissibilità dell’ossigeno (Dk/t)), con l’EOP ed altri parametri fisiologici variati a causa dell’uso delle lenti, per arrivare a definire dei predittori fisici della compatibilità delle stesse. Holden e Mertz, già nel 1984[2], avevano evidenziato che il valore critico di trasmissibilità (Dk/t) delle LAC che provocava un edema pari al 4% durante le ore notturne fosse di 87 unità, corrispondente ad un EOP del 18%. Mizutani et al.[10] hanno approfondito tale studio quantificando non l’insorgere dell’edema ma l’assottigliamento della cornea, osservando, come poi con-
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3. Permeabilità e compatibilità delle lenti a contatto
Autore
Anno
Pressione parziale dellʼossigeno (%)
Uniacke C.A. et al.
1972
5.0
Hill R.M. et al. Millodot M. e OʼLeary D.J. Hamano H. et al. Holden B.A. et al. Williams L. e Holden B.A. Brennan N.A. et al.
1974 1980 1983 1984 1986 1988
4.0 8.0 13.2 10.0 15.0 18.0
Criterio Consumo di glicogeno Reattività latticodeidrogenasi Edema epiteliale Reattività succinodeidrogenasi Sensibilità corneale Accumulo acido lattico Edema corneale Presenza di blebs endoteliali Edema corneale
Tabella 1. Valori di EOP valutati in base a diversi “predittori fisiologici”.
fermato da Sweeney[11], che un valore di Dk/t di circa 34 unità limita tale variazione entro il limite tollerabile dell’1% durante il porto diurno. Nel 1999 Harvitt e Bonanno[12] hanno individuato un nuovo valore di Dk/t durante il porto notturno per ridurre l’ipossia stromale grazie ad un adeguato apporto di ossigeno; tale valore è risultato essere di 125·10-9 (figura 3). Tale valore garantirebbe la produzione di LAC “sicure” anche per quei pazienti che mostrano una maggiore suscettibilità all’instaurarsi dell’ipossia (vedi avanti). Si è visto infatti che le risposte individuali sono ampie ed eterogenee, nel senso che alcuni soggetti possono avere una maggiore predisposizione all’insorgenza dell’edema rispetto ad altri che presentano valori anche doppi rispetto alla media. Proprio perché le variazioni individuali fluttuano in un intervallo ampio, c’è il bisogno di fare LAC che producano un edema minimo anche nei pazienti a maggior suscettibilità. Lo scopo è di sviluppare dunque parametri che predicano il successo delle LAC ad uso continuo per il 90-95% degli ametropi. Per altro, Benjamin[13], pochi anni prima, aveva dimostrato, per la valutazione della compatibilità delle LAC, una forte correlazione positiva tra EOP e la trasmissibilità dell’ossigeno nell’intervallo di applicabilità pratica dal 4 al 19%. La curva riportata in figura 4 sintetizza i risultati ottenuti, mostrando una pendenza maggiore in corrispondenza della parte in basso a sinistra, al disotto del 6% di ossigeno, e proNome della classe
Dk/t u.
EOP %
Bassa Media Alta Super Iper
<12 12-25 26-50 51-80 >80
<6 6-11 11-15 15-18 >18
Tabella 2. Classificazione delle lac in base al loro Dk/t (Benjamin, 1993).
Figura 3. Il valore di trasmissibilità all'ossigeno (Dk/t) di una LAC richiesto per avere un edema corneale del 4% è di 87x109u. (Holden e Mertz, 1984). Per ridurre il livello di edema al 3,5% occorre che il Dk/t sia di 107x10-9u. Per ottenere un livello di edema ancora più basso pari al 3,2% il Dk/t deve essere di 125x10-9 u. (Harwitt e Bonanno, 1999).
gressivamente un appiattimento che diventa un andamento asintotico intorno al 18% di ossigeno, nella parte in alto a destra. Tale andamento testimonia una dipendenza non lineare dell’EOP dalla trasmissibilità. Alla curva è stata sovrapposta da Benjamin una classificazione delle LAC in base alla loro trasmissibilità (bassa, media, alta, super ed iper) i cui dettagli vengono riportati in tabella 2. Tale classificazione è utile al fine di guidare il clinico nella scelta dell’indicazione terapeutica, facendogli operare confronti, in termini di ossigenazione corneale, tra categorie diverse di LAC e non all’interno della stessa categoria. Infatti, è molto importante sottolineare che la variazione della trasmissibilità si ripercuote in maniera molto diversa sulla EOP a seconda della categoria che si esamina. Per lenti appartenenti, ad esempio, alla categoria a bassa trasmissibilità anche piccole variazioni di trasmissibilità corrispondono a significative variazioni di EOP, mentre nella categoria iper, anche variazioni di decine di unità DK/t non fanno sostanzialmente cambiare l’EOP.
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Figura 6. Elettrodo polarografico ad ossigeno.
Figura 4. Relazione tra EOP e Dk/t. I riquadri individuano classi di lenti caratterizzate da diversa trasmissibilità (Benjamin, 1993).
È opportuno ricordare, al fine di meglio comprendere i dati forniti dai diversi ricercatori, che il valore di permeabilità (Dk) dello strato di lacrime che ricopre normalmente la cornea è pari, a 21°C, a 78 unità. Un altro approccio per la valutazione della compatibilità delle LAC è stato proposto nel 1997 da Smith et al.[14]. Tali autori hanno descritto la correlazione tra trasmissibilità della lente e reazione corneale, in un intervallo di trasmissibilità da 0 a 189 unità (figura 5), introducendo un nuovo parametro: l’unità di stress ipossico (HSU).
In questa scala 100 HSU rappresentano la richiesta di ossigeno della cornea che segue all’uso per trecento secondi, in assenza di ammiccamento, di LAC con una trasmissibilità (Dk/t) nulla (allo scopo possono essere utilizzate LAC di polimetilmetacrilato: PMMA), e zero HSU rappresenta la richiesta normale di ossigeno della cornea, quando è esposta all’aria (senza uso di LAC). Quindi, utilizzando questa metodica è possibile predire la reazione della cornea, espressa in unità di stress ipossico, nota la trasmissibilità della lente, come rappresentato nel grafico di figura 5 dove la reazione corneale è riportata sull’asse delle ordinate e la Dk/t su quella delle ascisse (vedi avanti).
Metodi standard di misura della trasmissibilità Come riportato nei paragrafi precedenti la trasmissibilità dell’ossigeno è la caratteristica fisica che meglio predice la compatibilità della lente a contatto. I metodi utilizzati dalle case produttrici per la determinazione della permeabilità e trasmissibilità delle lenti a contatto sono stati standardizzati e registrati dall’organismo internazionale preposto ISO (Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione). La norma internazionale ISO 9913, elaborata dal preposto comitato tecnico, comprende sotto il titolo generale “ottica e strumenti di ottica – lenti a contatto” le seguenti parti:
Figura 5. Reazione corneale, in unità di stress ipossico (HSU), indotta dalla trasmissibilità delle lac in un range Dk/t, da 0 a 200x10-9u. Come punti di riferimento ne sono riportati sei in questo modello semplificato. Punto A: indica la massima risposta ipossica (100 HSU) associata con l'uso stabilizzato (non ammiccamento) delle lenti in PMMA. Punto B: indica una reazione di 30 HSU ad un valore di 30 DK/t. Punto C: indica una reazione di 10 HSU ad un valore di 90 Dk/t. L'aria (non uso di lenti) produce una reazione di 0 HSU (non stress ipossico) su questa scala (Hill, 1999).
Parte 1: determinazione della permeabilità all’ossigeno e della trasmissibilità dell’ossigeno con il metodo di Fatt Parte 2: determinazione della permeabilità all’ossigeno e trasmissibilità dell’ossigeno con il metodo coulometrico.
3. Permeabilità e compatibilità delle lenti a contatto
ISO 9913-1 Il metodo messo a punto da Fatt consiste in una misura di tipo polarografico realizzata mediante un elettrodo di tipo Clark (figura 6). Tale metodo può essere applicato per materiali caratterizzati da una permeabilità compresa tra 0 e 75 unità. Con tale metodo si quantifica l’ossigeno che attraversa una lente sottoposta ad un gradiente di pressione dello stesso gas. Il flusso di ossigeno J che giunge sull’elettrodo attraverso una lente di spessore t, è dato dall’applicazione della legge di Fick: J = -Dk ΔP/t ove Δp (= P1-P0) misura il gradiente di pressione parziale di O2 tra le due facce della lente, Dk (prodotto del coefficiente di diffusione D per il coefficiente di solubilità k dell’ossigeno nel materiale di cui è costituita la lente) definisce la permeabilità e Dk/t definisce la trasmissibilità. Sulla superficie della LAC a contatto con il catodo si ammette che la pressione parziale di ossigeno sia uguale a zero (P1 = 0) e si suppone che sull’altro lato della lente la pressione parziale dell’ossigeno sia quella dell’aria (P0 = PO2). L’ossigeno che giunge al catodo dell’elettrodo viene ridotto secondo la reazione: O2 + 2H2O + 4e– → 4 OH– e la corrente catodica che si genera (I) è data secondo la legge di Faraday dalla seguente relazione: I=nAFJ dove n è il numero di elettroni scambiati per ogni molecola di ossigeno (n = 4), F è la costante di Faraday, pari alla quantità di carica trasportata da una mole di elettroni (96480 Coulomb/mol), A è l’area della lente a contatto con il catodo, J è il flusso di ossigeno che attraversa tale area. Quindi, l’intensità della corrente cresce linearmente all’aumentare della pressione parziale di ossigeno e risulta proporzionale alla trasmissibilità dell’ossigeno del materiale. È possibile tarare la strumentazione mediante materiali di riferimento a trasmissibilità nota. La cella per la misura del Dk o del Dk/L (trasmissibilità del sistema), è costituita da un catodo d’oro o in platino, il cui diametro va da 4 a 7,2 mm e da un anodo, in argento, che deve avere una superficie concentrica al catodo e superiore ad esso (diametro 7,8 mm). Tra i due elettrodi viene stabilita una diffe-
renza di potenziale sufficiente a fare avvenire la reazione di riduzione dell’ossigeno. L’apparecchio deve avere un dispositivo che permette di appoggiare adeguatamente la lente campione sull’elettrodo e far passare liberamente l’ossigeno nella lente. Tale dispositivo è rappresentato da un anello che assicura che la superficie della lente sia appoggiata alla superficie piatta del catodo e sull’anello è fissato un reticolo in nylon. Il campione di prova usato nel metodo Fatt deve avere una superficie anteriore e posteriore parallela o quasi, il più possibile uniforme che corrisponde ad un potere diottrico da +0,50 a –0,50 ed una curvatura ottica posteriore compresa tra 7,40 e 8,60. Se il campione usato è in idrogel, esso deve essere posto in una soluzione salina per almeno 24 ore prima delle prove ed equilibrato alla temperatura dell’esperimento per almeno 2 ore. Sottolineamo due aspetti che debbono essere tenuti presenti adottando tale metodo di misura. Il primo deriva dall’attenzione che deve essere posta nel valutare i diametri della superficie anteriore esposta all’ossigeno e la posteriore attraverso cui l’ossigeno fluisce ed è misurato. Essendo la corrente misurata proporzionale al flusso dell’ossigeno, che a sua volta dipende dalla superficie interessata, una differenza tra i diametri genera il così detto effetto di bordo, che deve opportunamente essere corretto. Un secondo fattore di correzione è necessario al fine di tener conto dell’effetto dello strato di confine. Tale problema deriva dal dover utilizzare come sorgente di ossigeno un bagnomaria saturo. Durante la misura uno strato di acqua risulta in ogni caso a contatto con la lente e costituisce un’ulteriore barriera al flusso dell’ossigeno. Quindi, i dati ottenuti risultano fornire una permeabilità apparente e soltanto con una opportuna elaborazione forniranno la permeabilità effettiva del materiale esaminato. La seconda parte di ISO 9913-2 descrive il metodo coulometrico per la determinazione della ossigeno permeabilità e la ossigeno trasmissibilità di LAC rigide e flessibili non idrogel, che includono diversi poteri rifrattivi; esso specifica la procedura per la rilevazione delle misure e le condizioni sotto le quali si effettuano le misurazioni. Questa norma è stata adottata per la determinazione di Dk al di sopra di 75, superando così il range di misurazione del metodo standard polarografico di Fatt; comunque il metodo coulometrico non è applicabile per le LAC idrogel. Il metodo coulometrico può essere utilizzato per LAC
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rigide o flessibile non idrogel. La lente viene posta nell’apposito apparecchio in contatto con miscele di gas alla temperatura dell’occhio (35°C). La LAC separa due camere e agisce come barriera al flusso di ossigeno dalla camera anteriore a quella posteriore. Si epurano gli ambienti e la LAC di tutto l’ossigeno e poi si infonde ossigeno in modo da riempire la camera anteriore che potrà arrivare alla camera posteriore solo attraversando la lente. La concentrazione di ossigeno nella camera posteriore è la misura della trasmissibilità della lente. Per quantificare la quantità di ossigeno presente nella camera si usa un gas inerte che circola nella camera posteriore e rimuove le molecole dell’ossigeno che hanno attraversato la lente. Il gas trasportatore conterrà a tal punto una piccola concentrazione di ossigeno rilevata da un sensore coulometrico (ad esempio un elettrodo poroso Nickel-Cadmio, utilizzato in congiunzione con un blocco di grafite, su cui viene fatto assorbire l’elettrolita idrossido di potassio) che produce una corrente proporzionale alla concentrazione di ossigeno circolante. Tale metodo, utilizzando miscele gassose, non comporta l’effetto dello strato di confine e adeguati accorgimenti tecnici rendono trascurabile l’effetto di bordo. Nella tabella 3 sono riportati valori di Dk misurati con il metodo di Fatt e riportati recentemente da Young e Benjamin[15].
Metodo alternativo di stima della permeabilità: misure di Risonanza Magnetica Nucleare (LF-NMR) Questo metodo sviluppato da C. Manetti e N. Pescosolido[16] permette una stima della permeabilità di lenti hydrogel mediante misure di risonanza magnetica nucleare a bassa risoluzione (LF-NMR).
Stima del coefficiente di auto-diffusione dellʼacqua Assumendo che nelle lenti a contatto la diffusione dell’acqua sia ostruita dalla loro rete polimerica e che le molecole d’acqua “legate”alla stessa, non partecipano efficacemente al moto diffusivo, si può esprimere il coefficiente di auto-diffusione dell’acqua (Deff) utilizzando la semplice relazione matematica: Deff = A (1–pb) DH2O + pb Dp in cui A è il coefficiente di ostruzione caratteristico
del singolo materiale; pb è la percentuale di molecole di acqua legate alle maglie del polimero; (1–pb) è la frazione di molecole di acqua mobile (interfacciale e di bulk) all’interno della lente; DH2O è il coefficiente di auto-diffusione dell’acqua misurato alla stessa temperatura (noto dai dati di letteratura); Dp è il coefficiente di diffusione del polimero. Se si considera uguale a zero Dp l’equazione precedente si semplifica nel modo seguente: Deff = A (1–pb) DH2O Data l’estrema omogeneità microscopica degli idrogel, si può ipotizzare che il coefficiente di ostruzione (A) sia pari alla porzione di volume effettivamente occupata dall’acqua nel polimero rigonfiato. Ad esempio, nel caso di una lente costituita dal 100% di acqua A = 1 e Deff = DH2O, mentre per lenti al 38% in peso di acqua A = 0,38. Effettuando, misure del tempo di rilassamento NMR T2, ed applicando un fitting multiesponenziale ai dati ottenuti è possibile determinare la frazione di acqua legata (pb) e stimare, perciò, Deff.
Stima del contributo diffusivo alla permeabilità allʼossigeno in una lente Come già visto la permeabilità (P) si definisce come il prodotto di una proprietà di trasporto, il coefficiente di diffusione (D) ed una proprietà termodinamica (k), che rappresenta la solubilità del gas nel polimero rigonfiato di acqua: P = Dk Nel considerare una lente a contatto in idrogel, è evidente che parte del suo volume è occupato dalla struttura polimerica e parte dalle molecole d’acqua che lo rigonfiano. È possibile calcolare la quantità di ossigeno presente nella lente a contatto come pari alla quantità di ossigeno presente nella porzione di volume occupato dalle molecole di acqua e coerente con il coefficiente di solubilità (k) tabulato. La solubilità dell’ossigeno nel materiale rigonfiato (keff), quindi, sarà pari al prodotto tra coefficiente di solubilità dell’ossigeno nell’acqua (kH2O) ed il valore percentuale del contenuto in acqua della lente, espresso come complemento ad uno (W) (usualmente riportato sulla confezione della lente): keff = W . kH2O Ad esempio, nel caso di una lente costituita dal 100% di acqua keff = kH2O, mentre per lenti al 38% in peso di acqua keff = 0,38 . kH2O.
3. Permeabilità e compatibilità delle lenti a contatto
In base al modello presentato nella sezione precedente, nell’ipotesi che il coefficiente di autodiffusione dell’acqua sia ridotto dalla presenza del polimero e dalle molecole di acqua che risultano avere un’ interazione maggiore con esso e che lo spazio accessibile all’ossigeno sia quello effettivamente disponibile all’acqua, che diffonde all’interno della lente, è possibile calcolare il contributo diffusivo alla permeabilità (Pdiff) all’ossigeno della lente esaminata utilizzando come coefficiente di diffusione dell’ossigeno in acqua il valore del coefficiente di auto-diffusione dell’acqua stimato (Deff): Pdiff = Deff keff
Misura fisiologica della permeabilità e della trasmissibilità Dopo aver presentato diverse metodiche chimicofisiche per la determinazione diretta della permeabilità e trasmissibilità delle lenti vediamo ora come sia possibile correlarle alla risposta fisiologica corneale ampliando quanto prima riportato. In particolare, è possibile utilizzare la relazione tra trasmissibilità delle LAC (Dk/t) e la reazione corneale, stimata in unità HSU, ricavando direttamente dal grafico mostrato in figura 5 il valore di trasmissibilità corrispondente allo stress ipossico valutato. Ne derivano misure di grandezze definite fisiologicamente effettive: • trasmissibilità fisiologicamente effettiva delle LAC, cioè qual è il valore di “pe Dk/t”, dove il prefisso “pe” sta per “physiologically effective”, delle LAC implicato nell’ induzione dell’ipossia corneale, • permeabilità fisiologicamente effettiva delle LAC o “peDk” ricavabile moltiplicando la trasmissibilità per lo spessore (t) della lente. Mediante questo metodo è possibile non solo confrontare la compatibilità delle diverse lenti, ma anche valutare la diversa trasmissibilità di punti diversi della lente a contatto. Due possibili applicazioni di questo “predittore fisiologico” sono state riportate da Hill[17-20]. La prima riguarda la valutazione, attraverso la immediata reazione della cornea dopo l’uso di LAC, della fisiologica e effettiva trasmissibilità delle lenti e della permeabilità all’ossigeno attraverso un solo materiale ad un singolo strato. Conoscendo, in base ai dati di Brunstetter[21,22], i
Figura 7. Valutazione della trasmissibilità fisiologicamente effettiva (pe Dk/t) delle lac e della permeabilità (pe Dk) dei materiali attraverso la reazione della cornea dopo lʼuso di un materiale singolo, e a singolo strato (Hill, 1999). Quali sono i livelli di stress ipossico (in HSU), confrontati con una lente in PMMA “di controllo”, di una lente “test” RGP di –3.00 D nella regione centrale (C) e nella regione inferiore (I)? Rispettivamente 28 e 35 HSU.
valori dello spessore centrale e medioperiferico di una lente rigida gas permeabile (RGP), si può calcolare la reazione corneale (in HSU) nei punti corrispondenti, dopo un uso stabilizzato (senza ammiccamento) di 300 secondi. Allo stesso modo, per confronto, si calcola la reazione corneale, negli stessi due punti, a LAC con identico design ma con una trasmissibilità praticamente nulla (le LAC in esame sono le PMMA con Dk inferiore a 0,2). La reazione corneale nel punto centrale è risultata pari a 100 HSU, mentre la reazione corneale nel punto medioperiferico è risultata 105 HSU; ciò è dovuto, probabilmente, al fatto che in quel punto lo strato di cellule è più spesso. Quando la cornea è coperta da una lente RGP, comunque, la reazione corneale è significativamente inferiore in entrambi i due punti a testimoniare che le lenti, come le RGP, fatte con materiali ad elevata permeabilità di ossigeno, garantiscono una ottimale trasmissibilità dell’ossigeno. I risultati sono riassunti nella figura 7. Quali sono i valori di Dk/t di una LAC RGP di –3.00 D e qual è la permeabilità (Dk) del materiale? Riprendendo i valori della figura 7 la reazione pari a 28 HSU nel punto centrale (il cui spessore è di 0,307) della lente, è associata al valore di peDk/t di 29,5 unità. Procedendo allo stesso modo, il valore peDk/t, che corrisponde a una reazione corneale pari a 35 HSU, per il punto medioperiferico (il cui spessore è di 0,370) della lente, risulta un valore di peDk/t di 25 (figura 7). Dal prodotto della trasmissibilità per lo spessore della lente si ricava peDk che dovrebbe essere uguale nei due punti ma che in realtà leggermente varia per la differenza dello spessore del film lacrimale posto dietro di essa.
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Il valore di peDk in questi due punti è rispettivamente 90,5 · 10-11u. nel punto centrale e 92,5 · 10-11 u. nel punto medioperiferico. La seconda importante e utile applicazione di questi due parametri è quella di valutare la peDk/t e la peDk all’ossigeno attraverso più strati e più materiali, come ad esempio attraverso una lente bifocale. Brunstetter[21,22], recentemente, ha riportato le reazioni corneali con l’uso di LAC multifocali, che rappresentano una via multimateriale e multistrato attraverso cui l’ossigeno deve passare per arrivare alla superficie corneale sottostante. Si valuta la reazione corneale della lente bifocale RGP nei punti utilizzati per la visione da vicino (inferioremedioperiferico), per lontano(centrale) e della LAC “non ossigeno-permeabili” (PMMA) sempre nei due punti, medioperiferico e centrale. I livelli di stress ipossico, in entrambi i siti considerati, delle LAC PMMA sono pari a 100 HSU; quelli delle LAC bifocali RGP sono più bassi (47 e 78 HSU, rispettivamente, al centro della lente e nella regione medioperiferica). Quali sono allora i valori di “peDk/t” e “peDk” nel centro della lente e nella regione addizionale per vicino delle lenti bifocali RGP? Dalla reazione corneale ipossica, noto lo spessore delle due zone della lente, si ha che i valori di peDk/t sono pari a 19 e 6 per la zona centrale e periferica e rispettivamente un peDk di 60 e 22,4. Altre potenziali applicazioni della metodica di Smith riguardano la valutazione in termini di diffusibilità e permeabilità fisiologicamente effettiva di sistemi LAC a doppio-materiale “piggyback” e di LAC a indice progressivo e multistrato (ad esempio quelle cosmetiche). Questo modello offre dunque ulteriori mezzi per valutare la sicurezza e la qualità delle LAC attuali, ponendo come obiettivo quello di estendere l’intervallo di trasmissibilità oltre il limite attuale (150 · 10-9 u.), ottenendo così una più nuova generazione di LAC ad altissima trasmissibilità.
Figura 8. Sistema a tre strati: il primo strato è dato dall'acqua sopra la LAC (volume 1), dove viene fatto fluire l'ossigeno ad una pressione di 155 mmHg, il secondo strato è dato dalla lente, il terzo strato è dato dall'acqua sotto la LAC (volume 2).
atmosferico giunge al catodo stesso. Ci riferiamo ad un assemblaggio strumentale descritto da Compan[23] per la valutazione della permeabilità di generiche membrane idrogel, che prevede al disopra del catodo un sottile strato di acqua quindi la lente a contatto ed ancora sopra uno spessore d’acqua in cui venga fatto fluire ossigeno ad una pressione di 155 mmHg (figura 8). I tre diversi compartimenti, caratterizzati dai rispettivi spessori (t), attraverso i quali l’ossigeno fluisce, arrecano un loro contributo alla trasmissibilità dell’intero dispositivo che potremo così definire apparente. Quindi la trasmissibilità apparente” (Dkapp.), somma della “resistenza” dei tre strati al flusso di ossigeno, sarà data da: (Dk)apparente / tapparente = D1 k1 / t1 + (Dk)lente / tlente + D2 k2 / t2 Compan suggerisce quindi la possibilità di determinare i diversi contributi alla trasmissibilità facendo variare lo spessore del volume 1 e mantenendo costante il volume 2 come descritto in figura 9.
Modelli Per una comprensione più profonda dei fenomeni dovuti al porto delle lenti a contatto è fondamentale riferirsi a dei modelli matematici che razionalizzino le misure effettuate. Al fine di introdurli, consideriamo ora in maniera diversa la strumentazione adibita alla misura polarografica della trasmissibilità. Possiamo così pensare al dispositivo paragonando il catodo ad una cornea che consuma ossigeno per i suoi processi metabolici e ai diversi compartimenti attraverso i quali l’ossigeno
Figura 9. Rappresentazione dell'elettrodo polarografico usato nel metodo di Fatt.
3. Permeabilità e compatibilità delle lenti a contatto
In tal modo vengono ottenuti valori diversi di trasmissibilità apparente, perché ad ogni diversa situazione corrisponderà una “resistenza” dell’ossigeno diversa. Riportando in grafico il reciproco dei valori della trasmissibilità apparente ottenuti in funzione dello spessore dell’acqua che cambia possiamo ottenere una retta dalla quale calcolare il Dk della lente. Quindi l’esperimento descritto può modellare in parte la situazione reale. Infatti, anche nel caso reale l’ossigeno atmosferico arriva ad essere consumato dai tessuti oculari attraversando diversi strati. È per questo importante non considerare le caratteristiche fisiche dei materiali separatamente dal contesto in cui essi si trovano ad operare. L’uso di modelli permette oltre la razionalizzazione dei dati di trasmissibilità di ossigeno (Dk/t), la determinazione delle caratteristiche chimico-fisiche utili ad evitare anossia epiteliale o stromale e lo studio delle variazioni indotte da cambiamenti delle condizioni fisiologiche. Recentemente, Harwitt e Bonanno[12], come prima riportato, hanno studiato la distribuzione di ossigeno attraverso il sistema cornea/LAC introducendo un modello di diffusione a cinque strati (endotelio, stroma, epitelio, film lacrimale, LAC), che migliora, aggiungendo lo strato del film lacrimale, il modello di Fatt[24]. Tale modello include la valutazione della permeabilità[25,26] e il tasso del consumo di ossigeno[27]. In particolare, riguardo le variazioni di pH indotte dalle LAC è stato evidenziato che il consumo di ossigeno (QO2) corneale aumenta con la condizione di acidosi[28] (figura 10). La variazione del pH è stata misurata da Bonanno e Polse[29] nella condizione “occhi chiusi” per un’ora e mezza e dopo che il pH ha raggiunto il suo “steady state” (trenta minuti dopo l’apertura degli occhi). Partendo dall’osservazione che l’acidosi aumenta
Figura 10. Aumento del consumo corneale di ossigeno in condizioni di acidosi, in funzione di un pH di 7,5 (Harwitt e Bonanno, 1999).
Figura 11. Variazione nello “steady-state” del pH stromale in funzione di Dk/t delle LAC • = rappresenta le misure del pH stromale dopo 1.5 ore nella condizione “occhi chiusi”. Δ = è misurato circa 30 minuti dopo lo stato occhi aperti (Harwitt e Bonannno, 1999).
Figura 12. Modello predittivo sulla distribuzione di ossigeno attraverso la cornea e la lac per l'occhio umano, con l'effetto del pH sul consumo di ossigeno. Nella condizione occhi chiusi, i valori Dk/t necessari per prevenire lʼanossia nella giunzione epitelio-stromale ed in tutto lo spessore della cornea, sono di 89 e 125 u. (Harvitt e Bonanno, 1999).
maggiormente nello stato “occhi chiusi”, così come aumenta al diminuire della trasmissibilità di ossigeno (Dk/t) della lente (figura 11), si è correlato il dato fisiologico acidosi al parametro fisico consumo di ossigeno (QO2) e quindi l’acidosi alla trasmissibilità dell’ossigeno (DK/t). Ottenendo così la possibilità di stimare il consumo corneale di ossigeno dalla trasmissibilità delle LAC. Il modello circa la distribuzione di ossigeno attraverso il sistema LAC/cornea non considerando il pH, indica che: • nella condizione “occhi aperti” i valori minimi di Dk/t perché la pressione parziale di ossigeno (pO2) sia maggiore di zero in tutto lo spessore della cornea e nella giunzione epitelio-stromale (cioè nelle cellule epiteliali basali metabolicamente attive) sono rispettivamente 14 e 11;
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• nella condizione “occhi chiusi” i valori minimi Dk/t necessari per evitare anossia in tutto lo spessore della cornea e nella giunzione epitelio-stromale sono rispettivamente 105 e 42. Il modello, considerando l’effetto del pH, indica che: • nella condizione “occhi aperti” i valori minimi Dk/t perché si prevenga l’anossia attraverso tutto lo spessore della cornea e nella giunzione epiteliostromale sono rispettivamente di 35 e 23; • nella condizione “occhi chiusi” i valori minimi Dk/t, per prevenire anossia in tutto lo spessore corneale e alla giunzione epiteliale-stromale sono rispettivamente di 125 e 89 (figura 12).
Interazione tra LAC e lacrime artificiali: uno studio LF-NMR Come già visto, parlando di permeabilità all’ossigeno, i materiali hydrogel contengono molecole di acqua in differenti stati di interazione con il polimero che li costituisce. Mediante una misura di tempi di rilassamento di Risonanza Magnetica Nucleare a bassa risoluzione (LF-NMR), è possibile valutare il tipo di interazione e dare una stima sulla proporzione tra le diverse classi di acqua: quindi l’acqua rappresenta una sonda con cui investigare la struttura microscopica del polimero.
Lente a contatto
Costruttore
Materiale
Dk α
Intervallo di conf. (95%)
R2 (%)
Durasoft 2 CSI DW Clarity Optima FW Cibasoft Ciba Standard Gold Medalist To. Proclear Acuvue 2 Acuvue Estreme H2O 2-Week Preference Std. Ocu-Flex Plus Tresoft Flexlens Sofmate B Optima Toric Ocu-Flex 53 UCL-55 Proactive Freflex Standard Frequency 55 EW Hydrasoft Std. Focus Monthly FreshLook Softmate II Hydrogenics 60 Compatibles Ocu-Flex 65 Soflens 66 Focus Dailies One-Day Permalens Actifresh 400 Precision UV
Ciba Vision Ciba Vision Bausch & Lomb Ciba Vision Ciba Vision Bausch & Lomb Cooper Vision Vistakon Vistacon Benz Research Bausch & Lomb Cooper Vision Ocu-Ease United CL X-Cel Ciba Vision Bausch & Lomb Ocu-Ease United CL Ocular Sciences Optech Cooper Vision Cooper Vision Ciba Vision Ciba Vision Ciba Vision Ocular Sciences Cooper Vision Ocu-Ease Bausch & Lomb Ciba Vision Bausch & Lomb Cooper Vision World Optics Ciba Vision
Phemfilcon A Crofilcon A Polymacon Tefilcon A Tefilcon A Hefilcon C Omafilcon A Etafilcon A Etafilcon A Hioxyfilcon A Hilafilcon A Tetrafilcon A Hioxyfilcon B Ocufilcon A Hefilcon A Bufilcon A Hefilcon B Ocufilcon B Ocufilcon C Ocufilcon D Focofilcon A Methafilcon A Methafilcon B Vifilcon A Phemfilcon A Bufilcon A Ocufilcon F Omafilcon A Ocufilcon E Alphafilcon A Nelfilcon A Hilafilcon A Perfilcon A Lidofilcon A Vasurfilcon A
8.4 11.8 11.2 11.3 8.9 23.7 27.6 25.9 25.4 24.2 24.0 10.6 16.7 14.7 12.5 10.8 14.0 23.6 25.2 21.8 22.5 20.9 23.7 22.0 16.7 18.0 25.0 28.2 36.6 30.8 28.0 35.3 41.9 43.7 44.8
7.8-9.1 11.3-12.3 9.5-13.8 10.7-12.0 8.2-9.7 21.6-26.4 27.0-28.3 22.6-30.4 23.3-27.8 23.0-25.6 21.1-27.9 9.7-11.6 15.1-18.5 13.6-16.1 12.0-13.0 10.2-11.4 12.8-15.5 21.6-26.0 23.6-27.0 19.4-24.9 20.9-24.5 19.7-22.4 21.5-26.5 20.2-24.1 14.6-19.3 16.4-20.0 24.3-25.7 26.9-29.6 33.9-39.8 29.1-32.9 25.3-31.5 32.4-38.7 38.2-46.3 42.1-45.4 42.5-47.3
98.8 99.7 96.8 99.5 98.7 98.6 99.9 96.5 98.7 99.5 96.9 98.6 98.3 98.9 99.7 99.5 98.4 99.0 99.3 97.8 99.1 99.4 98.7 98.9 97.9 98.6 99.9 99.6 98.9 99.4 98.2 98.8 98.6 99.8 99.6
a
Dk in unità di 10-11 (cm2/sec)(mL O2)/(mL x mmHg).
Tabella 3. Dk di alcune lenti in idrogel voluto con il metodo di Fatt (Young e Benjamin, 2003).
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3. Permeabilità e compatibilità delle lenti a contatto
Lente a contatto
Costruttore
Materiale
Sigla
Idratazione dichiarata
Lenti rigonfiate in soluzione fisiologica (sf) SL38 SOLEKO Poliidrossietil metacrilato SL38i SOLEKO Poliidrossietil metacrilato SL55 SOLEKO HEMA-NVP EGDMA SL55i SOLEKO HEMA-MMA EGDMA Lunelle ESSILOR PMMA/NVP Omniflex HYDRON MMA/VP Permalens Cooper Vision Perfilcon A Precision UV Ciba Vision Vasurfilcon A
38slknisf 38slkisf 55slknisf 55slkisf 70lnlnisf 70omnnisf 71prmisf 74pruvnisf
38% 38% 55% 55% 70% 70% 71% 74%
Lenti rigonfiate in soluzione di lacrime artificiali (Acido Ialuronico) (la) SL38 SOLEKO Poliidrossietil metacrilato SL38i SOLEKO Poliidrossietil metacrilato SL55 SOLEKO HEMA-NVP EGDMA SL55i SOLEKO HEMA-MMA EGDMA Lunelle ESSILOR PMMA/NVP Omniflex HYDRON MMA/VP Permalens Cooper Vision Perfilcon A Precision UV Ciba Vision Vasurfilcon A
38slknisla 38slkisla 55slknisla 55slkisla 70lnlnisla 70omnnisla 71prmisla 74pruvnisla
38% 38% 55% 55% 70% 70% 71% 74%
Tabella 4. Lenti idrogel utilizzate per la sperimentazione (ni = non ionica, i = ionica).
L’interazione con i farmaci, come ad esempio le soluzioni di lacrime artificiali, può far variare le caratteristiche chimico-fisiche delle LAC e di conseguenza il moto dell’acqua all’interno del polimero. L’analisi delle curve sperimentali, ottenute mediante LFNMR, permette una valutazione di tali cambiamenti. Tradizionalmente, l’analisi di queste curve viene operata mediante tecniche di fitting non lineare, basate sull’algoritmo introdotto da Marquard, in cui si utilizza un modello multiesponenziale, che però rende i risultati spesso poco affidabili, a causa dell’alta correlazione introdotta tra i parametri. Per tale motivo, recentemente, è stato proposto dal nostro gruppo di ricerca un approccio basato sulle tecniche di analisi multivariata, introdotte da Pedersen e Bro (slicing)[30] e da MacQueen (Cluster Analysis-kmeans)[31]. Tali tecniche consentono un’analisi “data-driven”, ossia senza la necessità di introdurre a monte un modello: ciò porta a rappresentare le varie LAC in uno spazio multidimensionale definito dalle loro caratteristiche intrinseche, in cui è possibile evincere, in modo immediato, le variazioni indotte dalle interazioni con i farmaci. Nel grafico mostrato (figura 13), possiamo vedere LAC a diverso grado di idratazione (tabella 4) rigonfiate in soluzione fisiologica e le variazioni indotte nel rigonfiamento in soluzione di lacrime artificiali. Sui due assi vengono riportati i due descrittori più significativi delle singole lenti, che corrispondono
alle componenti relative alle diverse classi di acqua, individuabili con l’approccio tradizionale. Notiamo come materiali dalle caratteristiche di idratazione simili vengano ad essere rappresentati, in questo spazio multidimensionale, da punti vicini. Le metodiche di cluster analysis consentono di rendere oggettiva la suddivisione in famiglie delle varie LAC, offrendo un raggruppamento, basato su tutti i descrittori, che massimizza la distanza tra le famiglie, minimizzando contemporaneamente quella tra le componenti di una stessa famiglia.
Figura 13. Rappresentazione nello spazio dei descrittori di lac a varia idratazione rigonfiate in soluzione fisiologica ed in soluzione di lacrime artificiali (acido Ialuronico). Le sigle utilizzate corrispondono a quelle fornite in tabella 4.
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Se, in presenza della soluzione di lacrime artificiali, cambiano le caratteristiche di idratazione delle LAC, ciò si ripercuote in un cambiamento della loro famiglia di appartenenza. Nel caso riportato, vediamo che questo avviene per materiali sia ionici che non ionici al 38%.
Conclusioni È necessario correlare i predittori fisiologici a quelli fisici, e da qui nascono gli studi descritti, che mostrano la correlazione tra risposta corneale allo stress ipossico espressa in unità HSU e i valori di trasmissibilità della lente, attraverso i quali si sono arrivati a predire i minimi valori di trasmissibilità delle lenti necessari a prevenire l’anossia corneale.
Harvitt e Bonanno, nel dimostrare che la velocità di consumo di ossigeno può variare con il pH e che quindi i valori precedentemente predetti dovrebbero essere ritoccati, hanno introdotto un modello per la distribuzione di ossigeno nel sistema cornea più LAC che ripropone una schematizzazione dei compartimenti (endotelio, stroma epitelio, lacrima, LAC), che costituisce un esempio del tipo di lavoro da operare per meglio guidare l’uso delle LAC nelle diverse patologie. Lo studio da noi presentato sull’interazione tra LAC e lacrime artificiali pone in risalto l’esigenza di un’analisi preventiva dell’interazione tra il farmaco e la lente per evitare, o volutamente utilizzare, i cambiamenti fisici indotti sul materiale.